formazione – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 29 Apr 2025 20:00:41 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Meritocrazia e valutazione al servizio della flessibilizzazione del lavoro https://www.carmillaonline.com/2018/04/21/meritocrazia-valutazione-al-servizio-della-flessibilizzazione-del-lavoro/ Fri, 20 Apr 2018 22:01:00 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=45140 di Gioacchino Toni

Angélique del Rey, La tirannia della valutazione, Elèuthera, Milano, 2018, pp. 192, € 15,00

«La valutazione, nel nostro mondo neoliberista, è divenuta un potente strumento di potere» – «Valutare vuol dire sempre più misurare tutto con lo stesso metro: il denaro, il capitale» Angélique del Rey

Pare ormai essere del tutto normale, se non addirittura doveroso, essere sottoposti a giudizio insindacabile o farsi giudici. Basti pensare ai tanti programmi televisivi che mostrano concorrenti desiderosi di sottoposti al cinico e spietato giudizio altrui.

Ciò che accade in video [...]]]> di Gioacchino Toni

Angélique del Rey, La tirannia della valutazione, Elèuthera, Milano, 2018, pp. 192, € 15,00

«La valutazione, nel nostro mondo neoliberista, è divenuta un potente strumento di potere» – «Valutare vuol dire sempre più misurare tutto con lo stesso metro: il denaro, il capitale» Angélique del Rey

Pare ormai essere del tutto normale, se non addirittura doveroso, essere sottoposti a giudizio insindacabile o farsi giudici. Basti pensare ai tanti programmi televisivi che mostrano concorrenti desiderosi di sottoposti al cinico e spietato giudizio altrui.

Ciò che accade in video non è poi così dissimile da quanto avviene nella vita quotidiana; ormai in tutte le interazioni sociali si è valutati e chiamati a valutare e non importa se si tratta di un esame, un colloquio di lavoro, una prestazione erogata, una merce acquistata o venduta. Persino l’abitudine a rilasciare giudizi perentori sul web sottostà alla medesima logica introdotta attraverso una potente e suadente macchina narrativa che si è fatta luogo comune. Un esempio significativo di logica valutativa lo si può individuare nei sistemi scolastici, a proposito dei quali scrive Francesco Codello nella Prefazione al libro di Angélique del Rey:

La logica meritocratica si propone di trasformare i giovani da soggetti a oggetti, e la funzione dei sistemi scolastici è innanzitutto quella di fornire al mercato del lavoro globalizzato e fluido soggetti-oggetti malleabili e utilizzabili (spendibili) in contesti diversi, privi di contenuti problematizzati, ma ricchi di capacità di adattamento psicologico e professionale (imparare a imparare). Abbiamo ormai consumato il passaggio strategico dall’idea di istruzione obbligatoria a quello di formazione obbligatoria, dall’uomo produttore a quello consumatore. Ecco perché in passato l’attenzione era rivolta all’acquisizione delle conoscenze mentre adesso è rivolta all’acquisizione delle competenze. Il sistema scolastico è transitato dall’essere al servizio dell’economia all’essere al servizio di uno dei settori strategici dell’economia. La sua mission è infatti quella di formare adeguatamente i lavoratori alle esigenze della logica capitalistico-finanziaria, di educare e stimolare il consumatore, di aprire le scuole stesse alle strategie pervasive dei mercati. Il futuro lavoratore (fin da studente) deve essere flessibile, adattabile, competitivo, animato da spirito d’impresa e soprattutto responsabile, ovvero conscio che il suo interesse coincide con quello generale (cioè con quello delle classi dominanti). La pedagogia delle competenze, così come delineata nelle otto competenze-chiave contenute nelle Raccomandazioni del Parlamento europeo e del Consiglio d’Europa del 18 dicembre 2006, ha colonizzato l’insieme dei sistemi educativi del globo (pp. 11-12)

Angélique del Rey, docente di filosofia in un centro per adolescenti della periferia parigina, nel suo libro La tirannia della valutazione indica nella valutazione lo strumento centrale della flessibilizzazione contemporanea del lavoro, strumento comportante una vera e propria “precarizzazione psicologica” dell’individuo. Scrive Codello che con il pretesto dell’efficienza «si valuta solo la capacità di adattamento al sistema complesso e globale di valutazione, ai suoi tempi, spazi, luoghi, modi, relazioni, incitando a una competizione esclusivamente finalizzata al raggiungimento del risultato (a qualsiasi costo), promuovendo questo nuovo soggetto-oggetto dal “cervello aumentato”, piegando l’espressione libera e spontanea del proprio specifico sé alle esigenze delle batterie valutative appositamente confezionate» (pp. 10-11).

Attraverso la valutazione, presentata come oggettiva, ogni individuo tenderebbe a ritenersi «soddisfatto del posto che occupa nella piramide sociale perché è quello che gli compete in base agli sforzi (esiti) che ha saputo mettere in campo, perché è quello che si è meritato» (p. 11). L’internazionalizzazione dei sistemi valutativi nella scuola, si sostiene nel libro, è da ritenersi in linea con un modello educativo “formativo” che ha trasformato l’istituzione scolastica in una fabbrica di allievi preformanti, di “risorse umane”. Tali strumenti valutativi, continua Codello, pretenderebbero di misurare ciò che in realtà non è misurabile,

si propongono di dare un valore quantitativo a una qualità. La competenza è infatti quella capacità tutta personale di tradurre concretamente in un contesto specifico le proprie abilità e conoscenze. Pertanto, non può essere misurata quantitativamente ma solo qualitativamente, poiché dipende da un insieme di fattori che esigono continue verifiche nella pratica. La competenza dunque definisce la capacità di portare a termine una funzione, un insieme di compiti. Tradizionalmente, è vista come il risultato di una padronanza delle conoscenze acquisite, del saper-fare, dei comportamenti adeguati e delle esperienze pratiche. Ma dalla fine del XX secolo, questo buon senso ha lasciato il posto a una nuova interpretazione del termine “competenza”, che ora non significa più solo una somma di saperi efficaci, ma rimanda sempre più a una capacità astratta di mobilitare le proprie conoscenze (qualunque esse siano). Ciò che caratterizza l’approccio a queste nuove competenze, predominante a partire dagli anni Novanta, è che gli obiettivi educativi, più che a trasferire contenuti, mirano a conseguire una capacità di azione. Una competenza non è riducibile a specifici saperi, né a specifici saper-fare o comportamenti. Questi sono solo risorse che l’allievo non deve necessariamente possedere, ma che deve essere in grado di mobilitare, in un modo o nell’altro, per la realizzazione di un compito particolare. Queste nuove modalità valutative inducono perciò a insegnare solo ciò che è misurabile o che si ritiene tale. Quindi non solo condizionano le modalità di insegnamento e le didattiche che ne conseguono, ma soprattutto plasmano e rendono validi solo alcuni modi di apprendere […] Questo fenomeno sta producendo l’insegnamento dell’ignoranza, depauperando i saperi, abbassando i livelli, svuotando di criticità i contenuti. Quello che è ormai divenuto una sorta di supermarket dell’istruzione, l’istituto scolastico, dà spazio a una didattica che produce segmentazione e meccanizzazione dell’apprendimento, attraverso una pratica valutativa standardizzata che si basa sul rispondere a domande (test) e che ha ormai rinunciato a stimolare la proposizione di domande e a mantenere acceso un pensiero critico e divergente (pp. 13-14).

Secondo Angélique del Rey, a partire dagli anni Duemila, nelle scuole in cui la valutazione tradizionale è stata affiancata da valutazioni che pretendono di individuare gli alunni “a rischio di fallimento scolastico” si è finito col predisporre la conformità occupazionale dei bambini sin dalla tenera età attraverso un registro personale delle competenze che «sempre più rimanda a patologie e handicap, nonché a una potenziale propensione criminale» (p. 18). Inoltre, continua Rey, dalla fine degli anni Ottanta la “logica della competenza” ha iniziato ad affiancarsi al sistema di valutazione basato sulle qualifiche proponendosi di sostituirsi presto. Tale nuova logica renderebbe la valutazione uno strumento centrale nella flessibilizzazione del lavoro inducendo a una “precarietà psicologica”. A partire dagli anni Ottanta, con l’avvento del New Public Management, dapprima nel mondo anglosassone, poi a livello pressoché globale, al posto della tradizionale modalità burocratica di valutazione basata sulla legittimità democratica e sul “controllo a posteriori”, è stata introdotta una “gestione delle prestazioni” ove la valutazione sarebbe riconducibile a “parametri di efficacia basati sul denaro”.

La tirannia delle nuove forme di valutazione si basa anche sulla loro presunta oggettività. Benché tendano a imporsi sulla totalità della vita individuale e sociale, danno di sé un’immagine ben diversa da quella di un potere: si presentano cioè come una semplice “informazione”, se non come un discorso di… verità. E con l’avanzare delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione, il giudizio di valore presente in ogni valutazione tende a svanire dietro l’impostazione automatica di una misura… autoreferenziale: se un blog o un sito web riceve molti “mi piace”, vuol dire che è di buona qualità e merita di essere frequentato (p. 20).

Le critiche rivolte alla valutazione tendenzialmente vengono percepite come irresponsabili perché, sostiene Rey, il presupposto implicito è che la valutazione, nel duplice significato di conoscenza e di giudizio, sia un prerequisito di ogni scelta razionale, dunque non è ragionevolmente possibile dirsi contro. Il problema, continua l’autrice, non consiste nell’essere pro o contro la valutazione in generale; occorre piuttosto comprendere come si sia prodotto un tale degrado della vita sociale che ha condotto a curare, educare, lavorare sempre peggio e con maggior sofferenza. «Le nuove forme di valutazione hanno l’intento di “ottimizzare” il “capitale umano” e l’azione pubblica, ma chiaramente ottengono il risultato opposto» (p. 21). Occorrerebbe allora chiedersi perché la valutazione abbia finito col produrre una caricatura della meritocrazia, dell’efficienza e dell’oggettività. Si dovrebbe comprendere come l’ideologia della valutazione abbia finito col creare identificazione, “servitù volontaria”, tra gli individui.

L’intero discorso portato avanti da Rey nel suo libro si fonda sulla convinzione che «la vera problematicità delle nuove forme di valutazione, più che sulla loro illegittimità (che pure sussiste), sta nell’incapacità di rispettare i processi che sono all’origine di ogni vitalità sociale» (pp. 21-22). Secondo l’autrice il razionalismo valutatore contemporaneo

rivela un processo di “deterritorializzazione” della misura e del giudizio insiti nella valutazione. Questo processo è un risultato di ungo periodo, ma se da tempo, e oggi più che mai, va incontro a una resistenza passiva (che tende per definizione a forzare), si pone allora la questione di comprendere se tale resistenza possa diventare attiva grazie a una riterritorializzazione delle pratiche di valutazione. È possibile che queste, riagganciandosi alla “situazione”, riacquistino significato ed efficacia? (p. 23).

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“DEVONO IMPARARE A OBBEDIRE”. Lo stage: lavoro coatto gratuito en travesti https://www.carmillaonline.com/2017/11/02/devono-imparare-obbedire-lo-stage-lavoro-coatto-gratuito-en-travesti/ Thu, 02 Nov 2017 22:00:17 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=41244 di Alessandro Mantovani

Rossana Cillo (a cura di), Nuove frontiere della precarietà del lavoro, Stage, tirocini e lavoro degli studenti universitari, Venezia, Ed. Ca’ Foscari, 2017, pp.296, free access.

La risposta di Renzi allo sciopero con cui gli studenti, venerdì 13 ottobre, sono scesi in piazza in tutta Italia per protestare contro le forche caudine della cosiddetta “alternanza scuola-lavoro” introdotta obbligatoriamente dalle regole della sedicente “buona-scuola”, non si è fatta attendere: ha proposto che il servizio civile, attualmente volontario, divenga obbligatorio, per un mese, per tutti i giovani. Una contromossa, come si vede, che suona come provocatoria verso le richieste [...]]]> di Alessandro Mantovani

Rossana Cillo (a cura di), Nuove frontiere della precarietà del lavoro, Stage, tirocini e lavoro degli studenti universitari, Venezia, Ed. Ca’ Foscari, 2017, pp.296, free access.

La risposta di Renzi allo sciopero con cui gli studenti, venerdì 13 ottobre, sono scesi in piazza in tutta Italia per protestare contro le forche caudine della cosiddetta “alternanza scuola-lavoro” introdotta obbligatoriamente dalle regole della sedicente “buona-scuola”, non si è fatta attendere: ha proposto che il servizio civile, attualmente volontario, divenga obbligatorio, per un mese, per tutti i giovani. Una contromossa, come si vede, che suona come provocatoria verso le richieste del movimento studentesco.

A questo punto, quello curato dalla Cillo è un libro necessario. Le analisi che i diversi autori presentano, e che costituiscono il primo approccio scientifico ad un mondo ancora in larga misura sconosciuto, diventano infatti in questo contesto un’arma contro l’ignobile retorica sulla “formazione” di competenze atte a risolvere il problema della disoccupazione giovanile con cui questo cinico abuso della forza lavoro viene paludato. Malgrado tutte le difficoltà nel reperire i dati, che nessuno ha interesse a raccogliere e soprattutto divulgare, difficoltà che gli autori non sottacciono, il volume riesce nell’impresa di fornirci un quadro sufficientemente ampio e chiaro della dimensione del fenomeno e delle modalità con cui irreggimenta masse crescenti di giovani dietro il miraggio di un accesso al mondo del lavoro. Promessa destinata per i più ad essere totalmente disattesa, visto che, nel nostro paese, nel settore privato, solo l’11,9% degli stagisti otterrà un contratto di lavoro nell’impresa che ha ospitato lo stage, 1 mentre nessuno (per le stesse norme che regolano l’accesso al pubblico impiego e per il blocco del turn-over) lo troverà nel settore pubblico.

Benvenuti, dunque, nell’epoca in cui stage, “tirocini” e altre forme di lavoro non pagato e totalmente privo di diritti sono ormai un fenomeno stabile di massa (vedi Expo) e istituzionalizzato: in Italia il 68% dei giovani tra i 18 e i 34 anni ha avuto almeno un’esperienza di lavoro gratuito.2 Gli stagisti, nel 2016, hanno raggiunto la fantastica cifra di un milione e mezzo, solo il 15,9% dei quali riesce ad ottenere l’indennità prevista dalle normative, 3 laddove il 70% non percepisce alcun rimborso spese, 4 appena il 43% ha firmato un accordo scritto e soltanto il 64% gode di una copertura assicurativa in caso di incidente o malattia.5

Se l’Italia, con l’introduzione dello stage obbligatorio nell’ambito dell’”alternanza scuola-lavoro”, spicca ormai per l’invenzione di una moderna forma di lavoro coatto giovanile, la gallina dalle uova d’oro della “formazione tramite lavoro” ha una dimensione internazionale ed una storia. Negli Stati Uniti una prima normativa in tal senso risale addirittura alla presidenza Johnson (anni ’60). Nel 1982 Reagan sostituì il “Public Service Employement”, volto a fornire ai giovani un’offerta di lavoro, coi “work based learning programs”, intesi ad offrire non lavoro ma “competenze” (skills). Con Clinton il ricorso agli stage venne esteso ai college e alle università (si ricorderà …Monica Lewinsky era una stagista). L’Europa comincia in ritardo, a partire dalla seconda metà degli anni ’90, ma brucia in fretta le tappe, adeguando “il sistema educativo alle esigenze del neoliberismo”,6 e inserendo gli stage all’interno di una politica complessiva di flessibilizzazione della forza lavoro. In Italia le prime misure si devono al “Pacchetto Treu” del 1997, seguite dalla riforma-Berlinguer del 2000, fino all’odierna “buona scuola” renziana del 2015.

Queste misure, parte organica della politica del lavoro neoliberista a livello internazionale (adottate, ad es., anche in Cina), sono presentate all’opinione pubblica come uno sforzo per contrastare la crescente disoccupazione giovanile, ma sono in realtà, nella migliore delle ipotesi, uno sforzo di adeguare la formazione della forza lavoro alle sempre più mutevoli esigenze delle imprese: il sistema educativo e formativo deve – come spiega il McKinsey Global Institute nel rapporto Poorer than their parents? (2016) – produrre “job-ready skills”, ossia non individui “occupati”, bensì occupabili, pronti (e disposti) a cambiare lavoro, mansione, luogo. Insomma individui “flessibili”. La flexibility è infatti la religione che da anni si cerca di inculcare, anche da noi, alle nuove generazioni. In questo senso, lo stage è il primo passo della vita del lavoratore precario moderno, capace – anche grazie alla “formazione continua” (lifelong learning) – di affrontare l’alternarsi di disoccupazione, lavoro parziale, cambio di lavoro, e, già che ci siamo, fasi di lavoro gratuito. Fa scuola, in questa direzione, la legislazione britannica, che prevede la subordinazione del sussidio di disoccupazione all’accettazione di qualsiasi forma di lavoro, anche non pagato se in forma di stage.

Questa però, è ancora la “buona” teoria. In realtà, come dimostra abbondantemente l’esperienza italiana, in gran parte dei casi lo stage non ha alcuna seria valenza formativa, e si configura come uno sfrontato mezzo per impiegare forza lavoro a costo zero in mansioni spesso degradanti, dalle fotocopie alle pulizie (i blog studenteschi sono ricchi di esempi di questo tipo).7 Alle obiezioni in questo senso politici ed imprenditori amano rispondere che, anche quando non acquisisce alcuna “competenza” relativa al proprio percorso formativo, comunque lo stagista apprende a relazionarsi con altri lavoratori e con un ambiente di lavoro, ecc. Più prosaicamente, e più cinicamente, l’assessore al lavoro della Regione Veneto, Elena Donazzan, ha dichiarato che con lo stage “s’impara ad obbedire”,8 svelando brutalmente la realtà autoritaria del fenomeno.

Non può sfuggire che la presenza di milioni di giovani, nolentes volentes costretti a darsi gratuitamente e senza diritti sul mercato internazionale del lavoro, rappresenta una minaccia per tutti i lavoratori, una pressione sui salari e le condizioni contrattuali, insomma uno “strumento formidabile di precarizzazione e disciplinamento di tutti i lavoratori, di oggi e di domani”. 9 In questo contesto non va presa troppo sottogamba la boutade del sociologo Domenico De Masi, il quale, per combattere la disoccupazione, propone ai disoccupati di offrirsi temporaneamente gratis alle imprese, al fine di esercitare una forte pressione sugli occupati, convincendoli ad accettare una riduzione dell’orario lavorativo (con corrispondente riduzione salariale), creando così posti di lavoro: “Lavorare tutti, lavorare …gratis”!

Il volume curato dalla Cillo non affronta il problema soltanto dal punto di vista sociologico, ma anche da quello teorico. Un saggio di Iside Gjiergji, in particolare, sulla scorta di Marx ed Engels, sottolinea come la precarietà e l’insicurezza siano la condizione standard di tutti i proletari in regime capitalistico, mentre la Cillo, nella sua Introduzione, evidenzia come solo una congiuntura particolare della storia di questo sistema sociale, i “trenta gloriosi”, abbia consentito ad una porzione rilevante della classe lavoratrice di sfuggirvi relativamente, facendo nascere l’idea del diritto ad un lavoro stabile, e legislazioni corrispondenti. Con la globalizzazione insomma, la società capitalistica chiude questa parentesi, rigettando di nuovo tutto il proletariato nella sua “normale” e permanente condizione d’incertezza esistenziale. Sarebbe perciò errato non soltanto ritenere che questa fase del capitalismo globalizzato stia partorendo (o abbia già partorito) una nuova classe, il precariato, ma anche che sia in corso un processo di “deproletarizzazione”.10

Ora, se concordiamo interamente sul primo punto, in quanto non vediamo alcun bisogno di introdurre una nuova classe sui generis a cavallo tra proletariato e sottoproletariato, liquidare troppo sbrigativamente la questione della “deproletarizzazione”, e magari immaginare sotto la categoria “proletariato” qualcosa di omogeneamente antagonista al sistema del capitale, sarebbe un po’ troppo auto-tranquillizzante.

In realtà gli ultimi quarant’anni hanno visto una trasformazione epocale delle società capitalistiche avanzate: le trasformazioni tecnologiche, l’informatizzazione in primis, hanno comportato una completa ristrutturazione del mercato del lavoro, con l’aumento esponenziale del lavoro flessibile, precario, atipico, ossia una “nuova morfologia del lavoro” (Antunes) che non costituisce un ritorno alla condizione proletaria dell’epoca della “rivoluzione industriale”.

Allora – malgrado l’elevato grado d’instabilità della condizione proletaria – l’elemento trainante della classe era rappresentato dal proletariato di fabbrica e la tendenza era quella di una crescente concentrazione sia urbana che produttiva dei wage workers. Una tendenza di lungo periodo, al punto da essere considerata permanente e costitutiva dell’accumulazione capitalistica. Riassumeva il Manifesto dei comunisti:

“Nella stessa proporzione in cui si sviluppa la borghesia, cioè il capitale, si sviluppa il proletariato […]. Masse di operai addensate nelle fabbriche vengono organizzate militarmente […]. Ma il proletariato, con lo sviluppo dell’industria, non solo si moltiplica; viene addensato in masse più grandi, la sua forza cresce, ed esso la sente di più. Gli interessi, le condizioni di esistenza all’interno del proletariato si vanno sempre più agguagliando man mano che le macchine cancellano le differenze di lavoro […]. Il progresso dell’industria […] fa subentrare all’isolamento degli operai risultante dalla concorrenza, la loro unione rivoluzionaria, risultante dall’associazione. Con lo sviluppo della grande industria, dunque, vien tolto di sotto i piedi della borghesia il terreno stesso sul quale essa produce e si appropria i prodotti. Essa produce anzitutto i suoi seppellitori. Il suo tramonto e la vittoria del proletariato sono del pari inevitabili”.11

Questa tendenza, che metteva le grandi officine al centro dello scontro con la borghesia, si rifletteva nelle modalità di organizzazione e lotta dei salariati e nello strumentario teorico con cui venivano interpretate. Ecco ad es. un tipico passo di Lenin:

“È nell’organizzazione degli operai delle grandi officine – dato che le grandi officine (e fabbriche) riuniscono quella parte della classe operaia che predomina non soltanto numericamente, ma anche e ancor più per la sua influenza, la sua coscienza, la sua capacità combattiva – che risiede la forza principale del movimento”.12

Giusto o sbagliato che fosse, era questo il paradigma con cui fino alla crisi capitalistica internazionale della metà degli anni ’70 del secolo scorso il movimento proletario guardava a se stesso, ed era ben diverso da quello che attualmente si profila nelle aree di capitalismo avanzato. Se negli anni ’80 i salariati industriali dei vecchi paesi capitalistici rappresentavano ancora il 40% circa della popolazione attiva, oggi la loro incidenza si è pressoché dimezzata, e, benché il numero dei proletari e semi proletari sia da allora indubbiamente cresciuto (ad es. nei servizi), in luogo di una maggior concentrazione proletaria sui luoghi di lavoro abbiamo una sua maggiore frammentazione, in luogo dell’omogeneizzazione prevista dal Manifesto una maggiore differenziazione, per non dire disgregazione. Non si tratta di fenomeni da prendere alla leggera perché, se è vero che il “precariato” non è e non può essere una classe, è altrettanto vero che l’estensione senza uguali nella storia del numero dei disoccupati e dei “precari” aumenta non solo il numero dei proletari, ma anche quello dei sottoproletari, producendo una serie di sfumature digradanti dai primi ai secondi e rappresentando una remora importante (accanto all’invecchiamento della popolazione) ad una ripresa dell’antagonismo di classe.

Se è dunque verissimo che l’incertezza dell’esistenza costituisce un elemento permanente della figura sociale del proletariato, non ne consegue in modo meccanico che i giovani precari, gli immigrati, i lavoratori atipici (e gli stagisti) possano essere tout court e in tutti i casi assimilati al proletariato, perlomeno al proletariato tipo. Una cosa è lavorare costantemente sotto la minaccia del licenziamento, un’altra è una condizione in cui in un anno di vita si possono cambiare vari lavori e varie forme di lavoro, passando ad es. da uno stage gratuito in una ONG ad un periodo di disoccupazione, seguito da un tirocinio sottopagato da McDonalds, ancora da una pausa di disoccupazione, fino ad un altro contratto temporaneo come lavoratore atipico (con partita IVA) in un’agenzia di pubblicità. La possibilità di organizzare od anche solo immaginare una resistenza allo sfruttamento è nel secondo caso immensamente più problematica, e a nostro avviso non bisogna sottovalutare la novità permanente di questa difficoltà.

Che poi questi fattori negativi possano essere compensati da altri, come ad esempio il maggior numero di “senza riserve”, la possibilità di comunicare attraverso la rete e i social network, o un latente (ma solo latente) livellamento della condizione proletaria a livello internazionale, sono questioni da studiare che esulano dall’oggetto di Nuove frontiere della precarietà del lavoro.

Resta il fatto che “gli stage […] svolgono un ruolo chiave nell’educare i futuri lavoratori, oggi studenti, a non considerarsi lavoratori. Contemporaneamente sono uno strumento di primaria importanza per il disciplinamento dei futuri lavoratori alla precarietà, all’autosvalorizzazione, all’autosfruttamento, alle gerarchie esistenti sui luoghi di lavoro” (Cillo, p. 37), e nella “svalorizzazione complessiva della forza lavoro che è stata perseguita nei trent’anni di neoliberismo”. 13

N.B.
Il libro è scaricabile gratuitamente al seguente indirizzo:
http://edizionicafoscari.unive.it/libri/978-88-6969-160-7/


  1. Cillo, p. 29  

  2. Cillo, p. 179  

  3. Cillo, p.130  

  4. Cillo, p.179  

  5. Cillo, pp. 163-164  

  6. Cillo, p.21  

  7. https://tirocinioancheno.noblogs.org/
    www.chainworker.org
    www.repubblicadeglistagisti.it
    www.unionedegliuniversitari.it
    www.studenti.it
    www.controcampus.it  

  8. Giornale di Vicenza, 17/10/2017  

  9. Gjergji, p. 130  

  10. Gjergji, p.132  

  11. Citazioni sparse tratte dall’Edizione Einaudi del 1962, capitolo I. Borghesi e proletari  

  12. V.I. Lenin, Un passo avanti e due indietro, 1972, Ed. Riuniti, Roma, p.52  

  13. Cillo, p. 35  

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