Finlandia – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 02 May 2024 00:30:26 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.25 La Finlandia, il paese più felice del mondo https://www.carmillaonline.com/2023/04/18/la-finlandia-il-paese-piu-felice-del-mondo/ Mon, 17 Apr 2023 22:01:40 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76797 di Carlo Modesti Pauer

La felicità è citata nella Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti d’America del 4 luglio 1776: “Riteniamo che queste Verità siano evidenti, che tutti gli Uomini sono stati creati uguali, che sono stati dotati dal Creatore di certi Diritti inalienabili, che tra questi ci sono la Vita, la Libertà, la Ricerca della Felicità”[1]. Cosa sia la felicità, è oggetto di discussione da migliaia di anni e nell’ambito della nostra cultura da cui scaturisce il diritto ad essa, stabilito nel documento USA, [...]]]> di Carlo Modesti Pauer

La felicità è citata nella Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti d’America del 4 luglio 1776: “Riteniamo che queste Verità siano evidenti, che tutti gli Uomini sono stati creati uguali, che sono stati dotati dal Creatore di certi Diritti inalienabili, che tra questi ci sono la Vita, la Libertà, la Ricerca della Felicità”[1]. Cosa sia la felicità, è oggetto di discussione da migliaia di anni e nell’ambito della nostra cultura da cui scaturisce il diritto ad essa, stabilito nel documento USA, certamente si può farlo risalire al pensiero greco-latino. Se ne sono occupati diversi filosofi e tra loro sono più spesso ricordati Platone, Epicuro, Seneca; ai quali si aggiungeranno secoli dopo i colleghi “moderni”, come Hobbes, Voltaire, Beccaria e Verri.

Il legislatore delle colonie britanniche, affermando la fine della dipendenza dalla madrepatria oltre oceano, fissava il diritto alla felicità certamente in buona fede, seguendo un pensiero “illuminato” e legandolo indissolubilmente all’altro (complicato) termine: libertà. E non solo.

Nella Dichiarazione, sorvolando sulla venatura teologica, si dice anche “gli Uomini sono stati creati uguali”, introducendo un altro concetto fondamentale: l’uguaglianza alla nascita. E i problemi aumentano. Infatti, quando si legge “Uomini” s’intende proprio l’uomo in qualità di soggetto maschile poiché, all’epoca, la donna non godeva certo degli stessi diritti, a cominciare per esempio dal voto che le sarà concesso “solo” 144 anni dopo, nel 1920. Anche “uguaglianza” ab origine era un’affermazione tendenziosa: il figlio di un boscaiolo del Rhode Island non nasceva certo “uguale” al figlio di un banchiere di Boston.

Quanto alla “libertà”, è fin troppo noto che mentre i Padri fondatori vergavano il documento del 4 luglio, oltre 60mila schiavi neri popolavano i primi 13 Stati. Dunque, un “negro” non era uguale a un bianco, e men che meno lo erano i nativi americani, gli “indiani”, considerati né più né meno che animali selvaggi. La libertà aveva perciò un significato delimitato: era una cosa degli uomini bianchi, cristiani. Il tratto razziale fu evidente e contribuì largamente al boom economico della neonata nazione, proprio attraverso la possibilità di disporre, letteralmente, della vita di altri esseri umani ma “inferiori”, quali erano i “negri” e i “pellerossa”. I primi, commerciati in catene e poi mandati a lavorare gratis, a frustate; i secondi, vittime della feroce rapina delle loro terre ancestrali, da ammazzare e infine, concentrare i superstiti in piccole aree riservate previa deportazione[2].

I fatti costitutivi della realtà politica, contemporanea alla Dichiarazione del 1776, mostrano inequivocabilmente che donne, neri e nativi, a diverse condizioni, non erano partecipi del diritto alla felicità, dispensato dal e all’uomo bianco cristiano. Ammettendo pure, le buone intenzioni filosofiche degli estensori e mancando una definizione precisa nel testo (perché impossibile), la felicità appare perciò un’aspirazione, un diritto a cui tendere nel divenire futuro che si schiude con l’Indipendenza, appena conquistata. In questo senso, la felicità non è presente e quando sembra manifestarsi essa pare tanto sfuggente quanto effimera, episodica e di breve durata. Soprattutto, è un concetto “contenitore” e “plastico”, un termine che si può riempire e modellare variandone il significato nel tempo, dunque, anche la comprensione nella comunità dei parlanti lo stesso idioma.

Ben più complicata è la faccenda quando si presenti la necessità della “traduzione”.

Se ad esempio compariamo il significato di felicità fra inglese (USA) e cinese (Cina), postulata la precisa traduzione nelle due rispettive lingue, scopriamo che gli statunitensi tendono ad associare l’eccitazione e il successo alla felicità, mentre i cinesi prediligono collegarla alla pace e la calma. E ancora: un gruppo di ricerca misto, ha studiato i disegni nei libri per bambini che rappresentano la “felicità”, verificando che nell’editoria pedagogica taiwanese e hongkonghese questa è raffigurata con un sorriso mite, mentre nell’equivalente nordamericano il soggetto felice appare generalmente con un ampio sorriso. Non sorprende se si considera che il concetto di felicità in USA è comunemente inteso come “raggiungimento dei propri obiettivi” (individualismo) e dunque le emozioni che ne derivano sono eccitazione e orgoglio; mentre nell’estremo oriente, la concezione della felicità è incentrata sulla “fortuna” (cooperazione), perciò i sentimenti sono più simili alla gratitudine e alla soddisfazione.

Più complesso è il caso dell’Africa, dove diversi studi etnolinguistici hanno evidenziato che le parole con cui si esprimono i sentimenti sono fortemente connesse al corpo. Ad esempio, una ricerca sui i parlanti Fante e Dagbani (lingue del Ghana) ha evidenziato come i termini per definire felicità, ovvero rispettivamente “occhio d’accordo” (anika) e “cuore bianco” (suhipelli), suggeriscono quanto l’emozione (essere felice) si muova dall’interno verso l’esterno; quindi, essa dipende dal soggetto, letteralmente dall’“essere vivente” (scevro da qualunque sottinteso heideggeriano).

Allora, cosa significa oggi divulgare la notizia che “la Finlandia è il paese più felice del mondo”? Un’affermazione battuta da tutte le agenzie e rilanciata sui giornali, alla televisione e ovunque in rete, capace di scatenare interesse e discussioni a Helsinki come nei Paesi che le sono dietro, specie quelli dalla ventesima posizione in giù. Per esempio, l’Italia, già in basso rispetto all’immaginario (stereotipato) di “paese gioioso” e scesa dalla trentunesima posizione alla trentatreesima.

Prima di tutto si deve indicare la fonte della “classifica”: il World happiness report 2023, una pubblicazione annuale che analizza il livello di felicità individuale nel mondo; essa è prodotta dalle ricerche del Sustainable development network, un’organizzazione senza scopo di lucro lanciata dalle Nazioni Unite nel 2012 per promuovere l’attuazione degli “Obiettivi di sviluppo sostenibile” a livello nazionale e internazionale. Detto ciò, alla luce dell’indefinibilità del concetto di felicità, è ovvio domandarsi: perché allora si vuole misurarla e come è stato aggirato l’ostacolo dell’impossibilità?

Tautologicamente, si potrebbe rispondere che l’ONU desidera promuovere l’attuazione degli “Obiettivi di sviluppo sostenibile”, lasciando cadere il quesito: quale sviluppo? Troppo comodo. Benché “sostenibile”, la matrice ideologica sottaciuta, meglio dire astutamente data come “non ci sono alternative” (TINA), è chiaramente quella dello “sviluppo” secondo l’economia occidentale, il modello industriale dominante governato dal modo di produzione capitalista con le proprie leggi e politiche. E infatti, per superare la difficoltà di definire la felicità, sono adoperati gli “attrezzi” metodologici delle scienze sociali, i quali identificano come necessari e sufficienti, sei “fattori chiave” attraverso cui si dice sia possibile misurare la felicità. Eccoli: supporto sociale; reddito; salute; libertà; generosità; assenza di corruzione.

Il “reddito” è il fattore sintomatico, la cartina di tornasole della matrice ideologica sopra indicata, la cui natura è evidentemente etnocentrica, poiché la misurazione in dollari presume il riferimento all’uso di una moneta “globale” (un tempo si sarebbe detto “imperiale”), affatto neutrale in termini di contenuti culturali e implicazioni commerciali. Un esempio: il reddito medio d’un allevatore finlandese è 54mila $, quello di un pastore eritreo di 600 $, quasi cento volte meno. La felicità del pastore eritreo sarebbe dunque prossima allo zero. Infatti, se si rovescia il parametro come controprova, un finlandese con un reddito di 600 $ l’anno risulta messo assai peggio di un clochard che rovista nella spazzatura della stazione di Helsinki. Ne consegue che il reddito medio del pastore eritreo, dovrebbe puntare a raggiungere quello dell’allevatore “più felice del mondo” (in quanto finlandese) ma questo è intrinsecamente “etnocida”, infatti, presume la distruzione (definitiva) della cultura eritrea. Ovvero, l’idea di felicità in eritrea deve conformarsi alla concezione generale della felicità finlandese, cioè a dire, alla felicità secondo “la società dei consumi” che vige nell’economia del dollaro. Quale arroganza! Perché mai un africano delle sponde del Mar Rosso, per essere felice dovrebbe vivere come uno scandinavo del Mar Baltico? Lasciamo aperte le risposte e procediamo.

Non solo è altamente problematico il parametro “reddito”, anche la “libertà” è un nodo gordiano, a cominciare dalla più semplice delle dicotomie: individuale o collettiva?

Lasciando da parte questi problemi, il metodo del sondaggio Gallup con cui si rilevano i dati per elaborare la classifica WHR 2023, si basa sull’individuazione, cioè sull’estrapolazione della percezione individuale dell’essere felici e mostra – ancora una volta – un cluster profondamente etnocentrico, una sorta di bias cognitivo-collettivo degli analisti che induce a escludere come in moltissime culture, un singolo individuo sia incapace di dirsi “felice” al di fuori della comunità d’appartenenza, sentendosi cioè sempre parte di un gruppo umano, di un organismo più grande fondato sulla cooperazione e non già sulla competizione, com’è strutturale negli USA e nei Paesi nell’orbita della sfera cd. Atlantista, imposta dopo il secondo conflitto mondiale nel quadro della Guerra fredda, cui si aggiungono Canada e Oceania.

A questo punto, diventa istruttivo l’esame delle 14 nazioni in classifica subito dietro alla “vincente” Finlandia. Sulle oltre 150 nazioni sottoposte a sondaggio, nell’ordine – dal secondo posto in poi – esse sono: Danimarca, Islanda, Israele, Olanda, Svezia, Norvegia, Svizzera, Lussemburgo, Nuova Zelanda, Austria, Australia, Canada, Irlanda…e USA. Insieme alle questioni fin qui tratteggiate, si può notare un aspetto demografico dal sapore socioeconomico: quattordici su quindici (cioè esclusi gli USA) sono Paesi con un numero di abitanti compreso tra 375mila (Islanda) e 38 milioni (Canada) ma a superare i 20 milioni oltre al Canada c’è solo un altro gigante territoriale, l’Australia (26ml); esclusi questi ultimi due, la media tra i rimanenti è 6 milioni di ab. Questo dato demografico è indicatore di molteplici effetti, spesso “benefici”, sulle vite della popolazione, tuttavia, qui occorre solo segnalare la significativa relazione tra un numero basso di ab. e un alto reddito in $, dacché i primi 14 sono anche tra i cd. paesi più ricchi del mondo secondo il discusso standard del “PIL pro capite”. Con 332 milioni di ab. gli USA si trovano al quindicesimo posto dietro questa schiera di piccoli popoli “felici”. Viste le proporzioni si direbbe un successo, eppure, è forte il sospetto che siano un intruso. Quei parametri sembrano calibrati su misura da chi ha iscritto la parola “magica” nella propria costituzione.

Al di là di questa graduatoria, nel mondo gli USA scalano ben altre classifiche e detengono tristi primati. Quando si guarda alla “felicità”, alcuni diventano molto interessanti. Ecco, dunque, una sintetica ma significativa ricognizione: gli Stati Uniti hanno il più alto numero di detenuti del globo, oltre 2 milioni (davanti a Cina, Brasile, India e Russia) e il più alto tasso di incarcerazione, oltre 600 persone per 100mila ab. (davanti a Ruanda, Turkmenistan, El Salvador e Cuba); detengono il più alto numero di armi pro-capite al mondo, 120 ogni 100 ab. e il primo dei paesi “felici” a grande distanza è il selvaggio Canada con 34\100, segue la Finlandia con 32\100 (un mini-Canada europeo dal punto di vista naturalistico); vantano 7 omicidi volontari ogni 100mila ab. e sono in classifica tra Tanzania e Afghanistan, tra i quindici, il numero più basso lo registra la svizzera con 0,5\100, mentre la Finlandia è a 1,6\100; il 70% dei Mass Shootings[3] nel mondo avvengono negli USA; fra i quindici, sono primi nell’uso di psicofarmaci con l’impressionante 25% della popolazione, il tasso più basso lo segna l’Olanda con 4%; sul piano economico, nel gruppo dei quindici sono il paese con l’indice di disuguaglianza (GINI) più alto (0,38) dove la migliore è la Norvegia con 0,26; nei limiti della misurabilità del razzismo, in una lista di 78 paesi che valuta l’indice di uguaglianza, gli USA si classificano al 65° posto (tra Cina e Iran), prima è l’Olanda e 5^ la Finlandia; l’aspettativa di vita in USA è di 74,5 anni (tra Albania ed Estonia), in cima tra i paesi “felici” c’è la Norvegia con 81,6 (la Finlandia segna 79,4); al netto della spaventosa situazione della Sanità, gli USA sono al vertice del drammatico tasso di mortalità alla nascita con 18 bambini ogni 100mila ab. a fronte di 4\100mila della Svizzera.

Più complesso è il caso del suicidio. Le implicazioni culturali, in specie la religione, rendono difficile l’interpretazione dei grandi numeri, anche in considerazione della decisiva variabilità della componente soggettiva, resa ancor più sfumata dalle differenze in ordine al dato anagrafico (tendenzialmente più spesso si tolgono la vita gli anziani) e a quello di genere (mediamente si suicidano molto più gli uomini che le donne). Non è questa la sede per analizzare un fenomeno tanto multiforme. Si può solo accennare come nella cattolica e familistica Italia, si registrano 6,7 suicidi per 100mila ab. (dei quali 10,1 tra gli uomini e 3,5 fra le donne), non troppo diversamente dalla Grecia di tradizione ortodossa e anch’essa caratterizzata da forti legami famigliari[4] (5,1 ogni 100mila, di cui 8 uomini e 2 donne) e ovviamente, per analoghe ragioni, Israele (5,3\100 con 8,4 uomini e 2,3 donne). Di contro, culture lontane dal mondo mediterraneo e dalla tradizione giudaico-cristiana, mostrano dati assai diversi, come la Corea del Sud e il Giappone. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, il tasso di suicidi in Corea del Sud è il quarto più alto al mondo (28,7\100mila, di cui 40 uomini e 17 donne). Un fattore del suo alto numero di suicidi è dato dalla frequenza tra gli anziani, poiché se tradizionalmente, ci si aspettava che i figli si prendessero cura dei loro vecchi genitori, questo sistema è in gran parte scomparso sul finire del 900. Molti anziani scelgono perciò di suicidarsi, per non sentirsi un peso finanziario per le loro famiglie (costrette a pagare la casa di riposo o un\a badante). Un altro motivo per comprendere l’alto tasso di suicidio – superiore alla media – è il fenomeno tra gli studenti, causato dal forte (insopportabile) livello di pressione per avere successo negli studi, sicché, quando non raggiungono i loro obiettivi, possono pensare di aver disonorato le loro famiglie, scegliendo la (auto)punizione estrema. Incentivi, sono anche l’uso di alcol, la privazione del sonno, lo stress e le scarse relazioni sociali, situazioni che possono esporre gli studenti a un rischio crescente di suicidio. Nel caso del Giappone (16 ogni 100mila, di cui 22 uomini e 9,2 donne), il suicidio è la principale causa di morte nei maschi di età compresa tra 20 e 44 anni e nelle femmine di età compresa tra 15 e 34 anni. Anche in questo caso, la pressione culturale sui giovani (nello studio e il successo nel lavoro) genera livelli altissimi di stress. Gli uomini giapponesi hanno il doppio delle probabilità di suicidarsi, in particolare dopo un divorzio. Particolarmente preoccupante è pure il suicidio tra gli uomini che hanno recentemente perso il lavoro e non sono più in grado di provvedere alle proprie famiglie. Secondo la visione tradizionale, l’aspettativa è che le persone siano sposate con una sola persona e mantengano un solo lavoro per tutta la vita, perciò lo smentire tale attesa può far sembrare un fallimento il divorzio o la perdita del lavoro.

In questo quadro, il “paese più felice del mondo” offre un dato sicuramente contradditorio, in Finlandia si uccidono 16,5 persone ogni 100mila ab., di cui 23\100 sono uomini e 7,5\100 donne. Numeri sorprendentemente simili a quelli del Sol Levante. Ovviamente, un tale discordante aspetto, è da tempo oggetto di una vastissima letteratura scientifica difficile da riassumere, tuttavia, per una breve sintesi è possibile esporre alcuni aspetti essenziali. Sebbene i tassi annuali di suicidio siano diminuiti negli ultimi anni, restano superiori alla media dell’UE e in particolare, il suicidio in Finlandia rappresenta un terzo dei decessi nelle persone di età compresa tra 15 e 24 anni. Questi preoccupanti dati sono in genere ricondotti a recenti ricerche dove si scopre un Paese con il più alto tasso di malattie mentali d’Europa, fra le quali depressione e alcolismo risultano i problemi psichici più comuni. Sono stati chiamati in causa i motivi più diversi, ma oltre a uno “stress performativo” da impatto neoliberista che accentua il drammatico cortocircuito con le avite tradizioni di vita “in armonia con l’ambiente”, è verosimile sottolineare la presenza di un tabù culturale (insieme a quelli sulla Guerra civile, la Seconda guerra mondiale e la Guerra fredda). Infatti, a fronte di un’assistenza psichiatrica prontamente disponibile, il problema non può essere collegato alla mancanza di risorse, quanto piuttosto alla persistenza di una tabuizzazione della sofferenza psichica e della depressione che, secondo alcuni psichiatri, in Finlandia sono considerati una debolezza e un’umiliazione. Sugli stessi livelli sono anche i suicidi USA, con 16 casi ogni 100mila ab. (di cui 25\100 uomini e 7\100 donne). Sembra così aleggiare, l’inquietante spettro di una “felicità obbligatoria”.

La chiave di lettura di questo breve excursus sul primato finlandese in “felicità”, si trova nel Sustainable development network, dove balza allo sguardo l’ossimoro dello “sviluppo sostenibile”. Già nel 1973, in un articolo dal titolo Sviluppo e progresso, che non fu pubblicato dal «Corriere della Sera» per cui era editorialista, Pier Paolo Pasolini si chiedeva se le due parole fossero sinonimi e affermava che no, non lo erano: “Il progresso è […] una nozione ideale (sociale e politica), […] lo “sviluppo” è un fatto pragmatico ed economico”. Per lo scrittore, poeta e regista, lo sviluppo, è nient’altro che la crescita economica secondo la visione dell’industrialismo, del consumismo, del modello economico angloamericano, imposto attraverso il potere politico e la propaganda alle masse come origine del benessere e fonte della felicità. Pasolini, prendeva le mosse dal celebre rapporto I limiti dello sviluppo, pubblicato l’anno prima dal Club di Roma[5] in un libro divenuto best seller e tradotto in più di 30 lingue, che scatenò un acceso dibattito sul futuro dell’umanità.

Mezzo secolo dopo, i sostenitori dello “sviluppo” hanno prodotto l’ossimoro affiancando al loro totem il suadente termine “sostenibile”, sicché, ancora una volta come gattopardi[6], si fa credere che dalla crescita economica (infinita) dipenda il benessere dei popoli e la felicità. Ecco dunque, seppur dilaniati da enormi contraddizioni ben lungi dal garantire felicità, che attraverso il modello statistico generato dalla macchina ideologica statunitense, con la società come arena di competizione tra individui rivolti all’imperativo del guadagno in un mercato finanziario senza limiti spaziali e temporali, gli USA agguantano la quindicesima posizione dietro a un drappello di micro-nazioni, per lo più scandinave, e ai satelliti anglofoni dell’ex impero britannico, giganti geografici ma nani demografici. Il World happiness report 2023, è allora un documento neocoloniale, un prodotto dalla cultura tecno-scientifica angloamericana, innestata sul pensiero filosofico europeo emerso tra XVII e XVIII secolo e confluito sotto l’etichetta di “illuminismo”, uno strumento spettacolare per colonizzare l’immaginario globale.

Sorge il sospetto che con ben altro sguardo antropologico, probabilmente il popolo più felice del mondo potrebbe essere in realtà un gruppo di Masai dell’Africa orientale, dove gli etnografi registrano un indice di soddisfazione della vita (felicità) simile a quello dei 400 americani più ricchi nella lista di Forbes…

 

[1] “We hold these truths to be self-evident, that all men are created equal, that they are endowed by their Creator with certain unalienable Rights, that among these are Life, Liberty and the pursuit of Happiness.”.

[2] Perfino John Ford, un maestro del cinema USA e cantore dell’epopea western in chiave mitologica, tutt’altro che democratico e progressista, nel 1964 a fine carriera dopo 140 film gira un – seppur flebile – atto riparatore nei confronti dei nativi, è Cheyenne Autumn (Il grande sentiero).

[3] Il MS (sparatorie di massa) generalmente è un crimine in cui un aggressore uccide o ferisce più persone contemporaneamente utilizzando armi da fuoco. Inoltre, alcune definizioni includono un minimo di quattro vittime di una sparatoria in un breve periodo di tempo, escluso il tiratore. Le definizioni di “sparatorie di massa”, infine, escludono casi di violenza di gruppo, rapine a mano armata e familicidi. Gli USA, a causa del triste primato (solo dal 2009 al 2023 si contano 306 MS con 1710 morti e 1086 feriti) vantano anche un orribile “sottogenere” noto come “school shooting”, esaminato dal celebre documentario Bowling a Columbine (M. Moore, 2003). I numeri sugli assalti armati a una scuola o università, durante i quali sono vittime bambini, ragazzi e giovani (oltre ai docenti e al personale amministrativo o di servizio) sono agghiaccianti: 296 episodi nel XX sec. e 591 dal 2000 a oggi (aprile 2023).

[4] Come spunto di riferimento culturale, si può pensare a una celebre e spassosa commedia cinematografica di grande successo: My Big Fat Greek Wedding (J. Zwick, 2002).

[5] Associazione civile senza scopo di lucro, fondata (1968) e presieduta (fino alla morte, 1984) dal dirigente industriale Aurelio Peccei e poi dallo scienziato scozzese A. King, con sede a Parigi, successivamente trasferita ad Amburgo e, dal 2008, a Winterthur, con un ufficio satellite a Bruxelles; la denominazione deriva dal luogo in cui si è tenuta la sua prima riunione. Ha lo scopo di analizzare in un contesto globale i principali problemi dell’umanità, cercando soluzioni idonee.

[6] Deriva dal romanzo Il Gattopardo (G.T. di Lampedusa, 1958) dove Tancredi, il nipote del protagonista, nobile borbonico all’avvento dell’Unità d’Italia sotto i Savoia, dichiara: «Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi».

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Il nuovo disordine mondiale / 15: Follow the money! https://www.carmillaonline.com/2022/05/18/il-nuovo-disordine-mondiale-15-follow-the-money/ Wed, 18 May 2022 20:00:48 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=72027 di Sandro Moiso

Il nemico non è, no non è oltre la tua frontiera; il nemico non è, no non è al di là della tua trincea (Il monumento – Enzo Jannacci, 1975)

Nonostante la versione patinata di stile hollywoodiano della guerra fornita dalla propaganda occidentale, che continua a parlare di vittoria di Kiev e della NATO, ballando una sguaiata rumba sia sulla pelle dell’orso russo (non ancora acquisita, però, come trofeo) che su quella delle vittime civili e militari di entrambi i fronti in guerra, i fatti degli ultimi giorni, [...]]]> di Sandro Moiso

Il nemico non è, no non è
oltre la tua frontiera;
il nemico non è, no non è
al di là della tua trincea

(Il monumento – Enzo Jannacci, 1975)

Nonostante la versione patinata di stile hollywoodiano della guerra fornita dalla propaganda occidentale, che continua a parlare di vittoria di Kiev e della NATO, ballando una sguaiata rumba sia sulla pelle dell’orso russo (non ancora acquisita, però, come trofeo) che su quella delle vittime civili e militari di entrambi i fronti in guerra, i fatti degli ultimi giorni, se non delle ultime ore, rivelano uno scenario ben diverso da quello così superficialmente descritto. Soprattutto per quanto riguarda le alleanze economiche, politiche e militari che gravitano intorno agli Stati Uniti e all’Europa e che vanno man mano disfacendosi lungo i confini orientali di quest’ultima,

Un’immagine che potrebbe riassumere per tutte lo stato delle cose sul campo è quella della parziale resa e ritirata dall’acciaieria Azovstal di Mariupol dei buona parte dei difensori.
Simbolo dell’”eroismo” e della “resistenza” ucraina1 nel corso dei primi 82 giorni di una guerra destinata a durare ed allargarsi negli anni a venire, paradossalmente, è stato anche il primo contingente militare ucraino ad entrare, seppur parzialmente, in conflitto con Zelensky e il suo governo, proprio per il tentativo di quest’ultimo, molto simile a quello di Hitler con le truppe tedesche assediate a Stalingerado nell’inverno tra il 1942 e il 1943, di elevare i militari ad eroi destinati al martirio senza tentare di far alcunché, nemmeno sul piano delle trattative per cercare di salvarne almeno un certo numero.

Per cui, nonostante le ultime dichiarazioni rilasciate dal comandante del battaglione Azov, Denis Prokopenko, riferentisi alla necessità di obbedire agli ordini del comando supremo, e le divisioni intercorse tra gli stessi soldati sulla resa o meno, appare evidente che in realtà la trattativa per la resa e l’evacuazione dei feriti sia iniziata sul campo e in seguito alle proteste dei famigliari dei soldati del battaglione e dei marines ucraini ancora lì asserragliati, represse e disperse a Kiev nelle settimane precedenti, prima che a livello governativo e diplomatico.

Ora Zelenky deve far buon viso a cattivo gioco, ma è evidente che la completa soppressione dei combattenti del battaglione avrebbe permesso al governo ucraino di ottenere due piccioni con una fava ovvero trasformare i militari in eroici “martiri della Patria” e allo stesso tempo liberarsi dell’ingombrante bagaglio rappresentato, agli occhi dell’Europa più restia all’intervento, da una formazione militare ispirantesi all’iconografia e all’ideologia nazista.

Anche se tale resa è stata accompagnata dalle fotografie di unità ucraine giunte in qualche punto non meglio precisato del confine con la Russia, è chiaro che la situazione militare sul campo più che di stallo è ancora di lento ma progressivo avanzamento delle forze russe.
L’uso massiccio dell’artiglieria2 e le lente e costose, in termini di vite umane, avanzate delle fanterie, contraddistinguono da sempre, o almeno dalle campagne anti-napoleoniche in poi, le tattiche dell’esercito russo, imperiale un tempo poi staliniano e oggi putiniano.

Tattiche che in un momento in cui, come rilevano molti osservatori militari occidentali, la guerra si sta nuovamente trasformando in una guerra di trincea3, come quella del primo conflitto mondiale e del secondo sul fronte orientale, tornano a far pesare una tradizione militare che più che sulla velocità di azione conta sul territorio conquistato e solidamente fortificato per essere mantenuto nel tempo.
Mentre, al contrario, la guerra condotta con i droni danneggia gravemente il nemico, come le perdite russe in uomini e mezzi dimostrano, ma non permette di occupare o rioccupare saldamente i territori .

E’, in fin dei conti, il solito vecchio problema dei boots on the ground (scarponi sul terreno), che assilla soprattutto le forze armate USA successivamente alla guerra in Vietnam, il cui numero di vittime americane (70.000 morti e diverse centinaia di migliaia di soldati feriti o profondamente scossi sul piano psicologico) non potrebbe più essere sopportato dall’opinione pubblica di un paese sempre più diviso e impoverito. Lo stesso che, solo per fare un esempio, spinse il presidente Bill Clinton ad abbandonare la missione Restore Hope in Somalia, nel 1993, dopo poco più di due decine di caduti nella battaglia di Mogadiscio4.

Come ha affermato l’ex-generale Fabio Mini, sulle pagine del «Fatto Quotidiano»:

Ci viene detto che le forze russe sono state respinte a Kharkiv e la città è “liberata”. Non era mai stata occupata dai russi, bombardata sì ma occupata no. Come a Kiev, i carri armati russi se ne sono andati a fare altro e le forze ucraine in città sono rimaste esattamente dov’erano […] Sempre che Kharkiv sia un obiettivo che i russi vogliano veramente acquisire. E’ certamente un centro nevralgico delle comunicazioni tra Russia e Ucraina ed è una regione di confine parzialmente occupata dai russi fino a Izyum, dove da settimane risiede uno dei bracci della morsa sull’area di Kramatorsk […] Cosa facciano le forze armate ucraine in quest’area non è chiaro. Da un lato dichiarano che si riprenderanno anche la Crimea già annessa alla federazione russa, dall’altro si dedicano a lanci sporadici di missili sugli obiettivi navali individuati daglli americani (del Pentagono o della Raytheon) e all’uso maniacale delle sirene d’allarme aereo, come in tutto il resto del territorio ucraino. Una misura che ormai sembra più rivolta al controllo interno della popolazione attraverso la paura che protettiva […] La situazione tattica è quindi rallentata, ma non è di stallo e chi auspica una interruzione dei combattimenti o la loro escalation “una volta per tutte” dovrà pazientare5.

Se sul campo la situazione è quanto meno di stallo, non evolve certo in direzione favorevole all’Occidente, alla Nato e agli Usa neppure quella diplomatica e internazionale.
Basti pensare alla durissima presa di posizione di Erdogan e della Turchia rispetto all’ingresso nell’Alleanza Atlantica di Finlandia e Svezia. Con tale mossa il sultano di Istanbul opera sui tre fonti che lo vedono impegnato al rilancio di un nuovo impero ottomano: non allontanarsi troppo da Putin, favorendone le mosse senza rafforzarlo troppo; colpire sempre più duramente i curdi del Rojava per ottenere il controllo definitivo di buona parte della Siria e far pesare il ruolo politico, diplomatico e militare di un paese che è la seconda potenza militare della Nato dopo gli USA6.

Per autoritaria e reazionaria che sia la figura del capo di Stato turco, è evidente che, come si dice da tempo su queste pagine, la crescita esponenziale del ruolo della Turchia nel quadrante mediorientale e nordafricano e, in un futuro neppur troppo lontano, centro-asiatico rivela uno degli aspetti importanti di quel nuovo disordine mondiale, causato dalle disordinate e ingovernabili politiche di globalizzazione volute e dirette da Washington, che sta alla base del conflitto in corso.

Uno dei tanti aspetti da sempre poco sottolineati dai media mainstream e dai funzionari del capitalismo liberal e falsamente democratico, che avrebbe fatto dire a Fabrizio De Andrè: anche se non ve ne siete accorti, siete lo stesso coinvolti. Con buona pace di tutte le anime belle che ancora si interrogano se davvero sia già in corso una guerra tra Nato, Russia e, andrebbe ancora detto, tutti gli altri.

Una guerra che se da un lato rivela il sogno neo-imperiale di Putin, dall’altra vede gli USA cercare di ottenere diversi risultati, non tutti solo a scapito della Russia o della Cina, ma anche degli “alleati europei”. Una imposizione di politiche economiche e militari devastanti per l’economia delle principali nazioni europee, cui evidentemente Francia e Germania cercano di opporsi, seppure ancora con guanti di velluto.

Una politica che cerca di sostituire petrolio e gas russi con quelli estratti negli o dagli Stati Uniti, molto più costosi, nel tentativo di creare un’ulteriore dipendenza economica e strategica dell’Europa Unita in chiave americana. Scelta che sta frantumando non solo il fronte europeo, ma anche quello delle sanzioni e che in data 16 maggio ha visto, al momento dell’insediamento del nuovo governo Orban in Ungheria, una autentica, anche se interessata alla possibilità di ottenere una maggiore assegnazione di fondi (dai 2 miliardi di euro ai 15 richiesti), dichiarazione di alterità rispetto alle politiche e alle sanzioni messe in atto della UE, soprattutto nel settore delle importazioni di petrolio dalla Russia.

Occorre notare poi ancora come queste scelte politiche ed economiche già dividono l’Europa dei 27 tra Est e Ovest forse in maniera ancora maggiore che ai tempi della Guerra Fredda e della Cortina di Ferro, poiché penetrano in profondità negli interessi dei singoli paesi, frantumandone la coesione sociale e politica non soltanto, o almeno non ancora, sul piano della lotta di classe, ma soprattutto su quello degli interessi delle varie branche e settori produttivi oppure politico-elettoralistici.

Come, nell’italietta da sempre giolittiana, dimostrano gli altalenanti e preoccupati giudizi di una parte dei rappresentanti dell’industria7 e i mal di pancia elettorali di Conte, Salvini, Giorgetti e Berlusconi. Che hanno portato il 16 maggio alla mancanza, per ben tre volte, del numero legale in aula per l’approvazione del Dl Ucraina bis8.

E’ un’Europa che si sfalda in maniera evidente sotto gli occhi di tutti, al di là delle vuote frasi di principio di Ursula von der Leyen, Sergio Matterella, Enrico Letta o di qualunque altro illusionista di un’unità che, se c’è mai stata, oggi è sempre meno viva ed efficace. Sfaldatura e sbriciolamento che non può fare a meno di riflettersi pesantemente sull’euro, ovvero la moneta che avrebbe dovuto garantire l’unità politico-economica europea stessa e la sua indipendenza rispetto al “re dollaro”.
Re, quest’ultimo, la cui autorità viene oggi severamente messa in discussione non tanto da un euro esangue e sconfitto su tutti i piani, ma dalle stesse sanzioni che avrebbero dovuto indebolire gli avversari e rafforzare il ruolo degli USA e della loro moneta.

Se, infatti, nell’analisi della guerra fosse più frequentemente adottata una concezione materialistica accompagnata da un saldo riferimento all’inevitabile scontro tra le classi da un lato e a quello tra le nazioni e gli imperi dall’altro, più che porre l’attenzione su inutili disquisizioni sui diritti liberali o il diritto alla resistenza degli Stati, si coglierebbe tra gli elementi che hanno contribuito a scatenare il conflitto, con il suo corollario di morte e distruzione, quello dello scontro di carattere monetario ovvero dettato dalle necessità non soltanto di ordine geopolitico ed egemonico dal punto di vista militare, ma anche da quella di dar vita ad un nuovo ordine multipolare monetario destinato a sopravanzare e sostituire quello sorto a Bretton Woods nel 1944.

Con gli accordi siglati nella località statunitense, per la prima volta nella storia, si erano stabilite delle regole internazionali per i commerci e i rapporti finanziari fra le principali potenze economiche mondiali. Gli USA, che meno di dodici mesi dopo sarebbero usciti come assoluti vincitori dal conflitto mondiale, imposero al resto del mondo la loro valuta, il dollaro.
Venne infatti stabilito che il dollaro diventasse la valuta di riferimento per i commerci mondiali. Grazie a quegli accordi gli Stati Uniti imposero il dollaro, che era dipendente dalle decisioni prese dalla Federal Reserve e dal dipartimento del Tesoro Usa, al resto del mondo.

E’ chiaro che tale situazione, che favoriva l’utilizzo del dollaro per tutte le principali transazioni finanziarie internazionali riguardanti sia il mercato azionario che quello dei beni e delle materie prime, avrebbe nel tempo suscitato rivalità e tentativi di scalzare una supremazia della moneta americana che, contemporaneamente, favoriva sia una facilitazione per le transazioni economiche che il predominio degli USA sul mercato mondiale. Principalmente finanziario, ma non solo.

Prima dell’avvento dell’euro che, nel corso dei venti anni dalla sua adozione, si era ritagliato una quota del 20%, la percentuale degli scambi in dollari era ancora più alta, con lo yen giapponese, la sterlina inglese e il marco tedesco a giocare il ruolo di debolissimi comprimari. La nascita dello stesso aveva eliminato un concorrente nazionale, il marco tedesco, e fortemente ridimensionato il ruolo delle altre due monete.

Così, in realtà tale contrasto tra il dollaro e le altre valute scorre sotto gli occhi degli spettatori distratti da diversi anni a questa parte, almeno fin dall’entrata in vigore dell’euro. Valuta che fu creata, ancor prima che per unire monetariamente l’Europa, proprio per dare all’economia europea una moneta comune in grado di scalzare il potere del dollaro sul mercato mondiale. Motivo per cui, però, tardando ad affermarsi come moneta di scambio e di riserva, pari o di poco inferiore al ruolo svolto dalla moneta americana, ha per un certo periodo contribuito al mantenimento del ruolo centrale svolto da quest’ultima.

Non a caso, solo per fare un esempio, agli occhi americani si rivelò particolarmente perniciosa la proposta di Saddam Hussein di accettare il pagamento in euro del petrolio iracheno. Motivo che rese l’ex-alleato inviso agli Stati Uniti ben più delle sue presunte frequentazioni terroristiche e delle sue mai trovate armi di distruzione di massa.

La finanza, la weaponizing finance, è diventata così un’arma che al momento attuale sono principalmente gli Stati Uniti a voler utilizzare, contando sullo strapotere del dollaro nel sistema monetario internazionale. Applicata alla Russia, nel breve periodo e fino ad ora, non ha però ottenuto l’effetto devastante che ci si aspettava, anzi, come vedremo tra poco, ha danneggiato più i suoi utilizzatori, in termini di inflazione, aumento del valore delle materie prime e beni di prima necessità come il grano. Iniziando già a contribuire sia ad uno sviluppo delle contraddizioni tra le classi, come in Sri Lanka e Tunisia, sia tra gli interessi degli Stati presunti alleati, come l’impossibile accordo sul tetto al costo del petrolio e del gas e la posizione di diversi stati europei sulle sanzioni alla Russia cominciano a dimostrare ben al di là della semplice sfera economica.

Se per alcuni anni l’indebolimento dell’euro rispetto al dollaro è stato sfruttato in maniera concorrenziale dall’industria europea per favorire le proprie esportazioni, oggi con il cambio euro-dollaro giunto a 1,04 rispetto a quello di 1,20 di un anno fa o a quello di 1,45 di circa dieci/dodici anni fa, inizia a preoccupare seriamente gli investitori che prevedono che nel giro di qualche mese il ribasso potrebbe giungere ad una quasi parità tra moneta unica e dollaro (1,02 circa).

In altre parole, poco importa se l’inflazione nell’Eurozona sia schizzata al 7,5% in aprile, record storico da quando esiste l’euro. L’istituto non riesce ad alzare i tassi, perché teme che ciò provochi un innalzamento del costo del debito insostenibile per paesi come l’Italia. D’altra parte, la guerra in Ucraina sta colpendo direttamente il Vecchio Continente e per il momento non l’America. Dunque, la Federal Reserve sta alzando i tassi d’interesse e continuerà a farlo a passo veloce nei prossimi mesi per battere l’inflazione. La BCE ritiene di non poterselo permettere.
Per questo il cambio euro-dollaro sarebbe destinato a restare debole e a contrarsi maggiormente nei prossimi mesi. L’Eurozona rischia di entrare in recessione, per cui la BCE tentennerà sul rialzo dei tassi. Nel frattempo, la FED sarà pressata per battere l’inflazione, anche perché questo è diventato il capitolo più spinoso per l’economia americana prima delle elezioni di metà mandato a novembre. L’amministrazione Biden non può permettersi i lusso di lasciar correre ulteriormente i prezzi al consumo, altrimenti rischia una batosta storica in occasione del rinnovo del Congresso9.

Però il processo inflattivo acceleratosi a partire dall’inizio del conflitto ucraino ha fatto sì che la debolezza dell’euro si accompagnasse alla crescita dei prezzi del petrolio. Un anno fa, il Brent sui mercati internazionali era quotato meno di 68 dollari al barile. Allora, poi, il cambio euro-dollaro era di circa 1,21. E così un barile costava 56 euro. Ora le quotazioni salite, in aprile, sopra i 104 dollari e con il cambio euro-dollaro sceso a 1,06, un barile costa sui 98 euro, il 75% in più su base annua. Con tutte le conseguenze che si possono facilmente immaginare sia a livello di consumi privati, deprezzamento delle retribuzioni dei lavoratori e aumento generale del costo della vita accompagnato, in un prossimo futuro, da pesanti perdite, chiusure e licenziamenti in diversi settori industriali.

Ma fin qui ci porremmo ancora e soltanto sul piano dei conti della serva o di un ragionier alla Mario Draghi, poiché la weaponizing finance ha ottenuto anche ben altri risultati sul piano monetario.

Alla fine di gennaio, la Russia deteneva riserve in valuta estera per un valore di 469 miliardi di dollari. Questo tesoro è nato dalla prudenza insegnata dal suo default del 1998 e, sperava Vladimir Putin, anche una garanzia della sua indipendenza finanziaria. Ma, quando è iniziata la sua “operazione militare speciale” in Ucraina, ha appreso che più della metà delle sue riserve erano congelate. Le valute dei suoi nemici hanno cessato di essere denaro utilizzabile. Questa azione non è significativa solo per la Russia. Una demonetizzazione mirata delle valute più globalizzate del mondo ha grandi implicazioni […] Un denaro globale – uno su cui le persone fanno affidamento nelle loro transazioni transfrontaliere e nelle decisioni di investimento – è un bene pubblico globale. Ma i fornitori di quel bene pubblico sono i governi nazionali. Anche sotto il vecchio gold exchange standard, era così. […] Nel terzo trimestre del 2021, il 59% delle riserve globali in valuta estera era denominato in dollari, un altro 20% in euro, il 6% in yen e il 5% in sterline. Il renminbi cinese costituiva ancora meno del 3% delle riserve globali. Oggi, i fondi globali sono emessi dagli Stati Uniti e dai loro alleati, compresi quelli piccoli. Questo non è il risultato di una trama. I fondi utili sono quelli delle economie aperte con mercati finanziari liquidi, stabilità monetaria e stato di diritto. Eppure l’armamento di quelle valute e dei sistemi finanziari che le gestiscono mina quelle proprietà per qualsiasi detentore che teme di essere preso di mira. Le sanzioni contro la banca centrale russa sono uno shock. Chi, si chiedono i governi, sarà il prossimo? Cosa significa per la nostra sovranità? Si può obiettare alle azioni dell’Occidente per motivi strettamente economici: l’armamento delle valute frammenterà l’economia mondiale e la renderà meno efficiente. Questo, si potrebbe rispondere, è vero, ma sempre più irrilevante in un mondo di gravi tensioni internazionali. Sì, è un’altra forza per la deglobalizzazione, ma molti si chiederanno “e allora?”. Un’obiezione più preoccupante per i politici occidentali è che l’uso di queste armi potrebbe danneggiarli. Il resto del mondo non si affretterà a trovare modi per effettuare transazioni e immagazzinare valore che aggira le valute e i mercati finanziari degli Stati Uniti e dei loro alleati? Non è questo che la Cina sta cercando di fare in questo momento? Lo è. In linea di principio, si potrebbero immaginare quattro sostituti delle odierne valute nazionali globalizzate: valute private (come bitcoin); moneta merce (come l’oro); una valuta globale (come i diritti speciali di prelievo del FMI); o un’altra valuta nazionale, più ovviamente quella cinese10.

Ma un opuscolo recente di Graham Allison, dell’Università di Harvard, su The Great Economic Rivalry conclude che la Cina è già un formidabile concorrente degli Stati Uniti. La storia suggerisce che la valuta di un’economia delle sue dimensioni, sofisticazione e integrazione diventerebbe un denaro globale. Finora, tuttavia, questo non è accaduto. Questo perché il sistema finanziario cinese è relativamente poco sviluppato, la sua valuta non è completamente convertibile e il paese manca di un vero stato di diritto. La Cina è molto lontana dal fornire ciò che la sterlina e il dollaro hanno fornito nel loro periodo di massimo splendore. Mentre i detentori del dollaro e di altre importanti valute occidentali potrebbero temere sanzioni, devono sicuramente essere consapevoli di ciò che il governo cinese potrebbe fare loro, se lo scontentassero. Altrettanto importante, lo stato cinese sa che una valuta internazionalizzata richiede mercati finanziari aperti, ma ciò indebolirebbe radicalmente il suo controllo sull’economia e sulla società cinese. Questa mancanza di un’alternativa veramente credibile suggerisce che il dollaro rimarrà la valuta dominante del mondo. Eppure c’è un argomento contro questa visione compiacente, esposta in Digital Currencies, un opuscolo stimolante della Hoover Institution. In sostanza, questo è che il sistema di pagamento interbancario transfrontaliero cinese (Cips – un’alternativa al sistema Swift) e la valuta digitale (l’e-CNY) potrebbero diventare un sistema di pagamento dominante e una valuta veicolo, rispettivamente, per il commercio tra la Cina e i suoi numerosi partner commerciali. A lungo termine, l’e-CNY potrebbe anche diventare una valuta di riserva significativa. Inoltre, sostiene l’opuscolo, ciò darebbe allo stato cinese una conoscenza dettagliata delle transazioni di ogni entità all’interno del suo sistema. Sarebbe un’ulteriore fonte di potere. Oggi, il dominio schiacciante degli Stati Uniti e dei loro alleati nella finanza globale […] conferisce alle loro valute una posizione dominante. Oggi non esiste un’alternativa credibile per la maggior parte delle funzioni monetarie globali. Oggi, è probabile che l’alta inflazione sia una minaccia maggiore per la fiducia nel dollaro rispetto alla sua militarizzazione contro gli stati canaglia. A lungo termine, tuttavia, la Cina potrebbe essere in grado di creare un giardino recintato per l’uso della sua valuta da parte di coloro che le sono più vicini. Anche così, coloro che desiderano effettuare transazioni con i paesi occidentali avranno ancora bisogno di valute occidentali. Ciò che potrebbe emergere sono due sistemi monetari – uno occidentale e uno cinese – che operano in modi diversi e si sovrappongono a disagio. Come per altri aspetti, il futuro promette non tanto un nuovo ordine globale costruito intorno alla Cina quanto più disordine. Gli storici futuri potrebbero vedere le sanzioni di oggi come un altro passo in quella direzione11.

Non soltanto le sanzioni nei confronti della Russia possono dunque contribuire allo sviluppo di un autentico avversario valutario con la crescita della Cina e del suo peso finanziario, oggi non ancora pari a quello produttivo, ma hanno già contribuito ad un rafforzamento dello stesso rublo che, dall’inizio della guerra, non soltanto ha raggiunto, nei confronti del dollaro, un valore di scambio precedentemente mai conseguito12, ma si è di fatto anche imposto come moneta per le transazioni riguardanti l’acquisto di petrolio e gas da parte dei paesi occidentali13.

Nonostante i balletti e le recite a soggetto messe in atto formalmente da Bruxelles, è chiaro e sotto gli occhi di tutti che, al momento attuale, i paesi europei, Germania e Italia in testa ma anche Austria, Ungheria e altri, non possono fare a meno del petrolio e del gas russo (che solo per l’Italia costituisce il 38% delle importazioni energetiche) e che per tali motivi sono disposti a pagare in rubli, pur facendo finta di niente. Oppure ricorrendo all’escamotage proposto loro dal governo russo e dal colosso Gazprom di poter indifferentemente accedere a due conti del gigante russo del gas, uno in rubli e uno in euro/dollari poi riconvertibili in rubli dalla stessa Gazprom.

Insomma dopo giorni e settimane e mesi di discussioni su sanzioni e pagamenti, alla fine ad uscirne rafforzata è stata la Russia che per la prima volta può ottenere il pagamento delle sue materie prime in rubli, prima ancora che in dollari. Se questa la si vuol chiamare sconfitta lo si faccia pure, magari in omaggio all’Eurovision Song Contest e alla società dello spettacolo che in tal modo vuole farci intendere il mondo, ma perché allora in un recente editoriale il direttore della «Stampa» si è dimostrato così preoccupato da scrivere quanto segue:

L’euro ha forgiato un nucleo duro di paesi. L’Unione monetaria ci ha illuso di poter far da traino a tutto il resto, dalla difesa al Welfare. E di poter diventare , addirittura, valuta di riserva su scala globale. Oggi naufraga anche quella illusione sotto i colpi dei missili Kalibr e delle bombe al fosforo di Mosca. C’è un altro conflitto che non stiamo vedendo […] è la guerra per l’egemonia valutaria, che potrebbe spazzar via il poco che resta del pur già instabile “ordine finanziario” nato dagli accordi di Bretton Woods del luglio del ’44, quando il mondo incoronò Re Dollaro come moneta di riferimento dei commerci internazionali […] Oggi quel Regno, già periclitante, è insidiato dagli stravolgimenti geo-politici innestati dalla guerra santa di Putin. E l’America, che attraverso il dollaro controlla il 90% degli scambi globali e il 59% delle riserve delle banche centrali del mondo, combatte a distanza al fianco di Zelensky anche per difendere il suo trono valutario.
[…] Per togliere ossigeno allo Zar e al suo esercito, Washington e Bruxelles hanno varato sanzioni che hanno colpito finora 5.500 obiettivi russi […] Putin ha risposto imponendo l’obbligo del pagamento in rubli su tutte le forniture di gas e petrolio. USA e UE, dopo un secco rifiuto iniziale, stanno gradualmente cedendo al ricatto […] Questa escalation sancisce già l’inizio della fine di un sistema monetario “aperto”. L’uso massiccio ed esteso delle sanzioni è un formidabile dissuasore non solo politico, ma anche finanziario e commerciale […] Ma ora il fenomeno si sta allargando ed elevando a sistema. Ma proprio perché elevate a sistema, le sanzioni contribuiscono a minare la fiducia nel dollaro e spingono a cercare soluzioni valutarie alternative o parallele. Sta già succedendo. La Cina ha avviato trattative con l’Arabia Saudita, per convincere Riad ad accettare renmimbi al posto dei dollari nel pagamento delle forniture petrolifere. Pechino ha anche avviato lo sviluppo dello “e-yuan”, la sua moneta digitale, e del “China Interbank Payment System”, piattaforma autonoma per i pagamenti internazionali, con l’obiettivo di staccarsi il prima possibile dal circuito occidentale Swift. A Erevan, a metà marzo, si è svolto il meeting “Nuova fase della cooperazione monetaria e finanziaria tra l’Unione Economica Euroasiatica e la Repubblica Popolare Cinese” […] L’idea di Eurasia è esattamente questa: costruire un sistema monetario e finanziario internazionale “post-americano” […] Secondo Mosca e il cartello euro-asiatico il congelamento delle riserve valutarie russe nei conti di deposito delle banche centrali occidentali , da parte degli Stati Uniti, dell’UE e del Regno Unito, ha incrinato lo status del dollaro, dell’euro e della sterlina come valute di riserva globale. Ed è questo che impone un’accelerazione verso lo smantellamento dell’ordine economico mondiale imperniato sul biglietto verde.
Ecco dunque l’altra posta in gioco della guerra ucraina, che fa convergere Putin e XiJinping. L’attacco all’egemonia americana attraverso il dollaro […] Ovviamente non è detto che riesca. Ma il tentativo è avviato. E come minimo produrrà una riaggregazione tra società “chiuse” e una de-globalizzazione per zone di interesse […] In questa terra incognita, va da sé, chi rischia di cadere e farsi male è ancora una volta l’Europa con la sua moneta zoppa. Nell’ultimo anno l’euro si è già deprezzato del 15%. Nelle ultima settimane è scivolato a quota 1,04 contro il dollaro […] Un disastro, visto che il grosso della nostra inflazione è importata e deriva soprattutto dai costi proibitivi delle risorse energetiche14.

Bene, dopo questa autentica “confessione” di un rappresentante dell’informazione mainstream, è giunto il momento di tirare alcune prime conclusioni.

La prima è che non vi possono essere più dubbi sulla gravità del conflitto militare in atto e sull’inevitabilità del suo allargamento su scala mondiale, visto che è destinato ridefinire ruoli e posizioni di comando all’interno del controllo dei mercati, delle ricchezze e delle risorse mondiali.

La seconda è costituita dal fatto che tutte le attuali alleanze, soprattutto in Occidente, sono destinate a sfaldarsi e a diventare motivo di conflitto più che di mantenimento di un ordine qualsiasi o della pace.

La terza è che l’Europa ancora una volta sarà al centro del conflitto, con tutte le conseguenze che da ciò deriveranno.

La quarta, e per ora ultima, è che i giovani, le donne, i lavoratori, i ceti medi impoveriti, le classi che non hanno mai neppure potuto intravedere una possibilità di miglioramento delle proprie condizioni economiche e sociali e gli stessi soldati non hanno e non avranno alcun interesse a schierarsi e a combattere per l’euro, il dollaro, la sterlina, il rublo o lo yuan.

Non avranno alcun interesse a schierarsi con sistemi che attraverso lo sfruttamento della forza lavoro e dei corpi, l’estrattivismo, la proprietà privata, il Dio denaro e l’accaparramento nelle mani di pochi delle ricchezze socialmente prodotte hanno creato le condizioni del conflitto militare e di quello di classe in ogni angolo del globo.
E proprio su quest’ultimo punto si giocherà la sopravvivenza dell’intera specie e il suo divenire.

il nemico è qui tra noi,
mangia come noi, parla come noi,
dorme come noi, pensa come noi
ma è diverso da noi.
Il nemico è chi sfrutta il lavoro
e la vita del suo fratello;
il nemico è chi ruba il pane
il pane e la fatica del suo compagno;
il nemico è colui che vuole il monumento
per le vittime da lui volute
e ruba il pane per fare altri cannoni
e non fa le scuole e non fa gli ospedali
e non fa le scuole per pagare i generali, quei generali
quei generali per un’altra guerra…

N. B.
La canzone “Il monumento” è firmata per il testo e la musica da Jannacci, ma una nota all’interno del disco in cui era pubblicata nel 1975, “Quelli che…” , dall’etichetta Ultima Spiaggia di Nanni Ricordi, segnalava che il testo antimilitarista, era tratto da un volantino trovato durante l’inaugurazione di un monumento ai caduti; nella realtà era invece tratta da una poesia di Bertolt Brecht (pubblicata tradotta in italiano nel settembre del 1965 nel numero 6 della rivista Nuovo Canzoniere Italiano a pagina 32).

(Fine prima parte )


  1. Sull’argomento si potrebbe rivelare utile la lettura di Domenico Quirico, Azov, gli eroi impossibili serviti per la propaganda di russi e ucraini, «La Stampa», 18 maggio 2022  

  2. “Kiev deve fronteggiare le operazioni a sud e a est, settori in cui l’artiglieria ha un ruolo predominante, per le caratteristiche del territorio e perché i russi l’hanno sempre considerata una specialità: la stanno usando infatti in modo massiccio per «arare» le posizioni della resistenza. Vogliono distruggere le trincee ben costruite, ma anche piegare il morale. L’artiglieria permette infatti di colpire da lontano, rallentando o distruggendo le forze nemiche e consentendo al tempo stesso a fanteria e blindati di avanzare. I russi sono dunque incessanti nei tiri, come loro stessi raccontano nei bollettini ufficiali: soltanto martedì sono stati colpiti 400 siti, sostiene la Difesa russa.
    Dalla sua, Mosca ha l’esperienza, i numeri, la potenza: l’artiglieria è il cuore dell’esercito russo già dai tempi dell’Impero, nota l’Economist. Durante il precedente conflitto nel Donbass i suoi soldati erano in grado di agire nell’arco di 4 minuti dal momento in cui veniva identificato il target. Quell’operazione ha infatti avuto successo, anche grazie ad un arsenale vasto. Un suo lanciatore multiplo Smerch di progettazione sovietica può arrivare a 70 chilometri di stanza, un pezzo D-30 a 22, quindi i mortai pesanti trainati da mezzi (il Tyulpan) tra 9 e 20 chilometri, i veri semoventi corazzati capaci di arrivare fino a 30 chilometri. Le batterie inquadrano un’area, gli uomini sono assistiti dai droni e dalla ricognizione, quindi iniziano a martellare. Possono continuare per giorni, a patto di avere scorte a sufficienza, ma anche una rete logistica di livello: una singola «bomba» da 155 mm può pesare 50 chilogrammi”, da Andrea Marinelli e Guido Olimpio, La potenza russa contro gli aiuti esterni ucraini: il ruolo dell’artiglieria nella seconda fase della guerra, «Corriere della sera», 5 maggio 2022

     

  3. Si veda qui  

  4. Si veda in proposito il sempre utile e dettagliato film di Ridley Scott, Black Hawk Down, del 2001  

  5. Fabio Mini, Kharkiv né occupata né liberata. A Mariupol niente più resistenza, «il Fatto Quotidiano», 16 maggio 2022  

  6. Si veda, a titolo di esempio, Steven A. Cook, Ukraine’s War Is Erdogan’s Opportunity. «Foreign Policy», 29 marzo 2022  

  7. Si veda l’intervista a Paolo Agnelli, industriale leader nel settore dell’alluminio e presidente di Confimi Industria – associazione che raccoglie 45milaimprese e 650mila dipendenti – sulle pagine di «Verità & Affari» del 15 maggio 2022: Maurizio Cattaneo, «Draghi non faccia il ragioniere. Materie prime ed energia? Si rivede il baratto»  

  8. qui  

  9. Giuseppe Timpone, Cambio euro-dollaro sulla parità entro fine anno, ecco perché, «Investire oggi», 12 maggio 2022  

  10. Martin Wolf, Un nuovo mondo di disordine valutario incombe, «Financial Times», 29 marzo 2022  

  11. Martin Wolf, cit.  

  12. Si veda qui  

  13. Vanessa Ricciardi, Putin sta vincendo almeno la guerra del gas. Anche l’Italia si piega, «Domani», 12 maggio 2022  

  14. Massimo Giannini, L’Occidente prigioniero e il trono di Re Dollaro, «La Stampa», 15 maggio 2022  

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La rivoluzione non è (soltanto) affare di Partito https://www.carmillaonline.com/2017/07/26/la-rivoluzione-non-affare-partito/ Tue, 25 Jul 2017 22:01:37 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=39349 di Sandro Moiso

Rosa Luxemburg, La rivoluzione russa, (a cura di Massimo Cappitti), con un testo di Pier Carlo Masini con la sua traduzione di Problemi di organizzazione della Socialdemocrazia russa, BFS Edizioni 2017, pp. 128, € 12,00

“I passi falsi che compie un reale movimento rivoluzionario sono sul piano storico incommensurabilmente più fecondi e più preziosi dell’infallibilità del miglior comitato centrale” (Rosa Luxemburg)

Nel centenario di una rivoluzione che nemmeno la Russia di Vladimir Putin sembra voler celebrare, la ripubblicazione del testo di Rosa Luxemburg sull’esperienza bolscevica e delle masse sovietiche a cavallo tra il 1917 e il [...]]]> di Sandro Moiso

Rosa Luxemburg, La rivoluzione russa, (a cura di Massimo Cappitti), con un testo di Pier Carlo Masini con la sua traduzione di Problemi di organizzazione della Socialdemocrazia russa, BFS Edizioni 2017, pp. 128, € 12,00

“I passi falsi che compie un reale movimento rivoluzionario sono sul piano storico incommensurabilmente più fecondi e più preziosi dell’infallibilità del miglior comitato centrale” (Rosa Luxemburg)

Nel centenario di una rivoluzione che nemmeno la Russia di Vladimir Putin sembra voler celebrare, la ripubblicazione del testo di Rosa Luxemburg sull’esperienza bolscevica e delle masse sovietiche a cavallo tra il 1917 e il 1918 appare ancora di sorprendente attualità. Non solo per i commenti “a caldo” che dalle sue pagine è possibile raccogliere ma, e soprattutto, per comprendere come tale esperienza rivoluzionaria sia stata liquidata tanto da chi, ieri ed oggi, l’ha voluta osteggiare quanto da coloro che l’hanno voluta e continuano ad esaltare.

Tanto da far sì che a cent’anni di distanza siano realmente pochi gli scritti e le ricostruzioni critiche, ovvero tese a ricostruirne fasi, errori, vittorie, possibili esperienze sia da rivalutare che da abbandonare o da rifiutare decisamente. La letteratura specialistica e politica, fatte salve alcune opere dovute a protagonisti e testimoni di quell’esperienza (Trockij e Bordiga1 in primis, ma pur sempre segnati dalla necessità di intervenire nelle battaglie politiche e nelle polemiche in corso all’epoca dello loro stesura) oppure allo storico inglese Edward H. Carr, 2 sembra essersi schierata fino ad oggi o sul fronte del rifiuto e della condanna oppure su quello della passiva accettazione, o quasi, di ogni suo aspetto. Fenomeno inaspritosi sicuramente, in ogni senso, a partire dal 1989.

Il testo della Luxemburg fu probabilmente scritto nell’autunno del 1918, mentre l’autrice si trovava in carcere per scontare una condanna dovuta al suo intransigente antimilitarismo. Avrebbe dovuto essere successivamente rivisto, come alcune lapidarie frasi e brevi appunti al suo interno sembrano rivelare ad un lettore attento, ma ciò non poté essere portato a termine a causa dell’omicidio di Rosa, ad opera dei Freikorps di Noske, durante l’insurrezione spartachista di Berlino nel gennaio del 1919.

Rimase inedito fino al 1921 quando Paul Levi, già presidente del Partito comunista tedesco e da questo espulso nel 1920, decise di pubblicarlo, nonostante la contrarietà di amici e compagni della Luxemburg (trattandosi appunto di un testo non rivisto dall’autrice), proprio per contrastare le premesse teoriche della tattica e dell’organizzazione bolscevica e di quella Terza Internazionale che iniziava a richiederne l’applicazione da parte di ogni Partito comunista.3

Forse tale interpretazione servì a far sì che in seguito non solo tale testo, insieme a molti altri dell’autrice, fosse rimosso dalla tradizione e dalla stampa comunista, ma “quando già l’Internazionale comunista cominciava ad agonizzare, fu considerato un merito quello di aver proceduto in Germania alla liquidazione del luxemburghismo nel movimento operaio e nel Partito comunista tedesco”.4

Mentre nella “letteratura” stalinista: ”Alla voce «Luxemburg» dell’Enciclopedia Sovietica si può leggere quanto male abbia fatto alla classe operaia e al socialismo questa povera semi-menscevica, questa intellettuale piccolo-borghese, rea di spontaneismo, di oggettivismo, di meccanicismo, di liquidatorismo”.5 Eppure, eppure…

Proprio nell’incipit del testo ora ripubblicato a cura di Massimo Cappitti, Rosa Luxemburg aveva scritto: “La rivoluzione russa è l’avvenimento più importante della guerra mondiale”.6
Da questa perentoria affermazione la comunista tedesca prende l’avvio per un’analisi sia dell’immaturità del proletariato tedesco che si era lasciato irretire dalle chimere della guerra nazionale che la socialdemocrazia, tradendo anche i più semplici principi del socialismo, aveva travestito da lotta contro l’autocrazia russa e da campagna progressiva di liberazione dell’Europa e dello stesso proletariato russo da condizioni socio-economiche arretrate; sia per una autentica scomunica dei tentennamenti, delle giravolte e degli autentici tradimenti dei compiti dei partiti socialisti che la direzione e i giornali del partito tedesco, con Karl Kautsky in testa, avevano contribuito a diffondere con l’obiettivo di confondere e cancellare la memoria e l’esperienza di classe dei suoi militanti e dei lavoratori tedeschi.

Per fare ciò la rossa Rosa sente la necessità di tracciare un paragone tra le scelte dei rivoluzionari russi dal marzo all’ottobre del 1917 e quella delle componenti più radicali della rivoluzione inglese e di quella francese. L’excursus storico che la porterà ad affermare che “il partito leninista fu l’unico a capire i veri interessi della rivoluzione in quel primo periodo, ne fu l’elemento trainante, in questo senso, in quanto unico partito a fare una politica davvero socialista7 passa attraverso la valutazione delle scelte fatte dai Levellers e dai Diggers nello spingere avanti il corso della rivoluzione inglese, affinché questa non si arenasse nelle trame presbiteriane e monarchiche e, successivamente, attraverso la ricostruzione dell’azione giacobina nello spingere verso una compiuta democrazia la rivoluzione francese.

In entrambi i casi sono proprio le componenti più umili della società sei/settecentesca a spingere in avanti i progressi rivoluzionari. Ad impedire che dirigenze incerte potessero limitare o fare arretrare il percorso rivoluzionario dal suo naturale percorso. Riferendosi alla rivoluzione francese, ma in realtà anche ai compiti del moderno socialismo e alle teorie di coloro che, sia in Russia che in Germania, affermavano che la rivoluzione russa avrebbe dovuto accontentarsi di realizzare una compiuta democrazia borghese prima di affrontare il tema della rivoluzione socialista, la Luxemburg scriveva: “La superficialità liberale nel concepire la storia naturalmente non permise di capire che senza il sovvertimento «senza regole» dei giacobini, anche le prime, incerte e parziali, conquiste della fase girondina sarebbero state sepolte sotto le macerie della rivoluzione, che la vera alternativa alla dittatura giacobina, così come la poneva il ferreo corso dello sviluppo storico nel 1793, non era la democrazia «moderata» ma la restaurazione dei Borboni! La rivoluzione non è in grado di mantenere l’«aureo mezzo», la sua natura esige una rapida decisione: o la locomotiva, pompando a tutto vapore, viene trainata su per la salita della storia fino in cima, oppure, trascinata dalla forza di gravità, rotola indietro fino al punto più basso e trascina irrimediabilmente con sé nell’abisso quanti, con le loro fiacche energie, volevano tenerle a metà strada.“8

Per la teorica tedesca però era “chiaro che non un’apologia acritica, ma solo una critica accurata e riflessiva è in grado di rivelare la ricchezza di esperienze e insegnamenti. Sarebbe infatti una follia pensare che, in coincidenza con il primo esperimento nella storia mondiale di una dittatura della classe lavoratrice, e proprio nelle peggiori condizioni possibili – in mezzo all’incendio e al caos di un eccidio imperialista nella morsa di ferro della potenza militare più reazionari d’Europa, nel pieno fallimento del proletariato internazionale – proprio tutto quanto in Russia era stato fatto e disfatto fosse stato il massimo della perfezione. Al contrario, i concetti elementari della politica socialista e la comprensione delle sue necessarie premesse storiche costringono a prendere atto del fatto che , in condizioni così fatali, nemmeno l’idealismo più smisurato e l’energia rivoluzionaria più impetuosa sono in grado di realizzare democrazia o socialismo, ma solo tentativi impotenti e distorti verso entrambi9

Quali furono quindi i principali elementi “critici” su cui si soffermò all’epoca la rivoluzionaria tedesca?
Sostanzialmente tre: la ripartizione delle terre subito dopo la presa del potere da parte dei soviet e del Partito rivoluzionario, il principio dell’autodeterminazione delle nazioni applicato a partire dalla pace di Brest –Litovsk con cui la Russia rivoluzionaria aveva dovuto concedere ingenti conquiste territoriali alla Germania guglielmina per poter giungere alla fine della guerra e la questione della democrazia interna e dei rapporti tra Partito bolscevico ed esigenze e proposte delle masse rivoluzionarie.

Nei primi due punti, intrinsecamente legati alle parole d’ordine che Lenin aveva lanciato nell’ottobre del ’17 (Potere ai soviet, terra ai contadini e pace ad ogni costo), la Luxemburg intravedeva, nel primo, il pericolo, poi effettivamente verificatosi, che una disordinata distribuzione delle terre dei latifondi avrebbe potuto creare una classe di piccoli e medi proprietari che avrebbero poi potuto opporsi, in nome dei propri diritti proprietari, alla rivoluzione stessa. Con le successive note conseguenze, soprattutto durante la collettivizzazione forzata voluta successivamente da Stalin, la carestia in Ucraina e il massacro di centinaia di migliaia di presunti kulaki (medi proprietari terrieri) negli anni Trenta.

Mentre nel secondo la rivoluzionaria tedesca, sempre nemica di ogni forma di nazionalismo, vedeva la possibilità di una risorgenza nazionalista borghese e piccolo borghese che avrebbe minato sia la fiducia delle masse proletarie nella rivoluzione e nelle sue conquiste, sia il potere stesso della politica rivoluzionaria. Proprio come in seguito gli episodi della lunga e stremante guerra civile avrebbero poi dimostrato (dalla Finlandia all’Ucraina, che per la Luxemburg “non aveva mai costituito una nazione o uno stato”,10 e successivamente con l’argine costituito dalla Polonia del maresciallo Józef Klemens Piłsudski all’avanzata delle truppe rivoluzionarie verso il cuore tedesco del capitalismo europeo nel 1920). Finendo poi, di ritorno, a costituire la giustificazione per l’annessione forzata e l’occupazione militare voluta dalla politica “Grande russa” di Stalin nei decenni successivi alla sua presa del potere.

Ma al di là delle virtù “profetiche” dell’attenta analisi luxemburghiana della situazione “sul campo”, quello che il testo riprende ( e per questo in appendice è stato aggiunto il testo Problemi di organizzazione della Socialdemocrazia russa, scritto nel 1904, un anno prima della rivoluzione del 1905 e due anni dopo la stesura del Che fare? di Lenin) è la polemica dell’autrice con la concezione esclusivamente partitica e accentratrice dell’azione rivoluzionaria concepita dall’avanguardia bolscevica e da Lenin stesso.

Il partito di Lenin era l’unico ad aver compreso davvero il dovere e l’esigenza di un vero partito rivoluzionario che, con la parola d’ordine: «tutto il potere nelle mani di proletari e dei contadini» ha assicurato il proseguire della rivoluzione.11 Ma tale parola d’ordine era destinata ad entrare presto in conflitto con le decisioni, prese essenzialmente da Lenin e da Trockij, di limitazione delle espressioni di democrazia, a partire dall’affossamento dell’Assemblea costituente,

In primo luogo, a seguito di ciò, il diritto elettorale fu concesso solo a coloro che vivevano del loro lavoro mentre era negato agli altri. Ma “è ormai chiaro – scrive ancora Rosa – che un siffatto diritto elettorale ha senso solo in una società che è anche economicamente in condizione di garantire a tutti quanti vogliano lavorare una vita decente e civile attraverso il loro lavoro. E’ vero anche per la Russia attuale? Con le terribili difficoltà con cui la Russia sovietica – esclusa dal mercato mondiale, privata delle sue principali fonti di materie prime – si deve scontrare […] E’ un fatto che la riduzione dell’industria ha suscitato un massiccio afflusso verso le campagne di un proletariato urbano in cerca di una sistemazione. In tali condizioni, un diritto elettorale politico che abbia come premessa economica il lavoro obbligatorio, rappresenta una misura incomprensibile. In linea generale esso dovrebbe privare dei diritti politici soltanto gli sfruttatori. E mentre le forze produttive vengono sradicate, il governo sovietico si vede letteralmente costretto a lasciare l’industria nazionale nelle mani dei precedenti proprietari capitalisti.12

La tacita premessa della teoria della dittatura in senso leninista-trockista è che il capovolgimento socialista sia una questione per la quale c’è una ricetta bell’e pronta, infilata nella tasca del partito rivoluzionario, che deve solo essere realizzata energicamente. Purtroppo, o per fortuna, non è così […] Quello di cui disponiamo nel nostro programma è un numero esiguo di grandi indicazioni di carattere peraltro negativo, che mostrano la direzione in cui andrebbero presi i provvedimenti […] Del negativo, della demolizione si può decretare, del positivo e della costruzione no […] Solo la vita libera e in fermento inventa migliaia di nuove forme, improvvisa, promana la forza creatrice, corregge da sé gli errori13

Ecco cosa differenzierà sempre il pensiero della Luxemburg da quello di Lenin: la fiducia nell’azione delle masse di cui l’azione del partito deve essere un risultato e non una premessa obbligata. La rivoluzionaria tedesca era convinta che “nelle sue grandi linee, la tattica di lotta della socialdemocrazia non è, in generale, da ‘inventare’; essa è il risultato di una serie ininterrotta di grandi atti creatori della lotta di classe spesso spontanea, che cerca la sua strada. Anche in questo caso l’incosciente precede il cosciente e la logica del processo storico oggettivo precede la logica soggettiva dei suoi protagonisti“.14

Da ciò faceva derivare la seguente osservazione: “Se la tattica del partito è il prodotto non del Comitato centrale, ma dell’insieme del partito o, meglio ancora, dell’insieme del movimento operaio, è evidente che […] l’ultracentralismo difeso da Lenin ci appare come impregnato non già da uno spirito positivo e creatore, bensì dello spirito sterile del sorvegliante notturno. Tutta la sua cura è rivolta a controllare l’attività del Partito, e non a fecondarla; a restringere il movimento e non a svilupparlo, a strozzarlo, non a unificarlo15

Differenze e polemiche che, però, non videro mai venir meno la stima reciproca tra la rivoluzionaria tedesca e Lenin. Entrambi erano rimasti vicini nella sostanza, soprattutto quando erano stati tra i pochi socialisti contrari al primo macello imperialista; così che se la Luxemburg riconosceva in Lenin tutte le qualità del leader rivoluzionario agitato da una grande passione e da una grande energia, dall’altra il rivoluzionario russo riconosceva in lei lo “sguardo d’aquila” da grande teorica del socialismo.

Grazie dunque a Massimo Capritti e alle Edizioni BFS per averci ricordato, in occasione di questo centenario sotto tono, di quali contenuti fossero intessuti i dibattiti e di quali energie fossero dotati i rivoluzionari di quella stagione gloriosa della storia del movimento operaio.


  1. Amadeo Bordiga: Russia e rivoluzione nelle teoria marxista (autunno1954 – inverno1955), Le grandi questioni della rivoluzione in Russia (1955), La Russia nella grande rivoluzione e nella società contemporanea (1956) e Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (aprile 1955 – dicembre 1957)  

  2. La rivoluzione russa, pubblicata in lingua originale a partire dal 1950 e tradotta in italiano da Einaudi nella Collezione Storica tra il 1964 e il 1978, di cui soltanto il primo volume è dedicato alla Rivoluzione mentre gli altri nove ripercorrono il periodo dalla morte di Lenin all’esperienza del socialismo in un solo paese, alla pianificazione economica e ai rapporti con gli altri paesi e gli altri partiti comunisti fino al 1929  

  3. Almeno questo è ciò che afferma György Lukács nelle sue Osservazioni critiche sulla critica della rivoluzione russa di Rosa Luxemburg, contenute ora in Storia e coscienza di classe, SugarCo, Milano 1978  

  4. Pier Carlo Masini, Introduzione a Problemi di organizzazione della Socialdemocrazia russa, pag. 81  

  5. P.C. Masini, op. cit. pag. 83  

  6. pag. 7  

  7. pag. 39  

  8. pp. 43-44  

  9. pag. 33  

  10. pag. 58  

  11. pag. 44  

  12. pp. 67-68  

  13. pp. 71-72  

  14. Problemi di organizzazione della socialdemocrazia russa, pp. 99-100  

  15. Problemi, pag. 101  

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