fotografia sociale – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Fri, 01 Aug 2025 20:00:30 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Sebastião Salgado, fotografo https://www.carmillaonline.com/2016/12/23/sebastiao-salgado-fotografo/ Thu, 22 Dec 2016 23:01:53 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=34227 di Gioacchino Toni

salgado_dalla_mia_terra_alla_terra_coverSebastião Salgado (con Isabelle Francq), Dalla mia Terra alla Terra, Contrasto, Roma, 2014, 176 pagine, 40 fotografie in b/n, € 19,90

«nessuna foto, da sola, può far niente contro la povertà nel mondo. Tuttavia, le mie immagini, insieme ai libri, ai film e a tutto l’operato delle organizzazioni umanitarie e ambientaliste, partecipano a un più vasto movimento di denuncia della violenza, dell’esclusione e delle problematiche ecologiche» Sebastião Salgado, p. 60.

In questo volume la giornalista Isabelle Francq raccoglie i racconti di Sebastião Salgado a proposito dei suoi reportage e del suo modo di intendere la fotografia. Nel libro [...]]]> di Gioacchino Toni

salgado_dalla_mia_terra_alla_terra_coverSebastião Salgado (con Isabelle Francq), Dalla mia Terra alla Terra, Contrasto, Roma, 2014, 176 pagine, 40 fotografie in b/n, € 19,90

«nessuna foto, da sola, può far niente contro la povertà nel mondo. Tuttavia, le mie immagini, insieme ai libri, ai film e a tutto l’operato delle organizzazioni umanitarie e ambientaliste, partecipano a un più vasto movimento di denuncia della violenza, dell’esclusione e delle problematiche ecologiche» Sebastião Salgado, p. 60.

In questo volume la giornalista Isabelle Francq raccoglie i racconti di Sebastião Salgado a proposito dei suoi reportage e del suo modo di intendere la fotografia. Nel libro Salgado ricorda la militanza, insieme alla moglie Lélia Deluiz Wanick Salgado, nelle formazioni brasiliane della sinistra radicale vicine agli ideali rivoluzionari cubani, la partecipazione ai movimenti contro il regime militare inaugurato dal maresciallo Castelo Branco nel 1964 (protrattosi poi fino al 1985) e contro l’ingerenza americana in America latina.

Nell’estate del 1969 i due coniugi abbandonano il Brasile salendo su una nave diretta in Francia ove possono contare su una rete di solidarietà internazionale, all’epoca ben funzionante, che offre sostegno, oltre che ai brasiliani fuggiti dalla dittatura, anche a rifugiati portoghesi, polacchi, angolani, guatemaltechi, cileni ed in generale ai migranti ed ai clandestini.

Salgado sottolinea come la sua appartenenza alla prima generazione che ha lasciato la campagna per trasferirsi in città a studiare lo aiuti a comprendere bene il dramma, incontrato tante volte nei suoi reportage, di chi, giunto in città dalle campagne, si torva di fronte alla povertà ed allo sradicamento.

L’incontro con la fotografia avviene nel 1970 quando, durante un viaggio a Ginevra, la moglie acquista una Pentax Spotmatic II dotata di obiettivo Takumar di 50 mm. Da quel momento si può dire che la fotografia entra nella vita del brasiliano che, finiti gli studi universitari, inizia il suo lavoro presso un’agenzia economica che gli consente di conoscere l’Africa e di fotografarla.

Il 1973 è un anno di svolta importante per Salgado; decide di lasciare il lavoro per dedicarsi a tempo pieno alla fotografia come free lance. I primi guadagni ottenuti come fotografo vengono destinati all’acquisto di nuovo materiale tra cui spiccano, inevitabilmente, alcune Leica.

L’amore per il continente africano porta il fotografo a farvi ritorno diverse volte, tanto che il volume Africa, pubblicato nel 2007, finisce col raccoglie materiale proveniente da una quarantina di reportage effettuati nel corso del tempo. I primi lavori africani, sottolinea l’autore, nascono dalla volontà di documentarne la fame e non il folklore ed i paesaggi.

Regione di Chimborazo, Ecuador, 1998 © Sebastião Salgado/Amazonas Images/Contrasto

Regione di Chimborazo, Ecuador, 1998 © Sebastião Salgado/Amazonas Images/Contrasto

Salgado racconta di come alla fotografia sociale sia giunto semplicemente estendendo alla pratica fotografica la sua militanza politica. In Francia, come in altri paesi europei, non mancano le occasioni per fotografare immigrati e clandestini e molti di questi reportage vengono pubblicati dalla stampa francese legata al cristianesimo sociale.

Attraverso la fotografia il brasiliano intende mostrare quella parte di mondo particolarmente sfruttata ma piena di dignità. «Con Lélia constatavamo come il mondo fosse diviso in due parti, tra la libertà per chi aveva tutto e la privazione di tutto per chi non aveva niente. Con la mia fotografia ho voluto mostrare proprio questo mondo dignitoso e saccheggiato a una società europea in grado di ricevere la mia sollecitazione» (p. 45).

Salgado rifiuta l’etichetta di “fotogiornalista” o di “militante” ritenendo, piuttosto, che le sue fotografie siano un tutt’uno con la sua vita; i suoi scatti corrispondono a momenti vissuti intensamente e quelle immagini esistono in quanto la sua vita lo ha condotto alla loro realizzazione. Il brasiliano sostiene che le sue immagini possono derivare tanto da una precisa scelta politica che lo porta in un luogo, quanto da una semplice curiosità e che la sua fotografia non pretende, né vuole, essere obiettiva visto che, come tutti i fotografi, scatta immagini profondamente soggettive.

Oltre all’Africa anche l’America del Sud occupa un ruolo importante nella vita di Salgado come uomo e come fotografo. Fra il 1977 ed il 1984 il brasiliano visita buona parte dell’America del Sud, in particolare l’Ecuador, il Guatemala ed il Messico mentre soltanto grazie all’amnistia del 1979 può rimettere piede in Brasile e fotografare il suo paese a partire dalle comunità indigene e dalle minoranze autoctone, oltre che dai lavoratori nelle campagne e nelle città.
Dai reportage in America del Sud nasce il volume Autres Amériques, arriva il Prix de la Ville de Paris e nel 1986 viene allestita la mostra parigina alla Maison de l’Amérique Latine che poi farà il giro del mondo.

A metà degli anni ’80 Salgado collabora con Medici Senza Frontiere realizzando un reportage ottenuto attraversando Mali, Etiopia, Ciad e Sudan al fine di mostrare le condizioni dei profughi in fuga dalla fame, dalla sete e dalla guerra. Nel 1985 questo reportage ottiene il premio World Press Photo ed il premio Oskar Barnack e l’anno successivo viene dato alle stampe il volume pubblicato dal Centre National de la Photographie Sahel, l’homme en détresse. Nel 1988 dal reportage nasce un secondo libro intitolato Sahel, el fine del camino.

Salgado sottolinea come, non essendo originario del Nord del mondo, quando fotografa non è preso da quel senso di colpa che colpisce molti altri suoi colleghi; non fotografa la povertà perché si sente in colpa, visto che conosce da vicino quel mondo. Piuttosto, attraverso i suoi reportage, il brasiliano intende mostrare la fame e la povertà agli abitanti dei paesi ricchi affinché prendano coscienza dello squilibrio mondiale ed è con tale spirito che il fotografo decide di far sentire la voce del movimento dei Sem Terra (MST) brasiliani, nato attorno alla metà degli anni ’80, seguendo le loro attività per una quindicina di anni. Così come mostrare la fame in Africa è un modo per denunciarla, seguire i Sem Terra è un modo per sostenerli, per schierarsi da una parte ben precisa.

A metà anni ’80 il fotografo pianifica insieme alla moglie il progetto La mano dell’uomo attraverso cui intende rendere omaggio al mondo del lavoro. Il reportage si focalizza soprattutto sulla produzione su larga scala in cui l’essere umano ha ancora un ruolo importante tentando di realizzare una sorta di “archeologia visiva dell’era industriale” prima che questa scompaia. Tra il 1986 ed il 1991 vengono realizzati reportage in ben venticinque paesi, soprattutto extraeuropei (Indonesia, India, Cina, Brasile…) in cui, a partire dalla metà anni ’80, si è spostata la produzione.

Nel 1986 il fotografo ottiene finalmente il permesso di accedere alla miniera d’oro della Serra Pelada, nel nord del Brasile, nello stato del Pará. La miniera, scoperta nel 1980, presenta un’enorme voragine ove, a 70 metri di profondità, si trovano 50.000 esseri umani intenti a lavorare del tutto privi di strumenti meccanizzati. Salgado racconta come in un primo tempo venga scambiato dai minatori per un uomo della compagnia mineraria e soltanto quando, in seguito ad un diverbio con una guardia nel ventre della miniera, viene condotto in manette in superficie, inizia ad essere visto dai lavoratori come presenza non ostile. Da questo momento il fotografo convive per diverse settimane con i minatori scattando le celebri immagini che hanno contribuito a far conoscere al mondo il lavoro nella miniera.

Salgado ricorda anche come, nonostante le condizioni di lavoro ed il fango tendano ad uniformare l’umanità presente nella miniera, la conoscenza diretta di diversi minatori gli ha fatto scoprire l’estrema eterogeneità dei lavoratori. La successiva meccanizzazione delle miniere ha finito col lasciare disoccupati proprio i più dequalificati e nel libro l’autore racconta della trasformazione subita da molta di questa gente divenuta proletariato concentrato nelle periferie delle città e costretta, in molti casi, a rubare qualcosa nottetempo per sopravvivere.

Nella prima metà degli anni ’90 si calcola che, a livello mondiale, tra i 150 ed i 200 milioni di individui abbiano abbandonano la campagna per trasferirsi in città. Da tali dati prende vita un nuovo progetto fotografico volto ad indagare la riorganizzazione della famiglia determinata dalle trasformazioni industriali. Sovrappopolamento delle periferie urbane, precarietà, povertà, condizioni igieniche disastrose e violenza dilagante sono i primi risultati di tale flusso migratorio ed il progetto In cammino (divenuto un libro nel 2000) intende proprio mostrare le persone costrette ad affrontare i drammi dello sradicamento e dell’adattamento nei nuovi contesti tentando di far comprendere la necessità di riformulare la “famiglia umana” su basi solidali. Il reportage In cammino si protrae per sei anni tra l’India, l’Iraq, il Brasile, Shanghai, Giacarta, Manila, il Vietnam, l’Indonesia, i Balcani e diversi paesi dell’America Latina.

Galápagos, Ecuador, 2004 © Sebastião Salgado/Amazonas Images/Contrasto

Galápagos, Ecuador, 2004 © Sebastião Salgado/Amazonas Images/Contrasto

Dopo i lavori sui migranti e sulle guerre in Mozambico, Ruanda e Tanzania, è la volta della denuncia dell’inquinamento e della distruzione delle foreste. Salgado pianifica con la moglie una trentina di reportage per il progetto Genesi, poi portato a termine in otto anni attraversando Sahara, Galápagos, Madagascar, Sumatra, Mentawai, Nuova Guinea, Papuasia Occidentale, Himalaya, Russia asiatica, Stati Uniti, Canada, Alaska, Cile, Argentina, Venezuela, Falkland, Isole Sandwich…

Nel 2013 escono i primi due libri su Genesi a cui seguono mostre in tutto il mondo. Il fotografo sottolinea di non aver affrontato i reportage con la logica dell’entomologo o del giornalista ma di averli realizzati per se stesso, al solo fine di scoprire il pianeta e trarre piacere da ciò.

Sino a Genesi Salgado si è occupato esclusivamente di esseri umani ma improvvisamente sente di dover fare qualcosa di analogo anche per gli animali: prima di scattare occorre, in entrambi i casi, farsi conoscere e conoscere. Il rispetto per chi si ha di fronte ed il piacere per l’incontro sono alla base della fotografia degli animali così come degli esseri umani. Il contatto diretto con la natura ha anche consentito al fotografo di conoscere gruppi umani che ancora vivono in equilibrio con l’ambiente naturale.

Genesi coincide anche con il momento in cui Salgado passa dall’analogico al digitale, passaggio che avviene soltanto dopo lo svolgimento di una serie di test comparativi nell’estate del 2008. Anche in Genesi il fotografo rinuncia al colore, utilizzato in poche occasioni in passato e soltanto per lavori su commissione per riviste. Il fotografo ricorda anche le faticose sperimentazioni di laboratorio al fine di ottenere negativi in bianco e nero di qualità partendo da file digitali al fine di realizzare stampe ai sali d’argento ovviando, momentaneamente, al problema della conservazione degli archivi su dischi rigidi.

Anche con il digitale Salgado preferisce far affidamento, durante i reportage, soltanto su ciò che vede dall’obiettivo e l’editing non viene fatto dallo schermo di un computer ma dalle stampe, così come ha sempre fatto. Il fotografo ci tiene a sottolineare come il passaggio dall’analogico al digitale ha portato ad una qualità di stampa nettamente superiore rispetto al passato. Salgado lavora con la luce naturale ed oggi il processo di stampa permette un controllo infinitamente maggiore sull’immagine inoltre è possibile lavorare a luce molto bassa ed aumentare la sensibilità.

Uno dei primissimi reportage in digitale del brasiliano viene realizzato nel 2008 sulle alture etiopi e questo viene considerato dall’autore forse il suo lavoro più bello ed interessante. Si tratta di un reportage effettuato percorrendo quasi novecento chilometri a piedi sulle montagne, camminando per quasi due mesi su sentieri tracciati da passaggi millenari di cui non esiste alcun rilevamento tipografico e superando per ben tre volte i quattromila metri di quota.

Quando Salgado termina i reportage di Genesi è ormai settantenne ed alla fine di questa avventura ritiene di avere davvero “incontrato il pianeta”, che è cosa diversa dall’aver “girato il mondo”. Oltre ad aver messo i piedi (e gli occhi) ovunque, il fotografo ha finito anche col ripercorrere all’indietro la storia, riuscendo a vedere “come eravamo all’inizio dell’umanità”, quando ancora l’umanità era dotata “dell’istinto”. «Ho visto ciò che eravamo prima di lanciarci nella violenza della città, dove il nostro diritto allo spazio, all’aria, al cielo e alla natura si è perso fra i muri delle case. Abbiamo eretto barriere che ci separano dalla natura. Di colpo, non siamo più in grado di vedere, di sentire… […] Se nel mio libro, La mano dell’uomo, ero fiero di mostrare che noi umani siamo un tipo di animale molto abile a produrre, ho visto anche che nella nostra maniera di vivere abbiamo fatto di tutto per distruggere ciò che garantisce la sopravvivenza della nostra specie» (p. 168).

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[Le fotografie riportate nel testo sono state pubblicate con il consenso dell’editore – gh]

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Fotografia, passione e utopia https://www.carmillaonline.com/2016/10/26/fotografia-passione-utopia/ Wed, 26 Oct 2016 21:00:30 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=34099 di Sandro Moiso

covertina2016-653x936Pino Bertelli, TINA MODOTTI. Sulla fotografia sovversiva, dalla poetica della rivolta all’etica dell’utopia, NdA press, 2016, pp. 294, € 10,00

[Tina Modotti, fotografa, attrice, donna bellissima, contraddittoria e rivoluzionaria ha fornito all’immaginario antagonista e narrativo più di uno spunto per far parlare di sé. Nata a Udine il 17 agosto 1896 e morta a Città del Messico il 5 gennaio 1942, in circostanze ancora non del tutto chiarite, ha letteralmente attraversato il mondo dall’Italia agli Stati Uniti giù fino in Messico, per poi esserne espulsa e tornare ancora in Europa, in Unione [...]]]> di Sandro Moiso

covertina2016-653x936Pino Bertelli, TINA MODOTTI. Sulla fotografia sovversiva, dalla poetica della rivolta all’etica dell’utopia, NdA press, 2016, pp. 294, € 10,00

[Tina Modotti, fotografa, attrice, donna bellissima, contraddittoria e rivoluzionaria ha fornito all’immaginario antagonista e narrativo più di uno spunto per far parlare di sé. Nata a Udine il 17 agosto 1896 e morta a Città del Messico il 5 gennaio 1942, in circostanze ancora non del tutto chiarite, ha letteralmente attraversato il mondo dall’Italia agli Stati Uniti giù fino in Messico, per poi esserne espulsa e tornare ancora in Europa, in Unione Sovietica e nella Spagna della Guerra Civile; per poi ripartire ancora una volta alla volta del Messico.

Registrata all’anagrafe come Assunta Adelaide Luigia Modotti Mondini, dopo aver raggiunto il padre emigrato a San Francisco, divenne prima la moglie del pittore Roubaix de l’Abrie Richey e, in seguito, nel corso del suo peregrinare, l’amante del fotografo americano Edward Weston, del comunista cubano Julio Antonio Mella, dell’inviato del Comintern Vittorio Vidali e della pittrice Frida Kahlo. Nello stesso tempo, dopo essersi avvicinata al Partito Comunista Messicano nei primi anni venti, ebbe modo di diventare organizzatrice sindacale, rappresentante del Soccorso Rosso Internazionale e fedele collaboratrice del già citato Vidali, alias Comandante Carlos delle Brigate Internazionali combattenti in Spagna. Di tutti questi aspetti della sua vita molto si è scritto e letto, sia in prosa che a fumetti,1 senza contare le opere teatrali e gli innumerevoli brani musicali che le sono stati dedicati.

modotti-3Certamente la parte più importante della sua vita e della sua attività è stata, però, quella dedicata alla fotografia. Un’attività di cui non solo è stata una delle prime e più importanti rappresentanti femminile, ma anche una radicale rinnovatrice. Sia nello sguardo che nella concezione del ruolo della fotografia. Anzi, si potrebbe tranquillamente affermare che proprio il suo lavoro in tale campo l’abbia portata ad essere una delle muse ispiratrici della fotografia sociale del Novecento.

Proprio a questo aspetto, senza naturalmente separarlo dal carattere e dalle scelte di vita della comunista di origine friulana, è dedicato il volume di Pino Bertelli, critico cinematografico e culturale neo-situazionista, recentissimamente tornato in libreria in edizione economica per i tipi della NdA press. Ed è una fortuna poiché, concentrando il discorso sul significato della sua opera fotografica, si rivela essere l’opera più completa, approfondita e soddisfacente sulla Modotti.

modotti-2Accompagnato da un breve saggio della stessa Modotti, Sulla fotografia, il testo si divide in due parti. Nella prima, dal titolo Della fotografia sovversiva, commentari sulla filosofia e sulla politica della fotografia di Tina Modotti, l’autore esplora “l’etica dell’Utopia espressa nella Fotografia radicale della Modotti”, ricollegandola alle successive correnti della fotografia e della critica radicale della società. Mentre nella seconda, intitolata Tina la “Rossa”. La fotografia al tempo dell’amore e le sue puttane tristi, ricostruisce il percorso di vita della fotografa ricollegandolo alle sue scelte morali, stilistiche ed estetiche.

Proprio dalla seconda parte si dà qui di seguito un significativo estratto dalle pagine 194-197 ]

La fraternità spirituale che Tina Modotti cercava tra gli oppressi e gli sfruttati fuoriusciva fortemente dalle sue fotografie. Il suo codice visivo è legato a un’etica della visione liberata e dice che fare fotografia significa dialogare con il mondo. “La macchina fotografica è l’arma ideale di una consapevolezza di tipo acquisitivo. Fotografare significa infatti appropriarsi della cosa che si fotografa” (Susan Sontag) […] La fotografia sociale, che è una forma di resistenza attiva contro la stupidità generale, desidera l’inverso del reale o denuda il reale truccato […] La fotografia sociale di Tina Modotti seguiva un impulso morale che aveva come fine il desiderio di denunciare il sopruso o di svegliare le coscienze. La Modotti sapeva che le fotografie possono infrangere una situazione o disvelare un’impostura, semplicemente mostrando il vero. Non si tratta di fotografare la sofferenza e l’ingiustizia, occorre far vedere quali sono i mali della sofferenza e chi sono i persecutori dell’ingiustizia…queste semplici idee sono alla basse di ogni fotografia sociale. Il Manifesto di Tina Modotti – Sulla fotografia – riafferma l’importanza della fotografia sociale come riscatto estetico, etico e morale contro l’ingiustizia e la rapacità di ogni potere: “mi considero una fotografa e nient’altro, e se le mie fotografie sono diverse da quelle che si fanno in genere è perché cerco di produrre non arte ma fotografie autentiche, senza trucchi e manipolazioni, mentre la maggior parte dei fotografi aspira a effetti artistici o imita altri generi di rappresentazione, ottenendo un prodotto ibrido…Non si tratta di stabilire se la fotografia sia arte o no; si tratta piuttosto di distinguere tra buona fotografia e cattiva fotografia. modotti-5 Buona è da considerarsi quella che accetta tutti i limiti inerenti alla tecnica fotografica e utilizza tutte le possibilità e le caratteristiche che questo mezzo espressivo offre…già per il fatto di potersi produrre solo nell’attualità e sulla base di ciò che esiste obiettivamente, la fotografia è il mezzo migliore per registrare la vita oggettiva in tutte le sue forme fenomeniche; da qui il suo valore di documento e se a ciò si aggiunge sensibilità e conoscenza della cosa, e soprattutto una posizione chiara rispetto al suo ruolo storico, il risultato è degno, mi pare, di occupare un posto nella produzione sociale alla quale tutti dobbiamo contribuire”. L’eroismo della visone della Modotti non è misurabile in base a qualche nozione di verità o estetica dell’arte. Si tratta di contravvenire alla scrittura fotografica ordinaria e non farsi discepoli di nessuno che non abbia tentato di strappare la maschera del banale nell’arte e cercato di tagliare alla radice i simulacri/mitologie del potere.


  1. Basti qui citare la biografia curata da Pino Cacucci: Tina, uscita in prima edizione per Interno Giallo nel 1991  

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