Filostrato – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 30 Apr 2025 21:35:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 L’esorcista e la vamp – The Beginning (Nightmare Abbey 23/II) https://www.carmillaonline.com/2024/02/10/lesorcista-e-la-vamp-the-beginning-nightmare-abbey-23-ii/ Sat, 10 Feb 2024 21:00:19 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81137 di Franco Pezzini

(qui la prima parte)

Malinconia canaglia

Tra le varie rievocazioni del confronto tra Apollonio e una seduttrice vampiresca un’importanza speciale presenta quella di Robert Burton, dal suo immenso trattato-biblioteca The Anatomy of Melancholy (sei edizioni con progressivi accrescimenti tra il 1621 e il 1651), e più precisamente da quella terza parte sulla malinconia d’amore che ne costituisce la porzione più originale e virtualmente autonoma.

Se The Anatomy è tutta incentrata su uno stato peculiare, appunto la melancolia, che coinvolge istanze del macro come del microcosmo – associandosi a umore freddo-secco, età matura e autunno, vento aquilone ed [...]]]> di Franco Pezzini

(qui la prima parte)

Malinconia canaglia

Tra le varie rievocazioni del confronto tra Apollonio e una seduttrice vampiresca un’importanza speciale presenta quella di Robert Burton, dal suo immenso trattato-biblioteca The Anatomy of Melancholy (sei edizioni con progressivi accrescimenti tra il 1621 e il 1651), e più precisamente da quella terza parte sulla malinconia d’amore che ne costituisce la porzione più originale e virtualmente autonoma.

Se The Anatomy è tutta incentrata su uno stato peculiare, appunto la melancolia, che coinvolge istanze del macro come del microcosmo – associandosi a umore freddo-secco, età matura e autunno, vento aquilone ed elemento terra, pianeta Saturno e segno Scorpione, nell’ambito di un “sistema di corrispondenze e […] visione simbolica del mondo di cui la dottrina umorale è una sorta di semiotica generale” (così Attilio Brilli, Prefazione a Robert Burton, Malinconia d’amore, Rizzoli, Milano 1981) – ciò riguarda un’articolata casistica patologica su mente e corpo dell’umano vivente: per quanto riguardi una patologia del mostro, in particolare il non-morto, non si può che rinviare ai dotti studi di Vito Teti in tema di rapporto tra vampiri & malinconia (a partire idealmente da La melanconia del vampiro, manifestolibri, Roma, 1994). Rilevando al contempo l’importanza di tale oggetto in tempi come i nostri, in cui la depressione – sorella minore e meno nobile della malinconia – va fin troppo spesso a braccetto con una non-vita dall’alta marea farmacologica, frutto di infezione vampiresca sociale, economica e malaffettiva. Come sulla carcassa marina di Coleridge, Morte e Vita-in-Morte continuano la loro infausta partita scatenate spesso (ecco l’impatto sociale) dagli arconti di una politica inaffidabile e un’economia succhiasangue, leviatani e begemotti scippatori di speranza, da meccanismi di malafamiglia e relazioni malate, da tutte le teste dell’apocalittica bestia della paura di fronte alle crisi della storia.

Ma il rapporto con la melancolia va ben oltre l’onda lunga delle depressioni epocali: il termine aggrega un’intera costellazione di sofferenze interiori, da quella che oggi etichettiamo come depressione clinica a ossessioni, deliri, patimenti interiori. Del resto malinconiche sono le ombre che specie da un certo punto della vita in avanti ci insidiano, proiettate da passati conclusi, da perdite e lutti non esauriti nei decessi fisici ma scanditi in tutti gli strappi dell’esistenza, da nostalgie a tratti laceranti: davvero Burton – pastore protestante dotto e ironico, ma personalmente provato per tutta la vita da un’afflizione malinconica – è uno di noi, e semplicemente certe dimensioni le racconta meglio.

A detta sua, la malinconia è “una malattia così frequente […] nei nostri tempi miserabili, che pochi sono quelli che non ne sentono la pena” (sembra davvero che parli dei nostri tempi): la sua stessa grande opera è volta a offrire prescrizioni contro “una malattia, un morbo epidemico, che così spesso, così tanto crocifigge il corpo e la mente”. Salvo poi ammettere che i rimedi servono a poco…

Nato nel 1577 sotto la grande Elisabetta, vissuto sotto il re erudito e demonologo Giacomo I e morto nel 1640 alla fine del cosiddetto Periodo del governo personale di Carlo I prima della rivoluzione, Burton conosce un’Inghilterra di processi alle streghe e convulsioni politiche: la stessa voce circolata a Oxford che muoia suicida può essere una fantasia – va da sé – malinconica.

Miniato tra altre mille dottissime citazioni, l’episodio che ora ci interessa è citato in relazione agli amori attribuiti a spiriti e demoni: e pur registrando, con puntiglio barocco, le posizioni critiche (per esempio di Johann Wier), Burton vi contrappone prudentemente i sostegni dottrinali, di una pletora di autorità, da Agostino fino a Erasto, Sprenger, Bodin ma anche Paracelso e Cardano. E Filostrato, appunto, del quale offre una perifrasi sul racconto di “Menippo Licio” e della bella seduttrice. Una perifrasi fedele almeno nella prima parte, ma che poi continua:

 

Fra gli altri, alle sue nozze venne anche Apollonio il quale, seguendo un suo sospetto,  scoprì che lei era un serpe, una strega [lett. una lamia: «who by some probable conjectures found her out to be a serpent, a lamia»] e che tutto ciò che le apparteneva era come l’oro di Tantalo descritto da Omero, una semplice illusione. Vistasi smascherata, lei pianse e implorò Apollonio di mantenere il segreto. Ma poiché questi non si lasciò commuovere, la donna, il desco, la casa e tutto quello che conteneva, svanirono d’incanto…

[Robert Burton, Malinconia d’amore, cit. (The Anatomy of Melancholy Libro III) II, I, I]

 

Non è chiaro quanto Burton si renda conto di mutare gli assetti del racconto filostrateo, e in effetti le variazioni parrebbero lievi. Tuttavia un’analisi puntuale riserva sorprese, e permette di cogliere qualcosa di rilevante per la genesi del cacciatore di mostri del fantastico moderno.

Un primo aspetto riguarda la nemica di Apollonio, che dall’originario statuto fantasmatico-demoniaco acquisisce sempre più fisicità, prefigurando idealmente le vampire del gotico. In effetti l’avvertimento del teurgo a Menippo, nel testo filostrateo, «accarezzi un serpente, e un serpente accarezza te» pare da intendersi in senso ampio, più metaforico, nel senso dell’insidia letale, che non tipologico, in riferimento a qualche categoria di demoni-serpenti o alla magica trasmutazione d’un serpente in senso proprio. L’Apollonio filostrateo sembra dire in sostanza che Menippo, abituato dalla propria avvenenza a una certa disinvoltura nei rapporti con l’altro sesso (“«Tu […] sei un bel giovane, e le belle donne ti cercano…»”) in questo caso sta correndo un brutto rischio (“«…ma accarezzi un serpente, e un serpente accarezza te»”). Benché l’interpretazione tipologica non si possa escludere – per l’arcaico legame dell’aspide alla dea della morte e la confusione delle fonti antiche tra empuse e lamie associate al serpente – il riferimento sembra in Filostrato troppo generico, non supportato da puntuali disquisizioni demonologiche (che potremmo attenderci dal testo) e neppure sviluppato sul piano narrativo. D’altra parte, il riferimento esplicito di Filostrato alle empuse non permette di assumere quale dato scontato un richiamo tipologico al rettile: in via prioritaria sono altre, come abbiamo visto, le bestie assimilate a tale tipo di spettri dalla mitologia classica – anche se l’età tarda del testo filostrateo, la sua ottica peculiare e la possibilità di un uso generico del richiamo demonologico potrebbero giustificare un’ampia libertà di rilettura. La stessa Lamia/lamia (quale figura-matrice o singolo esemplare della relativa “specie”) che i rilettori di Filostrato almeno a partire da Burton sovrapporranno all’Empusa, conosce solo progressivamente l’assimilazione ai serpenti poi trattenuta nell’immaginario moderno, e parte piuttosto da arcaiche connotazioni canine.

L’orchessa Lamia, in relazione con l’inquietante Lamme sumerica, l’àccade Lamashtu e il Lamo capostipite dei cannibali Lestrigoni, regina di Libia figlia di Belo ed ex-amante di Zeus, potrebbe costituire un aspetto sanguinario di Atena ma è certo imparentata con Ecate; talune caratterizzazioni falliche l’avvicinano ulteriormente alla Gorgone (anch’essa legata/contrapposta all’Atena minacciosa tramite il gorgoneion), della cui figura è probabile che condivida la storia remota (per una sintesi sul profilo e i relativi sviluppi, cfr. qui). Sulle maschere da incubo di Lamia e Gorgone, e sulla costellazione occhi/sonno/veglia nei due miti paralleli parecchie considerazioni sarebbero da fare; almeno in una versione, poi, anche Lamia viene abbattuta con un colpo alla testa, da Euribato per salvare il giovane Alcioneo di Delfi a lei portato in sacrificio per ordine di Apollo. Dalla sua testa spaccata (non decapitata) si dice sgorgasse la sorgente di Sibari, preludio al sorgere dell’omonima città nel segno della connessione mitica tra Lamia, una morte e istanze di fondazione (Antonino Liberale, Transformationes, 8): ciò che, applicato analogicamente alle concatenazioni fantastiche che andiamo esaminando (l’immagine moderna del cacciatore di mostri e la fiction sulle vampire, paradigmaticamente inaugurate attraverso la maschera di Lamia) pare più che appropriato.

Rapitrice, assassina e divoratrice di bambini – i suoi li aveva uccisi la gelosa Era, direttamente o suscitando in Lamia una follia omicida – la Terribile libica veniva considerata un’icona eminente di lascivia, e delle lamie (come delle empuse) si sottolineava la capacità di trasformarsi in donne avvenenti e procaci. Se, in riferimento ai giochi etimologici alla base di tali narrazioni – quelli che per esempio Pausania (Viaggio in Grecia, I, 1, 3) attesta in riferimento alla città chiamata Lamia –

 

uniamo il «divorare» del punico laham con la «ingordigia» (lamyros) e la «gola» (laimos), avremo già la composizione di una figura di vampiro, che, al femminile, non può che connotare anche lascivia. Ed ecco allora la vicenda di Lamia che si unisce con Empusa, figlia di Ecate, e assieme si giacciono con giovani viandanti di cui succhiano il sangue mentre dormono.

[Silvano Sabbadini, Introduzione a John Keats, Lamia, Marsilio, Venezia 1996]

 

Ma appunto già Pausania aveva rubricato sotto il termine “lamia”, oltre a spettri e figure metaforiche, vari animali tra i quali un pesce: e nel tempo la natura attribuita alle lamie conoscerà progressivi slittamenti verso un più puro orizzonte teratologico/pseudozoologico, come nel volume inglese The Histories of Four-Footed Beasts del 1607 che ne presenta la bizzarra immagine – capo e seni di donna ma ermafrodita, corpo quadrupede da fiera con zampe anteriori artigliate e zoccoli alle posteriori, e coperta di squame di pesce o serpente. Certo Burton ripete ancora, con Filostrato, che la seduttrice pesca in un mondo di ectoplasmi e illusioni, virati ormai ai chiaroscuri di una demonologia antistreghesca: ma il richiamo un po’ sbrigativo (“scoprì che lei era un serpe, una strega/lamia”) per un pubblico che già ritiene di conoscere la specie in questione, finisce con l’evocare dagli scaffali dei dotti tutta una zoologia infarcita di meraviglioso, dal bestiario dei classici – si pensi ai serpenti parca, iaculo e anfesibena affrontati in Africa dai soldati di Catone nella Farsaglia –, fino alle Melusine e ad altre fate serpente, lamie appunto comprese, dei racconti folklorici medioevali (di riferimento è qui ovviamente l’articolatissima analisi di Laurence Harf-Lancner, Morgana e Melusina. La nascita delle fate nel Medioevo, Einaudi, Torino 1989). Un panorama peraltro in cui l’animale (a maggior ragione il serpe, oggetto della condanna di Gn 3, 14-15) è icona concreta, in carne e sangue, di diverse dimensioni e valori: dove dunque l’arcaicissima associazione tra donna & serpente appare ulteriormente rafforzata dallo stereotipo pseudocristiano della seduttrice, sorta di compenetrazione tra Eva e il tentatore edenico (più che voluto richiamo alla Lilith rabbinica), e immaginata come anche più potente nel peccaminoso mondo tardopagano dell’episodio corinzio. Con un passo successivo su tale linea di “concretizzazione” della lamia, la Bibliotheca classica di John Lemprière, 1788, ne descriverà la figura con volto e petto da donna, e il resto del corpo da serpente:

 

certi mostri d’Africa, che […] Allettavano gli stranieri perché venissero a loro, così da poterli divorare; anche se non erano dotate della facoltà di parola, i loro sibili erano gradevoli e intriganti. Alcuni le ritenevano streghe, o piuttosto spiriti maligni, che sotto le spoglie di belle femmine, attiravano i giovani e li divoravano.

 

Dove, tralasciando le suggestioni esotiche (i mostri-femmina africani che allettano gli stranieri, icona d’innumeri seduzioni mortali da romanzo popolare), la glossa sovrannaturalistica di “Alcuni le ritenevano…” non eclissa un più banale statuto teratologico: sorta di strani serpenti, insomma, che con suoni “gradevoli e intriganti” attirano i malcapitati per aggredirli. Proprio il passaggio dall’associazione letteraria filostratea tra serpente metaforico e demone/spettro (l’empusa) alla soluzione burtoniana di un serpente concreto con statuto demoniaco/streghesco (la lamia), prelude al capolavoro di Keats e alla dialettica tra fantasmatico e corporeo delle vampire del gotico, i mostri-femmina che tanti turbamenti recheranno agli epigoni di Apollonio: è suggestivo osservare come lo stesso Burton ricordi di sfuggita, poco dopo l’episodio filostrateo (e immediatamente di seguito al cupo racconto d’un tal Florilegus, Ad annum 1058, plausibile fonte per il celebre capolavoro del gotico, La Venere di Ille), quella vicenda di Filinnio e Macate dal De rebus mirabilibus di Flegone menzionata insieme all’avventura di Menippo/Licio (nel senso che il Menippo di Filostrato divenuto in Burton “Menippo Licio” si trasfigurerà in ultimo nel Licio di Keats) in tutte le summae sul vampiro letterario. Richiami che, incastonati in un’opera sulla malanconia, già preannunziano idealmente un tratto distintivo del più fascinoso mostro dell’immaginario occidentale, insieme sua condanna esistenziale e minaccia del medesimo al singolo e alla società.

D’altro canto, proprio la “concretizzazione” via via accentuata della lamia in mostro-femmina fa transitare la figura di Apollonio dall’antico ruolo di esorcista a quello di cacciatore di mostri. Ciò che interessa anzitutto i rapporti polari tra personaggi: è interessante notare come il trio di attrazioni e opposizioni incrociate (anche sessuali) del filosofo, di Menippo/Licio e della lamia finisca col rileggere in termini calibrati alle nuove inquietudini la classica triade di san Giorgio, principessa e drago. Ciò trova conferma nello stesso svolgersi delle eventi, in particolare attraverso la rimozione nel testo di Burton di ogni riferimento agli scongiuri del teurgo. L’illusione spettrale appare dissipata dalla sua stessa denuncia: la parola che distrugge il sortilegio non è una formula esorcistica (come in Filostrato) ma una rivelazione di verità, che Apollonio non tace nonostante ogni supplica e lacrima del mostro-femmina. Il motivo fantastico di atti e parole fatali (rivelazioni o domande legate a gravi conseguenze magiche) punteggia in realtà l’immaginario occidentale dalle trascrizioni folkloriche alla letteratura cavalleresca, e non stupisce che la melusina corinzia possa conoscerne il mistico impatto. Se poi in Burton ella si dimostra assai più fragile e disarmata che nell’originale filostrateo, limitandosi a pianti e suppliche desolate (al punto che le intenzioni distruttive di lei rimangono implicite in una notoria pericolosità della categoria classica “lamia”), ciò finisce con l’enfatizzare il dato dell’inflessibilità di Apollonio: un atteggiamento di durezza che, requisito di trionfo maschile sulle arti delle seduttrici e ben documentato in tutta una letteratura religiosa sulla lotta alla tentazione, conoscerà sviluppi persino allarmanti nella fiction popolare (si pensi all’immaginario nazista sul maschio insidiato: cfr. Klaus Theweleit, Fantasie virili. Donne Flussi Corpi Storia. La paura dell’eros nell’immaginario fascista, il Saggiatore, Milano 1997).

D’altro canto, lo scabro riferimento di Burton (“seguendo un suo sospetto, scoprì”), di per sé aperto a varie soluzioni interpretative/narrative, finisce col sottolineare il sapore razionale dell’intervento di Apollonio, e anzi l’inesorabilità della ragione che fa dileguare gli spettri, compresi quelli della sensualità. Mentre poi Filostrato taceva la sorte dell’empusa, Burton sottolinea come la lamia scompaia col resto del suo equivoco ologramma, col paradosso almeno apparente di un’acquistata concretezza fisica (il serpente) che però esplicitamente dilegua nella deriva dell’inconsistenza. Apollonio in sostanza perde il carattere originario di esorcista per apparire anzitutto l’indagatore acuto, il dissolutore di illusioni e – alla fine – il distruttore di mostri, serpi o streghe che siano: e con tali caratteri si accrediteranno i suoi figli letterari e cinematografici.

(2-continua)

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L’esorcista e la vamp – The Beginning (Nightmare Abbey 23/I) https://www.carmillaonline.com/2024/02/03/lesorcista-e-la-vamp-the-beginning-nightmare-abbey-23-i/ Sat, 03 Feb 2024 21:00:44 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81029 di Franco Pezzini

L’esorcista nel caleidoscopio

Avevo intrapreso un viaggio a Londra, per sfuggire all’inquietudine interiore e dedicarmi senza interferenze alla scienza. […] Mi chiesero subito di fare mirabilia, come se fossi un ciarlatano, e rimasi un po’ scoraggiato, perché, a dirla francamente, lungi dal pretendere di iniziare altri ai misteri della Magia Cerimoniale, mi ero ritratto dal fronte delle sue sfinenti illusioni. Inoltre, tali cerimonie richiedevano attrezzature costose e difficili da reperire. Mi seppellii quindi nello studio della Cabala trascendente e non mi preoccupai oltre degli adepti inglesi.

 

1854: il mago francese Éliphas Lévi, all’anagrafe Alphonse Louis Constant, cristiano [...]]]> di Franco Pezzini

L’esorcista nel caleidoscopio

Avevo intrapreso un viaggio a Londra, per sfuggire all’inquietudine interiore e dedicarmi senza interferenze alla scienza. […] Mi chiesero subito di fare mirabilia, come se fossi un ciarlatano, e rimasi un po’ scoraggiato, perché, a dirla francamente, lungi dal pretendere di iniziare altri ai misteri della Magia Cerimoniale, mi ero ritratto dal fronte delle sue sfinenti illusioni. Inoltre, tali cerimonie richiedevano attrezzature costose e difficili da reperire. Mi seppellii quindi nello studio della Cabala trascendente e non mi preoccupai oltre degli adepti inglesi.

 

1854: il mago francese Éliphas Lévi, all’anagrafe Alphonse Louis Constant, cristiano (non è stato ordinato prete solo perché all’ultimo si è innamorato di un’allieva del catechismo, e il suo direttore spirituale gli ha consigliato di risolvere prima la delicata situazione) e poi massone, nonché socialista libertario, arriva in Inghilterra, accolto dallo scrittore Edward Bulwer-Lytton e da un corteggio di appassionati e cultori di esoterismo. Un po’ stizzito per le attese che questi gli caricano addosso, neanche fosse un imbonitore di stramberie magiche, in generale Lévi sconsiglia le evocazioni e spinge i discepoli verso una magia essenzialmente speculativa: tuttavia si lascia convincere – appunto dopo la fornitura di “attrezzature costose e difficili da reperire” da parte di un’agiata vecchia signora, cioè un gabinetto magico completo – a evocare l’ombra del grande teurgo Apollonio da Tiana, e probabilmente la vede come occasione di crescita personale per incontrare un sommo filosofo. Nell’opera Dogme et Rituel de la Haute Magie, offrirà dell’episodio una memoria di grande fascino e tra l’altro di rara onestà: la descrizione di un’evocazione che lui controlla solo fino a un certo punto e apre a una dimensione altra, una dimensione all’insegna della morte e che lascia diversi. All’apparire dell’ombra il mago prima sprofonda in un dormiveglia, poi ha la sensazione di cogliere risposta alle proprie domande e la risposta è “dead”/“morto”: qualcosa che ha in fondo più i caratteri di una catabasi interiore che di un vero sensazionalismo sovrannaturalistico. Maugham farà narrare l’episodio al vilain Haddo nel suo romanzo Il mago (1908), e ne trarrà ottimi spunti narrativi su un terreno dove le dimostrazioni valgono pochino e qualcosa dell’aldilà passa nella nostra anima.

Ma coi tempi che corrono, l’antico teurgo non smette di apparire ben oltre i limiti del gabinetto magico di Lévi. Il suo principale anfitrione inglese, Bulwer-Lytton l’ha menzionato in The Last Days of Pompeii e in Zanoni (1834 e 1842); all’epoca dell’evocazione, Flaubert sta già meditando sul suo lisergico La tentazione di sant’Antonio, dove Apollonio epifanizza in forma allucinatoria solo diversamente disturbante davanti all’attonito eremita; e infinite altre chiamate dai morti del “Cristo pagano” incalzeranno tra letteratura ed esoterismo.

Curioso pensare alla mirabolante avventura nell’immaginario di un personaggio storicamente documentato del I secolo dopo Cristo, recuperato a polemiche religiose tardoantiche e all’immaginario esoterico ottocentesco eppure ancora piuttosto sfuggente. Si sta parlando di Apollonio di Tiana, “mago e stregone abilissimo” secondo Dione Cassio, o piuttosto sapiente maestro di vita, come lo celebra Filostrato in una biografia commissionata dall’imperatrice Giulia Domna (e ultimata, sembra, dopo la morte di lei avvenuta nel 217) nell’età meticcia dei Severi: una figura di filosofo, mistico e taumaturgo il cui occhio indagatore, attraverso un caleidoscopio di maschere ed epigoni, resterà a incalzare i mostri del fantastico di consumo come già la Lamia letteraria di Keats. Infatti, proprio l’episodio (notissimo, e più volte riletto nei secoli) della liberazione di un discepolo corinzio da un’insidiosa seduttrice disincarnata si raccorda in termini diretti con tutta una prassi di caccie al mostro letterarie e cinematografiche – in particolare di caccie alla vampira, attraverso le più note elaborazioni di Le Fanu e Stoker. Il profilo di Apollonio, dunque, presenta un rilievo particolare in riferimento all’incubazione di motivi e suggestioni poi infinitamente richiamati.

Lo splendido, policromo testo filostrateo (mi baso qui sull’edizione Filostrato, Vita di Apollonio di Tiana, a cura di Dario Del Corno, Adephi, Milano 1988), atipico quale biografia e non totalmente rispettoso dei canoni del romanzo, sarebbe tratto primariamente dall’ipotetico diario d’un Damis di Ninive, sorta di Sancio Panza o di Watson per l’immenso interlocutore lungo il filo delle sue peregrinazioni: dove l’itinerario nella sapienza – nel segno del fascino di nuove latitudini teosofico-sincretiste e (forse) di un’onesta conservazione di parole ed echi del vero Apollonio – si sposa inestricabilmente a quello nel meraviglioso, nutrito di esotismo ed erudizione dal chiaro sapore d’intrattenimento. Caratteri, questi, che certo rispondono e in qualche modo compensano culturalmente il malessere di un’epoca, a fronte di strutture sociali e politiche affette da gigantismo e in continua crisi e di tutto un mondo-labirinto oppressivo e angosciato: e d’altro canto non si riducono a una facile deriva nel mirabile/misterico, riproponendo invece in termini originalissimi un’eredità peculiarmente greca di curiosità, ricerca della sapienza e amore per la libertà. Al punto che, con accenti non scontati in un’opera di committenza imperiale, il maestro spirituale Apollonio dagli straordinari poteri legati all’ascesi – e non alla magia in senso becero, sottolinea Filostrato – si mostra insieme campione della libertà individuale contro i tiranni.

 

Nella scena del processo di Apollonio davanti a Domiziano, l’opera (…) trova il suo colpo d’ala. (…) Prima e durante la prigionia il sapiente ha animosamente sostenuto la sua polemica antitirannica; quando Domiziano dichiara di assolverlo ma vuole trattenerlo presso di sé, egli scompare prodigiosamente, sottraendosi al suo potere. Alla rivendicazione della libertà spirituale corrisponde la liberazione fisica.

[Dario Del Corno, Introduzione a: Filostrato, op. cit.]

 

Colui che già in precedenza, alla domanda del feroce Tigellino sul perché non temesse Nerone, aveva risposto: «Perché il dio che ha concesso a lui di ispirare paura, a me ha concesso di non provarla» (il prefetto del pretorio Eliano, amico di Apollonio, “finì per convincersi che quell’uomo non avrebbe provato paura nemmeno se gli avessero levato contro la testa della Gorgone”), afferma anzi di esorcizzare demoni e fantasmi nello stesso modo in cui affronta gli uomini malvagi ed empi. Alla sapienza serena del Tianeo si dissolvono le angosce, dileguano malattie e demoni, si rialzano morti veri o presunti – al punto da permettere la collocazione della sua immagine nel larario dell’imperatore Severo Alessandro con quelle di Abramo, Orfeo e Gesù, e addirittura un arruolamento postumo quale contraltare pagano di quest’ultimo (benché non siano mancate neppure forzature in senso opposto, come quella improbabile a profeta di Cristo presentata da Giorgio Sincello). Certo le interpretazioni contraddittorie – mago/stregone o sapiente illuminato – offerte di Apollonio in età antica possono ricondursi a una complessa unità in letture e travisamenti della figura storica dell’iniziato pitagorico e delle sue pratiche ricche di simboli arcaici: e d’altro canto esse vedranno nel tempo continue riproposizioni, tra esaltazioni devote del santo pagano e denigrazioni rabbiose a visionario, fanatico o arcimpostore.

La complessità del quadro sembra peraltro riflettersi sulla stessa, estrema varietà di incontri/scontri tra Apollonio e minacciose entità sovrannaturali. Filostrato inizia dunque mostrando il sapiente, in viaggio tra il Caucaso e l’Indo, affrontare un’empusa (protovampira “che prendeva ora questo, ora quell’aspetto, e talvolta svaniva nel nulla”) con una munita batteria d’insulti, e ordinare ai compagni “di fare lo stesso, poiché questo è il rimedio contro un incontro di tal genere” – tanto che “l’apparizione se ne fuggì stridendo, come fanno i fantasmi”.

Più avanti, in India, al Tianeo è sottoposto un caso di possessione da parte d’un demone “di indole beffarda e menzognera”, sedicente spettro d’un morto inquieto e forse innamorato del bellissimo sedicenne in cui ha preso dimora, che il teurgo però esorcizza con un infuocato scritto di minaccia: se la curiosa dignità apotropaica d’una lettera minatoria si fonda sull’idea del peso magico della scrittura, in realtà tutto l’episodio rivela una robusta consonanza antropologica – e una plausibilità storica in relazione al vero Apollonio – con resoconti di possessioni ed esorcismi repertoriati persino in anni recentissimi, anche in Italia (per un quadro recente, cfr. Domenico Scarfoglio e Simona De Luna, La Possessione Diabolica, Avagliano, Cava de’ Tirreni 2003).

D’altra parte non meno inquietante, per le eco di caccia al mostro-untore d’una prassi plurisecolare (e insieme magari, ai nostri occhi moderni, di leggenda metropolitana nutrita di paura e simboli irriconosciuti), è l’episodio che Filostrato colloca a Efeso devastata dalla pestilenza: il Tianeo smaschera sotto cenci da mendicante addirittura il demone del contagio, che lapidato dai cittadini lascerà a terra un corpo canino grande quanto “un enorme leone” – certo un richiamo ai cani sacri della neolitica Signora della morte e poi di Ecate, e insieme, forse, alle teratomachie di quell’Eracle cui Apollonio s’era rivolto in preghiera (come poi terrà a sottolineare nel testo di autodifesa davanti a Domiziano). Con Ecate, del resto, si confonde o connette quale inviata o accompagnatrice anche Empusa («colei che afferra, viola, si introduce a forza»), figura orrifica di aspetto variabile – giovenca, mula, cagna o donna bellissima, eventualmente luminosa come il fuoco ma con un piede di bronzo e l’altro in sterco di mulo – e tipo/matrice di un’intera specie di demoni succubi assimilati alle lilim («figlie di Lilith») palestinesi dalle natiche d’asino: e appunto un’empusa sarebbe, come abbiamo visto, lo spettro esorcizzato da Apollonio durante il viaggio in oriente. Se sull’equivoco rapporto tra singolo e legione, pluralità caotica ed emanazione di larve aggressive, la demonologia occidentale s’interrogherà per secoli, già i documenti antichi faticano a distinguere le empuse dalle lamie, altre pericolose sfiancatrici di maschi in cui si moltiplica similmente la canina Lamia: laddove poi i caratteri mostruosi e distruttivi di Empusa rammentano quelli di Medusa in una comune contiguità/identificazione con Ecate, l’utilizzo folklorico e persino parodistico della prima la confina in differenti – e meno illustri – ambiti mitici. Sembra probabile che la demonologia filostratea rilegga con una certa libertà i dati tradizionali (un po’ come avverrà secoli dopo nello scarto tra il vampiro del folklore e quello dell’esoterismo colto: cfr. qui), ma la fama seduttiva delle empuse – come il carattere licenzioso del demone possessore del giovane indiano – contribuisce a evocare lo spazio di un eros nero, vampirico e distruttivo contro il quale Apollonio e i suoi epigoni si misureranno per secoli. Lo spazio del mostro sembra aprirsi lì.

Filostrato prosegue narrando come nella Troade il teurgo intavoli una conversazione piacevolmente urbana con il temuto fantasma di Achille, ad Atene liberi un altro invasato da un demone dissoluto e appunto a Corinto salvi da una fine miserabile il bel venticinquenne Menippo di Licia, indirizzatogli con altri discepoli dal filosofo cinico Demetrio.

La vicenda è nota e repertoriata in ogni studio su vamp e vampire, ma è opportuno riproporla brevemente. A Menippo si accompagna una donna “bella ed elegante”, in apparenza straniera e ricca, che l’ha abbordato su una strada isolata e gli si concede nella propria casa in un sobborgo: però Apollonio, dopo aver lungamente osservato il discepolo (e su questo sguardo dovremo tornare) lo spiazza con parole inattese. “«Tu invero» gli disse «sei un bel giovane, e le belle donne ti cercano: ma accarezzi un serpente, e un serpente accarezza te»”. Il teurgo rincara la dose sostenendo che Menippo non può sposare la donna, e gli chiede se davvero è convinto dell’amore di lei – al che il discepolo ribatte, in termini pragmatici, che si comporta proprio come una donna innamorata. Menippo conferma anzi che le nozze saranno celebrate presto, fors’anche l’indomani, ed è interessante osservare come il tempo delle nozze, nei rapporti col mostro (dal folklore fino al cinema) rivesta un’importanza particolare: non solo, evidentemente, quale momento esistenziale forte in senso generico, ma come delicata fase di passaggio in cui il mostro tende l’agguato e che insieme custodisce – una sorta di terzo incluso che si contrappone ai partner (coppia o singolarmente presi) ma insieme ne è specchio oscuro, doppio e guardiano della soglia, non solo in relazione alla sessualità. Apollonio attende dunque il banchetto nuziale, e lì domanda a chi appartenga la ricchezza della sala, sentendosi rispondere da Menippo che tutto è proprietà della donna.

 

Riprese allora Apollonio: «Conoscete i giardini di Tantalo, che ci sono pur senza esistere?» «Sì, dai racconti di Omero,» risposero «dato che non siamo mai discesi nell’Ade.» «Di tal genere fate conto che sia anche tutto questo fasto» disse Apollonio «perché non è realtà, bensì apparenza di realtà. E affinché comprendiate ciò che dico, quest’ottima sposa è un vampiro [lett.: un’empusa], come quelli che la gente chiama fantasmi e streghe. Questi esseri s’innamorano, e il loro amore è rivolto ai piaceri del sesso, ma soprattutto alla carne umana: e con quei piaceri allettano coloro che essi vogliono divorare».

 

Invano la donna cerca di tacitarlo e di ridicolizzarlo: ricchezze e servitori si dissolvono “agli scongiuri di Apollonio” (il particolare, come vedremo, è importante) e a quel punto “lo spettro fingeva di piangere: pregava di non torturarlo e di non costringerlo a rivelare chi fosse” (le suppliche dello spirito impuro e la costrizione a rivelare il nome – cioè la forza propria del possessore – appartengono a tutta una tradizione esorcistica e sono documentate anche nei Vangeli).

 

Poiché quello [= Apollonio] insisteva e non lo lasciava libero, [la presunta donna] ammise di essere un vampiro, e di saziare Menippo di piaceri per poi divorarne il corpo. Era infatti sua abitudine cibarsi di corpi belli e giovani, poiché il loro sangue è più puro. Ho ritenuto necessario riportare per esteso questo episodio, perché è il più celebre della vita di Apollonio. Molta gente lo conosce, dato che accadde nel cuore della Grecia: ma viene tramandato in modo approssimativo, poiché ci si limita a dire che Apollonio a Corinto vinse un vampiro, ma poi si ignora che cosa questo facesse e che il fatto accadde a Menippo. Così lo racconta Damis, e io dalla sua storia l’ho ripreso.

 

Benché evidentemente, come si è visto, gli elementi ricalchino resoconti di genere, pare plausibile che l’episodio rielabori un autentico caso di esorcismo dell’Apollonio storico su un giovane fascinato (l’esame del teurgo sembra teso più a ricercare tracce psichiche che elementi di debilitazione fisica o i classici morsi vampirici della fiction): ma ciò che interessa è il forte radicamento del racconto in una prassi di liberazione spirituale. Tutto il testo filostrateo avalla esplicitamente l’interpretazione esorcistica, il richiamo a una liberazione che giunge essenzialmente dal Dio – come nel caso del demone-contagio di Efeso e appunto (sottolineerà Apollonio nella difesa davanti a Domiziano) in quello a Corinto, entrambi affrontati grazie a Eracle: non insomma grazie alle pratiche dei maghi, giacché simili “sciagurati sogliono […] dedicare tali atti agli abissi e alle divinità di sotterra, da cui Eracle va tenuto ben distinto, poiché è puro e propizio agli uomini […] e apportatore della loro salvezza”. Se però l’orizzonte è spirituale, il testo di Filostrato e in particolare la pagina corinzia già evocano in termini di elegante vivacità romanzesca una dialettica tra corpi, un filone che conoscerà via via enfatizzazioni più marcate: l’esorcismo dell’empusa (della quale Filostrato non racconta la sorte, ma che immaginiamo dileguata come qualunque altro demone ritualmente scacciato) diverrà insomma, nel tempo, una caccia al mostro-femmina dalle forti provocazioni fisiche.

I casi teratologici di Apollonio continuano con un neonato siracusano a tre teste (interpretato quale presagio della crisi politica postneroniana e delle brevissime avventure imperiali di Galba, Ottone e Vitellio), un’affascinante riflessione razionalistica sui giganti e il bizzarro episodio – ancora nel segno dell’erotismo nero – della doma di un satiro. In quest’ultimo, ambientato in Etiopia, Apollonio sta cenando coi compagni in un villaggio quando, all’improvviso, esplodono strilli di donne e grida di allarme degli uomini.

 

In effetti, già da dieci mesi il villaggio era frequentato dal fantasma di un satiro, che smaniava per le donne; e si diceva che ne avesse uccise due, di cui sembrava particolarmente innamorato. La compagnia era spaventata; ma Apollonio disse: «Non abbiate paura; sono i furori di un satiro che abita questi luoghi».

 

Egli però conosce il sistema per placare la creatura e fa versare quattro anfore di vino nell’abbeveratoio del villaggio, poi chiama il satiro “rimproverandolo con qualche formula segreta”: ed ecco il liquido scemare come bevuto da una presenza invisibile. A quel punto il Tianeo suggerisce di far la pace col satiro, che ha ormai smesso di far follie, e lo mostra addormentato in un vicino antro, “proibendo di percuoterlo o di offenderlo” (cfr. l’episodio taumaturgico di Tarso in cui è salvato dalla rabbia non solo il giovane infettato ma lo stesso cane aggressore, a mostrare una sensibilità di Apollonio simpaticamente umana). Se può stupirci la benevolenza verso la lasciva creatura fallica che ha ucciso due donne, a fronte del sarcasmo ostentato nei confronti del mostro-femmina divoratore di maschi, il contrasto non può che ascriversi entro un quadro culturalmente consolidato di simboli e istanze sessuali: Filostrato e probabilmente anche l’Apollonio storico restano tributari a un tradizione di simpatia verso il corteo di Dioniso e i ferini spiriti silvestri, e di ovvia diffidenza verso la legione oltretombale di Ecate. D’altro canto pare interessante la notazione aggiunta – “Se a qualcuno capita di leggere la lettera che [Apollonio] scrisse a un giovane intemperante, dove afferma di avere ridotto alla ragione il demone di un satiro in Etiopia, ricordi questo racconto”– che potrebbe denunciare anche in questo caso una fonte tecnico-esorcistica dell’episodio (la possessione di un uomo da parte d’uno spirito licenzioso?) in un’epistola attribuita allo stesso Tianeo.

Fin qui Filostrato: ma, come per un ennesimo prodigio, le gesta del grande teurgo continueranno a interpellare critica e fantasia dell’occidente mutando di continuo il significato degli atti, le intenzioni del protagonista, le tipologie di spiriti in gioco. Nelle singole riapparizioni, dunque, Apollonio diventa via via stregone o illuminato, cialtrone o santo, visionario o razionalista, in una giostra di volti alternativi che avrebbe divertito lui per primo; e d’altra parte, nella libertà delle riletture non stupisce realmente che del variegato quadro filostrateo si finisca col rammentare soprattutto l’episodio di Corinto.

(1-continua)

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