Fiom CGIL – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 30 Apr 2025 21:35:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Senza chiedere permesso https://www.carmillaonline.com/2015/02/19/senza-chiedere-permesso/ Thu, 19 Feb 2015 21:30:16 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=20768 di Sandro Moiso

senza chiedere permessoIl documentario di cui sto per parlare, almeno formalmente, non è ancora stato distribuito, ma costituisce sicuramente una delle testimonianze più forti della memoria operaia della Detroit italiana, Torino. Una testimonianza diretta, autentica e documentata, da quel Fiat-Nam che sconvolse l’orgoglio padronale, la politica italiana e gli equilibri di classe tra l’autunno caldo e il 1980.

Si tratta di “SENZACHIEDEREPERMESSO” di Pietro Perotti e Pier Milanese e, probabilmente, per poter essere distribuito nelle sale o come DVD avrà bisogno anche dell’aiuto di chi sta leggendo queste righe. Ma procediamo con ordine.

Pier Milanese, da almeno un trentennio, [...]]]> di Sandro Moiso

senza chiedere permessoIl documentario di cui sto per parlare, almeno formalmente, non è ancora stato distribuito, ma costituisce sicuramente una delle testimonianze più forti della memoria operaia della Detroit italiana, Torino. Una testimonianza diretta, autentica e documentata, da quel Fiat-Nam che sconvolse l’orgoglio padronale, la politica italiana e gli equilibri di classe tra l’autunno caldo e il 1980.

Si tratta di “SENZACHIEDEREPERMESSO” di Pietro Perotti e Pier Milanese e, probabilmente, per poter essere distribuito nelle sale o come DVD avrà bisogno anche dell’aiuto di chi sta leggendo queste righe. Ma procediamo con ordine.

Pier Milanese, da almeno un trentennio, si occupa di produzione e post-produzione cinematografica (in pellicola e video) su un terreno di impegno militante in quel di Torino. Mentre Piero Perotti, oggi ufficialmente pensionato, è una delle memorie storiche della classe operaia piemontese e delle azioni sindacali e sociali, messe in atto per migliorarne le condizioni di lavoro e di esistenza e per contrastare le “bronzee leggi” del capitale, fin dagli anni sessanta.

Insieme e nel corso di diversi anni hanno raccolto una serie di materiali straordinari sulla lotta di classe a Mirafiori, fuori e dentro la fabbrica, tra il luglio del ’69 e l’autunno del 1980.
Molte immagini, collezionate all’interno del film, provengono dalla cinematografia militante di quegli anni, ma ciò che costituisce il cuore di questo documento audiovisivo è dato dalle immagini “rubate” dallo stesso Perotti alle manifestazioni operaie e ai cancelli dello stabilimento Fiat con la piccola cinepresa portatile che aveva deciso di procurarsi proprio a tale fine.

In un’età di tablet, smart-phone, telecamere portatili o miniaturizzate in qualsiasi cellulare e di selfie, ci si dimentica troppo facilmente quanto fosse difficile, qualche decennio addietro, documentare gli eventi. Anche quelli che, a differenza di quelli fin troppo documentati di oggi, erano destinati a cambiare il rapporto tra le classi a favore dei diseredati.

Tra il 1969 e gli anni settanta, la classe operaia di uno dei più grandi stabilimenti automobilistici del mondo cambiò le regole del gioco. Le immagini del film ce ne trasmettono tutta la potenza, la creatività, anche la violenza spesso sufficientemente espressa, quest’ultima, più in potenza che in atto. Fu, in quegli anni, la classe operaia torinese l’epicentro di uno scontro globale che fece tremare le fondamenta dell’edificio costruito sulla base dello sfruttamento di classe.

Per questo, più tardi nel 1980, avrebbe dovuto pagare un prezzo altissimo. Avrebbe dovuto essere spogliata della sua capacità di resistenza, organizzazione ed iniziativa, politica e sindacale, per essere restituita, nuda, alle sue condizioni iniziali di sottomissione e dipendenza dall’iniziativa avversaria.

Il film documenta benissimo, in maniera spesso commovente, soprattutto per chi ha vissuto quegli anni alle porte della FIAT, tutto ciò. La formazione di una coscienza, lo sviluppo delle lotte e della solidarietà di classe, la capacità di reagire uniti su richieste egualitarie ed unificanti e quella di reagire alle provocazioni messe in atto dall’azienda, dai crumiri, dai fascisti e dalla polizia. Una forza immensa era entrata nell’arena della Storia; sì, proprio quella con la S maiuscola.

Donne e uomini, immigrati meridionali e lavoratori piemontesi lottavano uniti, creavano uniti un nuovo modo di fare politica ed attività sindacale, marciavano uniti per le strade prima del quartiere, poi della città. Una città dormitorio che si risvegliava a se stessa, riscoprendo l’orgoglio della classe operaia del primo novecento, del Biennio Rosso, degli scioperi spontanei del ’43 e della lotta antifascista. La storia di quella Torino, operaia e socialista, che aveva contribuito alla formazione del pensiero di Gramsci e della nascita, insieme a Napoli, del Partito Comunista d’Italia.

Tutto questo, forse, molti di quegli operai l’avrebbero imparato dopo, eppure ripresero il cammino proprio là dove era stato interrotto dalle repressione antisindacale ed antioperaia, ancor prima che anticomunista, degli anni cinquanta. E che aveva visto un primo, selvaggio risveglio, fuori da qualsiasi direttiva partitica o sindacale, proprio nei fatti di Piazza Statuto del luglio 1962.

Molti di loro erano in fabbrica da anni, molti, forse i più, erano entrati alla Fiat in seguito alla recente emigrazione dal Sud o al rientro dalle fabbriche tedesche. Simili a una moderna creatura di un capitalismo novello dottor Frankenstein, avevano imparato ad odiare il proprio creatore e a combatterlo. Ovunque, dentro e fuori gli stabilimenti.

I cortei interni, le perquisizioni dei guardiani alle porte, i volantinaggi, i fuochi dei picchetti, gli studenti con i giornaletti dell’estrema sinistra, il blocco della produzione, gli scioperi spontanei: tutto è documentato con un ritmo serrato, accompagnato dalla narrazione personale e vivace di Pietro Perotti. Così che, ancora una volta, la memoria personale si mescola con la memoria di classe, rifondandola. Come quasi sempre accade.

Non nei testi accademici, non nelle tesi di Partito, non nelle logiche politiche e nelle strategie sindacali, ma nella voce narrante, ancor più che in qualsiasi forma scritta, noi ritroviamo la memoria e la Storia delle classi subalterne. Subalterne soprattutto sul piano della comunicazione. Soprattutto là dove la comunicazione è scritta, dove la sintassi è ancora un’arma del padrone e, ancor più, lo è lo strumento televisivo, o radiofonico come ai tempi del Duce.

Per questo il gesto di Pietro, comperare ed imparare ad usare una piccola cinepresa, diventa così grande ed importante. Non solo per noi che, ora, possiamo usufruire di quelle straordinarie immagini, ma anche per l’epoca. Un’altra barriera veniva abbattuta, appunto senza chiedere permesso, precedendo di poco la nascita delle radio libere. La lotta operaia, ancora una volta, inventava una nuova cultura e nuova comunicazione. Di cui Pietro si fece portatore anche negli anni successivi all’abbandono della fabbrica, attraverso i suoi manifesti e i suoi mascheroni che accompagnano ancora tante manifestazioni.

marx alle porteSuo era il grande ritratto di Marx che, appeso alle porte della palazzina di Mirafiori, avrebbe assistito, ammutolito e attonito, all’ultima battaglia degli operai della città-fabbrica. La più amara.
Quella in cui si consumarono, durante i 37 giorni dell’autunno del 1980, tutti i tradimenti sindacali e politici possibili. Quella con cui l’intera classe dirigente italiana , a partire dalla famiglia Agnelli fino al PCI di Berlinguer, aveva deciso di restaurare l’ordine e il comando sulla forza lavoro. Con un costo altissimo per tutta la classe operaia italiana.

E, sotto questo punto di vista, le immagini parlano e dicono più di ogni commento. Negli anni precedenti i lavoratori di Mirafiori avevano occupato il territorio. Erano diventati punto di riferimento per gli operai di tutto l’indotto Fiat e per quelli degli altri settori produttivi. Per gli studenti, gli operai, per i soldati inquadrati nei Proletari in divisa, per ogni settore della società. Avevano guardato fuori, al mondo e lo avevano fatto proprio.

Nei 37 giorni, tra il 10 settembre e il 16 ottobre 1980, gli operai che sono fuori dalle officine guardano verso l’interno della fabbrica. Un rovesciamento di prospettiva che prelude soltanto alla sconfitta. I grandi viali sono alle loro spalle e sono esclusi dalle officine. Guardano il balletto degli oratori, con capofila Berlinguer e i leader sindacali, che altro non fanno che illuderli e deviarli verso la resa. Che avverrà con una votazione truffa dopo la marcia dei quarantamila. Truffaldina anche quella, nei numeri e nei partecipanti.

I capi sono stati affluire da tutta Italia. In realtà non sono più di 10 – 12.000 (questa anche la prima cifra ufficiale della prefettura). Il corteo ha un carattere decisamente reazionario e antioperaio […] Nel pomeriggio,incontro Fiat -sindacati. Alle 22,30 la segreteria GGIL- CISL – UIL e la FLM vanno <<all’accertamento dell’ipotesi conclusiva>>. Tre ore di corteo di 12.000 capi sembrano valere di più per Lama, Carniti e Benvenuto, di 35 giorni di lotta di 100.000 operai e di milioni di lavoratori scesi in piazza al loro fianco in tutta Italia […] All’alba (giorno successivo) l’apparato del PCI è mobilitato ai cancelli per convincere i suoi militanti che bisogna accettarla1

La marcia dei 40.000, che nel 1980 segnò i destini della lotta dei 35 giorni alla Fiat si sarebbe potuta fermare, non farla neanche partire”. E’ quello che sostiene Pietro Perotti nel film. E probabilmente ha ragione, ma sarebbe occorso che gli operai della fabbrica più grande d’Italia tornassero a fare quello che avevano fatto nel decennio precedente, ogni volta che si era presentata l’occasione: occupare le strade e la città.

Ma in quel momento, una volta allontanati dalle officine, con gli arresti o i licenziamenti, tutti coloro che avevano guidato le lotte, i reparti non reagirono più allo stesso modo. La stanchezza e la sfiducia presero il posto del coraggio, della sfida e della lotta. Con una sapiente regia del sindacato e del Partito comunista. Soprattutto della federazione torinese del Partito che annoverava tristi figuri del calibro di Piero Fassino e di Giuliano Ferrara.

Le conseguenze si fanno sentire ancora adesso a Melfi, in quel che rimane degli stabilimenti torinesi, nel job act e nella spocchia di Marchionne e di Renzi. Quello fu un appuntamento storico e tutti i carnefici di adesso possono rallegrarsi ancora di quella sconfitta.
A noi rimangono la memoria di momenti gloriosi e di volti magnifici. Sconosciuti e conosciuti che, per chi ha avuto la fortuna di vivere quegli anni e quelle lotte, non possono non far spuntare lacrime di nostalgia, di tenerezza e di rabbia. Che ci accompagneranno sempre.

Il film, però, come si diceva all’inizio, per essere completato ha bisogno anche del vostro aiuto. Parzialmente finanziato dalla Fiom-CGIL, grazie alla disponibilità dimostrata all’epoca della sua ideazione da Giorgio Airaudo, ha oggi bisogno del soccorso di contributi in crowd funding.
Per questo gli autori vi chiedono di sottoscrivere la loro raccolta fondi inviando un bonifico all’Iban qua sotto, specificando nella causale:
SENZACHIEDEREPERMESSO, con il vostro nome e indirizzo mail
intestato a:
Cinefonie.
Banco Desio
IT28V0344001000000000490500

In ricordo di Rocco Papandrea, Raffaello Renzacci, dei militanti operai di Lotta Continua e di tutti gli altri 70.000 che fecero tremare il mondo per il solo fatto di esistere e lottare, coscienti e auto-organizzati.


  1. Con Marx alle porte. I 37 giorni alla FIAT, Nuove Edizioni Internazionali, Milano novembre 1980, pp. 41-42  

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l’Ilva ha il destino segnato https://www.carmillaonline.com/2013/06/17/lilva-ha-il-destino-segnato/ Mon, 17 Jun 2013 19:45:38 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=6724 di Gianmario Leonevendola_riva_prestigiacomo.jpg

[Questo articolo è stato pubblicato sulla testata locale “TarantoOggi” e su quella on line Inchiostro Verde il 15 giugno]

Alla fine anche i sindacati sono costretti ad uscire allo scoperto. Ammettendo che, come scriviamo da tempo immemore, l’Ilva è oramai una fabbrica che è stata abbandonata al suo destino dal gruppo Riva e che è destinata a non essere mai più il maggiore siderurgico europeo. Perché l’allarme lanciato ieri dagli esecutivi di Fim Cisl, Fiom Cgil e Uilm Uil, fa il paio con quello dei mesi scorsi degli operai, che denunciarono come il sistema di sicurezza interno [...]]]> di Gianmario Leonevendola_riva_prestigiacomo.jpg

[Questo articolo è stato pubblicato sulla testata locale “TarantoOggi” e su quella on line Inchiostro Verde il 15 giugno]

Alla fine anche i sindacati sono costretti ad uscire allo scoperto. Ammettendo che, come scriviamo da tempo immemore, l’Ilva è oramai una fabbrica che è stata abbandonata al suo destino dal gruppo Riva e che è destinata a non essere mai più il maggiore siderurgico europeo. Perché l’allarme lanciato ieri dagli esecutivi di Fim Cisl, Fiom Cgil e Uilm Uil, fa il paio con quello dei mesi scorsi degli operai, che denunciarono come il sistema di sicurezza interno del siderurgico fosse saltato del tutto.

Logica conseguenza gli oltre 15 incidenti, di cui uno mortale, verificatisi dall’inizio dell’anno ad oggi in quasi tutti i reparti dell’Ilva. Tra l’altro, non è dato sapere perché i sindacati parlino soltanto adesso: probabilmente perché la situazione è realmente arrivata al limite. Nella loro nota infatti, i sindacati parlano di una “condizione inverosimile” che si sta protraendo da tempo, con “la mancanza di approvvigionamento di materiali di consumo e ricambi”. La nota è diretta al direttore dello stabilimento siderurgico, Antonio Lupoli, ed al responsabile delle relazioni industriali, Enrico Martino.

Addirittura i sindacati segnalano “la mancanza di ricambi e di strumentazioni impiantistiche all’interno dei reparti di esercizio per la corretta marcia degli stessi”, la “mancanza di ricambi all’interno dei reparti di manutenzione che dovrebbero garantire il corretto funzionamento dei locomobili che assolvono al normale funzionamento degli impianti” e in proposito citano “autocisterne ferme per assenza di ricambi” nonché “il ritardo sul rifornimento del gasolio” e “le difficoltà di reperimento dei dispositivi di protezione individuale”. Una situazione talmente paradossale da far scrivere ai sindacati che “senza alcun intervento urgente da parte della direzione aziendale tale condotta a stretto giro potrebbe determinare la naturale fermata dello stabilimento per le ragioni in primis legate alla mancanza delle norme di sicurezza”. I sindacati hanno anche concluso sottolineando che questa situazione si è già verificata il 12 giugno in alcuni reparti e che quindi sussiste “un’impossibilità di marcia di esercizio impiantistico”.

Certo, appare irreale che all’interno del più grande siderurgico europeo, strategico per l’economia dell’ottavo paese più industrializzato del mondo, si viva alla giornata e manchino addirittura i ricambi. Che la più grande fabbrica italiana, che sostiene la produzione siderurgica e mantiene in vita comparti la gran parte delle piccole e medie imprese del manifatturiero e della meccanica, sembri una grande officina in stato di semi abbandono. Un’azienda per salvare la quale sono stati varati ben due decreti legge, sfidando l’operato della magistratura e creando per la prima volta in Italia un scontro tra poteri (legislativo e giudiziario), sembra stia per crollare da un momento all’altro. In realtà, siamo soltanto di fronte ad un lento ed irreversibile passaggio di consegne e cambi al posto di comando.

Dalla scorsa estate su queste colonne denunciamo come i Riva abbiano abbandonato al suo destino un’azienda che ha permesso loro di costruire un impero economico da tempo al sicuro nelle holding di famiglia nei mercati offshore (e smettiamola una buona volta di dire che gli 8 miliardi sequestrati preventivamente per equivalente dal gip Todisco serviranno per la bonifica e la rinascita di questa città, perché tutti sappiamo che quei soldi non li troveranno mai). Una fabbrica vecchia, irreversibilmente condannata all’estinzione. Talmente vetusta che nessuno sa indicare con esattezza quanti miliardi di euro occorrano per renderla “decente”, non certo eco-compatibile con l’ambiente circostante. Un’azienda che sarà costretta a breve a ridimensionare l’attività produttiva, non certo per problemi tecnici, ma perché costretta dal mercato internazionale. Riduzione della produttività che comporterà inevitabilmente un ridimensionamento delle unità lavorative.

Un compito che non a caso lo stesso gruppo Riva aveva affidato al manager italiano più “competente” e longevo nel campo del risanamento e della liquidazione. E visto l’addio anticipato della famiglia lombarda, lo Stato ha pensato bene di ingaggiarlo per affidargli il compito di portare avanti l’azienda, chiedendogli di garantire la continuità produttiva per i prossimi tre-quattro anni, perché in questo momento la crisi economica non permette di fare altrimenti. Gli utili incamerati dovranno servire per mantenere in piedi la baracca, garantendo il pagamento dei fornitori della materie prime e gli stipendi degli operai. Il resto, servirà da garanzia per le banche e la BEI (Banca Europea degli Investimenti) che finanzieranno parte dei lavori di risanamento per gli impianti dell’area a caldo previsti dall’AIA (il governo ha scelto Bondi anche e soprattutto per la sua figura che per le banche da sempre rappresenta garanzia certa in termini di pagamenti e soldi restituiti).

AIA che sicuramente sarà rivista dal comitato dei “tre esperti” che a breve nominerà il ministero dell’Ambiente (pare che il sub commissario sarà Edoardo Ronchi) ed allungata nei tempi oltre che annacquata nei termini. E che, come abbiamo denunciato da subito, dovrà comunque essere visionata da Bondi e dalla persona che il Cda dell’Ilva nominerà come rappresentante dell’azienda. Eppure, la storia non è ancora finita. Perché quando il presidente di Federacciai sostiene che senza un’azionista di maggioranza l’Ilva a breve si fermerà, non solo non dice il falso, ma lascia intendere ciò che a breve potrebbe avvenire. L’Ilva Spa, infatti, potrebbe presto essere mandata in liquidazione. Perché in molti forse dimenticano che i debiti finanziari totali della società ILVA Spa sono passati da 335 milioni di euro nel 1996 a 2,9 miliardi di euro nel 2011, di cui soltanto 705 milioni con le banche, corrispondenti a circa un quarto del totale.

Il rimanente 75% sono debiti finanziari nei confronti delle altre società del Gruppo ILVA e della controllante Riva FIRE Spa (oramai lontana anni luce dall’Ilva e che ha lasciato nella casse della controllata soltanto i debiti). I debiti finanziari sono aumentati soprattutto nell’ultimo quadriennio (da 1,8 a 2,9 miliardi) a causa della riduzione dei flussi di cassa provocata dai risultati negativi della gestione industriale (-805 milioni di euro). Alla fine del periodo considerato dai vari decreti e dall’AIA (2013-2016), i debiti finanziari della società salirebbero a 4.500 (50% degli investimenti per il risanamento finanziati con prestiti), 6.200 miliardi di euro (100% degli investimenti finanziati con prestiti), mentre il patrimonio diminuirebbe per far fronte alle perdite d’esercizio provocate dal peggioramento dei risultati della gestione industriale e dai maggiori oneri finanziari.

Dunque, in assenza di un consistente aumento di capitale, la società registrerebbe una significativa perdita. La conclusione è intuibile, oltre che ovvia: “senza un intervento dello Stato per alleggerire gli oneri connessi agli investimenti che l’ILVA dovrà sostenere nei prossimi anni e/o un apporto di capitali freschi da parte dei soci attuali o altri che potrebbero entrare nella compagine azionaria, la prosecuzione dell’attività dell’ILVA nel medio periodo appare molto difficile”. Bondi, dunque, quasi certamente dichiarerà il fallimento dell’attuale Ilva Spa, per ricreare una nuova società. Che non è ancora dato sapere da chi sarà composta, fino a quando vivrà e quanti lavoratori prevederà.BMa sia lo Stato che Bondi, come del resto le nostre istituzioni e sindacati, sanno perfettamente che tutto questo gioco è destinato a durare non più di qualche anno. Dopo di che ci si dovrà arrendere all’evidenza di un mercato dell’acciaio che parlerà una lingua molto diversa da quella italiana.

Se Taranto si salverà, avendo impegnato gli anni che restano prima della fine del siderurgico, ad investire in alternative economiche serie (porto con distripark e aeroporto cargo) e sulle risorse che ancora oggi offre il territorio (il mare, il turismo e l’agroalimentare), non è dato sapere. Certo, vedendo l’aria che tira, c’è poco da stare allegri. Non tanto per i personaggi che continuano a gestire la cosa pubblica, quanto per una società civile che pare non avere alcuna voglia di lottare con coerenza e serietà. E i mezzi della lotta (sulla cui liceità solo i cittadini hanno diritto di scelta e parola), non possono certamente più essere riunioni segrete, missioni a Bruxelles, inutili conferenze stampa, vuoti comunicati stampa, marce, fiaccolate, sit-in e presidi di un paio d’ore, concerti e quant’altro. O assurde letterine al Presidente della Repubblica in stile Babbo Natale. Chi ha orecchie per intendere, intenda. Una volta e per tutte.

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