Firenze – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Fri, 01 Aug 2025 20:00:30 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 In me la notte non finisce mai https://www.carmillaonline.com/2023/10/02/in-me-la-notte-non-finisce-mai/ Sun, 01 Oct 2023 22:01:07 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79051 di Walter Catalano

Roberto Taddeo, La storia del Mostro di Firenze. Vol. 1 – La sequenza dei delitti e la pista sarda, Mimesis, pp.430, euro 20,00.

Non commetterò più errori, la polizia sì. In me la notte non finisce mai”. (da una presunta lettera del Mostro al quotidiano La Nazione nel 1985)

Gli anni ’80 non sono stati solo gli anni del riflusso, gli anni di Ustica e della strage di Bologna, dei NAR e della P2, di Maradona, di Wojtyla e di Craxi, del walkman e del Commodore 64, di [...]]]> di Walter Catalano

Roberto Taddeo, La storia del Mostro di Firenze. Vol. 1 – La sequenza dei delitti e la pista sarda, Mimesis, pp.430, euro 20,00.

Non commetterò più errori, la polizia sì. In me la notte non finisce mai”. (da una presunta lettera del Mostro al quotidiano La Nazione nel 1985)

Gli anni ’80 non sono stati solo gli anni del riflusso, gli anni di Ustica e della strage di Bologna, dei NAR e della P2, di Maradona, di Wojtyla e di Craxi, del walkman e del Commodore 64, di Dynasty e delle Tartarughe Ninja, del synthpop, dei paninari e della fine della Nuova Hollywood. Per i fiorentini, specialmente quelli allora più giovani, il decennio vuol dire anche paura e paranoia: non astratta, non lontana; paura diretta e concreta, appena dietro l’angolo, oltre il parabrezza di un’auto, al di là dei cespugli familiari di una radura al buio.

Tutti, fra il Valdarno superiore e inferiore, occhieggiavamo sgomenti, come mai avevamo fatto prima, le sanguinose pagine in cronaca nera che ci rivelavano un’altra città parallela e oscura, un mondo sordido e insospettato fatto di ronde notturne, di guardoni e maniaci, di perversioni e morbosi misteri. Chi scrive aveva allora appena scavalcato i vent’anni e per lui la nativa Firenze era stata fino a quel momento una città tutto sommato piacevole e rassicurante – appena il vago ricordo dell’alluvione, troppo lontano nelle caligini dell’infanzia, un magico lucore di candele, perché avevano tolto la corrente elettrica per giorni – una città borghese e bottegaia in cui lo scontro politico dei ’70 non aveva mai raggiunto la tensione e la pericolosità di altri capoluoghi: pochi i fascisti, abbastanza tranquilli gli ultrasinistri – almeno questa era la percezione probabilmente inesatta e fallace – solo qualche “indiano metropolitano”  ormai in disuso in giro e qualche frikkettone tossico che si sparava di eroina nei vicoli del centro.

Quando gli anni ’80 erano subentrati come una pialla, si era soprattutto pensato a divertirsi, sex&drugs&rock’n’roll più che altro: era esploso il nightclubbing fiorentino, del Banana Moon e del Casablanca, del Tenax e del Manila, dei Litfiba e dei Diaframma, delle etichette discografiche indipendenti e dei giovani stilisti della moda creativa. Ma dietro quel luccicore ostentato, il babau, l’uomo nero non lasciava mai la presa: ad intervalli quasi regolari, quando avevi appena cominciato a dimenticarlo, ricompariva. Colpiva soprattutto ragazzi di provincia, giovani di famiglie popolari, lontani dalle aule universitarie e dai salotti mondani, per due volte anche coppie di campeggiatori stranieri. Chiunque non avesse mezzi, seconde case, garçonnieres, ecc. era potenzialmente esposto. Per chi scrive, timido, bruttino e imbranato com’era allora, l’impossibilità improvvisa e cogente di appartarsi in luoghi discreti con ragazze e fidanzate era l’ultimo dei problemi, ma amici e coetanei più fortunati cambiarono d’un tratto abitudini, non uscirono più la sera o non si allontanarono più dai quartieri urbani affollati anche dopo il tramonto, trovarono provvidenziale complicità e case finalmente lasciate libere per qualche ora dai genitori più comprensivi. La città mostrava adesso la sua doppia faccia, tutto bene entro le mura e fino al tramonto, poi uno sguardo sghembo rivelava con un brivido i volantini circolanti in bar e locali notturni: “Occhio ragazzi”, dicevano in italiano, francese, inglese, spagnolo e tedesco, e poi c’era il numero di pronto intervento della polizia e dei carabinieri.

Un fantasma ci accompagnava. C’era e non c’era. Probabilmente ancora ci accompagna, ancora c’è e non c’è. L’abbiamo rimosso ma non dimenticato. E’ l’Ombra, il riflesso oscuro della città (sarà solo un caso che una minaccia del genere si sia manifestata non a Torino, a Bologna o a Trieste ma proprio a Firenze ?). Il fatto che mai, dopo decenni, sia stato scoperto il Mostro – uno o tanti? Lustmörder solitario o setta satanica, singolo “genio del male” o losca e abborracciata combriccola di “compagni di merende”? – che l’arma dei delitti – la fantomatica Beretta calibro 22, serie 70 a canna lunga – mai sia stata ritrovata; che il garbuglio di fatti e controfatti, di colpevoli presunti e presunti innocenti, di indiziati e sospettati, di inspiegate morti collaterali (prostitute, medici, poliziotti), di testimonianze ambigue, di depistaggi e impistaggi, di telefonate e lettere anonime, di messaggi terrorizzanti e macabri souvenirs anatomici, mai sia stato coerentemente dipanato, rende la questione tutt’altro che conclusa e archiviata. Come Jack the Ripper anche il Mostro di Firenze è ormai divenuto un personaggio mediatico internazionale, amico e collega di Hannibal Lecter, oggetto di film, serie tv e romanzi thriller e horror; per gli americani solo un Michael Myers più figo perchè agiva nella città di Dante, Leonardo e Machiavelli, ma per chi aveva seguito la successione dei delitti in diretta e magari aveva conosciuto e ricordava ancora le vittime, i poveri fidanzati caduti sotto i suoi colpi, uno spauracchio ben poco finzionale e fin troppo concreto. Cosa c’era, anzi cosa c’è dietro a tutto questo? E’ questa la domanda più inquietante a cui nessuno ha mai risposto: un dubbio, un sospetto sulla città intera, sulla gente che ci vive, sull’omertà che ha impedito per tutti questi anni l’emersione della verità o almeno di una spiegazione coerente.

All’ormai sostanziosa bibliografia sull’insoluto caso criminale, forse “il caso” di tutta la storia criminale italiana, si è aggiunto recentemente un monumentale testo in tre volumi, opera prima dello studioso Roberto Taddeo, che ha, a differenza di quasi tutti quelli già editi, il grosso pregio di non voler sostenere alcuna tesi precostituita ma semplicemente di raccogliere e ordinare in modo logico e congruente tutti i fatti noti, con l’intento non di convincere, esibendo una teoria anziché un’altra, ma semplicemente di narrare, sviscerando tutto quello che è possibile sapere: una mappa di orientamento all’interno di un labirinto.   

Questo primo tomo presenta in dettaglio tutta la sequenza dei delitti – partendo dal primo del settembre 1974, perpetrato fra Vicchio e Barberino di Mugello e l’ultimo del settembre 1985, a Scopeti vicino a San Casciano Val di Pesa – e approfondisce la cosiddetta “pista sarda” che riconnette ai delitti del Mostro – per l’uso della stessa pistola, mai ritrovata, e dello stesso tipo di proiettili, Winchester calibro 22 Long rifle, serie H, a piombo nudo o ramati – un precedente delitto avvenuto, con dinamiche assai diverse, nell’agosto del 1968 vicino a Signa.

La pista principale degli anni’80 è proprio quella sarda – perseguita dopo una misteriosa soffiata anonima, fatta passare ufficialmente per la geniale intuizione di un carabiniere – che mette in relazione l’arma del primo crimine con quella dei successivi. Una linea di indagini che oppone – evidenziando in modo paradossale le contraddizioni e inefficienze delle “forze dell’ordine” – i carabinieri con il giudice istruttore Mario Rotella – risoluti nel sostenere che “la pistola di un omicidio non passa mai di mano” e che quindi chi ha commesso il primo delitto in cui compare (e scompare) la misteriosa Beretta, nel 1968, sia necessariamente l’autore anche di tutti gli altri – alla polizia, la Questura e i procuratori Piero Luigi Vigna, Paolo Canessa, Carlo Bellitto e Francesco Fleury, con la neocostituita (nel 1984) SAM, la Squadra Anti Mostro, che cercano (senza praticamente cavare un ragno dal buco) in tutt’altre direzioni.

Rimandiamo all’appassionante testo per i dettagli del groviglio inestricabile della pista sarda che ha per protagonisti, tutti emigrati in Toscana dalla Sardegna, un minorato mentale, marito cornuto contento (ma non troppo), Stefano Mele, che cambia ogni momento versione dei fatti sull’omicidio della moglie fedifraga e di uno dei suoi numerosi amanti, e accusa ora sé stesso (facendosi così parecchi anni di gabbio), ora un ampio spettro di parenti e amici sul quale emergono soprattutto due poco raccomandabili fratelli, Francesco e Salvatore Vinci, entrambi amanti della moglie (uno dei due, bisessuale, anche del marito); infine un bambino, il figlio di Mele, testimone reticente dell’uccisione della madre e dell’amante, più un verminaio di personaggi minori uno più sinistro dell’altro.

Il volenteroso giudice istruttore Rotella coi suoi fidi carabinieri, sarà costretto alla fine a gettare la spugna, non riuscendo a incastrare Salvatore Vinci, il principale imputato al ruolo di mostro, che non subirà alcun processo e farà perdere le sue tracce (tutt’ora non si sa se sia ancora vivo in Spagna o no). La pista sarda verrà definitivamente abbandonata nel 1989, col proscioglimento per i delitti del Mostro, di tutti gli indiziati. Affossati i carabinieri, uno a zero per i procuratori, la polizia e la Squadra Anti Mostro, che stanno ancora cercando, per il momento senza successo, altre diverse vie di indagine.

Nel frattempo gli anni ’80, il decennio del Mostro, finiscono. Gli anni ’90, per fortuna senza più delitti e nuove vittime, saranno quelli dei processi a Pietro Pacciani e ai compagni di merende, a cui è dedicato il secondo volume in uscita a ottobre. Il terzo, che avremo a novembre, si concentra invece sugli altri possibili mandanti e figure oscure della “mostrologia”: Francesco Narducci, medico perugino ripescato (se il corpo era davvero il suo) nelle acque del Trasimeno nel 1985; Francesco Calamandrei, farmacista accusato e assolto per insufficienza di prove; Giampiero Vigilanti, ex legionario neofascista. Si giungerà così a individuare e determinare gli sviluppi investigativi più recenti, ancora pienamente in moto a tutto il febbraio del 2023, di un cold case tutt’altro che chiuso, un enigma che, come un malefico e velenoso miasma, non cessa di tormentare la Città del Fiore.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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“Dante”: un viaggio senza orrore https://www.carmillaonline.com/2022/10/27/dante-un-viaggio-senza-orrore/ Thu, 27 Oct 2022 20:00:44 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=74543 di Paolo Lago

Dante, il nuovo film di Pupi Avati, è costruito sulla struttura del viaggio, quello compiuto da Giovanni Boccaccio (Sergio Castellitto) per incontrare, a Ravenna, l’unica figlia di Dante rimasta in vita, suor Beatrice. Il film, che si ispira al Trattatello in laude di Dante, scritto da Boccaccio, alterna i momenti del viaggio a dei flashback in cui vediamo spaccati della vita del poeta, appartenenti soprattutto al periodo della sua giovinezza. Quello compiuto dal personaggio di Boccaccio assomiglia, per certi aspetti, al “viaggio dell’eroe” come è descritto da Chris Vogler nel [...]]]> di Paolo Lago

Dante, il nuovo film di Pupi Avati, è costruito sulla struttura del viaggio, quello compiuto da Giovanni Boccaccio (Sergio Castellitto) per incontrare, a Ravenna, l’unica figlia di Dante rimasta in vita, suor Beatrice. Il film, che si ispira al Trattatello in laude di Dante, scritto da Boccaccio, alterna i momenti del viaggio a dei flashback in cui vediamo spaccati della vita del poeta, appartenenti soprattutto al periodo della sua giovinezza. Quello compiuto dal personaggio di Boccaccio assomiglia, per certi aspetti, al “viaggio dell’eroe” come è descritto da Chris Vogler nel suo manuale di sceneggiatura intitolato appunto “Il viaggio dell’eroe”. Come scrive Luca Cangianti nel saggio “Il viaggio dell’eroe e la coscienza di classe”, Vogler “afferma che il protagonista, l’eroe per l’appunto, è spinto a intraprendere un’avventura che lo strappa alla realtà quotidiana, portandolo alle soglie di un mondo straordinario nel quale dovrà superare prove mortali nel tentativo di sconfiggere il nemico. Tuttavia «gli eroi non si limitano a visitare il regno dei morti per poi tornare a casa. Ne escono trasformati»” (su Carmilla).

Il cinema di Pupi Avati già in passato ci aveva offerto degli intrecci basati sul viaggio di un personaggio che si reca in un luogo lontano e misterioso per poi essere avvolto da risvolti orrorifici e inquietanti. Questo luogo è spesso rappresentato da quel lembo di pianura padana che si confonde con le acque del Po fino a formare un territorio nebbioso ed ambiguo, attraversato dall’acqua e circonfuso di oscure leggende legate a uno spettrale passato. Basti ricordare La casa dalle finestre che ridono (1976), in cui Stefano, un giovane restauratore (interpretato da Lino Capolicchio), deve recarsi in un paesino sperduto della bassa ferrarese per riportare alla luce un macabro affresco. Macabri e putrescenti sono anche gli scenari che lo avvolgono: vecchie ville patrizie, campagne desolate, oggetti artistici e d’antiquariato che sembrano emergere da arcaici passati palpitanti di orrore. In Zeder (1983), invece, è un altro Stefano (Gabriele Lavia), uno scrittore che, incuriosito dalle leggende circolanti intorno ai fantomatici “terreni k”, i quali costituirebbero una porta verso l’aldilà, si reca al Lido di Spina, in un territorio anch’esso ambiguo ed acquatico. Non si può, poi, non ricordare il più recente Il signor Diavolo (2019), che narra il viaggio del giovane funzionario Furio Momentè da Roma a Venezia e, successivamente, a Lio Piccolo, un paesino della laguna veneta dove, al pari degli altri personaggi, verrà avvolto da una dimensione d’orrore.

Il movimento del viaggio avviene da un luogo conosciuto e familiare, connotato dalla razionalità, verso uno spazio liminale, segnato dal misterioso incontro fra la terra e l’acqua (la bassa ferrarese, la laguna veneta, il Delta del Po). Territori arcaici e intrisi di superstizione che avvolgono nelle loro spire gli “eroi” che si mettono in cammino circonfondendoli di un’ambigua atmosfera onirica e perturbante. Anche Boccaccio, come i due Stefano e Furio, si mette in viaggio verso quella parte di pianura padana che lambisce lagune e Delta del Po, stavolta declinata nella romagnola Ravenna, luogo in cui Dante si spense nel 1321. Tra l’altro, il “sommo poeta” morì proprio per aver contratto delle febbri malariche al ritorno da un’ambasceria a Venezia, mentre attraversava le paludose Valli di Comacchio. Ed è proprio verso quel territorio segnato dall’incontro tra terra e acqua ma anche dalle tracce eterne dell’arte che il personaggio di Boccaccio si dirige, non senza aver fatto testamento prima di partire. Boccaccio parte da Firenze, dalla natia e familiare Toscana, per intraprendere un viaggio in cui ogni tappa rappresenta un momento per ricordare squarci della vita di Dante, di quel “sommo poeta” che egli considera come il proprio padre e maestro.

Allora, all’interno del film, forse in maniera eccessivamente didascalica, in diversi momenti scaturisce la recitazione in voce fuori campo di alcuni versi di Dante mentre successivamente incontriamo un riferimento alla vicenda di Paolo e Francesca, vicenda che il poeta, da soldato, avrebbe ascoltato seduto intorno a un fuoco. La stessa Beatrice appare nelle vesti di una “dama senza pietà” quando – in un momento onirico in cui il tema del “cuore mangiato” sembra filtrato attraverso la lettura di La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica di Mario Praz – la donna fatale è impegnata a divorargli letteralmente il cuore (un momento sinceramente un po’ splatter, l’unico a riecheggiare certe atmosfere sanguinarie dei film precedenti). Rispetto alle sequenze che mostrano spaccati della vita di Dante, assai più convincente risulta la narrazione incentrata sul viaggio di Boccaccio. Un viaggio che, a differenza degli altri precedentemente ricordati, non possiede il timbro dell’orrore. Il protagonista, adesso, non compie un movimento verso insondabili e cupi misteri, verso macabre e demoniache magioni; il suo impervio cammino, disseminato di tappe (monasteri o umili case), si rivolge adesso verso il desiderio di conoscenza, verso l’ultima testimonianza vivente del poeta e scrittore che considera come suo maestro. Il Boccaccio che Avati ci dipinge appare quasi come l’antesignano del moderno biografo che ricerca ossessivamente luoghi e persone frequentati dal personaggio del quale si accinge a scrivere. Se uno squarcio d’orrore è presente nel peregrinare del protagonista, esso è rappresentato dalla cupa bambola che egli reca con sé per donarla alla figlia, bambola che era stata un dono di nozze per Beatrice e che adesso rappresenta solo una tetra reliquia, un volto ed un corpo inerte, perduto in una marmorea immobilità perturbante.

D’altra parte, il movimento compiuto da Boccaccio si innesta su uno sfondo profondamente corporeo (quasi come la cupa peregrinazione dei personaggi de Il settimo sigillo di Bergman), in un affresco rigoroso della società dell’epoca e delle sue piaghe sociali. Il personaggio scende fra le sepolture degli appestati, in cui i corpi sono illuminati dal fuoco di torce che si espandono in caravaggeschi bagliori e percorre i baratri di ambienti segnati dalla povertà e dall’emarginazione. Lo stesso corpo del personaggio appare segnato dalla malattia e il suo incedere è spesso stanco e affannato, circonfuso di una stanchezza che si ripercuote in ogni suo gesto e in ogni suo movimento. E la meta di questo viaggio di un corpo malato sarà il luogo ove un altro corpo malato, quello di Dante, ha finalmente trovato riposo: Ravenna, la pineta di Classe, la chiesa di Sant’Apollinare, in cui il poeta si sdraiava estasiato ad ammirare gli affreschi. All’orrore degli altri film, nel finale, si sostituisce una dimensione onirica che scaturisce dal racconto della figlia del poeta, incontrata nel convento, ma di nascosto e di notte. Una dimensione che racchiude in sé tutta la forza di un immaginario poetico e letterario legato alla figura di Dante che il protagonista Giovanni Boccaccio, come un’alchimia, è riuscito magicamente a creare.

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La vita al tempo della peste https://www.carmillaonline.com/2021/01/27/la-vita-al-tempo-della-peste/ Wed, 27 Jan 2021 22:00:13 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=64673 di Sandro Moiso

Maria Paola Zanoboni, La vita al tempo della peste. Misure restrittive, quarantena, crisi economica, Editoriale Jouvence, Milano 2020, pp. 218, 18,00 euro

«Dico adunque che già erano gli anni della fruttifera incarnazione del Figliuolo di Dio al numero pervenuti di milletrecentoquarantotto, quando nella egregia città di Fiorenza, oltre a ogn’altra italica bellissima, pervenne la mortifera pestilenza». La prima testimonianza scritta dell’incontro tra le prime forme di società capitalistica ed epidemie gravi ha una data compresa tra il 1349, anno in cui Giovanni Boccaccio diede piglio alla penna per ambientare all’interno [...]]]> di Sandro Moiso

Maria Paola Zanoboni, La vita al tempo della peste. Misure restrittive, quarantena, crisi economica, Editoriale Jouvence, Milano 2020, pp. 218, 18,00 euro

«Dico adunque che già erano gli anni della fruttifera incarnazione del Figliuolo di Dio al numero pervenuti di milletrecentoquarantotto, quando nella egregia città di Fiorenza, oltre a ogn’altra italica bellissima, pervenne la mortifera pestilenza». La prima testimonianza scritta dell’incontro tra le prime forme di società capitalistica ed epidemie gravi ha una data compresa tra il 1349, anno in cui Giovanni Boccaccio diede piglio alla penna per ambientare all’interno del panorama delineato dalla diffusione della peste della metà del XIV secolo il Decameron, e il 1351, anno in cui ne terminò la stesura.

E’ necessario cogliere questo collegamento tra albori del capitalismo bancario e mercantile ed epidemie poiché è proprio da quel momento che prende le mosse il testo di Maria Paola Zanoboni pubblicato da Jouvence. Infatti, anche se il capitalismo ha progressivamente spostato le sue radici e le sue origini, e la sua forza politica ed economica, sempre più a Nord e verso Occidente, in realtà le sue forme primitive si manifestarono proprio nei territori delle repubbliche marinare, per i commerci e la cantieristica navale, e di Firenze e di alcune altre città toscane in cui si svilupparono, invece, le prime attività legate al credito e alla manifattura tessile su una scala più ampia rispetto a quella dell’epoca precedente.

Sono infatti poche le pagine iniziali dedicate alle epidemie di peste nell’Antichità, tutte riferite alle testimonianze di Tucidide e Lucrezio, mentre il corpo principale della ricerca si occupa del periodo compreso tra il XIV e il XVII secolo, con una breve puntata nel XVIII per parlare dell’ultima epidemia di peste avutasi in Europa: quella del 1720 a Marsiglia, rapidamente debellata.
In questo periodo di tempo si situa quello che per molti studiosi è considerato come il vero inizio dell’Antropocene1 o, ancor meglio, Capitalocene ovvero quella trasformazione del rapporto uomo-ambiente basato su una progressiva devastazione degli equilibri ambientali e climatici causata dall’estrattivismo, dallo sfruttamento accelerato del suolo e delle risorse naturali oltre che dall’occupazione di una percentuale sempre maggiore di suoli precedentemente “liberi” dalla presenza dell’uomo e delle sue opere. Processo determinato da una ricerca di profitti e accumulo di ricchezze destinate al reinvestimento sempre più esosa, rapida e diffusa.

«Nelle parti orientali incominciata, quelle d’inumerabile quantità de’ viventi avendo private, senza ristare d’un luogo in uno altro continuandosi, verso l’Occidente miserabilmente s’era ampliata»2. Non a caso la peste medievale di cui fu testimone il Boccaccio e intorno a cui si articola buona parte della ricerca, iniziò a diffondersi in Europa seguendo le rotte commerciali tra Oriente e Occidente. In particolare sulle rotte seguite dai genovesi tra i loro magazzini sul Mar Nero e il Mediterraneo.

Mentre sussistevano dubbi sulla contagiosità degli esseri umani, vivi o morti, e degli animali (tra i quali erano però ritenuti pericolosi quelli dotati di pelo o piume), già dal’400 furono infatti individuati nelle merci i veicoli principali dell’infezione:

A Ragusa alla fine del ‘500 le autorità sanitarie consideravano altamente pericolosi la lana e i tessuti di lana, per cui le imbarcazioni cariche di questi articoli e materie prime provenienti da luoghi sospetti non venivano accolte […] verso la metà del ‘600,in ogni caso, sussisteva la perfetta consapevolezza della trasmissione del contagio anche attraverso le merci infette, e di quali oggetti o materiali lo propagassero più di altri. Un documento emanato dalle autorità sanitarie genovesi all’epoca della grande epidemia del 1656/57 elenca minuziosamente i prodotti in cui non si annidava il morbo, quelli in cui si annidava e quelli su cui si era incerti […] la maggior parte del legno, se ruvido e pieno di crepe era tra i principali veicoli di contagio, tanto che fin dal ‘400, nella costruzione dei lazzaretti, erano banditi i soffitti in legno e utilizzato esclusivamente il laterizio3.

«Dico che di tanta efficacia fu la qualità della pestilenzia narrata nello appiccarsi da uno a altro, che non solamente l’uomo all’uomo, ma questo, che è molto più, assai volte visibilmente fece, cioè che la cosa dell’uomo infermo stato, o morto di tale infermità, tocca da un altro animale fuori della spezie dell’uomo, non solamente della infermità il contaminasse ma quello infra brevissimo spazio uccidesse»4. Il ripresentarsi nel XIV secolo della peste, assente fin dall’VIII secolo sul territorio europeo, da un lato colse la società impreparata ad affrontarla e successivamente spinse le autorità a prendere provvedimenti di quarantena e divieto di spostamento non troppo dissimili da quelli attuali. L’autrice ne fa un lungo elenco, pur ricordando che nonostante questo la peste rimase a lungo endemica nel Vecchio Continente: «ripresentandosi ovunque con cadenza decennale, e divenendo parte integrante del normale ritmo di vita, per cui, soprattutto nei centri urbani, la popolazione fu costretta suo malgrado ad adeguarvisi»5. Tutto ciò fa svolgere alla Zanoboni, alcune ulteriori riflessioni:

Comprese in un arco cronologico esteso dall’antichità greca e romana ai primi decenni del XVIII secolo, le epidemie di peste coinvolsero in ogni epoca tutti i possibili aspetti della vita economica, politica, sociale, pubblica e privata, dando ampia materia di discussione a svariate discipline. La storia della medicina e quella sanitaria, la psicologia, la letteratura, la demografia, la storia economica e quella politica, hanno affrontato nel corso dei secoli questo tema affascinante e terribile, mettendo in evidenza impressionanti analogie.
E’ incredibile soprattutto constatare come, nonostante i progressi straordinari delle discipline mediche, gli strumenti a disposizione ai nostri giorni per la prevenzione delle epidemie siano ancora quelli elaborati nel ‘300 a partire dal Nord della Penisola (Milano, Firenze, Venezia, Genova, Lucca), recepiti tardi dal resto dell’Europa (tardissimo dall’Inghilterra), e adottai con successo fino al 17206.

Anche se oggi, infatti, si pone perentoriamente l’accento sui vaccini, occorre qui sottolineare che due scienziate e ricercatrici del King’s College di Londra e dell’università di Bristol, in Gran Bretagna, specializzate in storia della medicina e della scienza, Caitjan Gainty ed Agnes Arnold Forster, spiegano che la speranza che vi stiamo riponendo, almeno sotto l’aspetto di sanità pubblica su scala globale, è esagerata7.
Inoltre, anche Richard Horton, direttore della celebre rivista scientifica “The Lancet”, tra le cinque più autorevoli al mondo, ha voluto sottolineare come

la gestione dell’emergenza, basata solo su sicurezza ed epidemiologia, non raggiunge l’obbiettivo di tutelare la salute e prevenire i morti. Covid-19 non è la peste nera né una livella: è una malattia che uccide quasi sempre persone svantaggiate, perché con redditi bassi e socialmente escluse oppure perché affette da malattie croniche, dovute a fenomeni eliminabili se si rinnovassero le politiche pubbliche su ambiente, salute e istruzione. Senza riconoscere le cause e senza intervenire sulle condizioni in cui il virus diventa letale, nessuna misura sarà efficace. Nemmeno un vaccino.
[…] la sindemia implica una relazione tra più malattie e condizioni ambientali o socio-economiche. L’interagire tra queste patologie e situazioni rafforza e aggrava ciascuna di esse. Questo nuovo approccio alla salute pubblica è stato elaborato da Merril Singer nel 1990 e fatto proprio da molti scienziati negli ultimi anni. Consente di studiare al meglio l’evoluzione e il diffondersi di malattie lungo un contesto sociale, politico e storico, in modo di evitare l’analisi di una malattia senza considerare il contesto in cui si diffonde. Per intenderci, chi vive in una zona a basso reddito o altamente inquinata, corre un maggior rischio di contrarre tumori, diabete, obesità o un’altra malattia cronica. Allo stesso tempo, la maggiore probabilità di contrarre infermità fa salire anche le possibilità di non raggiungere redditi o condizioni di lavoro che garantiscano uno stile di vita adeguato, e così via, in un circolo vizioso.
La sindemia è quel fenomeno, osservato a livello globale, per cui le fasce svantaggiate della popolazione risultano sempre più esposte alle malattie croniche e allo stesso tempo sempre più povere8.

Infine può rivelarsi utile ricordare come già David Quammen, autore del fondamentale Spillover (Adelphi, Milano 2012), abbia suggerito, in largo anticipo, che:

Le ragioni per cui assisteremo ad altre crisi come questa nel futuro sono che 1) i nostri diversi ecosistemi naturali sono pieni di molte specie di animali, piante e altre creature, ognuna delle quali contiene in sé virus unici; 2) molti di questi virus, specialmente quelli presenti nei mammiferi selvatici, possono contagiare gli esseri umani; 3) stiamo invadendo e alterando questi ecosistemi con più decisione che mai, esponendoci dunque ai nuovi virus e 4) quando un virus effettua uno “spillover”, un salto di specie da un portatore animale non-umano agli esseri umani, e si adatta alla trasmissione uomo-uomo, beh, quel virus ha vinto la lotteria: ora ha una popolazione di 7.7 miliardi di individui che vivono in alte densità demografiche, viaggiando in lungo e in largo, attraverso cui può diffondersi […] Più distruggiamo gli ecosistemi, più smuoviamo i virus dai loro ospiti naturali e ci offriamo come un ospite alternativo […] consumiamo risorse in modo troppo affamato, a volte troppo avido, il che ci rende una specie di buco nero al centro della galassia: tutto è attirato verso di noi. Compresi i virus.
Una soluzione? Dobbiamo ridurre velocemente il grado delle nostre alterazioni dell’ambiente, e ridimensionare gradualmente la dimensione della nostra popolazione e la nostra domanda di risorse.
Siamo davvero una specie animale, legata in modo indissolubile alle altre, nelle nostre origini, nella nostra evoluzione, in salute e in malattia9.

Quindi, potenzialmente, la scienza attuale parrebbe aver fatto degli importanti passi in una direzione impensabile nei secoli analizzati dal libro della Zanoboni, mentre al contempo la società umana non è ancora uscita dal modo di produzione che proprio in quel periodo si sviluppava e rafforzava, fino a diventare dominante. Per questo, in attesa di abolirlo insieme a tutte le sue nefaste conseguenze, la lettura e lo studio del testo edito da Jouvence può rivelarsi davvero utile. Tenendo conto del fatto che l’attenzione dell’autrice per le contraddizioni sociale ed economiche e le caratteristiche politiche di una società capitalistica ai suoi albori non è affatto casuale ed è particolarmente presente anche in un altro suo bel libro, edito sempre da Jouvence: Scioperi e rivolte nel Medioevo. Le città italiane ed europee nei secoli XIII -XV (Milano 2015).


  1. E’ grosso modo in questo periodo, intorno alla fine del XVI secolo, che gli storici inglesi Simon Lewis e Mark Maslino situano quell’accelerazione delle trasformazioni destinate a modificare la posizione dell’Uomo sul pianeta e l’affermazione dell’idea di poter dominare la Natura a proprio vantaggio. Simon L. Lewis – MarkA. Maslin, Il pianeta umano. Come abbiamo creato l’Antropocene, Giulio Einaudi editore, Torino 2019  

  2. Giovanni Boccaccio, Decameron, Prima giornata  

  3. Maria Paola Zanoboni, La vita al tempo della peste, Editoriale Jouvence, Milano 2020, p. 41  

  4. G. Boccaccio, op. cit.  

  5. M. P. Zanoboni, op. cit. p. 47  

  6. Ibidem, p. 13  

  7. Simone Cosimi, Perché non bastano i vaccini per sconfiggere un virus, e varrà anche per il Covid-19, “Esquire”, gennaio 2021  

  8. Si veda Edmondo Peralta, “Covid-19 is not a pandemic”: non una pandemia, ma una “sindemia” (qui mentre qui è reperibile l’originale )  

  9. Si veda qui  

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Per Tomaso Montanari https://www.carmillaonline.com/2020/12/29/per-tomaso-montanari/ Tue, 29 Dec 2020 22:00:37 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=64101 di Luca Baiada

Dai commenti di Tomaso Montanari sulla gestione di Firenze, a «Report», gli amministratori locali, compreso il sindaco Dario Nardella, si sono sentiti così urtati che gli hanno chiesto per vie legali un risarcimento in denaro. Le posizioni di Tomaso Montanari, professore universitario, storico dell’arte e saggista, toccano i punti nevralgici fra potere e cultura, là dove il fare e il sapere possono molto, nel bene o nel male. Mentre la rappresentanza politica è svilita e la partecipazione democratica è mortificata, il compito dell’intellettuale è prezioso. La rassegnazione, il [...]]]> di Luca Baiada

Dai commenti di Tomaso Montanari sulla gestione di Firenze, a «Report», gli amministratori locali, compreso il sindaco Dario Nardella, si sono sentiti così urtati che gli hanno chiesto per vie legali un risarcimento in denaro.
Le posizioni di Tomaso Montanari, professore universitario, storico dell’arte e saggista, toccano i punti nevralgici fra potere e cultura, là dove il fare e il sapere possono molto, nel bene o nel male. Mentre la rappresentanza politica è svilita e la partecipazione democratica è mortificata, il compito dell’intellettuale è prezioso. La rassegnazione, il fatalismo, il timore, quando non le connivenze e i compromessi, sono bavagli più efficaci della censura. Se non bastano, ecco le carte bollate.

Lo scopo dell’impegno di Montanari, in questa vicenda come in altre, è segnalare scelte sbagliate, scuotere la cittadinanza fiorentina e italiana, impedire che Firenze, le altre città d’arte e in genere le città, della cultura diventino le tombe invece che le culle.
Scempi vistosi, in Italia, intrecciano affarismo, controllo del territorio e cultura reificata, immiserita in cattivo spettacolo, ridotta a trasformare lo spazio urbano in fondale da botteghe. È uno spaccato della modernità e un terreno di scontro. Montanari questa battaglia ha scelto di combatterla; perciò qui, forse, non vale la pena di sminuzzare le sue parole in un singolo episodio, di distinguerle, di ricollocarle nel contesto di un’intervista dove tutto si chiarisce.

Dallo sblocco delle locazioni con la legge sull’equo canone, per poi inventare i patti in deroga, passando per le regole sulla destinazione dei suoli, proseguendo con gli strumenti urbanistici e le loro varianti furbe, e ancora attraversando le norme e gli atti delle amministrazioni sul commercio, sul turismo e sulla ristorazione, sono decenni che la forma urbana, la comunità murata e integrata con la natura, la dimensione spaziale della cittadinanza, tesori della civiltà italiana e umana, sono stravolte e prostituite. Eppure sono antichi, i moniti a far buon uso dell’antico. Giuseppe Parini: «Conviene avvertire doverci noi italiani guardare che, mentre ci stiamo da noi medesimi adulando davanti allo specchio delle nostre antiche glorie, noi non venghiamo a fare come que’ nobili, che neghittosamente dormono sopra gli allori guadagnati da’ loro avi, e tanto più degni sembrano di biasimo e di vituperio, quanto né meno i domestici esempli vagliono ad eccitare scintille di valore nelle loro anime stupide e intormentite»1. Anche la sinistra, snaturando la sua funzione storica, è stata complice, e nascondere questa responsabilità non serve. Proprio nella regione amministrata da sempre dalla sinistra è importante tenere aperti gli occhi, e proprio in Toscana è pericoloso aprire la bocca.

Curiosa, la vicenda della scritta dettata da Luigi Russo nel 1954 per la lapide di San Miniato, dove dieci anni prima, il 22 luglio 1944, c’era stata una strage tedesca. Diceva fra l’altro: «Italiani che leggete, perdonate ma non dimenticate. Lo straniero di ogni parte sia sempre tenuto lontano delle belle contrade rifiutando ogni lusinga o d’aiuto o d’impero. Ricordate che solo nella pace e nel lavoro è l’eterna civiltà». Il prefetto tolse le parole da «lo straniero di ogni parte» a «d’aiuto o d’impero»; la lapide però aveva già le lettere metalliche fissate al marmo, così le parti non approvate furono tolte lasciando i buchi. Passarono gli anni: prima fu aggiunta una nuova lapide per contraddire la precedente e dare la colpa agli Alleati, poi, con la scusa della contraddizione, finirono entrambe in un museo. Bell’esempio di come far sparire la verità: basta appenderci tutt’altro e poi dire che l’attaccapanni sfigura. Se un Montanari denuncia un obbrobrio, basta accusare quel Montanari di un altro obbrobrio; poi si mette tutto l’obbrobriume vero e immaginario nell’indifferenziato, per evitare cattivi odori, fastidiose asimmetrie e posizioni – è una parola che dice voglia di padrone – divisive. Funziona.

Il muro di San Miniato è rimasto vuoto e ignavo. L’ignavia è una colpa, lo insegna un toscano così innamorato e battagliero che morì esule. Nel 2021 cadrà il settimo secolo dalla sua morte, e certamente quelli che hanno in uggia le critiche saranno in prima fila sul palcoscenico. Ma le parole di Luigi Russo, «belle contrade», cancellate subito, additano coi buchi il vuoto di autostima di un bel paese, quello dove a chi comanda piace un popolo fatto di fascisti ringhiosi oppure di imbelli. Adesso, chi difende la bellezza e insieme la democrazia trova avversari pronti a farlo inciampare in qualche parola.

A proposito di parola. Nel 2019 un altro amministratore pubblico dello stesso schieramento che governa Firenze, l’allora presidente della Regione Enrico Rossi, ha ricordato la mancata giustizia sui crimini nazifascisti commessi durante l’occupazione – videro la Toscana fra le regioni più colpite – e ha promesso impegno concreto per ottenere i risarcimenti economici, che sono dovuti dalla Germania ai familiari delle vittime e alla stessa Regione come ente pubblico 2.. I cittadini hanno creduto a una possibilità di giustizia. Ma la parola, Rossi non l’ha mantenuta.

Sono sostanziosi, i risarcimenti che spettano alle famiglie toscane e italiane, per stragi e deportazioni, a carico dello Stato tedesco. Ma gli amministratori fiorentini levano alti lai, trascinano orrende piaghe, sanguinano da ferite immedicabili per le parole di Tomaso Montanari. Dai palazzi del potere i crediti si vedono con un cannocchiale che fa rammentare quel racconto a veglia: «Per chi è codesta minestrona? – È per voi, madre badessa! – Per me codesta minestrina?»3.

I poeti, diceva Jean Cocteau, fanno solo finta di essere morti. Quell’esule, che a Ravenna si riposa chiudendo un occhio solo, potrà commentare questa storia con due o tre parole delle sue, dure come gioielli e scottanti come lava. I suoi versi dovrebbero insegnar bene, che in Toscana non si è usi discorrere di cose pubbliche sciacquandosi la lingua col brodo di coniglio.

Ma forse no, l’esule farà parlare lo straniero, Albert Camus: «La libertà è il diritto di non mentire. Vero sul piano sociale (subalterno e superiore) e su quello morale»; e anche: «La verità è la sola potenza, allegra, inesauribile. Se fossimo capaci di vivere soltanto della e per la verità: un’energia giovane e immortale in noi. L’uomo di verità non invecchia. Ancora uno sforzo e non morirà»4.


  1. Giuseppe Parini, Corso sui princìpi di belle lettere, in Prose, Gius. Laterza & Figli, Bari 1913, p. 262  

  2. Alla commemorazione della strage del Padule di Fucecchio: «L’Armadio della vergogna c’è. Il nostro paese non si è mosso come avrebbe dovuto. Perché le sentenze, contro i mandanti di quelle stragi, non sono state portate a esecuzione. È una vergogna, questa, che ci portiamo dietro, come Italia. E come Regione Toscana siamo disposti a fare ancora di più per arrivare a una degna conclusione». Su Facebook: «Metterò tutto il mio impegno per affiancare i familiari delle vittime delle stragi naziste nella loro richiesta di risarcimento alla Germania e verificare la possibilità di far costituire la Regione stessa. Ci incontreremo a breve per una risposta ufficiale»  

  3. Una versione è in Rodolfo Nerucci (a cura di), Racconti popolari pistoiesi in vernacolo pistoiese, Premiata tipografia Niccolai, Pistoia 1901, racconto XLVII, p. 62.  

  4. Albert Camus, Taccuini. Maggio 1935-Febbraio 1942. Febbraio 1942-Marzo 1951. Marzo 1951-Dicembre 1959, Giunti Editore/Bompiani, 2018, pp. 213 e 485  

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Il romanzo della peste https://www.carmillaonline.com/2018/01/05/42573/ Thu, 04 Jan 2018 23:01:40 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=42573 di Armando Lancellotti

Paola Presciuttini, La Mannaia. Il macello della peste, Meridiano Zero, Bologna, 2017, pp. 303, € 18.00

La Mannaia, l’ultimo romanzo della fiorentina Paola Presciuttini, è un grande affresco medievale, ricco di personaggi, dettagliato nei particolari, vivace e forte per colori e tonalità. Cornice e al tempo stesso contenuto della rappresentazione è la Firenze del Trecento, una città in cui l’economia organizzata attorno alle Corporazioni delle Arti e dei Mestieri va strutturandosi ed articolandosi in modo sempre più maturo e complesso nel corso del secolo e in cui i rapporti di produzione si definiscono e si specificano. Garzoni, apprendisti [...]]]> di Armando Lancellotti

Paola Presciuttini, La Mannaia. Il macello della peste, Meridiano Zero, Bologna, 2017, pp. 303, € 18.00

La Mannaia, l’ultimo romanzo della fiorentina Paola Presciuttini, è un grande affresco medievale, ricco di personaggi, dettagliato nei particolari, vivace e forte per colori e tonalità. Cornice e al tempo stesso contenuto della rappresentazione è la Firenze del Trecento, una città in cui l’economia organizzata attorno alle Corporazioni delle Arti e dei Mestieri va strutturandosi ed articolandosi in modo sempre più maturo e complesso nel corso del secolo e in cui i rapporti di produzione si definiscono e si specificano. Garzoni, apprendisti ed operai dipendono dai Maestri dell’arte, ovvero i padroni delle botteghe, delle materie prime e dei mezzi di produzione, i soli che possono accedere al Consiglio della corporazione, divenendone consoli e forse priori, per governare così la città, come vogliono quegli Ordinamenti di Giustizia di Giano della Bella che da fine Duecento avevano supportato l’ascesa politica della borghesia cittadina, del popolo grasso, a scapito dei magnati. È la Firenze delle aspre lotte tra guelfi e ghibellini, prima e tra Bianchi e Neri, poi, di Corso Donati e della sua disfatta a San Salvi; ma è anche la Firenze della grandi banche dei Bardi e dei Peruzzi, dei loro investimenti avventati e della loro fragorosa rovina ed infine è la Firenze di quel Michele di Lando che a capo dei Ciompi tenta invano di sovvertire il sistema oligarchico al potere per dare voce alle ragioni dei salariati delle botteghe, dei più poveri, degli ultimi.

In mezzo a tutto questo – prima attrice assoluta della storia del secolo XIV e baricentro dell’intreccio narrativo del romanzo – la peste nera del 1348, che sconvolse non solo Firenze e l’Italia, ma tutta l’Europa, decimandone la popolazione in una ecatombe senza precedenti.

Sono una realtà dura ed una società violenta quelle dove l’autrice colloca i suoi personaggi e in cui i poveri tribolano e faticano a sopravvivere, mentre l’emergente borghesia cittadina sgomita senza troppe remore morali per competere e per emergere attraverso il successo negli affari. In ogni caso è una società faziosa e propensa allo scontro e alla violenza, tanto pubblica e politica, quanto privata. È un mondo in cui ai figli si assegnano nomi di animali, come Orso, Lupo, Falco – i tre figli di Torello del Verro, maestro beccaio e poi priore della propria Arte, non una delle sette maggiori, ma la prima delle minori – forse perché ferini sono per lo più i rapporti umani e sociali, soprattutto quelli maschili. E così Torello, rimasto precocemente vedovo della prima moglie Berta, scambia il primogenito Orso con un carretto, un cavallo e l’ingresso nella corporazione, a lui corrisposti, perché privo di figli maschi, da Mastro Pecora, influente e scaltro membro dell’Arte dei beccai, presso la bottega del quale, al Mercato Vecchio, Torello aveva appreso il mestiere di macellaio.
Professione questa scelta quasi per vocazione, avvertita quando, ancora bambino, Torello aveva per caso assistito alla macellazione di una grande vacca chianina dallo sguardo docile e mansueto, che con una dignità ignota agli uomini aveva affrontato davanti ai suoi occhi la morte.

Per rappresentare tonalità e timbri di un mondo così aspro e duro, l’autrice ricorre ad immagini, lessico ed aggettivazione fortemente sensoriali, in cui prevalgono il rosso cupo ed intenso del sangue, grondante dai coltelli affilati dei macellai ed il suo odore pungente, di cui è intrisa la terra battuta del fondaco di Torello del Verro e degli altri beccai e che fa impazzire gli animali che, percependolo, avvertono la morte imminente. Oppure il puzzo della carne da troppi giorni macellata, che nella stagione calda presto si decompone e più in generale gli odori grevi e sgradevoli, più spesso i fetori delle vie e dei vicoli di una grande città medievale come Firenze.

Le vicende narrate sono principalmente quelle della famiglia di Torello del Verro, che, prematuramente rimasto orfano, viene avviato al mestiere di beccaio, apre la propria bottega ed ottiene un successo tale negli affari da meritarsi non solo una posizione influente all’interno dell’Arte, ma addirittura il suo governo. Si sposa due volte, prima con Berta, per la quale nutre una passione fatta più di istinto che di sentimento, poi con Amelia, che gli fa conoscere la passione dell’amore. Donna colta ed istruita, figlia di uno speziale, Amelia – uno dei personaggi più importanti ed interessanti del romanzo – apprende dal padre Gerundio la scienza delle erbe e delle piante officinali e assieme a queste coltiva anche uno spirito indipendente ed una capacità di pensiero libero di certo inconsueti e difficilmente accettabili come tratti della personalità di una donna medievale.

Da Amelia Torello ha due figli, il primo – Lupo – nasce con metà volto sfigurato da una orrenda malformazione, che lo destinerebbe alla morte il giorno stesso della sua venuta al mondo se, come vogliono le convinzioni del tempo, quella deformità altro non sia che la prova di un immondo contatto col demonio. Lupo si salva per la ferma volontà della madre, assecondata da Torello, che lo destina però ad una vita di assoluto isolamento, di segreto ritiro e separazione dal mondo nella casa in campagna del nonno speziale, privato del battesimo e degli altri sacramenti, di fatto così confermato nella sua condizione di reietto, di corpo estraneo alla società civile e religiosa insieme. Lupo dalla madre eredita l’acutezza e l’intraprendenza intellettuali e nella sua forzata clausura laica legge, studia, apprende il mondo pur non vivendolo, pur non sperimentandolo.

Falco, il figlio minore, cresce invece nell’agio della casa che le fortune della bottega hanno permesso a Torello di acquistare e viene avviato al mestiere del padre, per il quale però non avverte alcuna inclinazione, a differenza del fratellastro maggiore Orso, che al mestiere di beccaio era stato avviato da quel Mastro Pecora al quale il padre lo aveva venduto quando era bambino.

E al palazzotto di Torello del Verro si recano, perché convocati dal padre morente, i tre figli ad inizio primavera del 1348, poco prima che in città si scateni l’inferno, poco prima che si abbatta sull’intera Europa una mannaia ben più pesante, affilata, tagliente dello strumento di lavoro di Torello e capace di compiere una mattanza che neppure l’intera Arte dei beccai, così assuefatta alla morte, al sangue e al loro odore, avrebbe potuto immaginare: l’epidemia della peste nera.

Di questo tratta la prima parte del romanzo, che inizia con Torello sul letto di morte e si sviluppa come un flashback che rievoca i momenti principali dell’intera vita del mastro beccaio e Prima, Durante e Dopo (la peste) sono chiamate le tre parti in cui si articola la narrazione. Protagonista assoluta della seconda parte è la malattia, che sovverte ogni assetto, che sconvolge il mondo, che, proprio come vogliono le raffigurazioni tardo medievali della morte “trionfante” e “danzante”, travolge e coinvolge tutto e tutti, senza distinzioni, preferenze o privilegi: servi e padroni, miserabili e potenti, poveri e ricchi, contadini e cavalieri, popolani, nobili, re ed imperatori, laici e religiosi, virtuosi e malvagi, innocenti e colpevoli. È la Grande Livellatrice che semina terrore ed angoscia, ma al contempo e almeno in parte, disordinando l’ordine, riordina il disordine della società, cancellando, almeno dinanzi alla morte, quelle differenze che già un secolo prima movimenti pauperistici e mendicanti avevano denunciato.

E proprio nel momento in cui la Natura sembra abortire se stessa, producendo solo aberrazione e morte, è Lupo, il figlio deforme, il prodotto malato e sbagliato della Natura, il frutto del demonio che assurge al ruolo di guida, assumendosi il compito di mettere in salvo un piccolo gruppo che si rifugia nell’isolamento della casa in cui sono cresciuti lui e la madre Amelia, in campagna, a Ponte a Mensola. E quella piccola comunità, che riunisce i tre fratelli – Orso, Lupo e Falco – e la loro madre, Vanna, moglie di Orso ed altri uomini, donne, bambini e serve, aggiuntisi al gruppo per caso e tra questi anche Fiorenza, una meretrice scappata dal bordello, costituisce un microcosmo in cui si producono gli stessi comportamenti e le medesime reazioni che dinanzi a quell’implacabile flagello si verificano in ogni parte d’Europa.

C’è chi, come Orso, neppure di fronte alla morte resiste alla avidità e abbandona il rifugio, torna a Firenze per cercare nella casa paterna una preziosa cintura con la fibbia d’oro e così facendo corre incontro alla malattia e muore sul letto del padre, nell’estremo ed assurdo tentativo di prendere possesso, almeno come cadavere, di quanto Torello, abbandonandolo bambino da Mastro Pecora, gli aveva sempre negato.

C’è poi Vanna, la moglie di Orso, vissuta nel timore e nel rispetto di Dio e della religione fino all’arrivo della peste, che non esita però ad abbandonare il figlio, legandolo ad un ulivo, durante il viaggio di trasferimento dalla città a Ponte a Mensola, erroneamente credendolo ammalato di peste. Anche i vincoli più stretti, i sentimenti più forti come l’amore materno vengono stravolti dall’impeto della paura della morte. La stessa Vanna poi, alla ricerca del marito che non fa ritorno dalla città, decide di tornare a Firenze e dopo aver ritrovato il cadavere ormai putrefatto di Orso, sconvolta ed inebetita, entra in una di quelle ricche dimore in cui vivono i signori del popolo grasso, a cui in altri tempi non avrebbe neppure osato avvicinarsi. Ma ora che tutto è sconvolto, che ogni ordine è sovvertito, varca la soglia di quel palazzo che il potente notaio suo proprietario ha trasformato in una sorta di postribolo carnevalesco, in cui si pratica ogni vizio, soprattutto della gola e del sesso, nella disperata speranza di poter sfuggire alla morte godendo smodatamente e viziosamente di ogni piacere terreno.

Ma il disordine dei valori, l’infrazione dei limiti morali e la perdita di se stessi nel vizio sono solo alcune delle possibili conseguenze prodotte dalla mortifera pestilenza sulle azioni degli uomini, perché altri comportamenti egualmente irrazionali, seppur di opposto segno, procedono dalla medesima causa. È il caso di Falco che nelle settimane del ritiro e dell’isolamento a Ponte a Mensola via via si chiude nelle sue letture ossessive delle Sacre Scritture e matura la scelta di abbandonare quella piccola comunità per chiedere l’accesso al monastero di Camaldoli. La sua è una scelta di vita claustrale indotta per lo più dall’angoscia e dallo smarrimento dinanzi alla vanità delle transeunti cose del mondo e della vita stessa, che la peste si è incaricata di mettere in evidenza. Una sorta di fuga dal mondo e dalla vita per paura della morte.

Ad affrontare con maggiore equilibrio e compostezza il pericolo costante della morte e la vita segregata di quella piccola comunità che cerca l’isolamento dal circostante mondo appestato sono due personaggi femminili: Amelia e Fiorenza. La prima all’intelligenza e alla conoscenze apprese dal padre speziale aggiunge la saggezza dell’età avanzata, dell’esperienza della vita e del mondo ed affronta la vita che le rimane, la malattia e la morte con sereno equilibrio. La seconda, la prostituta, è una donna sicura di sé e conscia della propria bellezza, padrona del proprio corpo, nonostante lo metta in vendita per professione. È, insomma, ella stessa maestra di un’arte, come Torello o gli altri maestri delle botteghe fiorentine; la sua è l’arte della sensualità, non del sentimento dell’amore, ma del piacere amoroso, sessuale, che padroneggia e dispensa con maestria e della propria arte vuole rendere partecipe anche Lupo, quel giovane ombroso e misterioso, apparentemente incapace di contatto umano, che indossa perennemente un pesante pastrano con cappuccio, tagliato e cucito apposta per coprire la mostruosità della metà sfigurata del suo volto.

E Lupo è un personaggio chiave del romanzo di Paola Presciuttini, perché in un mondo che, travolto dal morbo sconosciuto ed invincibile, si abbandona all’irrazionalità, alle superstizioni o alla fede, cerca di tenere acceso il lume della ragione e non si accontenta di spiegare la peste come conseguenza di una eccezionale congiuntura astrale, o della corruzione dell’aria, o come terribile ma giusta punizione divina degli smisurati peccati dell’umanità, o come vendetta diabolica attuata per mezzo di agenti perversi del maligno come gli ebrei. Proprio lui che per necessità è stato escluso dalla grazia di Dio, dalla fede e dal conforto dei sacramenti ricorre all’uso della ragione che lo guida nell’osservazione della Natura. Convinto che da Dio non possa venire alcun male e a maggior ragione una malvagità come la peste, va alla ricerca di una spiegazione sensata cercandola dentro alla natura, dentro al mondo, tra gli uomini che decide di studiare ed osservare, abbandonando anche lui il rifugio di Ponte a Mensola e l’isolamento dal mondo, che era stata la sua condizione di vita sicura fino a quel momento, per andare in città, per registrare, ispezionare e riflettere. La sua è la curiosità spregiudicata dell’uomo di scienza, che non si accontenta delle risposte già disponibili ed intraprende l’esplorazione di nuovi territori ancora sconosciuti.

In questo lavoro sorretto dalla cultura classica che gli ha insegnato che le malattie, come la rabbia, possono essere trasmesse dagli animali all’uomo, intuisce la spiegazione esatta della trasmissione del morbo pestilenziale, che attribuisce ai tanti ratti morti da cui è letteralmente invasa la città di Firenze, ma le sue intuizioni così come la sua Cronaca rimarranno lettera morta e non incontreranno fortuna nella Firenze degli anni successivi alla più terribile epidemia di peste della storia.

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La Controfigura https://www.carmillaonline.com/2015/05/01/la-controfigura-eduardo-rozsa/ Fri, 01 May 2015 21:00:27 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=21985 di Luisa Catanese 

Prima parte 

bp16Si celebrava il Nono centenario dell’università. Il Rettore aveva già distribuito lauree ad honorem a un principe, a un re, a un paio di imprenditori, a Madre Teresa di Calcutta. Per la classe dirigente di domani si pensò di organizzare una gita estiva a Bologna e dintorni. I rappresentanti delle associazioni studentesche arrivarono da buona parte dell’Europa e del mondo per discutere non so più di che cosa. Del futuro, immagino. Cosa ci facevo lì? Perché una sera di giugno mi fu concesso di giungere in pullman [...]]]> di Luisa Catanese 

Prima parte 

bp16Si celebrava il Nono centenario dell’università. Il Rettore aveva già distribuito lauree ad honorem a un principe, a un re, a un paio di imprenditori, a Madre Teresa di Calcutta. Per la classe dirigente di domani si pensò di organizzare una gita estiva a Bologna e dintorni. I rappresentanti delle associazioni studentesche arrivarono da buona parte dell’Europa e del mondo per discutere non so più di che cosa. Del futuro, immagino.
Cosa ci facevo lì? Perché una sera di giugno mi fu concesso di giungere in pullman fino alla fortezza di San Leo, dove il Magnifico Rettore aspettava la gioventù di quattro continenti, e poi di salire a bordo di uno dei due piccoli battelli da cui, all’inizio per scherzo, con gli altoparlanti ci si chiamava, si dibatteva, si litigava, tra i flutti opachi e le luci della Riviera?
«Il gelato era buono, tutto è molto bello, ma siamo venuti qui per discutere di questioni serie», sostenevano i delegati del Sud America.
«Gli abbiamo anche spazzato il culo… Dammi il microfono», borbottava un capo degli studenti bolognesi.
Mi ero imbucato. Una trafila di minimi eventi, un convergere di piccole scelte e casualità mi portarono al cospetto del Rettore; ma dubito che sarei entrato nella sua fortezza, se poche ore prima non avessi conosciuto Eduardo. Ero uno studente di Lettere, non facevo ancora parte di associazioni o collettivi studenteschi, ma incontrai per strada una compagna di corso che contribuiva a organizzare il convegno. Così in quei giorni, per le vie della città, all’università, nello studentato che ospitava le delegazioni straniere, chiacchierai con molta gente. Gente perduta per sempre, mi viene da pensare a volte, come tanti altri, ragazze e ragazzi, conosciuti all’estero nelle vacanze studio o nei viaggi per l’Europa. Riesco a rintracciare solo certi nomi, alcune facce nella Rete, ma è come se fossero tutti consegnati all’aldilà. Ne ritrovo qualche appunto scolorito anche fra vecchie lettere, biglietti, agende macerate, pile di quaderni reclusi in un cassetto.
Ecco il ghanese Alfred: «La politica degli Stati Uniti e quella dell’Unione Sovietica non sono la stessa cosa. Non credo che tu possa parlare di imperialismo allo stesso modo».
Il bulgaro Ognian Zla*ev: «Ci sono molti socialismi, diceva Olof Palme. A me piace il suo, il modello svedese».
Un cileno, lavandoci le mani, in bagno: «Ora è meglio. Non ce ne siamo ancora liberati, ma…»
L’altissimo Emídio Guerre*ro, Partido Social Democrata, per i portici di via Indipendenza: «Hanno applaudito a lungo e mi hanno chiesto se volevo diventare un dirigente. Ho chiarito che ho idee di destra. Eccomi qui. E perché dovrei vergognarmi di dire che sono di destra?»
Un tedesco: «Lo dico spesso. Non sono fiero di essere tedesco, ma sono fiero di vivere a…»
Alcuni iugoslavi: «Croazia. Veniamo dalla Croazia».
Altri iugoslavi: «Davvero ti hanno detto così?»
Il cortese, mite professore che accompagnava Dusko e gli altri iugoslavi: «No, ti confondi, il Nagorno Karabakh…»
All’assemblea plenaria, che si riuniva in una grande aula dell’ospedale universitario Sant’Orsola, nessun cartello mi aveva impedito di entrare. Gli interventi venivano tradotti all’auricolare da alcune voci di donna. Ricordo il delegato giapponese, che ci invitò a scegliere il suo paese per passare la vecchiaia, e tre ragazze, del collettivo di Lettere e Magistero, sedute dietro di me, che contestarono aspramente l’intervento di uno studente italiano. È curioso che di quei giorni non sia rimasta nella mia memoria nessuna ragazza, eccetto Lidia, Cira e Serena, che già conoscevo di vista, che avrei conosciuto meglio gli anni seguenti, dopo Tienanmen, dopo la caduta del Muro di Berlino, quando, come loro, cominciai a far parte di collettivi studenteschi, a intervenire alle assemblee, a occupare l’università… Ricordo molto meglio l’irruenza, la passione, l’efficacia oratoria di Eduardo. Sapeva tenere la scena, era a proprio agio, si sentiva a casa. Aveva sorriso, si era presentato, aveva scherzato, aveva svelato qualcosa della sua complicata genealogia. Un comunista ungherese, uno studente quasi trentenne che ci parlava in spagnolo, risvegliava l’attenzione e poi gli applausi dell’assemblea attaccando il governo di un altro stato del Patto di Varsavia. Ci spiegò che la minoranza ungherese in Romania era oppressa dal regime di Nicolae Ceausescu: ai magiari si proibiva di parlare la lingua madre, con la scusa di modernizzare il paese erano stati demoliti alcuni loro antichi villaggi.
Finita l’assemblea mi presentai. Quando gli risposi che ero lì per curiosità, che non rappresentavo nessuno, mi prese in simpatia. Non credo mi sospettasse un agente in borghese che recita la parte dello sprovveduto. Mi vedeva come uno sprovveduto autentico, come un giovanotto inesperto su cui esercitare il proprio fascino. Non avevo molto da dire, ma forse gli piacevo: ascoltavo, ascoltavo molto volentieri, e lui, che parlava bene la mia lingua, si confermava come una fonte di sorprese, aneddoti, motti di spirito, notizie di prima mano. Eduardo era uno che sta dentro, che ha in tasca il tesserino per entrare ovunque, che sembra conoscere tutti quelli che contano, che sa fare di tutto; ma allo stesso tempo si mostrava affabile, gioviale, espansivo: gesticolava, raccontava barzellette, esibiva la mimica facciale di un caratterista.
Usciti dall’aula, ci fermammo. Al saluto cordiale di Eduardo la cervice taurina, l’intero corpo del delegato cubano si torse e ci puntò. Eduardo aveva lavato i panni sporchi davanti a una platea che comprendeva amici incerti, avversari, probabili nemici: aveva rotto l’unità del fronte socialista e anti-imperialista. Tanto meglio, pensavo. Mi persuadevo di aver incontrato uno strano, nuovo esemplare di comunista che si ostinava e riusciva a lottare all’interno della dolorosa parodia di un sogno millenario che si era affermata, consolidata, imbalsamata nei regimi del cosiddetto socialismo reale. Perciò lo seguii e mi fu consentito di salire in pullman: lungo la strada che ci avrebbe portato a San Leo ascoltai le sue barzellette, scherzai, feci amicizia e scambiai il mio indirizzo con lui e con altri. Eduardo se ne andò da Bologna prima della chiusura del convegno. Aveva molto da fare in patria e altrove. Di lui mi restò nel portafoglio un biglietto da visita color argento:

RÓZSA GYÖRGY EDUARDO
Budapest
Ajtósi Dürer sor 5. II/1
H-1146      Telefon: ***

L’estate successiva, l’agosto del 1989, viaggiavo con lo zaino in spalla per l’Europa insieme al mio amico Daniele. Da Vienna avevo telefonato a Eduardo Rózsa, che aspettava il nostro treno a Budapest. Ci accolse alla stazione assieme a un uomo che lo aiutò a porgere dei calici e a stappare una bottiglia di champagne.
«Manca solo il tappeto rosso», disse Daniele.
Avrei preferito una doccia, un letto. Sotto i vestiti sgualciti e una patina di sudore il mio stomaco era vuoto, ma Eduardo ci convinse a cambiare le nostre priorità. Per sgravarci dello zaino ci accompagnò all’ostello, che per la maggior parte dell’anno era uno studentato, dove lui era ben conosciuto: «Possiamo fare la doccia al bagno turco. Siete mai stati? Non è tanto lontano. Mangiamo dopo. Vi accompagno a un ristorante, poi potete tornare qui a riposarvi. Vi abbiamo trovato una stanza da due».
Sempre più stanchi, accaldati, scendiamo dal tram, che ha percorso un tratto della riva sinistra del Danubio, attraversiamo un ponte e finalmente varchiamo la soglia dei Bagni Rudas, all’ombra delle rocce e dei boschi di una collina di Buda.
Dopo una doccia scomoda, piuttosto fredda, sbrigativa, ci copriamo con una pezza di tessuto bianco che ricorda il gonnellino degli Apache, un minuscolo grembiule legato in vita che lascia nude le natiche. Sono sicuro che Eduardo veda il mio imbarazzo: «Non so che parte coprire», dico. Sono cresciuto con la paura dei microbi: «Se mi siedo, lo devo girare?». Fin da bambino mi hanno insegnato che non si poggiano le chiappe sulla panca di uno spogliatoio.
Entriamo e usciamo da piscine più o meno calde, tra uomini anziani e corpulenti. Restiamo noi tre sotto una cupola traforata, in una grande vasca ottagonale, dove Eduardo continua a raccontarci secoli di storia: le terme romane, i Mongoli, Mattia Corvino, i Turchi, i Bagni Rudas…
«Qui hanno girato un film americano… Dopo Conan il Barbaro e Terminator questa volta era un poliziotto russo».
Daniele discute con Eduardo, mentre mi estraneo, capisco le battute in ritardo, calo in un torpore demente, amniotico, oltre la fame e la stanchezza. Non sono un uomo d’azione né un guerriero.
Mi azzardo a dire: «Sembra di stare in un film di Fellini».
«È tranquillo, c’è silenzio. Una volta mi ero addormentato… E mi sveglio che c’era un grassone che mi toccava il cazzo».
«E tu?»
Eduardo ride con tutta la sua faccia larga: «Non mi aveva chiesto il permesso. Gli ho tirato un colpo sulla fronte, così…»
Si parla di politica. «No, non credo che siamo pronti per la democrazia. Io sono per la monarchia costituzionale».
Pensa che sia giusto limitare i poteri del moderno principe o dai vapori delle vasche siamo riemersi nel secolo scorso? Il viaggio, il digiuno, l’acqua calda bastano a fiaccarmi, dalle gambe alla testa. Non reggo il ritmo. Usciti dalla stazione, Eduardo ci ha parlato degli ungheresi che presero parte alla spedizione dei Mille di Garibaldi, di Emilio Salgari che si ispirava a Garibaldi per inventare i suoi eroi, del giovane Che Guevara che leggeva i romanzi di Salgari. Sono confuso. Ho sempre sentito dire che il regime ungherese è il meno autoritario tra quelli dell’Est, che le condizioni di vita sono migliori. C’è più libertà, si vive meglio. E a guardarsi intorno sembra vero. Non riesco a comprendere, però, quali siano i dissidi interni al partito, non capisco come si collochi Eduardo. Di quello che sta succedendo in Ungheria capisco poco: un processo lento, graduale, condotto per lunghi decenni dal segretario János Kádár, un cambiamento che da qualche anno anticipa, o forse cerca di prevenire, quel crollo del socialismo reale di cui assai presto tutti parleranno.
«Io sono per la monarchia costituzionale», dice sorridendo.
Sono quasi convinto che Eduardo vada preso alla lettera: lo guardo con una faccia incredula, indignata, più che altro idiota.
Usciamo dal bagno turco e, non so come, arriviamo a sederci in un ristorante di Pest, sull’altra riva del fiume, all’aperto. La brezza che spirava lungo il corpo del fiume arriva fino ai nostri tavoli. Beviamo vino rosso, mangiamo carne cruda macinata, tuorlo d’uovo crudo, salse, pepe, paprika. Eduardo tiene la scena che ha allestito; e tra una scena e l’altra non mancano i siparietti. Vuole essere tutto. È un laureando in Lettere, ha appena scritto un saggio sul romanzo Venerdì o il limbo del Pacifico di Michel Tournier e mi sembra di capire che potrebbe ricavarci una tesi, ma non gli basta. Un romanzo è la vita che ha vissuto e che vuole vivere ancora. Parla più lingue di un diplomatico, e nei fatti lo è già; è segretario della gioventù comunista della Università Loránd Eötvös senza avere l’aspetto e le posture del burocrate. Per noi è la migliore guida turistica possibile: un cicerone poliglotta, un viaggiatore dalla cultura multiforme. Penso che abbia la stoffa dell’animatore; conosce, non nasconde tutte le malizie dell’accompagnatore, ma sarebbe riduttivo, sarei ingiusto, perché lo vedo padrone di sé e mi sembra sincero anche quando recita. Dopo il bagno turco, ora che mangiamo carne alla tartara, decide di buttarla in farsa: indossa la maschera dell’Orco, dell’Ungaro medievale; gonfia il petto, tende i muscoli, arcua le braccia unendo quasi i pugni, altera la voce, imita un feroce urlo di battaglia, a metà tra «Hungary» e «hungry». Sappiamo che Eduardo non è un cavaliere leggendario, un nomade della steppa turanica; ha antenati ungheresi, ebrei, spagnoli, e forse, se ho ben capito, sudamericani. Malgrado la sua attitudine a recitare e a farsi benvolere, nessuno potrebbe considerarlo un impostore: la storia della sua vita e della sua famiglia impongono rispetto. Daniele gli ha chiesto di raccontare le sue avventure, che conosciamo entrambi solo in parte.
Perché si chiama Eduardo? Perché è bilingue, anzi poliglotta?
Ne ha parlato il giorno in cui ci siamo incontrati a Bologna, gli abbiamo chiesto di riparlarne per le strade di Budapest, lo invitiamo a parlarne ancora al ristorante, e i suoi genitori, che ci ospiteranno a cena dopodomani sera, non potranno fare a meno di tornare a raccontare il loro passato.

Dei parenti di György Rózsa, padre di Eduardo, in Ungheria non rimane nessuno. Il nonno fu fucilato dalle Croci frecciate, i nazisti ungheresi. Risparmiavano le munizioni: legavano tre prigionieri con filo di ferro, sparavano a uno, gettavano nel Danubio il grappolo umano. Gli altri parenti del padre, ebrei, non c’erano più. I nazisti e i loro camerati magiari avevano sterminato mezzo milione di ebrei ungheresi, mentre gli altri, circa duecentomila, talvolta con l’aiuto di diplomatici stranieri come lo svedese Raoul Wallenberg, erano riusciti a trovare un precario rifugio nel proprio paese, a ottenere i documenti o a guadagnare una qualsiasi via per espatriare. Quello che successe a György durante la Seconda guerra mondiale, quando aveva tra i sedici e i ventidue anni, non mi è affatto chiaro. Eduardo ci disse che il padre, non riesco a ricordare quando, era scappato con uno zio, ma forse mi sbaglio… Ho letto però che nel 1942, in piena guerra mondiale, prima che il governo ungherese consegnasse gli ebrei stranieri ai nazisti, prima che la maggior parte degli ebrei ungheresi fosse sterminata nelle camere a gas, il giovane pittore György Rózsa avrebbe vinto il terzo premio a un improbabile concorso internazionale per arti figurative, a Firenze. Un ebreo, credo già comunista, forse con documenti falsi, forse no, per ritirare un premio o con la scusa di ritirare un premio, sarebbe dunque passato da Firenze, in quell’Italia fascista che già quattro anni prima aveva espulso tutti gli ebrei stranieri, compresi quelli ungheresi. Non so che cosa sia successo. Non so se György Rózsa dall’Italia sia poi fuggito rifugiandosi da qualche parte; non so se in Ungheria sia tornato prima o dopo la fine della guerra. Sono trascorsi molti anni, e la memoria del mio compagno di viaggio Daniele in questo non ci aiuta. Potremmo chiedere spiegazioni soltanto alla sorella di Eduardo, l’unica persona della sua famiglia che non abbiamo conosciuto nell’agosto del 1989, l’unica che oggi sia rimasta in vita.
Dopo la guerra, nel 1948, mentre gli stalinisti prendevano il potere, György era emigrato da Budapest a Parigi dove gli era stata assegnata una borsa di studio in storia dell’arte. Si fece conoscere come pittore, cominciò a dedicarsi al teatro. Nel 1952 prese parte a una spedizione etnografica e archeologica francese in Bolivia e qui decise di stabilirsi, prima a La Paz e poi Santa Cruz de la Sierra. Era la città in cui era cresciuta Nelly Flores Arias, un’insegnante di liceo, cattolica, di origine spagnola, anzi catalana. Dal matrimonio di Nelly e György nacquero un figlio, Eduardo, e poi una figlia. A Santa Cruz de la Sierra, negli anni Sessanta, il padre di Eduardo divenne conosciuto e stimato come insegnante, pittore, scultore, drammaturgo, scenografo, architetto… Abitava ancora in Bolivia con i famigliari quando Ernesto Che Guevara fu ucciso a La Higuera, nel dipartimento di Santa Cruz.
Fu un evento che cambiò le loro vite. György, che tutti in Bolivia chiamavano Jorge, e che ormai si sentiva a casa, era un comunista e come comunista non poteva astenersi dall’attività politica. Era un intellettuale marxista, un fondatore di istituzioni culturali e laboratori artistici, un organizzatore di cultura e forse anche di altro. Il professore ungherese non era Che Guevara, ma si dava da fare. Chi si impegna per trasformare la società corre dei rischi: la storia non finisce, e nemmeno si prende una pausa, per lasciar crescere i tuoi figli in pace. La famiglia di Eduardo fu costretta a lasciare la Bolivia per il colpo di stato del generale Hugo Banzer e si rifugiò in Cile alla vigilia del colpo di stato del generale Augusto Pinochet. Fuggirono anche dal Cile, vissero per breve tempo in Svezia.
«Mi mancava la luce, d’inverno, faceva troppo freddo», diceva Eduardo. «Quel temperamento, quel modo di vivere non era per me».
Nel 1974 decisero di tornare in Ungheria, dove gli anni peggiori erano passati.
«Il periodo post-stalinista…», diceva il figlio.
«Il periodo neo-stalinista…», correggeva il padre.
Si cenava nel soggiorno di casa loro. Si parlava dell’insurrezione ungherese nell’autunno 1956, dei due interventi delle forze armate sovietiche, dell’eliminazione di Imre Nagy, della lunga stagione di János Kádár. Erano argomenti che prevedevo, da cui mi aspettavo risposte su cui misurare le divergenze di opinione tra il figlio e il padre, che però non sembrava un uomo loquace.
Si era parlato, sempre in italiano, anche di Giuseppe Garibaldi, America Latina, Simón Bolívar, Grande Colombia, Panama, Bolivia… Ero il più silenzioso. Avevo poco da dire e molto da ascoltare. Non mi sentivo un figlio della borghesia colta, non ero diplomato al liceo classico, l’ultimo anno delle superiori avevo trascurato lo studio della Storia perché non era uscita come materia della maturità, all’università non avevo ancora preparato esami sugli ultimi cinque secoli. Daniele partecipava alla discussione, mostrava di sapere di che cosa si parlava. Mi sentivo superfluo, anche se Eduardo, che stava seduto di fronte a noi, con lo sguardo non mi ignorava.
Mentre Nelly Flores, in spagnolo, loquace quasi come il figlio, confrontava la Bolivia e la Colombia, parlava di cocaina, di criminalità e di case presidiate da telecamere, mi guardavo intorno. Alle mie spalle ricordo una piccola cucina; a sinistra della tavola si estendeva il soggiorno spazioso, sobrio, poco illuminato, le cui finestre si affacciavano sul Parco della città, verso Piazza degli eroi. Dietro ai due uomini della famiglia Rózsa si apriva un disimpegno da cui subito si entrava nella stanza di Eduardo.
Mentre in camera sua ascoltavamo dischi in vinile, tra cui il discorso di un comizio spartachista e l’Internazionale, mi accorgevo, con vergogna e rimorso, di covare gelosia per l’intesa che avvertivo crescere tra Eduardo e Daniele, e di non riuscire più a nascondere una blanda, vaga ostilità nei confronti del nostro ospite. Cercavo di spiegarmi, di giustificare le ragioni del rancore: ero invidioso di uno che la sapeva lunga, che sapeva giocare e forse vincere su troppi tavoli? Ci aveva ubriacati in un’enoteca, vicino al castello di Buda, nei cui cessi avevo vomitato vino rosso francese, ci aveva fatto accomodare in un grande caffè stile liberty dove nel primo Novecento avevano discusso intellettuali come György Lukács, ci aveva portati in una sinagoga e poi a pranzo in un ristorante ebraico, ci aveva permesso di visitare fuori orario un locale dove alcuni suoi amici dalla faccia molto abbronzata giocavano a biliardo, quella sera ci avrebbe accompagnati al grande parco di fronte a casa sua per assistere alle prove di uno spettacolo e, se avessimo voluto, per ballare, stretti con altri ragazzi e ragazze, le danze tradizionali dell’Ungheria.
Gli ero grato, lo stimavo per la sua versatilità, apprezzavo la sua disponibilità, la sua generosità nel condividere la sua ricchezza di memorie, di esperienze, di rapporti umani. Avevo passato quei giorni a dire: figurati, grazie, non dovevi, non disturbarti, sei proprio gentile. Facevo più complimenti di una nonna campagnola a casa dei consuoceri cittadini benestanti. Avevo bisogno di trovare una buona ragione per i fastidi, per il sospetto, per il mio senso di minorità.
A Eduardo, in fondo, si poteva perdonare l’indulgenza, o meglio la pacatezza, che suo padre però non dimostrava, verso il regime e verso i carri armati sovietici. Si poteva considerare il grande busto di Stalin, che con malizia aveva collocato all’ombra della sua scrivania, dunque ai suoi piedi, come un poderoso motto di spirito. Non avevo diritto di biasimarlo. Il suo ruolo di dirigente dei giovani comunisti si reggeva sulla capacità di temperare talento ed esuberanza nella lenta prudenza delle riforme: forse lui riteneva che questo accasarsi, questo radicarsi nelle istituzioni, non privo di benefici, fosse un modo efficace per trasformare la società, per rendere costituzionale, come aveva detto, il potere del sovrano. Ma c’era qualcosa di troppo.
Avevamo ascoltato dischi, avevamo visto un cartone animato in cui il monarca, il guerriero, l’umanista Mattia Corvino, vestito da viandante, percorreva le strade del suo regno, prendeva coscienza delle sofferenze del popolo, interveniva per riparare i torti e le ingiustizie perpetrate dai sudditi malvagi contro i sudditi più poveri. È il momento giusto per chiedere a Eduardo chi abbia dipinto le due grandi tele appese tra la finestra, aperta, e l’ingresso della camera. Posso prendermi una piccola rivincita.
«Quale ti piace di più? Attento a rispondere bene».
«Quello di tuo padre è meglio, Eduardo. Si vede che lui è un vero pittore».
«Sei un po’ stronzo, amico mio».
«Sei bravo, ma non si può essere un genio in ogni cosa».
Oltre alla scrivania, altarino sacrilego del Piccolo padre, oltre a un grande letto, abbastanza largo per dormire comodo con la fidanzata ufficiale, insieme ai quadri, ai dischi, a un minuscolo televisore, nella sua camera ci sono libri, riviste, giornali, piccoli trofei, ricordi. Scrive per l’agenzia Prensa Latina di Cuba e per la stampa ungherese. Ci mostra articoli e interviste di cui è autore o protagonista, e poi la sua foto su un quotidiano e sulla copertina di una rivista. Sulla stessa rivista ha pubblicato alcune poesie, nella lingua del padre.
Dopo più di venticinque anni non sono sicuro di ricordare l’ordine dei piccoli fatti, delle parole che ci siamo detti in quella stanza, ma sono sicuro che lì, in quel momento, con quella rivista tra le mani, ho sentito di aver scovato una buona ragione per giustificare la mia diffidenza. Per me, studente di ventuno anni, moralista imbelle, rivedibile alla visita militare, piccolissimo borghese che sta per iniziare a far politica nell’ateneo di una città che di solito è giudicata a misura d’uomo, sicura, se non fosse che… Per me, qualcosa di troppo è scrivere poesie nella strana lingua di tuo padre per una rivista delle forze armate ungheresi.
«Non hai abitato sempre qui, ci dicevi che parli il russo, che hai studiato anche là. Non era uno scherzo, vero?»
Prima di iscriversi alla facoltà di Lettere, Eduardo ha frequentato una scuola militare nel suo paese, ma poi ha studiato per qualche tempo a Mosca, all’Accademia dei servizi segreti dell’Unione Sovietica. Lo dice come per gioco. Non riesco a capire se vuol farci intendere che si è stancato o se ha portato a termine il corso, magari scrivendo distici elegiaci per le forze armate ungheresi. Immagino che la ragione sociale dei servizi di spionaggio e controspionaggio non sia solo organizzare complotti, colpi di stato, attentati. L’intelligence, come si dice ora, ha bisogno di gente istruita, versatile, scaltra, poliglotta: analisti, esperti di crittografia, traduttori, interpreti, accompagnatori di uomini d’affari e diplomatici stranieri. Ora il compagno Rózsa si impegna in patria, per il cambiamento: lavora e compie missioni al confine tra l’Ungheria e la Romania. Proprio domani mattina si recherà da quelle parti, in auto, poi verso il tramonto procederà a cavallo o a piedi. Forse si spingerà oltre frontiera. Ci sono persone che in Romania hanno bisogno di lui: «Ti ricordi quello che dicevo a Bologna?»
«Andrai in Transilvania travestito, come Mattia Corvino?»
E potrei forse riderne ancora, magari con un po’ di disagio, ripensando a noi due, a lui, a noi tre in quella stanza, se non sapessi che Eduardo pochi anni fa è morto, è stato ucciso in una camera d’albergo, molto lontano dall’Ungheria.
Tornerà presto a Budapest, prima che io e Daniele, col passaporto timbrato dall’ambasciata cecoslovacca, proseguiamo il nostro viaggio in treno verso Praga.
Dalla finestra spalancata un alito di vento porta un clamore, come di applausi. Eduardo ci dice che a meno di un chilometro da casa sua, allo stadio, parla un predicatore americano.
«Glielo lasciano fare?», gli chiedo per niente stupito.
Oggi, quando siamo entrati nella sinagoga per poi accedere a un museo sugli ebrei dell’Ungheria, sono rimasto sbalordito davanti a un’enorme bandiera israeliana spiegata davanti alle schiere delle panche vuote.
«Mi aspettavo un luogo di preghiera», dico mentre sento crescere in me una rabbia che riesco a motivare solo in parte.
«Ti aspettavi Cavour? La divisione tra Chiesa e Stato? Non è così. Non funziona così. Il mondo non fa quello che ci aspettiamo per renderci la vita più semplice», mi dice Daniele che ancora all’ingresso del museo mi sente sragionare, sia pure sottovoce. Eduardo ci spiega che un importante uomo politico israeliano sta visitando la capitale, ma io continuo a sbraitare anche davanti alle prime foto del museo, tanto che Eduardo, avvicinato da un guardasala o da una guida, che forse in parte comprende i motivi della mia ostilità, ha il buon senso di decidere che è meglio affrettare la fine della visita. A volte ci ripenso, con la vergogna di chi ha detto troppe parole ingiuste invece di poche e giuste.
«Billy Graham si chiama. È un predicatore americano, protestante. I suoi sermoni attirano molta gente, come uno spettacolo. Riempie gli stadi. Una volta non avrebbe avuto il permesso».
«Ma tu, Eduardo, sei religioso?»
Sua madre è credente, molto cattolica, di famiglia così cattolica da questionare se lui porta la fidanzata in camera; suo padre, invece, grazie a Marx, dice Eduardo, è ateo. Mi pare di capire che Eduardo non sia credente, anche se vuole avere le carte in regola per qualche aldilà; o forse sì, potrebbe essere deista come i dollari americani: «In God we trust». Comunque sia, credente, ateo osservante o altro, non mi sembra una malignità pensare che trovi conveniente aggiungere la tessera di altri club al suo portafoglio.
«Sono dalla parte dei palestinesi. Alla comunità di Budapest noi abbiamo proiettato quel filmato in cui due soldati israeliani spaccano il braccio a un palestinese con il calcio del fucile. C’erano alcuni vecchi che, per non vedere e non sentire, voltavano le spalle allo schermo e pestavano i piedi».
Toglie da una piccola scatola, che sta nel cassetto della scrivania, una catenina d’oro da cui pendono una stella di David e un croce latina.
«Quel predicatore riesce a riempire lo stadio di Budapest. Un po’ di gente è arrivata in pullman. Molti ci vanno per curiosità».
Però non gli interessa. Si sente più legato alla tradizione cattolica. Ci dice che lui da qualche tempo ha simpatia per l’Opus Dei. Ha avuto dei contatti con alcuni austriaci e spagnoli. Sembra che ne voglia diventare un membro, se non lo ha già fatto.
Ormai tutto è così eccessivo e inverosimile che non riesco a credere che lo dica sul serio: deve essere un’altra scusa, una ragione in più per andare in vacanza all’estero, per introdursi in certi ambienti, per acquisire credenziali, per trovare nuove vie di accesso o di fuga. Forse sente arrivare il terremoto, prevede che un’ala del grande edificio del Partito potrebbe crollare. Ma questi pensieri scivolano via, penso che in fondo sia un vezzo, un modo per giocare a vivere molte vite.
Sembra che a molti una sola vita non basti: reincarnazione, oltretomba, corsi di recitazione e, in anni più recenti, nomi di battaglia per i piccoli schermi. Da decenni, o da secoli, puoi leggere romanzi lunghissimi senza farti alcun male, puoi vedere ogni giorno senza fatica film d’azione e serie televisive, ma c’è chi desidera lasciare le periferie poco illuminate, chi vuole uscire di casa e andare a letto per ultimo, chi decide di vincere anche a costo di far vincere un altro se stesso. Non è il caso di Eduardo, penso. Lui, con tutto il suo egocentrismo, crede nel socialismo, vuole riformare il socialismo. Certo non è un Garibaldi né tanto meno un Che Guevara; ritiene che il cambiamento si diriga dall’alto, è disponibile a impiegare tutto il suo estro per recitare più di un ruolo all’interno delle gerarchie e delle istituzioni, comprese le forze armate e i servizi di informazione della sua patria socialista. I collettivi universitari, a cui questa primavera abbiamo cominciato ad avvicinarci io e Daniele, per lui sono aggregati di giovanotti velleitari, anarchici, poco più che ranocchi gracidanti in uno stagno.
«L’Opus Dei è roba spagnola, vero? Ne ho sentito parlare in Matador o in Donne sull’orlo di una crisi di nervi…»
«È internazionale», ghigna Eduardo.
Anche se fosse già incorporato nella Società Sacerdotale della Santa Croce e Opus Dei, preferisco pensare che sia un particolare irrilevante. Con Eduardo si parla del mondo intero mentre si gioca e si ride. Eduardo non ha scrupolo a vantarsi di quando ha fornicato con un paio di hostess assieme a un amico; e il pudore post-edenico inoculato dalla buona famiglia cattolica della madre, cresciuta ed educata provvidenzialmente nella città di Santa Cruz, non lo frenerà dall’invitarci domani in una piscina per nudisti.
Insomma, non riesci a sentirlo come un amico, come un individuo di cui ti puoi fidare, ma il suo fascino un po’ cialtrone, teatrale, carnevalesco, riesce a compensare i rancori, i sospetti per cui provi rimorso. Con lui te la spassi, hai il piacere sadico di ridere toccando qualche nervo scoperto della storia mondiale. Nessuno può prevedere che all’inizio del nuovo secolo, mentre le forze armate degli Stati Uniti faticheranno a consolidare l’occupazione dell’Iraq, Eduardo diventerà vice presidente dell’associazione dei musulmani ungheresi e che, poco più tardi, avrà rapporti sempre più stretti ed espliciti, o se non altro ambigui, con l’estrema destra ungherese.
Salutiamo i suoi genitori, usciamo dall’appartamento di Ajtósi Dürer sor, finiamo la serata al Parco della Città assistendo alle prove di uno spettacolo di danze della tradizione popolare ungherese. Due giorni dopo incontriamo Eduardo, ritornato dalla sua missione alla frontiera rumena, e giriamo ancora insieme a lui, sentiamo per l’ultima volta l’odore dell’ostello e della città. Se ci si allontana dalle colline di Buda o dal Danubio, ancora una volta sembra che l’aria sappia di asfalto, polvere, vestiti male asciugati, che l’aria del grande fiume ristagni come in una Pianura Padana che fugge sempre più lontano dal mare. Ma che cosa pretendo mai di sapere: sono solo un turista. Forse ciò che annuso è l’odore di questi pochi giorni, di questi mesi, dei vestiti che togliamo dallo zaino.
L’ultimo giorno che passo a Budapest non voglio certo andare in piscina. Non voglio spogliarmi e restare completamente nudo davanti a lui. Trova molto divertente la mia ritrosia: «In Ungheria non siamo pudichi come voi in Italia».
«Anche Malcolm X da giovane non voleva essere spiato nei cessi pubblici mentre pisciava…»
Quando andiamo in giro con Eduardo, spesso mi vergogno. Perciò non vedo l’ora di salutarlo e di partire con Daniele per Praga. Per strada, in tram, in metropolitana, in filobus, non importa dove ci si trovi, più di una volta si è messo a cantare delle canzoni di lotta, in italiano, e noi le abbiamo cantate con lui. Conosce Bella ciao, I morti di Reggio Emilia, Contessa, La ballata del Pinelli, Fischia il vento. Ma quando cantiamo l’Internazionale, quando Eduardo ci canta e ci traduce inni ungheresi, penso a tutti i cittadini muti che ci stanno intorno, donne e uomini che immagino con l’espressione attonita già intravista negli ascensori, negli autobus o anche nelle strade più affollate della mia città. Per loro questi sono canti di liberazione o jingle di regimi che detestano? Forse mi vergognerei anche se una parte del pubblico partecipasse: e allora canto, canto come gli altri due, non posso evitarlo, ma un po’ mi vergogno, come fino a pochi mesi fa mi sentivo a disagio se discutevo in autobus con Daniele di poeti italiani contemporanei.
È arrivato il momento di salutarci. Eduardo raggiungerà alcuni suoi amici, che forse passano l’intera giornata in piscina; noi tra non molto, dopo pranzo, torneremo all’ostello a prendere gli zaini e poi raggiungeremo la stazione, dove proverò sollievo e dispiacere. Penso che la colpa sia mia, del mio rancore, del mio disagio. Devo crescere: viaggiare per il mondo, leggere libri, studiare per gli esami, fare politica, fare sesso. Non sono sicuro che ti rivedrò, Eduardo Rózsa, anche se te lo prometto, anche se tutti e tre promettiamo di tenerci in contatto, e siamo sinceri. Ci abbracciamo; sembra che Eduardo sia tornato una sola persona, un solo corpo che ci vuole bene. Lo salutiamo ancora dal vetro posteriore del tram mentre scivoliamo via sui binari: una figura sempre più piccola che ci saluta agitando le braccia e si congeda per sempre sollevando il braccio sinistro a pugno chiuso.

Eduardo Rózsa non fu l’unico volto, l’unico incontro di quel lungo viaggio in treno, iniziato in Austria e Ungheria, che ci portò in Cecoslovacchia, Germania Ovest, Belgio, Francia. Eduardo non restò in cima ai miei labili pensieri estivi: Sergej, Heike, Anja, Letizia, Wing May non mi interessavano meno di uno studente trentenne che forse millantava un ruolo nei servizi segreti ungheresi. In autunno, mentre crolla il Muro di Berlino, poco prima che sia fucilato il dittatore rumeno Nicolae Ceausescu, che lui tanto odiava, ci daremo da fare all’università di Bologna: seminari, volantini, manifesti, occupazione di aule, autoriduzione in mensa, corteo, contestazione al Rettore. A gennaio del 1990 occuperemo la nostra università per più di due mesi, così come faranno gli studenti italiani che detestano l’Italia di Giulio Andreotti, di Bettino Craxi, delle tivù di Silvio Berlusconi: «Noi da qui non ce ne andremo più». Solo quando l’occupazione volgerà alla fine mi deciderò a telefonare a Eduardo dall’Ufficio Erasmus occupato, la prima porta a sinistra del Rettorato, che i primi giorni d’aprile è ancora il Centro stampa del Movimento.
Mentre noi, la Pantera, occupavamo da più di un mese, alla fine di febbraio i sandinisti hanno perso le elezioni in Nicaragua, e io quella sera ho preferito smaltire la delusione dormendo nel letto di casa invece che in facoltà. Giorgio, un compagno di Scienze politiche che è là in Nicaragua per scriver la tesi, ci ha raccontato al telefono che i sandinisti, malgrado i bruciori di stomaco, non hanno intenzione di insorgere contro il nuovo governo. Ora, invece, in aprile, si attendono i risultati delle elezioni in Ungheria, le prime, dopo molti decenni, in cui i cittadini potranno scegliere fra più partiti. Non mi aspetto, non spero nulla dalle elezioni in Ungheria, dico a me stesso, anche se prima o poi, in un modo o nell’altro, mi piacerebbe che per qualche prodigio della Storia si uscisse dal «socialismo reale» per entrare in un socialismo più vero.
Per avere notizie telefono a casa di Eduardo, che è contento di sentirmi, ma si lamenta: «Non hai risposto neanche alla mia cartolina con gli auguri di Natale e Capodanno».
Gli dico che siamo impegnati da mesi nell’occupazione; chiede di me, di Daniele, dei miei studi, degli esami.
«Allora, vincete?»
«No, Alberto, non vinciamo».
«Sarà per la prossima volta, allora».
«Nemmeno la prossima volta. Ci vorrà molto tempo».
Lo richiamo da casa, quando l’estate è alle porte, con più calma, questa volta a spese dei miei genitori: «Quando vieni a trovarci in Italia?»
Presto sarà a Venezia per lavoro, ma si fermerà solo qualche giorno, i tempi sono stretti: «No, ho messo la politica a riposare per un po’. Scrivo per un giornale spagnolo».
Ha trovato una strada per andare avanti e se la cava assai bene, penso, malgrado il suo passato o proprio grazie a quel capitale accumulato negli anni. Mi chiede di raggiungerlo a Venezia, ma anch’io ho molto da fare: quasi tutta una vita. Passano anni prima che mi decida a richiamarlo. Non ricordo quante volte provo; gli telefono più di una volta, ma senza riuscire a parlargli, forse tra il 1994 e il 1999, dalla casa dei miei o dal piccolo appartamento in cui vivo con la mia compagna. Soltanto in anni più recenti comincerò a ricercare per la Rete i nomi delle persone che non vedo da anni. Perciò, quando la sua voce risponde al telefono, della nuova vita di Eduardo non so ancora niente.
Non gli dispiace di sentirmi, ma sembra in attesa di qualcosa: come se cercasse di estrarre dalle mie parole il movente della chiamata. Mi risponde che i suoi genitori non vivono più con lui. È stato corrispondente di guerra nell’ex Iugoslavia. Ha girato e vissuto all’estero per alcuni anni. Scrive poesie e ricordi di quella guerra…
«Il fascismo sparisce», gli dico, «ma si moltiplica nei suoi discendenti di formato ridotto. Sembra che nei Balcani si faccia la gara a chi è più fascista».
Mi risponde che il tiranno è la Serbia: «Io vivo per combattere i tiranni».
«Sei ancora legato ai comunisti?»
Non ha nulla a che fare con loro. Il bolscevismo ha tradito le sue promesse, ha negato l’autodeterminazione degli individui e dei popoli.
Non ricordo altro. Non sono nemmeno sicuro di avergli parlato. Forse rammento un sogno.
Sono certo invece di averlo chiamato in anni più recenti. Avevo scoperto con molto ritardo che, nel 2001, Eduardo aveva interpretato se stesso in un film, presentato e premiato a diversi festival, un film che raccontava la sua vita, dall’infanzia alla guerra di secessione della Croazia. In Croazia era andato come giornalista, corrispondente del quotidiano La Vanguardia e collaboratore della BBC, o anche, mi venne poi da pensare, come agente segreto ungherese. Nell’autunno del 1991 era avvenuta, si direbbe, una svolta: si era arruolato nella Guardia nazionale croata, con il nome di battaglia Chico, per combattere le milizie serbe in Slavonia. Aveva fondato e diretto la Prima unità internazionale dell’esercito croato, aveva fatto parte delle forze speciali, era stato ferito più volte e decorato, aveva ottenuto il grado di colonnello, gli avevano concesso l’onore della cittadinanza croata e nell’estate del 1994 era stato congedato.
«Te l’ho detto. Non sono loro i fascisti. Dovresti essere qui per giudicare», rispondeva al padre.
«E io dico e ti ripeto che gli ustascia sono fascisti. Non ti ricordi che i fascisti hanno ucciso tuo nonno?»
«No, non lo sono. E se dici che loro sono fascisti, allora sono fascista anch’io».
Del film avevo visto pochi passaggi. Temevo di velare le mie poche certezze con un altro filtro, di saldare in una nuova compiuta narrazione le ambiguità, le contraddizioni, forse le menzogne, che giacevano come ossa spezzate nella mia memoria. Ricordavo il busto di Stalin in camera sua, l’impegno a favore della minoranza magiara di Romania, ricordavo anche le battute in cui mostrava indulgenza se non proprio simpatia per la Lega Nord di Umberto Bossi. Siamo quasi tutti intossicati di finzione: potevo immaginare qualsiasi complotto, mescolando i suoi racconti sul Golem impazzito, l’Opus Dei, l’apprendistato a Mosca, le sue missioni come giovane agente dei servizi segreti. Ma allo stesso tempo mi sentivo autorizzato a pensare che ci sono persone che nascono in alto, o ci arrivano, e vogliono rimanerci a ogni costo.
«A Zelig set in contemporary international hot zones», avevo letto in un sito che mi rivelava l’esistenza di altri film in cui Eduardo aveva interpretato ruoli secondari.
«Vorrei parlare con Eduardo Rózsa? È la casa della famiglia Rózsa? Il signor Eduardo Rózsa… Lei lo conosce?»
Una voce maschile, che rispondeva in inglese al mio inglese, aveva riso: «Certo, tutti lo conoscono».
Non abitava più in quelle stanze che ci avevano accolto una sera di estate del 1989. Dopo aver combattuto in Croazia e aver interpretato l’ultima versione di se stesso nel film Chico, Eduardo continuava a recitare altri ruoli. L’avevo cercato per sentire se aveva qualcosa da dirmi, ma non avevo più intenzione di sforzarmi per trovare un nuovo recapito. Tutto quello che scoprivo di lui, se era vero, lo leggevo, talvolta lo decifravo a fatica sulla Rete, da siti e articoli scritti in lingua spagnola e ungherese, raramente in inglese. Rovistando nel suo passato, senza aver la possibilità di verificare quanto leggevo, il disagio cresceva, prevaleva sulla curiosità e sullo stupore.
Scoprivo che all’inizio del 1991, quando era stato inviato in Albania come giornalista, aveva favorito la partenza degli ebrei albanesi verso Israele, dove era stato per qualche tempo a visitare i luoghi santi. Leggevo che in anni recenti, dopo l’attentato al World Trade Center, o meglio dopo che gli Stati Uniti avevano invaso l’Iraq, si era convertito alla religione musulmana ed era diventato il vice presidente della comunità islamica dell’Ungheria. Si era recato per ragioni umanitarie, come inviato dei musulmani del proprio paese, ma forse anche prima della conversione, in Palestina, Indonesia, Sudan, Iraq, Iran. Negli anni Ottanta e anche più tardi, aveva avuto contatti con il venezuelano Ilich Ramírez Sánchez, condannato all’ergastolo nelle galere francesi, conosciuto come Carlos o anche come lo Sciacallo.
Chi era costui? Lo avevo già sentito nominare… Era un rivoluzionario di professione o un terrorista internazionale o un mercenario, secondo i punti di vista, un marxista-leninista legato ai servizi segreti dell’Est, nonché membro del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, che in anni più recenti sosteneva di avere abbracciato una versione socialista dell’Islam politico radicale. Che rapporto c’era tra Eduardo e Ilich Ramírez? Eduardo, poco prima che io e Daniele lo conoscessimo, era stato la sua guida turistica, il suo interprete, in Ungheria, dove Ilich Ramírez aveva vissuto per alcuni anni. E proprio per questo Eduardo, nel 1991, era stato coinvolto in un processo che nel suo paese fece scalpore. Era un lavoro, obbediva agli ordini, rispettava la legge: fu assolto.
Avevo spedito una lettera per avvisare Daniele, che già viveva a Milano e lavorava all’Università di Bergamo. Daniele non aveva risposto, come se la e-mail non gli fosse arrivata. O forse l’aveva ricevuta, ma era rimasto così segnato da quel che poi aveva letto sulla Rete da cancellare le mie parole scrivendoci sopra le nuove. La nostra memoria umana viene assiduamente raschiata dal trascorrere del tempo come un antico palinsesto di cartapecora, che serba e cela i tenui graffi delle scritture precedenti.
Alcuni mesi dopo Daniele mi telefonò per dirmi che aveva scoperto il film Chico e la nuova vita del compagno Eduardo. Aggiunse qualcosa che ancora non sapevo. Uno scrittore francese, Mathias Énard, aveva pubblicato un romanzo, non ancora tradotto, in cui si parlava di un Eduardo Rózsa. Nel libro si raccontava che, ai tempi della guerra per l’indipendenza della Croazia, Eduardo fu sospettato di aver ucciso un giornalista svizzero e un fotografo inglese, infiltrati o incorporati nella brigata internazionale che lui comandava. Lessi poi che i due indagavano su un traffico internazionale di armi.
Mentre Daniele mi parlava, Eduardo viveva gli ultimi mesi della sua vita. Poteva essere la fine del 2008 o una data qualunque che preceda il 16 aprile 2009, il giorno in cui Eduardo fu ucciso a Santa Cruz de la Sierra, la città in cui era nato il 31 marzo 1960.
A volte la verità colpisce come un pugno in faccia: una scarica di parole che ascolti di sfuggita e capisci solo quando riprendi i sensi, con i gomiti puntati a terra. A qualcuno può perfino capitare di rialzarsi in piedi e non ricordare bene quello che è appena successo. Sono una persona che rumina i pensieri a lungo, e che troppo spesso capisce in ritardo. Sono una persona piuttosto comune. Quella primavera mi sentivo come se, arrivato in cima a una collina, avessi posato un sacco pieno di pietre. Avevo combattuto e stavo vincendo una lunga battaglia segreta di cui non potevo vantarmi. La mattina seguente mi sarei svegliato alle sei e venti per andare al lavoro, ma potevo dire a me stesso: abbiamo casa e reddito; ci amiamo, conviviamo da anni, abbiamo deciso di festeggiare con un matrimonio.
Mi ero seduto a tavola per cenare, cambiavo i canali con il telecomando, non so che cosa cercassi di vedere e ascoltare. Una notizia veloce, solo una foto che scompare dallo schermo mentre alzo la testa. Qualcuno è stato ucciso dalle teste di cuoio in Bolivia. Faceva parte di un commando che progettava l’assassinio del presidente Evo Morales. Il sicario, mi pare di sentire, sarebbe un certo Rosa Flores.
Eduardo non si chiama Flores. Non mi ha mai detto che si chiama Flores. Non mi ricordo. Sul biglietto da visita argentato c’è scritto Eduardo György Rózsa. Sulle lettere che mi ha spedito scriveva Eduardo Rózsa. Al telegiornale non ho sentito dire Eduardo. Non ricordo il cognome di sua madre. Mi sembra di ricordare che lei fosse colombiana. Non ha senso, non esiste un movente: perché Eduardo dovrebbe uccidere Evo Morales? Evo Morales non cerca di affermare la sovranità della nazione sulle risorse della Bolivia?
I giorni seguenti non leggo il giornale. Per settimane, mesi, forse per un paio di anni, non ci penso più, finché una folata della storia mondiale agitando le chiome dei miei nervi si incarica di ripetere la verità con maggiore chiarezza.
Eduardo György Rózsa Flores, figlio di György Rózsa e Nelly Flores Arias, è stato ucciso, assieme ad altri due uomini, dalle forze speciali boliviane nell’albergo Las Americas di Santa Cruz de la Sierra.

[Qui la seconda parte]

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