Fidel Castro – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 29 Oct 2025 21:32:56 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 La rivoluzione “nera” che mise da subito in discussione la “grande” rivoluzione https://www.carmillaonline.com/2020/12/22/una-rivoluzione-nella-rivoluzione/ Tue, 22 Dec 2020 22:00:30 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=62993 di Sandro Moiso

Jeremy D. Popkin, Haiti. Storia di una rivoluzione, Einaudi, Torino 2020, pp. 244, 28 euro

C’è stato almeno un periodo della Storia in cui gli schiavi africani deportati sul continente americano hanno fatto davvero paura: ai loro padroni bianchi e al mondo occidentale che si andava organizzando intorno al modo di produzione capitalistico. Il periodo è quello che va dal 1791 al 1804 e l’episodio è quello, prolungato, violento e vincente della rivoluzione haitiana. Rivoluzione che, oltre tutto, si inserì nel più vasto contesto della Rivoluzione francese e degli [...]]]> di Sandro Moiso

Jeremy D. Popkin, Haiti. Storia di una rivoluzione, Einaudi, Torino 2020, pp. 244, 28 euro

C’è stato almeno un periodo della Storia in cui gli schiavi africani deportati sul continente americano hanno fatto davvero paura: ai loro padroni bianchi e al mondo occidentale che si andava organizzando intorno al modo di produzione capitalistico.
Il periodo è quello che va dal 1791 al 1804 e l’episodio è quello, prolungato, violento e vincente della rivoluzione haitiana. Rivoluzione che, oltre tutto, si inserì nel più vasto contesto della Rivoluzione francese e degli inizi dell’esperienza napoleonica.

Per la prima volta, infatti, non soltanto gli schiavi si erano ribellati in maniera vittoriosa, ma anche avevano saputo darsi un’organizzazione, prima clandestina e poi militare e politica, destinata a dare vita alla prima nazione indipendente non governata da bianchi della Storia moderna.
Oltre a ciò i rivoluzionari haitiani misero in crisi, con la loro azione spesso irruente e selvaggia, l’immagine che la Grande rivoluzione e gli ideali illuministici che in qualche modo l’avevano sottesa volevano dare di sé. In nome di quel fasullo egualitarismo borghese che mai ha realmente tenuto in conto i popoli altri, le donne e, in fin dei conti, anche i proletari “liberati” dalle catene dell’Ancien Régime.

Sull’argomento già in passato sono stati pubblicati notevoli lavori, come ad esempio I giacobini neri di Cyril Lionel Robert James, ripubblicato nel 2015 da DeriveApprodi, ma uscito originariamente in lingua inglese nel 1938 e per la prima volta in Italia nel 1968 per le edizioni Feltrinelli. Originario della colonia britannica di Trinidad e Tobago nelle Antille, l’autore, più noto come C. L. R. James, fu uno dei primi militanti anticolonialisti neri, marxista e nazionalista. E di questa impostazione ideale il saggio, pur magnifico, risente oggi dei limiti compresi nella stessa.

Più attuale, e sicuramente più moderna e coinvolgente, risulta essere oggi la straordinaria trilogia di romanzi storici dedicata a quegli eventi da Madison Smartt Bell: All Souls’ Rising (1995) pubblicato in Italia da Instar libri col titolo Quando le anime si sollevano nel 1999; Master of the Crossroads (2000) in Italia Il signore dei crocevia (Alet 2000) e The Stone That the Builder Refused (2004), in italiano Il Napoleone nero (Alet 2008). Trilogia che lo stesso Popkin dichiara essere alla base del suo interesse per quegli avvenimenti e della sua ricerca.

L’autore, che insegna Storia all’Università del Kentucky, da tempo si occupa della storia dell’insurrezione e della rivoluzione haitiana oltre che della Rivoluzione francese e dei suoi giornali, ma affronta, in questa pur sintetica esposizione, le questioni poste dagli avvenimenti che posero fine al dominio francese sull’isola in maniera più ampia, accompagnandola e allo stesso tempo liberandola dall’unicità della figura gigantesca (seppur contraddittoria) di Toussaint Loverture, il Napoleone nero che ancora anima le pagine della trilogia di Smartt Bell. Per fare questo deve spingere lo sguardo oltre, ovvero al di là dei documenti amministrativi e delle testimonianze scritte, quasi esclusivamente da coloni francesi, per cogliere ciò che dal basso si espresse in quegli avvenimenti.
Un “basso” che si espresse con l’azione e non con i testi scritti e che, proprio per questo, è ancora leggibile e interpretabile dal lavoro dello storico. Che oggi non può più accontentarsi di una Storia scritta e, già solo per questo, profondamente segnata dai privilegi di classe e/o di razza e genere.

La ricostruzione di quella rivoluzione, inserita nel contesto delle cosiddette rivoluzioni atlantiche e di quella francese si presenta perciò come una lettura appassionante e utile ancora, e forse soprattutto, oggi. Motivo per cui diamo qui di seguito un esempio tratto dalle pagine introduttive del testo pubblicato da Einaudi nella collana La Biblioteca.

Con l’espressione «Rivoluzione haitiana», che è relativamente recente, si suole indicare i drammatici eventi che ebbero luogo sull’isola tra il 1791 e il 1804. Gli storici che si servono di questa formula sostengono che tali eventi devono essere messi sullo stesso piano delle rivoluzioni francese e americana nello studio della genesi dei moderni ideali di libertà e uguaglianza. La «Rivoluzione haitiana» implica altresì l’idea che alla base delle vicende di quegli anni ci fosse una certa unità, e che il loro esito finale debba essere inteso come il frutto della realizzazione di un programma portato avanti volontariamente, fin dall’inizio. E invece, come vedremo, non sempre queste proposte si rivelano fondate. Per esempio l’insurrezione di schiavi scoppiata nel 1791 riguardò solo una delle tre province della colonia e si sviluppò parallelamente a un altro movimento rivoluzionario, la rivolta dei liberi di colore di Santo Domingo, che perseguiva degli obiettivi profondamente differenti. Questi due movimenti rivoluzionari si ritrovarono spesso in contrapposizione, un conflitto che perdurò anche dopo la Dichiarazione d’indipendenza haitiana del 1804. All’inizio lottarono tutti e due contro il governo coloniale francese. Tra il 1794 e il 1801, però, dichiararono entrambi il loro sostegno ai francesi, prima che l’intervento di Napoleone nel 1802 spingesse gran parte della popolazione a schierarsi contro la madrepatria. La rivolta haitiana contro la schiavitù fu perlopiù portata avanti da una popolazione di illetterati e non produsse mai un manifesto in cui fossero chiaramente definiti gli obiettivi, ragion per cui lo storico deve fare il suo lavoro basandosi quasi interamente su fonti esterne, in buona parte ostili alla rivoluzione. Quella haitiana fu senza alcun dubbio una rivoluzione a tutti gli effetti, ma sarebbe comunque fuorviante cercare di inquadrarla a tutti i costi in un modello dedotto dalle esperienze americana e francese. Se vogliamo davvero considerare quella haitiana come una delle più importanti rivoluzioni del mondo moderno, dobbiamo dunque ripensare la natura stessa di tale fenomeno e, per esempio, riconoscere che una rivoluzione si può sviluppare anche senza un partito e un movimento (dichiaratamente – ndR) rivoluzionario.
Così come è fuorviante descrivere la Rivoluzione haitiana alla stregua di un movimento unitario dotato di obiettivi coerenti e chiaramente definiti, è altrettanto difficile intravedere nel principale leader Toussaint Loverture un capo rivoluzionario nello stile di Robespierre o Fidel Castro. Oggi non siamo neanche sicuri che egli abbia rivestito un qualche ruolo nell’avvio dell’insurrezione degli schiavi nel 1791. All’inizio, quando Toussaint si unì al movimento, non sostenne la completa abolizione della schiavitù e addirittura si oppose al primo decreto di emancipazione francese del 1793. Nel 1794 lasciò il fronte di lotta contro i francesi e si schierò dalla parte di questi ultimi, ribadendo con fermezza la sua fedeltà al governo della madrepatria anche quando il suo operato sembrava remare contro i francesi. Le leggi che Toussaint impose in questi anni alla popolazione di Saint-Domingue avevano un taglio piuttosto conservatore e spinsero molti neri a rivoltarsi contro di lui. Toussaint Loverture dimostrò senza alcun dubbio che un nero poteva governare un territorio chiave del mondo atlantico, cosa che peraltro ebbe una serie di importanti implicazioni sul piano rivoluzionario1


  1. J.D.Popkin, Definire la rivoluzione haitiana in Haiti. Storia di una rivoluzione, pp. 8-10  

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La Falcucci, la Potëmkin e l’amore: Genova, 1986 https://www.carmillaonline.com/2018/06/07/falcucci-potemkin-e-amore-genova-1986/ Thu, 07 Jun 2018 20:00:56 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=46057 di Filippo Casaccia

Sabato 11 gennaio La prendo larga: ho una prof di storia e filosofia che avrà quarant’anni, massimo quarantacinque, la Canepa. Interessante, un po’ sciupata, con un passato movimentista, se non ho capito male. Ci chiama per nome: la cosa dà fastidio a molti dei miei compagni ma a me pare la cosa più adulta che ci sia capitata in questo liceo. Beh, a novembre succede che un martedì facciamo tutti sciopero. Uno sciopero strategico per evitare un’interrogazione micidiale di fisica, una strage annunciata, e il giorno dopo, lei, alla prima [...]]]> di Filippo Casaccia

Sabato 11 gennaio
La prendo larga: ho una prof di storia e filosofia che avrà quarant’anni, massimo quarantacinque, la Canepa. Interessante, un po’ sciupata, con un passato movimentista, se non ho capito male. Ci chiama per nome: la cosa dà fastidio a molti dei miei compagni ma a me pare la cosa più adulta che ci sia capitata in questo liceo.
Beh, a novembre succede che un martedì facciamo tutti sciopero. Uno sciopero strategico per evitare un’interrogazione micidiale di fisica, una strage annunciata, e il giorno dopo, lei, alla prima ora, controlla le giustificazioni. Firma i libretti in silenzio ma si vede che sta covando un’incazzatura da pantera, anche se lo sciopero non la riguardava.
Quando finisce, chiede:
«E per cosa avete scioperato, ieri?».
Silenzio in classe.
Anch’io, francamente, non ricordavo nulla, se non un volantino con disegnato Spadolini a pecora e dei missili che gli puntavano dritto al culo.
A quel punto lì la prof rincara la dose:
«Okay. E la manifestazione com’è stata?».
Ancora silenzio.
Che una prof ti faccia il mazzo perché scioperi qui è consuetudine ma che s’imbufalisca perché non sei andato in corteo è grandioso. Ci ha fatto una cazziata epocale, con sacrosanta rampogna su diritti e doveri, sul nostro ruolo di attori politici e bla bla. Poi ha chiamato alla lavagna il povero Vaiolo, o Enzo come lo chiama lei, e l’ha brasato: 3 e mezzo, gli ha dato. A fine lezione era ancora nervosetta e ci ha caricato di compiti e ho pensato che ci fosse un po’ di confusione tra politico e privato. Però aveva schifosamente ragione e, adesso, ogni volta, prima di andare in piazza a dimostrare ci penso. E poi ci vado comunque.
Il fatto è che io stamattina non avevo voglia di entrare in classe, ma proprio per niente. Ci sono quei giorni in cui Genova ha una luce particolare e nell’aria tersa pulita dalla tramontana i colori diventano vivissimi. È come se si potesse vedere la città attraverso l’obbiettivo di una reflex: tutto nitido, splendente e a fuoco. Fa un bel freddo ma non c’è una nuvola e il cielo è blu cobalto. Quando sono arrivato davanti a scuola ho visto gli studenti medi che volantinavano e ho capito che il mio destino era segnato anche se Jacopo non sentiva ragioni:
«Sono solo cinque giorni che siamo tornati, dài», ha detto. «I voti del primo quadrimestre ce li portiamo alla maturità!».
Sì, e tutto quello che vuoi – ho pensato – ma oggi no, io non entro. Non me la sento, è una mattinata troppo bella per perderla con due ore di disegno e due di ginnastica: io vado in manifestazione. Ho calcato il mio berretto andino in testa e ho preso il 41 puntando verso Caricamento, dove c’è il raduno per una fantomatica adunata contro un preside di un istituto tecnico che ha punito due studenti che si baciavano durante la ricreazione. Questa storia da romanzo del secolo scorso la apprendo quando arrivo lì, all’assembramento, assieme a dir tanto a trecento ragazzi, la crema dei liceali genovesi, scansafatiche sì ma con un progetto politico o quasi in testa: si tratta di una baciata, mi dicono, una magnifica occasione per scambiarsi germi davanti a tutti con la scusa di una rivendicazione, dimostrando che si è innamorati o forse no ma non importa. Perché è una giornata spettacolare ed è bello urlare contro il ministro Falcucci, contro questo preside bacchettone e contro tutti i vecchi che ti guardano strano perché loro, alla nostra età, se lo sognavano di baciarsi per strada.
Come me del resto, perché – realizzo – sono solo come un cane.
Non ci sono tante bandiere politiche o striscioni, solo moltissime coppie. Mi metto diligentemente nel gruppone e declamo gli slogan, alzo il pugno, rido e canto, cercando la complicità di qualche altro cane sciolto, diciamo così.
Poi inquadro una coppia di ragazze spaiate e mi accodo: una ha una giacchetta verde militare e dei pantaloni marroni bellissimi, un po’ flosci, con le tasche laterali. Mentre sto ammirando l’originalità stilistica, lei si gira e mi guarda assieme all’amica. Lo slogan Ucci ucci! Sento odore di Falcucci mi muore in gola, mentre le sorrido. È… perfetta. Capelli lunghi, scuri, la riga in mezzo. Una cicatrice rosa sulla guancia destra, come Capitan Harlock, ma che le dona pure. Occhi chiari, allegri. Sussurra una cosa all’amica, fissandomi, e poi scoppiano a ridere.
Trovo la fantasia per dire una cosa giusta anch’io, una volta tanto:
«Ciao!».
Il corteo si ferma. Ancora canti e slogan, mentre ci guardiamo tutti un po’ imbarazzati, perché adesso dovrei inventarmi qualcos’altro. A levarmi d’impaccio arriva uno del servizio d’ordine, che in una manifestazione così è una cosa ridicola. È alto due metri, gli occhiali con la montatura nera spessa e un barbone da Fidel.
Si rivolge alla ragazza, sarcastico:
«Con uno del King?».
Ho lo stemma del mio liceo sullo zaino, in effetti, che fa molto campus americano, sul versante vorrei ma non posso. Poi si rivolge a me:
«Un fighetto della borghesissima Albaro! Oggi che ci si bacia, lotta dura senza paura, eh?».
Non so se sia veramente la giornata giusta o gli occhi di questa qui coi pantaloni militari o la congiunzione astrale, ma gli rispondo al volo, sicuro e senza calcolare le conseguenze:
«Beh, oggi giornata libera… sono appena tornato dalla zafra, non so se hai presente».
Fidel strabuzza gli occhi perché tutto s’aspettava fuorché una messa in dubbio del suo fervore rivoluzionario, da un albarino poi.
«La zafra?».
Ho rischiato, sì, ma quanti italiani andranno a fare il raccolto della canna da zucchero a Cuba?
Il castrista balbetta e chiede rispettosissimo:
«E dove!?».
«Cienfuegos, amigo!», gli rispondo. «Record personale di 326 chili in un giorno!». Che non so se sia poco, tanto o troppo, e allora faccio il modesto:
«Ma c’erano dei compagni bulgari che ne tagliavano anche di più».
Ho evocato tropici, rum e compagni fratelli del Patto di Varsavia: Fidel non è più ostile, balbetta qualche monosillabo e se ne va, tra l’ammirato e il tramortito, inventandosi un’emergenza in coda al corteo. Lo segue l’amica di Capitan Harlock, che ci lascia soli strizzandole l’occhio. Io non so bene che dire, adesso, ma la sconosciuta Perfetta mi porge la mano e rivolge lo sguardo verso la testa del corteo, come a dire: andiamo!
E allora andiamo, sì.
Cantiamo e ci sorridiamo, dicendoci tutto quello che vogliamo sentirci dire e ci fermiamo solo quando un ragazzotto dell’ITIS con la kefiah, uno che ho già visto tante volte in manifestazione, sale su una panchina e proclama col megafono che è venuto il momento di rispondere al preside. Si abbraccia con la tipa che gli sta di fianco e, là!, si sparano un limone che dura trenta secondi.
Silenzio emozionato e poi, quando finiscono, applauso liberatorio, come se dovessimo tutti riprendere fiato assieme a loro. È il segnale convenuto e tutte le coppie si uniscono in questo splendido gesto di resistenza civile. La ragazza Perfetta dai pantaloni con le tasche mi prende le mani, mi avvicina e alza le spalle, come a dire che ci tocca per solidarietà politica: mi toglie il berretto andino, se lo mette e mi invita con i suoi splendidi occhi. Cosa si fa in questi casi?
Mi bacia. Quando ci stacchiamo ride. E allora sono io a baciarla. Non so se lei baci bene o se lo faccio bene io – cosa di cui dubito, se non altro per scarsissimo curriculum – ma questa manifestazione ci piace. Eccome!
E da lì è una passeggiata. Mano nella mano.
Può nascere così una storia?
Io non capisco più nulla, felice come non mi capitava dall’11 luglio 1982.
Le chiedo come si chiama.
«Annalisa», dice, e aggiunge: «come la canzone dei New Trolls!».
Come, pardon?
«Io Eugenio». Esiste una canzone di De Gregori, ma non mi pare il caso.
Seguiamo il corteo, leggeri e un po’ stupidi. Chi sei, cosa fai, cosa studi, cose così, senza neanche ascoltarci, senza che lei mi chieda mai se ho la moto o quale sia la compagnia con cui esco, guardando invece le altre coppie e sentendoci bellissimi perché lo siamo anche noi, una coppia. Magari un po’ improvvisata, però due che sono uno, adesso. Lei ogni tanto mi indica degli scorci della città che non avevo mai degnato di uno sguardo. E Genova non è bella, è splendida. Vedo il leone in marmo che sta a fianco della scalinata della cattedrale di San Lorenzo e un po’ mi commuovo: sono nella Corazzata Potëmkin di Ejzenstejn!
«Ma Cuba?», chiede lei. Guardo in basso, confesso:
«In realtà non son mai stato più a ovest di Nizza».
Per fortuna ride.
«Ci andremo assieme, allora!».
E certo. Altro bacio. Flirtiamo, giocando alla coppia anche se non sappiamo neanche chi siamo. Ma è stato tutto così naturale che non mi sembra vero. Non so se sotto il pavé parigino ci fosse la sabbia, ma oggi sotto i lastroni di arenaria genovese pare proprio di sì.
Arriviamo davanti a Palazzo Ducale, un po’ scalcagnato come questa manifestazione felice e indolente, quando scoppia il casino. Un celerino – dei trenta che ci seguono a distanza – si piglia con un fesso che sta in coda al corteo. Non ho capito bene: una frase stupida, uno spintone, una manata. Fatto sta che il fesso – e sfigato aggiungo, perché non aveva nessuno con cui baciarsi e questo io ormai lo posso dire ad alta voce – finisce a terra. Quei Nobel coi manganelli gli tirano dei calci, un altro manifestante reagisce, un pulotto colpisce due che si stanno baciando e gli spacca le labbra nel bacio più eroico e sanguinante che abbia mai visto, e poi è il caos. Chi scappa, chi reagisce, chi non capisce: ma si possono caricare trecento studentelli imberbi che slinguazzano?
Sì, cazzo, si può, maledizione.
Il piccolo corteo sbanda e torna indietro, davanti al Duomo. Il leone è ancora accucciato e della Corazzata Potëmkin è rimasta solo la fuga precipitosa. Sono sballottato e la mano di questa perfetta Annalisa mi sfugge tra cappotti, zaini e caschi. Mi giro e non c’è più, non vedo la giacchetta militare e neanche il mio berretto che le è rimasto in testa. Qualche deficiente in divisa pensa pure che serva un lacrimogeno. O due o tre, perché ora c’è una nebbia giallorosa che avvolge tutti, un caffelatte onirico in cui la folla si dirada. Si agitano ombre sparse e ce n’è una più scura che sta ferma, a cinque metri da me, col manganello tenuto basso.
Mi sta fissando, direi.
Io strizzo gli occhi che lacrimano, ricambio lo sguardo e poi mi volto per vedermi dietro, perché non può mica avercela con me, che sto qui, fermo.
«Ma ce l’hai con me? ».
Ce l’ha con me eccome, ‘sto stronzo: alza il manganello e mi carica cacciando un urlo.
Roba da pazzi. Altro che vacanze cubane: mi volto e corro giù per via di Scurreria rischiando di volare sul selciato, perché è una strada con una pendenza di non so quanti gradi, ma tanti, e da lì arrivo in piazza Campetto e poi risalgo verso piazza San Matteo con un polmone in gola, la milza che urla e i polpacci in fiamme. Mi fermo davanti alle vetrine di un negozio di dischi, facendo finta di essere lì per caso, controllando nel riflesso del vetro se c’è qualche manganello alle spalle.
Ma nessuno insegue più nessuno, a parte me che dovrei, perché ho perso Annalisa.
E anche il berretto andino.
Ma più Annalisa.

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Le Cubane *3 – Plaza de la Revolución omosexual https://www.carmillaonline.com/2017/02/11/le-cubane-3-plaza-de-la-revolucion-omosexual/ Fri, 10 Feb 2017 23:01:51 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=35933 di Simone Scaffidi

Plaza de la RevolucionL’Avana. Plaza de la Revolución. Eloy ci serve la colazione: latte, caffè, goiaba, uovo con pancetta. Poi ci dà qualche consiglio per visitare il quartiere Vedado. Alla modica cifra di dieci pesos moneda nacional, ovvero meno di quaranta centesimi di euro, arriviamo fino a Plaza de la Revolución in taxi. Qui osserviamo le solenni effigi di Ernesto Che Guevara e Camilo Cienfuegos che dominano la piazza, l’una sulla parete del Ministerio del Interior e l’altra sulla facciata del Ministerio de Informática [...]]]> di Simone Scaffidi

Plaza de la RevolucionL’Avana. Plaza de la Revolución. Eloy ci serve la colazione: latte, caffè, goiaba, uovo con pancetta. Poi ci dà qualche consiglio per visitare il quartiere Vedado. Alla modica cifra di dieci pesos moneda nacional, ovvero meno di quaranta centesimi di euro, arriviamo fino a Plaza de la Revolución in taxi. Qui osserviamo le solenni effigi di Ernesto Che Guevara e Camilo Cienfuegos che dominano la piazza, l’una sulla parete del Ministerio del Interior e l’altra sulla facciata del Ministerio de Informática y Comunicaciones. I loro faccioni dai contorni metallici non sorridono e se per Guevara possiamo pure in parte accettarlo, per Camilo no. L’imponente monumento dedicato al padre della patria José Marti si erge altissimo davanti ai due comandanti. Ai suoi piedi un museo a lui dedicato e su lato occidentale della piazza la biblioteca che porta il suo nome. Grazie a un ascensore raggiungiamo la cima del monumento e scopriamo L’Avana da una prospettiva nuova. Le facce di Guevara e Cienfuegos si sono rimpicciolite, e da quassù ora è la piazza a dominarle. Riconosciamo l’inconfondibile architteturra dell’Hotel Nacional e col dito tracciamo nell’aria il profilo del Malecon. Ci ritornano in mente il tramonto di ieri e i pescatori. Il sole batte forte. La piazza è grigia. Il mare azzurrissimo. L’Avana dall’alto è un’esplosione di contrasti che si tuffano nell’oceano.

P1110272Università. Da Plaza de la Revolución ci spostiamo verso l’università, una delle più antiche delle Americhe. Ci arriviamo da una prospettiva inaspettata, dall’alto e di lato, non da sotto risalendo la grande scalinata. Rimaniamo piacevolmente colpiti dalla sua vivacità. Nell’edificio della facoltà di filosofia c’è un ritratto coloratissimo di Simón Bolívar donato a Cuba dal presidente venezuelano Hugo Chavez, stroncato pochi giorni fa da un tumore. Nella stanza d’ingresso sono appesi i ritratti di Fidel, Raul, Camilo ed Ernesto. Ci stupiamo, è molto raro incontrare fotografie del Lider Maximo. Chiedo a un bidello se conosce lo scrittore Daniel Chavarría e se ci sono possibilità di incontrarlo per di là. L’uomo mi guarda perplesso, si dispiace, sembra non conoscerlo. Scendiamo l’imponente scalinata dell’università e ci dirigiamo verso l’Hotel Habana Libre, ex Hotel Hilton espropriato dai guerriglieri all’indomani del 1° gennaio 1959  e diventato il quartier generale dei ribelli e di Fidel. Era stato inaugurato appena nove mesi prima della Rivoluzione. Riusciamo a entrarci, non sappiamo neanche noi bene come, prendiamo un ascensore e arriviamo all’ultimo piano. Nessuno ci ferma. E ora non so più se quello che sto raccontando è accaduto davvero. E non lo sa neppure la persona che ho accanto. C’è una stanza aperta, sembra una suite, la porta socchiusa. Sbrirciamo, esitiamo, poi entriamo. E lì li vedo seduti sui divani, sarà il 6 o 7 gennaio del 1959, ci sono i comandanti, c’è Fidel, c’è Celia. Fumano. Ridono. Ma sono risate tese. La vittoria eccita, l’impazienza regna, la paura. Sento la paura. Mi avvicino al vetro, siamo altissimi. Come possiamo restare quassù?

P1110303L’incontro con il figlio di Raul. Passeggiamo per il quartiere del Vedado, compriamo il quotidiano Granma da un signore che grida per la strada e saltiamo su un taxi colectivo per raggiungere Camilo. Ci aspetta all’incrocio tra Avenida 10 de Octubre e Calle Dolores. Insieme compriamo gli ingredienti essenziali per l’aperitivo: rum, cola e patatine. Affacciandomi dall’entrata sopraelevata del negozio, alla vista del parcheggio adiacente, gli occhi mi si colorano. Una decina di auto d’epoca color pastello sono ordinate una accanto all’altra a spine di pesce. Dentro quale film hollywoodiano mi trovo? Camilo ci tiene a farci conoscere la sua famiglia. Incontriamo sua moglie, le sue due figlie e il caro amico Socrates. Socrates è molto simpatico. Ci racconta di sua moglie, dice che lavora come infermiera ma nella vita privata è una vera e propria poliziotta, perché lo controlla sempre. Ha la battuta sempre pronta e una risata grassa e calorosa. Camilo ci racconta un po’ delle sue esperienze in Italia, della sua scuola di arti marziali por la izquierda (in nero), dei suoi incontri illegali di pugilato per farsi qualche soldo e soprattutto del suo ormai ex lavoro per lo Stato cubano. Faceva parte di un dipartimento speciale, ancora attivo, che aveva l’obiettivo di portare capitali stranieri a Cuba. Camilo lavorava quindi legalmente in Italia e in Svizzera ma convinceva i suoi pazienti a recarsi a Cuba per continuare a farsi curare da lui por la izquierda. Buona parte di quello che guadagnava in Italia e in Svizzera andava allo stato cubano. Prima di questo impiego lavorava per la sicurezza del corpo diplomatico all’estero e ha operato in Angola, Congo ed Etiopia. È un invasato di arti marziali e difesa personale. Racconta che una volta ha litigato con il figlio di Raul, e per risolvere i dissidi hanno deciso di sfidarsi in un incontro di boxe. E lui lo ha battuto. Il suo obiettivo nella vita, lo dice con orgoglio, è allenarsi, per essere sempre pronto a difendere la sua famiglia e la sua casa.

Omosessualità. La figlia di Raul Castro ha preso posizione in favore dei diritti degli omosessuali. Camilo e Socrates riconoscono con una certa umiltà di essere indietro su questi argomenti ma non accettano comunque la sua posizione. «Non è possibile che un gay valga più di un uomo che ha servito lo Stato e ha rischiato la sua vita per lo Stato, e per cosa poi..» sbotta Camilo. Sembrano ricorrere le lamentele di chi ha lavorato per il regime e non vede riconosciuto il proprio servizio dato allo Stato. Oggi Camilo ha deciso di evitare che la sua strada s’incroci con quella del regime. La sua vita, afferma, non è migliorata servendo lo Stato e quelli che non hanno mai fatto niente gli sono passati davanti. Lo dice alludendo agli omosessuali. Afferma di essere fortunato perché sua sorella è fuori, lavora in Spagna, a Murcia, e gli invia spesso dei soldi per mantenere al meglio le sue due bambine. La immagini di Fresa y Chocolate scorrono sotto le sue parole. È solo il terzo giorno che siamo sull’isola e già c’imbattiamo in una interessante conversazione sull’omosessualità con due cubani. Anche Socrates, come Eloy, ha studiato in URSS. Lui è stato cinque anni a Odessa in Ucraina, ha lavorato come ingegnere idroqualcosa e dice che il freddo e la neve gli sono piaciuti molto. La moglie di Camilo è in cucina, ci prepara delle patatine fritte buonissime. Le due bambine corrono a portarcele, scambiano qualche battuta con noi forestieri, e ritornano velocemente in casa. Siamo seduti in giardino, solo noi quattro, di giorno questo quadrato di cemento contornato dal verde si trasforma in palestra, qui Camilo allena se stesso e i suoi allievi a essere sempre pronti a difendersi dai nemici. Guardo la moglie e le figlie di Ernesto, ci conosciamo troppo bene, basta un lieve movimento degli occhi per leggerci i pensieri. Noi siamo spaparanzati a bere e chiacchierare di politica, Europa e omosessualità. Loro sono in cucina. Non si siederanno mai con noi, come nelle migliori famiglie italiane.

Fidel Castro affacciato dal balcone dell'Hotel Habana Libre, ex Hotel Hilton

Fidel Castro affacciato dal balcone dell’Hotel Habana Libre, ex Hotel Hilton

L’alcool scende e il rum sale. Il telefono di Socrates squilla e ho il piacere di parlare al telefono con la poliziotta, sua moglie, assicurandogli che il marito entro pochi minuti rientrerà a casa. Grasse risate. Salutiamo Socrates e lui appena arrivato a casa ci richiama. Abbiamo passato una bella serata ma non è finita qui. Ora dobbiamo conoscere la vera casa di Camilo, quella della madre. Saltiamo in macchina. Sulla soglia della porta ci accolgono sorrisi e calorosi abbracci di una donnona nera che non perde tempo ad offrirci un refresco all’arancia. Poi Camilo inizia il suo show e si mette a fare il mago. Non ha grandi doti e lo smascheriamo immediatamente. Nonostante il rum salga ai piani alti della testa ho ancora le forze di controbattere all’egocentrismo di Camilo con le stesse futili armi. I miei cavalli di battaglia sono il trucco di carte più stupido della terra e quello della moneta che entra nel gomito. La mamma di Camilo è felice, ci abbraccia, ci tocca e ride di gusto. Mentre ce ne stiamo per andare, in ingresso, ci accorgiamo dell’altare dedicato a Yemayà, la dea del mare e di tutti gli dei. Vorremmo stare tutta la notte a ridere nel bianco degli occhi di questa donna grassa e nera, ascoltare i suoi racconti sulla Santeria cubana, ma Camilo deve riportarci da Eloy. E proprio mentre apriamo la porta, un forte acquazzone tropicale ci sorprende.

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Le Cubane *2 – Gelato e rivoluzione https://www.carmillaonline.com/2017/01/28/le-cubane-2-gelato-rivoluzione/ Fri, 27 Jan 2017 23:01:12 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=35462 di Simone Scaffidi

p1110036-copiaL’Avana. Museo de la Revolución. Svegliati da un’acquazzone tropicale facciamo colazione con uova, latte, caffè e toast. Eloy ha un vassoio in mano, un buongiorno tra i denti e un sorriso stampato poco sopra. Piove a dirotto, è il giorno giusto per visitare il Museo de la Revolución. Un amico di Eloy che fa il tassista ci accompagna fino in centro. Si chiama Juanito e ci fidiamo subito di lui e dei suoi consigli. Il museo è tradizionale e celebrativo e ha sede nell’antico [...]]]> di Simone Scaffidi

p1110036-copiaL’Avana. Museo de la Revolución. Svegliati da un’acquazzone tropicale facciamo colazione con uova, latte, caffè e toast. Eloy ha un vassoio in mano, un buongiorno tra i denti e un sorriso stampato poco sopra. Piove a dirotto, è il giorno giusto per visitare il Museo de la Revolución. Un amico di Eloy che fa il tassista ci accompagna fino in centro. Si chiama Juanito e ci fidiamo subito di lui e dei suoi consigli. Il museo è tradizionale e celebrativo e ha sede nell’antico Palacio Presidencial. Ripercorre la storia di Cuba e de la Revolución dal 1953 ai giorni nostri attraverso una quantità innumerevole di foto affascinanti e vari cimeli, tra i quali spiccano le divise con le toppe cucite del 26 de Julio, storici articoli di giornale e documenti originali scritti di pugno da Fidel, dal Che, da Camilo Cienfuegos, da Frank Pais e da molti altri. Fu Celia Sanchez che raccolse i primi materiali che diedero vita al museo. L’area all’aperto ospita il carro armato utilizzato da Fidel durante l’offensiva controrivoluzionaria della Baia dei Porci e il celebre Granma, lo yatch con il quale 78 esuli cubani, accompagnati da un illustre argentino, un italiano (Gino Donè Paro) , un domenicano e un messicano sbarcarono sulle coste della Provincia d’oriente e diedero fuoco alle polveri della Rivoluzione. Altri reperti bellici circondano il Granma: un cingolato con disegnata una stella rossonera con la scritta “26 Julio” in bianco e un aereo pilotato da un militare statunitense durante l’invasione della Baia dei Porci (1961). Nella didascalia esplicativa leggiamo che il governo degli Stati Uniti per ben 19 anni non ha richiesto il corpo del militare caduto per non ammettere la propria implicazione nel tentativo di colpo di stato contro Cuba.

p1110081Gelato. Finita la visita camminiamo verso l’università e ci dirigiamo senza esitazione a Copelia, la gelateria più popolare di L’Avana. Prima di partire per Cuba ci siamo visti Fresa y Chocolate, il bel film di Tomás Guitiérrez Alea, nel quale i due protagonisti, in una celebre scena, mangiano il gelato seduti nel patio della gelateria. Per arrivarci penetriamo nel cuore di L’Avana percorrendo il Centro: davanti a noi si aprono scenari di guerra, case sventrate e strade divelte, ma anche colori e musica di tamburi dalle finestre. Le strade sono piene di gente. L’Avana va scoperta a passo lento, ogni angolo sembra parlarti e obbligarti a riflettere. Non smettiamo di stupirci per le automobili “d’epoca” che sfrecciano per le vie polverose, comete tossiche che si si lasciano alle spalle una scia di tuoni e nuvole nere. I polmoni tremano al rombo dei motori. Copelia è un posto magnifico e incredibilmente accogliente. La fila è lunghissima, ci sorprendiamo quando ci accorgiamo di essere gli unici stranieri e ce ne rallegriamo. Il gelato costa all’incirca 20 centesimi di euro al piatto. Un piatto di gelato è composto da quattro palle di gelato. Non c’è cubano che ne prenda uno soltanto, minimo due a testa. I tavoli sono coperti di piatti e contenitori di plastica. Noi facciamo lo stesso: ne prendiamo rispettivamente tre e due. Non riusciamo a capire l’utilità dei contenitori di plastica ma poi osserviamo e comprendiamo. I cubani si portano da casa i contenitori, poi ordinano cinque o sei piatti a persona, che moltiplicato per quattro palle di gelato, fa tra le 20/25 palle, si mangiano due o tre patti e i restanti li rovesciano nei contenitori, se li portano a casa e li conservano per i giorni successivi. Insomma come fosse gelato d’asporto. Da Copelia il gelato è “statale” e molto economico. Come ci spiegherà Eloy la sera l’80% dei gelati in circolazione sono vendibili soltanto in CUC e sono quindi molto più cari di quello di Copelia. Il restante 20% invece è venduto in peso cubano (moneda nacional). E di quel 20% Coppelia è di gran lunga il maggior azionista.

p1110138Gelato sociale. Discutiamo di giustizia sociale, fanno bene a inculare i turisti con la storia dei CUC pensiamo, chi può permettersi di pagare il gelato di più dovrebbe pagarlo di più. Le belle parole rimangono belle parole, noi la fila l’abbiamo fatta coi cubani e il gelato lo paghiamo in pesos come loro. Solo dopo ci siamo accorti che c’era una corsia preferenziale per gli stranieri, meglio così, se vuoi mangiare il gelato subito, non fai la fila e lo paghi come in Europa. Noi non ci sentiamo turisti, non vogliamo esserlo, nel bene e nel male.

Tramonto. Sta per tramontare il sole, siamo nel quartiere del Vedado, non lontani dal Malecon, il lungomare di otto chilometri che abbraccia e protegge l’Avana. Lo raggiungiamo. Fra noi e il mare soltanto rocce, la spiaggia non c’è. Sono le sette e mezza, il tramonto è immenso. Ci convinciamo che lo sia davvero. Le tinte arancioni, blu e gialle sembrano non volerne sapere di lasciare il campo al nero della notte. Ma poi accade l’inevitabile e l’oscurità ha la meglio. Dall’altro lato della strada si apre Plaza Tribuna Anti-Imperialista che sfida con la sua toponomastica il palazzo di vetro della Unites States Section, la non-ambasciata degli Stati Uniti in terra cubana, che però, in pratica, ricopre le medesime funzioni di un’ambasciata. Anche a Washington c’è una roba del genere cubana. È presidiata tutta intorno dai militari, disposti a pochi metri di distanza l’uno dall’altro lungo il perimetro. Voglio vederla da vicino la Us Section e allora senza esitazioni mi butto in mezzo alla strada sfidando il grande stradone a quattro corsie che separa il mare dal palazzo di vetro. I militari cominciano a fischiare con insistenza e mi intimano con ampi gesti di tornare indietro. Mi fermo in mezzo alla strada, tentenno e poi rapidamente ritorno sul lato del mare ancora senza capire. Pensavo di poter attraversare quella strada e camminare sul marciapiede opposto ma non è così. Riprendiamo la passeggiata sul Malecon con un po’ di spavento. Ci chiediamo se abbiamo rischiato la vita. E ci rispondiamo che con ogni probabilità non è successo. Dopo una cinquantina di metri mi siedo sul muretto che dà sul mare nero, ormai fusosi col cielo. Ma il fischietto attraversa inesorabile la strada e ci invita a continuare a camminare e non fermarci.

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Rum per ragazze. Torniamo a casa stravolti. Ci accoglie Eloy con un bicchiere di rum. «È un nuovo tipo – dice – un rum dolce, un rum per le ragazze, meno forte». Ci racconta che in Spagna hanno iniziato ad importarlo, che hanno comprato l’intera produzione della ex fabbrica Bacardi che ora si chiama Santiago. Ci racconta che Bacardi era cubano e la fabbrica pure, ma dopo il ’59 si è “trasferito” negli Stati Uniti e il marchio in seguito è stato comprato da statunitensi. Ma la vera fabbrica Bacardi, assicura Eloy, è rimasta a L’Avana.

Sistema politico VS sistema economico. Eloy ha diversi lavori, tra cui uno in questa fabbrica e un altro come installatore di para fulmini. Si è occupato anche di turismo. Deve arrangiarsi e saper fare un po’ tutto, non per sopravvivere, sottolinea, questo è già garantito a chiunque dallo Stato, ma per vivere meglio. Il sistema politico funziona, dice, è quello economico che non va. Con Raul sono cambiate delle cose, Fidel si è incaponito sul politico tralasciando l’economico. Ma di politica non si campa senza un buon sistema economico, ripete. Chiacchieriamo a lungo tra un cicchetto di rum “da ragazze” e un sorriso di Olguita, sua figlia. Ha quattro anni e mi racconta dei suoi amiguitos de la escuela e di come sa fare bene il verso del gatto. Non finisce di dirmelo e già miagola un sorriso furbo.

Acqua. Oggi l’acqua per lavarsi non c’è. Eloy dice che ha piovuto troppo e la gente non è andata a lavorare e per questo non è stata garantita l’acqua. Ma ora, continua, le cose vanno molto meglio, negli anni novanta durante il Periodo Especial l’elettricità era razionata: quattro ore di elettricità e quattro ore no.

Spazi bianchi. Quante cose non sto scrivendo di questa bellissima conversazione. I sigari cubani Cohiba costano un sacco di soldi, il rum ce lo procura lui in fabbrica e i sigari pure se li vogliamo. L’Avana ci piace sempre di più. Proxima estación: Plaza de la Revolucion.

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Le Cubane *1 – L’Avana è un taxi colectivo https://www.carmillaonline.com/2017/01/14/le-cubane-1-lavana-un-taxi-colectivo/ Fri, 13 Jan 2017 23:01:10 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=35350 di Simone Scaffidi

p1100951[Le cubane è un diario di viaggio scritto tra il marzo e l’aprile 2013 durante una permanenza di 35 giorni a Cuba in cui ho avuto modo di percorrere da occidente a oriente l’isola. Verrà pubblicato a puntate sulle pagine di Carmilla a partire da questo momento. Buona lettura].

L’Avana. Taxi. Fuori è buio ma sui muri, tra le fronde degli alberi, intravediamo facce barbute e bandiere cubane. Eloy, l’amico del nostro gancio transoceanico Camilo, ci accoglie nell’oscurità della madrugada. Il suo viso è gentile e sorridente [...]]]> di Simone Scaffidi

p1100951[Le cubane è un diario di viaggio scritto tra il marzo e l’aprile 2013 durante una permanenza di 35 giorni a Cuba in cui ho avuto modo di percorrere da occidente a oriente l’isola. Verrà pubblicato a puntate sulle pagine di Carmilla a partire da questo momento. Buona lettura].

L’Avana. Taxi. Fuori è buio ma sui muri, tra le fronde degli alberi, intravediamo facce barbute e bandiere cubane. Eloy, l’amico del nostro gancio transoceanico Camilo, ci accoglie nell’oscurità della madrugada. Il suo viso è gentile e sorridente e non mostra i segni di uno svogliato risveglio.

Notte. Il cancelletto bianco, sgualcito dai segni del tempo e dalle cicatrici della ruggine, si chiude alle nostre spalle mentre una casa coloniale bianco e azzurra, illuminata in chiaro scuro dalla luce fioca dei lampioni, si alza di fronte a noi. È una villa spoglia, come scopriremo l’indomani, arredata modestamente e dagli alti soffitti. Eloy è di poche parole, ci mostra la camera dove dormiremo. Orizzontali, godiamo di un materasso morbido, lenzuola bianca e cuscini bombati. La scomodità dei rigidi sedili della compagnia charter che ci ha portato fin qui sfuma via.

Mattino. La luce filtra dalla porta in ferro pesante, il condizionatore ronza. La stanza a piano terra ricorda casa di Silvita in Costa Rica. Il telecomando non risponde, la vecchia televisione non si accende, la radio ha il mangiacassette. Cerchiamo di sintonizzare Radio Rebelde ma il segnale è disturbato. Alcune sedie arrugginite circondano un tavolo massiccio al centro del cortiletto interno, questa notte lo abbiamo circumnavigato ma solo la luce del giorno ci consente di scoprirlo. A pochi metri di distanza, una panca in pietra grigia lo osserva. Un’enorme mangueira domina il patio cementino e una rete protegge la nostra testa dai gustosi frutti maturi in caduta libera. «È la stagione giusta». Sono le parole di un uomo robusto in ciabatte, calzoncini e maglietta. È Eloy. «In questa stagione i manghi sono secchi e dolci. Vi preparo un caffè e vi porto un po’ di frutta». Il caffè è dolce, troppo dolce. «Benvenuti ai Caraibi».

L’URSS e l’Africa. Eloy ha lavorato sette anni in Unione Sovietica come pilota di aerei, lì ha imparato il russo e un po’ di inglese. Ora è fisso a La Habana con la moglie e le sue due bambine. Ha diversi lavori per le mani: aggiusta praticamente tutto quello che gli capita, è specializzato in circuiti elettrici, è un affittacamere, fa l’operaio alla fabbrica di sigari e l’allevatore di maiali a tempo perso. Il suo amico Camilo arriva a metà mattinata, è lui il nostro gancio, lui che ci ha trovato da dormire da Eloy. Nero di carnagione, porta occhiali da sole con lenti a specchio, è alto e muscoloso e ha battuta e sorriso facile. Dimostra una trentina d’anni ma scopriremo che ne ha cinquanta. Dopo i primi convenevoli gli chiediamo che cosa fa nella vita e lui parte da lontano raccontandoci che ha partecipato alla guerra in Angola nell”86 e ha operato in Congo ed Etiopia, non specifica il suo incarico. Poi ha vissuto per qualche anno a Modena e in Austria dove ha lavorato come fisioterapista e naturopata aiutando economicamente e a distanza il Partito. Con i soldi che è riuscito a mettere da parte ha sistemato la casa dove ore abita. «Ma sono rimasto troppo poco tempo fuori da Cuba per diventare ricco» sospira con un sorriso. Anche lui, dopo le esperienze all’estero, vive a l’Avana, è maestro di arti marziali e ha due belle bambine, proprio come Eloy. Tira fuori il portafoglio e ci mostra orgoglioso le loro fotografie. In questi giorni vuole farcele conoscere insieme a tutta la sua famiglia. Non smette di ripeterci che se abbiamo bisogno di qualunque cosa, basta chiamarlo. Lui è qui per noi, una chiamata e arriva. È molto premuroso e protettivo nei nostri confronti. Troppo, pensiamo. Ingrati, siamo degli ingrati.

Economia. Con Eloy e Camilo discutiamo un po’ della situazione economica e politica del paese. Eloy critica il regime che non ha saputo rinnovarsi, l’accomodarsi di alcuni politici e l’incapacità di fare uscire il paese da una crisi economica che dura da più di 54 anni. Sa benissimo che le cause dell’instabilità economica non sono riconducibili soltanto a fattori endemici al regime, ma è stanco e disilluso della crisi perpetua che lo Stato non riesce a fronteggiare. Sostiene che negli ultimi anni alcune politiche di apertura portate avanti da Raul Castro hanno contribuito ad aumentare la diseguaglianza sociale a Cuba, che prima era più contenuta e meno tangibile. Non c’è contraddizione nelle sue parole, la realtà è contraddittoria.

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Monete. La loro compagnia è piacevole, rimarremmo ad ascoltarli per ore ma fuori il nuovomondo, quello con la “n” minuscola, ci aspetta. Camilo ci “scorta” per il quartiere 10 de Octubre, vuole accompagnarci fino alla strada dove passano i taxi e insegnarci qualche trucco che ci farà sentire un po’ più cubani e meno gringos in balia dei cubani. Durante il cammino ci riempie le tasche di preziosi consigli e ci avverte di prestare molta attenzione alla differenza tra CUC e pesos, le due monete vigenti a Cuba. In un negozio cambiamo molti CUC in pesos e Camilo ci spiega che la prima è la moneta dei gringos e degli amici dei gringos e vale molto di più, mentre la seconda è la moneta dei cubani e vale molto di meno ma ci permette di comprare più cose a prezzi inferiori. Se useremo i pesos, dunque, spenderemo meno, a patto di conformarci in toto agli usi e costumi cubani, dal mangiare ai trasporti e a tutto il resto.

Colectivos. L’Avenida Santa Catalina è ampia e lunga, non riusciamo a vederne la fine. Per le strade la gente passeggia tranquilla, gli alberi ai lati dei marciapiedi reggono folte chiome verde intenso che rendono meno traumatico l’impatto con il grigio dell’asfalto. Tra le fronde spuntano in serie edifici coloniali dai colori pastello sbiaditi. Il verde qui, quello degli alberi non dei semafori, è verde per davvero. Di tanto in tanto qualche auto d’epoca interrompe la pace borbottando o sfrecciando sull’Avenida. Senza nemmeno accorgercene passiamo dalla tranquillità e dal fischiettio degli uccelli di Avenida Santa Catalina alla caoticità e ai tubi di scappamento delle macchine d’epoca, che ora invadono prepotentemente le strade. Giungiamo all’incrocio tra Avenida Santa Catalina e Avenida 10 de Octubre, il punto dove si concentrano masse di persone intenzionate a raggiungere il centro della città. Camilo ci indica quali macchine dobbiamo fermare: non i taxi ordinari e statali – che pagheremmo in CUC – ma i colectivos. Assordati dalla confusione proviamo timidamente ad alzare il braccio ma nessuno si ferma. Prendiamo coraggio, ci sporgiamo di più dal marciapiede, scendiamo in strada e saltiamo su un colectivo scassato. Sediamo sul sedile posteriore compressi tra un finestrino rotto e un signore col cappello bianco. In tutto, compreso l’autista, siamo in otto nel colectivo, tre seduti davanti, due nei sedili intermedi e tre in quello posteriore. Ne manca uno soltanto per formare una squadra di baseball. E il nono giocatore non si fa attendere, dopo una brusca frenata, salta a bordo: equipo al completo. Davanti a noi una signora afrodiscendente regge un portaoggetti metallico dipinto di bianco e sul cruscotto due bandierine sventolano ad ogni accelerata del conducente. Sono la cubana e la venezuelana che s’intrecciano sospinte dal vento, a sancire un’alleanza politica che potrebbe essere compromessa dalla morte di Hugo Chavez, avvenuta soltanto pochi giorni fa.

Por la izquierda. In serata quando il tassista ci accompagnerà a casa, sottolineerà l’assenza di un’ industria pesante a Cuba e di una fabbrica di automobili. La situazione – ci dice – è aggravata anche dal blocco delle importazioni: «È per questo che abbiamo le auto degli anni ’50, sono quelle che c’erano prima della Revolución e quelle sono rimaste. Ora che c’è Raul le cose stanno gradualmente cambiando, Cuba si sta aprendo». Poi ci racconta che un medico, una delle professioni più pagate a Cuba, guadagna circa 20 dollari al mese mentre lui che non lavora per lo Stato ma come privato – por la izquierda (in nero) – può arrivare a guadagnare quella cifra in un solo giorno. Ha studiato informatica e per un breve periodo ha fatto anche il professore ma guadagnava troppo poco e così tre anni fa ha deciso di fare il tassista. La sua auto, una delle più nuove in circolazione, è del 1988 e ha 24 anni, proprio come lui e come noi.

Supermercati. Per tutto il pomeriggio non facciamo altro che camminare per Habana Vieja. Bellissima e colorata, decadente e vivissima. Si ha la sensazione di essere in un altro mondo, l’impatto è forte come il primo con Rio de Janeiro ma qui sembra che ci sia qualcosa che vada oltre lo shock culturale. Nei supermercati troviamo solo l’essenziale, pochissimi prodotti, pochissime marche, le più potenti: Nestlé e Del Monte. Si percepisce la decadenza guardando gli edifici coloniali abbandonati e tremolanti, sembra che debbano crollare da un momento all’altro e mi fanno tornare alla mente le macerie portoghesi di Porto, Coimbra e Lisbona, i confini d’Europa più vicini alle Americhe. Le strade sono affollate, dicono che in quattro chilometri quadrati si concentrino circa sessantamila persone, forse il dato è un po’ pompato ma sono comunque tante quelle che l’occhio umano scorge. Neppure l’orecchio rimane indifferente alla moltitudine di voci che si accavallano e si confondono nelle piazzette: squarci tra una via stretta e l’altra, affollati di carretti ricolmi di frutta, dove piacevoli folate di vento tiepido si mischiano alla quotidianità cubana.

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Baseball e pallone. Non sappiamo bene come ci siamo arrivati, ma ci ritroviamo nel quartiere cinese. Sappiamo però di aver camminato molto perché siamo sfiniti. Decidiamo di fermarci nell’ennesima piazzetta a riposare e sediamo su una panca di pietra insieme a una signora dallo sguardo perso ma gentile. Proprio davanti alla nostra panchina un gruppetto di bambini gioca a calcio, alcuni sono scalzi, altri hanno le scarpe sfondate, la maggior parte sono a petto nudo. Un altro gruppo s’infila nelle mani guantoni da baseball più grandi del loro petto e si scambia battute da una parte all’altra della strada secondaria che lambisce la piazza. Il pallone da calcio finisce costantemente nella via principale dove auto d’epoca – che continuo a chiamare così, ma che chiaramente qui non sono d’epoca – sfrecciano sicure senza sosta. Contemporaneamente la palla da baseball attraversa rapida, da una sponda all’altra, la strada secondaria meno trafficata. Gli automobilisti al loro passaggio suonano ai ragazzini e alla palla da baseball – senza rallentare troppo – e questi prontamente evitano le coloratissime Chevrolet Bel Air, Cadillac Eldorado o Pontiac Star Chief. Saltano sul marciapiede e interrompono, senza lamentarsi troppo, le azioni di gioco.

Libri. Riprendiamo il cammino e arriviamo in una piazza piena di libri usati di cui non ricordo il nome. Mi fermo a una bancarella e faccio amicizia con una signora molto disponibile e sorridente. Lo sguardo si posa immediatamente su un libro con la copertina illustrata che dal formato sembra un album. Non è né un saggio, né un romanzo, né un fumetto ma è effettivamente un album che racconta la storia della Revolución dal ’52 al ’59. E per di più è un album di figurine: disegnate e corredate da didascalie. Ho sempre avuto un’attrazione particolare per le figurine e per la socialità che costringe al baratto e alla condivisione per completare l’opera. Mi esalto, è una pubblicazione che mi piace da morire ma non la compro. È solo il primo giorno – mi dico – ci saranno altre occasioni. Continuo la piacevole conversazione con la signora, lei non cerca pedantemente di convincermi a comprare e così sfogliamo insieme la biografia di Camilo Cienfuegos commentata dall’anziana venditrice. Credo di starle simpatico. Ho già nostalgia della mia prima amica cubana, mi informo sugli orari della bancarella, la saluto e continuo il tour per la piazza alla ricerca – invano – del terzo volume di Memoria del fuoco di Eduardo Galeano. Mi ero illuso di trovarlo qui a Cuba. Sembra introvabile in italiano e in Italia. Fallisco anche qui e mi consolo sfogliando i romanzi di Daniel Chavarría e alcuni scritti di Fidel e Guevara.

Cibo. Oggi abbiamo pranzato benissimo, bevuto un buonissimo succo fresco al mango e un’ottima Pina Colada in un bel posticino in Plaza del Cristo. Un posto caldo e accogliente dal nome simpatico: El Chanchullero. Il barista è cordiale. Unica pecca: troppi gringos urlanti per i nostri gusti.

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Fumenti *2 – storie disegnate (Esilio) https://www.carmillaonline.com/2016/11/29/fumenti-2-storie-disegnate/ Mon, 28 Nov 2016 23:01:16 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=34456 di Simone Scaffidi

lapprodoS. Tan, L’approdo, Tunué, 2016, pp. 124, € 24.90

Silenzio. Torna in Italia, riedito da Tunué, un classicone tra i cosiddetti silent book. Ovvero i libri senza parole. La prima volta che l’ho sfogliato, nell’edizione francese titolata Là où vont nos pères, stavo annegando nei discorsi vacui sulle migrazioni, il Mediterraneo, il Messico, l’Australia, e questo albo mi ha fatto tirare un sospiro di sollievo. Non servivano tante parole per descrivere l’umanità di un uomo che migra, bastava appunto un po’ di umanità, [...]]]> di Simone Scaffidi

lapprodoS. Tan, L’approdo, Tunué, 2016, pp. 124, € 24.90

Silenzio. Torna in Italia, riedito da Tunué, un classicone tra i cosiddetti silent book. Ovvero i libri senza parole. La prima volta che l’ho sfogliato, nell’edizione francese titolata Là où vont nos pères, stavo annegando nei discorsi vacui sulle migrazioni, il Mediterraneo, il Messico, l’Australia, e questo albo mi ha fatto tirare un sospiro di sollievo. Non servivano tante parole per descrivere l’umanità di un uomo che migra, bastava appunto un po’ di umanità, e la tecnica e il potere immaginifico di Shaun Tan raggiungevano un livello talmente alto da non poter essere messi in discussione. Mentre leggevo, ricordo bene, pensavo al film Nuovomondo di Emanuele Crialese. La potentissima scena finale, accompagnata dalla voce di Nina Simone che cantava Sinnerman, scorreva sotto i miei occhi. Una volta chiuso il libro mi son chiesto se Crialese, per dare respiro poetico al film, avesse preso ispirazione dall’opera di questo autore australiano. Oggi scopro che L’approdo e Nuovomondo sono usciti entrambi nel 2006 e che la mia ipotesi, già allora azzardata, non ha nessun fondamento. La seconda volta che ho letto L’approdo, un mesetto fa, sempre nell’edizione francese, la situazione non era cambiata, continuavo ad annegare nella vanità dei discorsi dominanti sulle migrazioni. Questa volta però, girata l’ultima pagina, ho ripensato alla sceneggiatura, alla pulizia del disegno, alla perfezione del protagonista, ai sorrisi e al lieto fine. C’è un ordine, una compostezza in questo albo che lascia sospesi in un mondo onirico. È il mondo dei sogni, fatto di dolcezza, comprensione e sicurezza. Un mondo che, a guardarlo davvero bene, ha poco a che spartire con le migrazioni. Eccetto l’incipit, il vano desiderio di scovare, al di là del mare, un ordine delle cose differente dove regnino serenità e giustizia. Il Nuovomondo di Crialese è invece sporco, ingiusto, concreto. Certo c’è un immaginario fantastico che lega le due opere, ma è utilizzato in maniera radicalmente opposta. Crialese racconta l’illusione, il duro scontro quotidiano con la realtà. Shaun Tan invece fa sognare i suoi lettori, li culla, senza spingersi nell’orrore della realtà.

allendeO. Bras, J. Gonzales, Maudit Allende!, Futuropolis, pp. 128, € 20.00

Memoria. Si parte dall’infanzia di tre uomini per arrivare ai giorni nostri. Chi sono oggi quei tre uomini? Uno è un esempio di lotta democratica, uno d’infamia e uno di consapevolezza. Il primo si chiama Salvador Allende ed è il primo presidente socialista eletto democraticamente in America Latina. Il secondo porta il nome di Augusto Pinochet, uno dei peggiori dittatori che abbia calpestato il suolo americano. Il terzo è Leo, un cileno che ha vissuto un’infanzia da esule al contrario, quando dopo l’elezione di Salvador Allende la sua famiglia decise di trasferirsi in Sud Africa. Olivier Bras, lo sceneggiatore di questa storia, è un giornalista francese che ha coperto le notizie sul Cile per Liberation e RTI e ha lavorato per Courrier international. Jorge Gonzales, l’autore argentino dello splendido Cara Patagonia, è invece uno dei migliori disegnatori in circolazione. Grazie alla capacità di Gonzales di dare vita ai significati con le sfumature, e a una narrazione che convince e non si perde mai nel dettaglismo fine a se stesso, i due autori riescono a restituire la consapevolezza di una frattura che la memoria condivisa non può sanare. Una frattura che ha radici nel passato che non passa. Il Cile è un paese spaccato. Non esiste pacificazione all’orrore. Margaret Thatcher incontra Augusto Pinochet e lo ringrazia per il suo appoggio nella Guerra delle Malvinas. Fidel Castro incontra Salvador Allende e gli regala parole di stima, complicità e allerta. Gli Stati Uniti di Nixon appoggiano il colpo di Stato di Pinochet. L’11 settembre 1973, l’aeronautica bombarda La Moneda. Allende, che non crede al martirio, si toglie la vita. E Leo? I genitori di Leo stanno con Pinochet. Leo deve capire. E come lui molti cileni. Questa storia serve anche a questo, a capirsi. A uccidere il padre. A uccidere il dittatore. La memoria del Cile non può essere una memoria condivisa, è troppo profondo il solco che separa l’oppressione dalla chimera della giustizia sociale. Bras e Gonzales raccontano la Storia, ma non dimenticano le storie e i conflitti sociali e individuali che genera un potere brutale e assassino. Raccontano la frattura. Quest’opera non è ancora disponibile in italiano, ma speriamo non si faccia attendere.

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S. Taun, L’approdo

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O. Bras, J. Gonzales, Maudit Allende

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