fase dell’imperialismo globale – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 29 Oct 2025 21:32:56 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il volto di Marte e le sue forme. Note su guerra asimmetrica e guerra simmetrica / 6 https://www.carmillaonline.com/2022/10/29/il-volto-di-marte-e-le-sue-forme-note-su-guerra-asimmetrica-e-guerra-simmetrica-6/ Sat, 29 Oct 2022 20:00:16 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=73983 di Emilio Quadrelli

L’eterno ritorno dell’eguale

Infine si arriva all’Ucraina. USA ed Europa, come è ampiamente documentato, hanno foraggiato il fascismo ucraino, politicamente, economicamente e militarmente, al fine di rovesciare il Governo filo russo e portare l’Ucraina all’interno dell’orbita Occidentale. Da qui la “secessione” della Crimea, l’occupazione da parte dell’esercito russo delle basi militari e navali ucraine presenti in Crimea ma non solo. Se la Crimea è stata l’epicentro dell’intervento russo, altre zone dell’Ucraina, giorno dopo giorno, sono finite tra le mani di milizie popolari armate, ampiamente foraggiate da Mosca, che hanno [...]]]> di Emilio Quadrelli

L’eterno ritorno dell’eguale

Infine si arriva all’Ucraina. USA ed Europa, come è ampiamente documentato, hanno foraggiato il fascismo ucraino, politicamente, economicamente e militarmente, al fine di rovesciare il Governo filo russo e portare l’Ucraina all’interno dell’orbita Occidentale. Da qui la “secessione” della Crimea, l’occupazione da parte dell’esercito russo delle basi militari e navali ucraine presenti in Crimea ma non solo. Se la Crimea è stata l’epicentro dell’intervento russo, altre zone dell’Ucraina, giorno dopo giorno, sono finite tra le mani di milizie popolari armate, ampiamente foraggiate da Mosca, che hanno dato vita e forma a nuovi ordinamenti statuali. Ciò le rende, a tutti gli effetti, ben distanti dall’essere ascritti all’ambito dell’impolitico ma, pur a denti stretti, viene riconosciuto loro lo status di hostis. Nei loro confronti non esiste altra relazione se non quella propria della politica.

In poche parole, anche in questo caso, al di là dei balbettii di maniera, i potentati imperialisti Occidentali non sembrano in grado di reggere il colpo. Ma perché? Cosa comporterebbe, nel contesto, l’intervento militare? “Semplicemente” il riaffiorare di un conflitto bellico dove, tra i contendenti, la relazione non può che porsi sul piano della più completa simmetria. Un intervento militare contro la Russia o la Cina, o contro entrambe, non potrebbe essere ricondotto a quella sorta di videogame a cui, andando al sodo, si sono risolti i vari interventi bellici imperialisti compresi tra la Prima Guerra del Golfo e la disarticolazione della Libia. La guerra in Ucraina non potrebbe che assumere forme e tratti di un conflitto “classico” dove, per forza di cose, a essere coinvolti non sono semplicemente gli specialisti bensì le popolazioni. Esattamente dentro la “crisi ucraina” riaffiora prepotentemente il volto interstatuale della guerra. Un volto che, per molti versi, sembrava definitivamente essersi eclissato. Non si tratta di rimettere al centro il carattere simmetrico della guerra bensì di tenere a mente come, nel contesto attuale, simmetria e asimmetria rimandino ai contorni che la forma guerra ha assunto nella fase imperialista globale. Le due forme non si escludono e non è escluso che finiscano con il compenetrarsi. In Ucraina ciò si è già prefigurato.

In questo senso appaiono per lo meno dubbie tutta quella serie di argomentazioni, provenienti per lo più dai vertici militari Occidentali, che considerano del tutto superato e inattuale l’ipotesi della guerra interstatuale e, in conseguenza di ciò, la possibilità del ripetersi di un conflitto avente come protagonisti raggruppamenti politicamente organizzati. A nostro avviso, in tale argomentazione, vi è un errore di fondo poiché si finisce con il ribaltare alla radice la relazione mezzi – fini finendo con lo spostare l’attenzione sulla tecnica e ponendo la dimensione del “politico” fuori dalla scena. In tale ottica, il militare e tutto ciò che lo comprende, avrebbe esautorato il ruolo egemone del “politico” diventando forza autonoma e indipendente e non più “semplice” appendice del “politico”. Paradossalmente, le trasformazioni tecniche, avrebbero finito con il ribaltare la relazione classica tra politica e militare. Non sarebbe più il militare a essere compreso nella politica bensì il contrario. Che cosa avrebbe fatto saltare il paradigma della guerra tra blocchi statuali? La risposta è sin troppo semplice: la presenza dell’arma atomica prima e nucleare poi renderebbe obiettivamente obsoleto il combattimento di tipo tradizionale ma non solo. La presenza di questo armamentario renderebbe, di per sé, impensabile una reiterazione del conflitto nella sua forma “classica”.

Certo, se nella politica prendesse il sopravvento un tratto decisamente irrazionale, il potenziale distruttivo a disposizione delle più diversificate forze militari è tale che, a noi, non resterebbe altro da fare che scrivere un Urania con al centro le vicende dei pochi umani, per di più sotto le sembianze di mutanti, sopravvissuti al post bomba. Scenario possibile, come ipotesi di scuola, ma altamente improbabile e, questo il punto, neppure troppo nuovo. Nel corso della Seconda guerra mondiale le armi di distruzione di massa “non convenzionali” erano equamente suddivise tra tutti i contendenti. A nessuno, neppure ai nazisti, venne minimamente in mente di farvi ricorso. Certamente non per bontà d’animo ma per il semplice motivo che, la reazione, sarebbe stata di pari portata. Hitler avrebbe potuto intossicare Londra ottenendo il solo risultato di vedersi Berlino asfissiata tanto quanto.

Ciò che è valso per i gas e i batteri può valere, nel presente, per i dispositivi bellici nucleari. Nel momento in cui, tra i contendenti, il potenziale strategico tende a equivalersi il conflitto non può che ripiegare sulle sue forme maggiormente tradizionali a dimostrazione di come, per quanto strano possa apparire, a governare la politica sia sempre un principio di razionalità che lascia sostanzialmente immuni dal catastrofismo di maniera. La guerra, questo il vero nocciolo della questione, è fatta non per distruggere in senso generico ma per eliminare un determinato surplus di capitale costante e capitale variabile in modo da rendere possibile un nuovo e prospero ciclo di accumulazione capitalista. Questo, andando al sodo, l’arcano della guerra. Del resto, guerre stellari a parte, gli eserciti continuano a fare incetta di armi convenzionali il che vorrà ben significare qualcosa. Tutto questo per dire che le tensioni che attraversano il modo di produzione capitalista dentro la crisi spingono, indipendentemente dalle volontà dei singoli, verso non improbabili scenari di guerra e che, a conti fatti, oggi un arciduca è possibile trovarlo dietro a ogni angolo di strada. A scanso di equivoci, quindi, l’aver posto fortemente l’attenzione sul tratto interno e asimmetrico della guerra non ci ha portato a dimenticare e a tenere fortemente presente i volti tradizionali di Marte e tutto ciò che questo comporta.

Proprio la compenetrazione di questi due volti della guerra rappresenta il senso di novità e di contraddizioni proprie della fase imperialista contemporanea. Il precipitare della crisi in conflitto armato interimperialistico è una possibilità alla quale, la natura stessa della crisi imperialista, difficilmente potrà sottrarsi. Così come il modo di produzione capitalista non può esimersi dal produrre crisi, allo stesso modo il sistema imperialista, non può, per sopravvivere e riprodursi, evitare la guerra. Non bisogna infatti dimenticare che, come l’intera storia della fase imperialista è lì a ricordare, la guerra finisce sempre con il marciare con gambe proprie poiché nasce da contraddizioni oggettive e non dalla cattiva coscienza di qualche individualità particolarmente in vena di protagonismo. Così come, per scatenare l’inferno, non è necessario che, sul proscenio storico, accada qualcosa di tale gravità da non essere più riconducibile nell’ambito della mediazione diplomatica.

Se ripensiamo agli eventi che hanno scatenato i precedenti conflitti mondiali possiamo osservare facilmente che, tanto lo “incidente di Sarajevo” quanto il “corridoio di Danzica”, di per sé, non avevano nulla di particolare rispetto a una miriade di eventi non troppo dissimili da questi. Agli inizi del Novecento la morte di un diplomatico o di un nobile attraverso un attentato non era certo cosa da stupire il mondo, così come, il “corridoio di Danzica”, non era una questione poi così diversa dall’intervento nazista in Spagna, in Austria o in Cecoslovacchia. Non esiste una spiegazione e una ragione logica sul perché proprio quegli eventi finirono con il mettere in moto l’intera macchina bellica internazionale. Molto più banalmente, quei fatti, rivelarono semplicemente che oggettivamente si era giunti al punto di non ritorno; che la materialità delle cose e non le coscienze individuali spingevano in tale direzione.

È dentro questo scenario oggettivo che la tendenza alla guerra prende forma. Se le ultime tensioni tra Russia e USA siano l’ennesima partita a scacchi tra le due potenze o se, al contrario, la “crisi”potrebbe declinare verso la guerra è cosa difficilmente prevedibile. Sulla base dell’esperienza storica possiamo solo ricordare che l’ultimatum alla Serbia faceva presagire tutto tranne quattro anni di conflitto internazionale così come il “corridoio di Danzica” non aveva nelle sue corde ciò che la seguito. La guerra è sempre il frutto di fattori oggettivi quali la crisi del modo di produzione capitalista e non la follia di qualche leader politico con smanie da primadonna, la guerra deflagra sempre per contraddizioni oggettive e non per vago volontarismo soggettivo, in ogni caso è sempre bene tenere a mente: per quanto noi possiamo ignorare la guerra, la guerra non ignorerà noi.

Prima di concludere pare il caso di evidenziare le non secondarie contraddizioni che l’intero mondo Occidentale sta mostrando. In altre parole dobbiamo chiederci se è realistico e possibile condurre in contemporanea una guerra simmetrica all’esterno e una asimmetrica all’interno ma non solo l’altra grande domanda, che è esattamente il corollario della prima, consiste nel chiedersi se sia realisticamente possibile sostenere una guerra simmetrica, la cui durata e costi è difficilmente ipotizzabile, con eserciti numericamente ridotti e potendo fare a meno di quella “mobilitazione totale” che ha fatto da sfondo alle guerre del passato. È possibile, in sostanza, affrontare una guerra simmetrica senza il coinvolgimento diretto della popolazione? A ciò si è pervenuto gradatamente nel corso della Prima guerra mondiale la quale tra le ricadute immediate ha quella “Costituzione di Weimar” che ratifica esattamente l’inclusione politica delle masse subalterne all’interno dei perimetri statuali mentre, nella Seconda, sono le politiche keynesiane a governare la linea di condotta degli stati. Ciò mirava, in prima battuta, a coinvolgere le masse nel conflitto rendendo così il più possibile certe e sicure le retrovie.

Gli stessi stati che, in virtù dei loro orientamenti liberali si erano tenuti fuori dalle logiche keynesiane, dovettero repentinamente ricredersi. L’Inghilterra deve sicuramente molto ai piloti della RAF ma non meno deve alla sua classe operaia e alla svolta apertamente keynesiana propria del “rapporto Beveridge” così come non poco deve alla classe operaia americana la quale, con la sua produzione, permise il costante invio di immensi aiuti ma non solo. Se pensiamo alle fase iniziali della “battaglia dell’Atlantico”, quando i convogli venivano affondati con la stessa facilità con cui vengono bucati i palloncini nei tiri a segno del Luna Park, è difficile non vedere quanta importanza ebbe la capacità produttiva della classe operaia. Per ogni nave affondata due ne uscivano dai cantieri e il flusso di merci continuò ad avere cadenze pressoché costanti. Dietro a tutto ciò vi era un modello statuale governato dai principi keynesiani.

Sappiamo che proprio contro questi principi si sono orientati tutti gli stati occidentali e che, in virtù di questi, le masse sono costantemente oggetto di marginalizzazione politica e sociale così come, proprio contro quote di queste, è condotta la guerra interna. Coerentemente con ciò gli eserciti di leva sono stati aboliti per far posto a ristrette truppe di elite. Il tutto all’insegna di un esponenziale innalzamento del tasso tecnologico. In pratica, sul piano militare, è accaduto ciò che da tempo avviene nell’ambito della produzione: un sempre maggior impiego di capitale costante a fronte di una drastica riduzione del capitale variabile. Scelta solo in apparenza geniale poiché non dal capitale costante bensì da quello variabile si ricava il plusvalore tanto che, lo spettro della crisi, è ben lungi dall’essere stato scongiurato ma semplicemente posticipato grazie all’utilizzo di una serie di momentanei artifici.

Sul piano militare questo passaggio si mostra funzionale, almeno sino a un certo punto, sino a quando la dimensione del conflitto rimane sul piano asimmetrico, ben diverso lo scenario quando si precipita nella guerra simmetrica. In una ipotetica guerra in cui le tecnologie si annullano non si può che tornare a combattere in forma grosso modo convenzionale e lì, per forza di cose, la quantità torna a trasformarsi in qualità. In Ucraina, dove al momento si sta consumando una guerra di posizione che rimanda alla mente scenari da Prima guerra mondiale, nel caso del deflagrare del conflitto né la tecnologia USA/Nato né quella della Russia sono in grado di avere la meglio sull’altra. Sul piano tecnologico, così come su quello dei corpi di elite, il risultato sembra inchiodato sullo zero a zero. A quel punto o si cessa di combattere, oppure non si inizia neppure, o si è costretti a tornare a combattere una guerra per così dire tradizionale. Ciò ha conseguenze non secondarie.

Per prima cosa non può che diventare una guerra di massa con pesanti ricadute sulla popolazione degli stati belligeranti e qua la prima sostanziale differenza con le guerre modello video–game alle quali siamo stati abituati. Qualcuno si è accorto delle guerre che abbiamo combattuto negli ultimi trenta anni? Palesemente no. La stessa guerra contro la Jugoslavia, combattuta da noi sul portone di casa, ha potuto essere bellamente ignorata. Non semplicemente perché nessun allarme aereo è risuonato sopra le nostre teste ma perché nessuno ha dovuto modificare la propria attività in funzione della guerra. Questa è stata compito esclusivo degli specialisti e da quel perimetro non si è discostata. Non solo non abbiamo assistito a una “chiamata alle armi” ma neppure la produzione si è dovuta in qualche modo piegare alle esigenze della guerra nessun: Tutto per la guerra, è risuonato per l’aria.

In contemporanea la guerra a bassa intensità all’interno dei perimetri statuali non è certo venuta meno. Una guerra combattuta in maniera convenzionale comporterebbe scenari del tutto diversi poiché il coinvolgimento della popolazione non potrebbe che assumere contorni del tutto diversi a partire dal numero di persone direttamente coinvolte nel conflitto poiché, in qualche modo, occorrerebbe tornare a una dimensione di massa delle forze combattenti il che, vero e proprio nocciolo della questione, a un numero di perdite alle quali non siamo più abituati. Tutto questo all’interno di uno scenario in cui, da tempo, le masse subalterne sono state cacciate dai perimetri della legittimità politica e dell’inclusione sociale. Banalmente non si può fare la guerra alle masse e poi chiamarle a combattere. Questo appare un problema difficilmente risolvibile per gli attuali assetti politici anche perché alcun cambio di passo sembra profilarsi all’orizzonte anzi, a ben vedere, la guerra interna diventa sempre più moneta corrente nei nostri mondi.

Queste note sono sicuramente molto parziali e non immaginano minimamente di essere vagamente esaustive ma, più modestamente, provano a immettere sul piano del dibattito politico alcuni temi che sembrano mostrarsi centrali. La “crisi Ucraina” è lì a ricordarci come, oggi, l’opzione guerra abbia ben poco di accademico ma sia una opzione quanto mai realistica. Abbiamo parlato dell’Ucraina ma, in contemporanea, potremmo aprire uno o più capitoli in merito a ciò che sta accadendo in Africa senza dimenticare il contesto siriano, il Kurdistan, l’Iraq la stessa Libia e via dicendo.

Il ritorno della guerra simmetrica non è sicuramente una certezza, ma neppure qualcosa che possiamo considerare unicamente materia per i libri di storia. Per altro verso la guerra asimmetrica non demorde, anzi sembra farsi sempre più agguerrita nonostante gli scenari di una reiterazione della guerra simmetrica siano sotto gli occhi di tutti. La china intrapresa dall’imperialismo globale non pare mostrare ripensamenti la guerra alle popolazioni era e resta la sua linea di condotta dimostrando con ciò la sostanziale incapacità di pervenire a un progetto strategico sui tempi medio – lunghi. Guerra interna, guerra esterna, guerra asimmetrica, guerra simmetrica sono assunte in maniera tanto fondamentaliste quanto indistinte mostrando così l’assenza di un “cervello” capace di ipotizzare e pianificare degli assetti politici e strategici in grado di alzare lo sguardo dall’oggi, con ciò torniamo all’esergo posto a incipit del testo. Per molti versi in questa miopia, che rasenta la cecità, la borghesia appare sempre più simile a quel mugiko incapace e anche impossibilitato a alzare lo sguardo oltre l’orizzonte ristretto del proprio campo. Forse,con ciò, la borghesia sembrerebbe pervenuta al massimo grado di putrefazione ma,se questo è vero, la transizione al comunismo diventa qualcosa di non più rimandabile perché l’alternativa socialismo o barbarie potrebbe essere dietro l’angolo e nella storia non poche volte a prevalere è stata proprio la seconda.

(Fine)

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Il volto di Marte e le sue forme. Note su guerra asimmetrica e guerra simmetrica / 5 https://www.carmillaonline.com/2022/10/22/il-volto-di-marte-e-le-sue-forme-note-su-guerra-asimmetrica-e-guerra-simmetrica-5/ Sat, 22 Oct 2022 20:00:30 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=73978 di Emilio Quadrelli

Non – persone

Anni addietro, quando i migranti cominciavano a fare capolino in quantità considerevoli nei nostri mondi, a pochi veniva in mente che quelle figure “povere” e disposte ad accettare un lavoro a qualunque condizione prefigurassero, anche solo alla lontana, lo specchio di un destino possibile per una parte degli individui del vecchio Primo mondo. Erroneamente considerati “lavoratori marginali” appetibili solo per attività residuali e di poco conto, ben difficilmente facevano immaginare che quella condizione, attraverso un processo a cascata, avrebbe funzionato da apripista per cospicue quote del [...]]]> di Emilio Quadrelli

Non – persone

Anni addietro, quando i migranti cominciavano a fare capolino in quantità considerevoli nei nostri mondi, a pochi veniva in mente che quelle figure “povere” e disposte ad accettare un lavoro a qualunque condizione prefigurassero, anche solo alla lontana, lo specchio di un destino possibile per una parte degli individui del vecchio Primo mondo. Erroneamente considerati “lavoratori marginali” appetibili solo per attività residuali e di poco conto, ben difficilmente facevano immaginare che quella condizione, attraverso un processo a cascata, avrebbe funzionato da apripista per cospicue quote del lavoro subordinato locale. La convinzione e allo stesso tempo l’illusione, frutto di una visione storica evoluzionista, che i rapporti di forza tra capitale e lavoro salariato, stabilizzatisi pur con gradazioni diverse nel cosiddetto Primo mondo, avessero raggiunto un equilibrio non più “storicizzabile” e pertanto non soggetto a nuova negoziazione, era un credo condiviso dai più.

Le stesse retoriche sulle ricadute apportate dall’avvento del capitalismo globale apparivano, nel comune sentire, la semplice omologazione a modelli e “stili di vita” condizionati da mode e gusti sovranazionali. In altre parole, a un primo sguardo, la globalizzazione sembrava andare non molto oltre un’eccessiva presenza di hamburger e patatine fritte allo strutto sulle nostre tavole oltre a qualche cappellino da baseball di troppo. Nella peggiore delle ipotesi il massimo effetto nefasto che ci si potesse aspettare era l’andare incontro a una sorta di “imperialismo culturale”. Prospettiva che, a molti, più che criticabile si mostrava appetibile. Sia come sia, oltre all’hamburger e ai cappellini le ricadute che il capitalismo globale ci avrebbe riservato non sembravano molte di più. In tutto questo la figura del migrante c’entrava poco o nulla. Anzi, per molti versi, quella presenza “culturalmente” così diversa e in fondo pre – globale non faceva altro che rendere ancora più appetibile la globalizzazione. Era su di loro, infatti, che si sarebbero riversati i lavori e le mansioni tipiche della tarda modernità che, in qualche modo, continuavano a essere fastidiosamente presenti nei nostri mondi. Mentre le nostre società entravano nell’era cosiddetta del post – lavoro i suoi residui e cascami potevano essere tranquillamente appaltati alle popolazioni che, loro malgrado, continuavano a essere qualche passo indietro al “progresso”. Una visione fiabesca e idilliaca, repentinamente tramontata.

Abbastanza velocemente il capitalismo globale, senza rinunciare a invadere le mense di prodotti al limite della decenza, ha mostrato il suo vero volto, quello del mercato globale. Un mercato che, ancor prima che le merci, deve produrre i produttori e le condizioni in cui questi sono messi al lavoro. Si è così drasticamente “scoperto” che, il capitalismo globale, per essere tale non può fare altro che, in tendenza, trovare di fronte a sé una forza lavoro indifferenziata, malleabile, flessibile e continuamente sotto ricatto. Una condizione che, se nel lavoratore migrante trova la sua migliore esemplificazione, ha finito per modellare tempo ed esistenza di una parte considerevole delle popolazioni locali ascrivibili al mondo del lavoro subordinato. Per questo il richiamo a una attualizzazione del “modello coloniale”, come forma di governo delle società attuali, rischia di essere in parte fuorviante. L’ambito coloniale agiva all’interno di uno scenario dove era lo Stato/Nazione, nella sua evoluzione imperialista, a tenere in mano il pallino, una cornice da tempo andata in frantumi. Quindi, se di colonialismo o neocolonialismo è lecito parlare, e noi crediamo lo sia, occorre farlo tenendo a mente lo scenario determinato dall’avvento del capitalismo globale. A ben vedere nelle società attuali i “governi nazionali” non sono altro che attori locali, fortemente depotenziati, posti sotto controllo da agenzie multinazionali. In questo scenario, allora, i retaggi coloniali possono agire come “suggestioni” operative per i governi locali, all’interno però di logiche diverse.

Nel grande gioco del capitalismo globale una delle poste in palio decisive, come si è appena ricordato, è la continua produzione di produttori a basso costo posti nella condizione di non nuocere il che, per il management del capitalismo globale, molto prosaicamente significa scongiurare il manifestarsi di qualunque forma di resistenza organizzata da parte dei subordinati. È all’interno di tale obiettivo strategico che, allora, diventa possibile prendere in considerazione il discorso sul “modello coloniale”. Si tratta però, oltre il paradosso, di un colonialismo senza colonie e in fondo de – territorializzato ed è in questa prospettiva che la forza lavoro salariata delle metropoli diventa l’ambito coloniale di cui il capitalismo globale non può fare a meno.

Oggi, mentre per le nuove leve proletarie il mondo dei diritti e delle garanzie è qualcosa che appartiene al museo della storia, la ristrutturazione dell’organizzazione del lavoro va a colpire tutte quelle sacche, più o meno corpose, di proletariato e classe operaia dove, i residui novecenteschi, giocavano ancora un qualche ruolo. A conferma di come, la storia, proceda sempre attraverso il suo lato cattivo assistiamo, con tempi e ritmi sempre più accelerati, alla disarticolazione di tutto ciò che resta della rigidità operaia e del potere che questa si porta appresso. Si consuma, in questo modo, un modello che, a partire dalla Grande rivoluzione, l’Europa aveva tenuto a battesimo. La popolazione e i suoi destini diventano inessenziali per le classi dominanti le quali, nei loro confronti, adottano il modello di governance la cui logica è del tutto subordinata alle procedure messe in atto attraverso le operazioni di polizia internazionale. Anche nei nostri mondi, tra proletariato e borghesia imperialista, va sedimentandosi una relazione che accantona ogni forma di eguaglianza per rimodellarsi sul piano dell’asimmetria.

Questo, come vedremo immediatamente, però è solo un aspetto della questione. La scena politica è ben più articolata e complessa di quanto, a prima vista, possa sembrare. Se, per tutta una fase storica, per l’imperialismo l’unica guerra da combattere era sembrata solo quella contro le popolazioni, esterne e interne, oggi alcuni tratti della guerra classica tornano a fare prepotentemente capolino sulla scena politica internazionale. La situazione si complica e aggroviglia.

Nelle pagine precedenti abbiamo focalizzato sguardo e attenzione sul tratto asimmetrico della guerra ma, tutto questo, non significa automaticamente che le forme più classiche e tradizionali del conflitto bellico si siano estinte. Sarebbe un errore, infatti, ipotizzare che, la fase imperialista globale, abbia definitivamente posto in archivio la guerra interstatuale tra blocchi imperialisti. Certo, nel corso di tutta una fase, quella inaugurata con la Prima Guerra del Golfo sino all’intervento in Libia a primeggiare è stato un modello che, del conflitto asimmetrico, aveva fatto il suo credo assoluto. Credo che poggiava sulla prosaica constatazione della pochezza politico – militare dell’avversario di turno. A partire da ciò il proliferare di tutta quella serie di interventi di stampo apertamente colonialista all’interno dei quali, per lo più, tra le diverse consorterie imperialiste a primeggiare sembravano essere più le affinità piuttosto che le contraddizioni.

In linea di massima si può affermare che la logica che governava i vari interventi di polizia internazionale trovava non poche assonanze con quella politica della “porta aperta” coltivata dalle potenze imperialiste nei confronti della Cina negli anni Venti del secolo scorso. In tali operazioni ognuno poteva ricercare il proprio tornaconto negoziando, volta per volta, la propria area di influenza. A conti fatti non c’era attrito o conflitto che non potesse essere risolto attraverso le normali relazioni politiche e diplomatiche.

La quantità del bottino a disposizione, del resto, era tale da sconsigliare eccessi di avidità. Certo, a differenza del passato, adesso, anche sul piano militare, la latente contraddizione tra il blocco imperialista statunitense e il nascente blocco imperialista europeo cominciava a farsi concreta e reale ma non a tal punto da provocare conflitti, nell’immediato, non mediabili. Tra Stati Uniti ed Europa il conflitto poteva essere tranquillamente posticipato anche perché, in apparenza, dopo l’89 sembrava che solo i Paesi Occidentali fossero in grado di operare sul piano militare tanto che, la conquista dell’intero pianeta, pareva cosa fatta. Come dire: piatto ricco, mi ci ficco, poi si vedrà.

Questa conquista finiva con il mettere tutti d’accordo coltivando, nel frattempo, l’ipotesi che, in un futuro prossimo si potesse giungere a un accordo, su basi maggiormente egualitarie, tra il vecchio drago americano e l’ipotetico nuovo leone europeo. Di ciò ne è in qualche modo testimone tutto il dibattito intorno alla NATO e alla sua funzione che le Cancellerie europee avevano da tempo posto all’ordine del giorno. Del resto la funzione della NATO, nata per “tenere fuori i russi e sotto i tedeschi”, nello scenario che si è delineato non è più in grado di assolvere a quella funzione. La dominanza germanica nella costituzione del polo imperialista europeo ha scompaginato per intero gli assetti geopolitici e geostrategici fuoriusciti dalla Seconda guerra mondiale. I cobelligeranti di oggi portano in loro i conflitti del futuro prossimo. Solo le rapine internazionali possono per ancora qualche tempo tenere insieme queste bande di gangster.

Un progetto di conquista e dominio variamente articolato attraverso operazioni militari dirette o, come nel caso delle innumerevoli “rivoluzioni colorate”, ponendo in atto piani di destabilizzazione politica al limite della guerra civile all’interno di tutte quelle entità politiche poco prone a sottostare ai diktat delle multinazionali e dei loro organi politici ed economici. A fronte di ciò un fatto è difficilmente oggetto di smentita: dopo l’89 tutti i potentati imperialisti hanno iniziato una continua e pressante campagna di conquista nei confronti di tutti quei territori non direttamente sottoposti alle imposizioni degli organismi economici internazionali. Una conquista che, per tutta una fase, non ha conosciuto ostacoli di sorta. All’interno di tale contesto sembrava essere stato accantonato in maniera definitiva quel conflitto interstatuale che tanto aveva pesato sulla storia del Novecento. Repentinamente tale scenario ha iniziato a modificarsi poiché, nel grande gioco geopolitico e geostrategico, potenze quali Russia e Cina sono intervenute pesantemente.

La Russia, forse troppo frettolosamente relegata a micro potenza regionale, ha mostrato di essere in grado di svolgere un ruolo centrale sulla scena internazionale mentre la Cina, che nel frattempo si appresta a diventare la prima potenza industriale del mondo, ha dimostrato di essere fortemente determinata a difendere le proprie aree di influenza non solo sotto il profilo economico ma anche politico e militare. L’entrata in gioco di queste due potenze ha ridefinito lo scenario geopolitico e geostrategico internazionale ma non solo.

Con l’entrata in gioco di queste la tendenza alla guerra propria di ogni crisi dell’imperialismo inizia ad assumere contorni diversi da quelli conosciuti tra la Prima guerra del Golfo e la disarticolazione dello stato libico. Quel tratto sostanzialmente coloniale che aveva accompagnato le varie operazioni di polizia internazionale è obbligato a modificarsi. Difficile, per non dire impossibile, svalutare e quindi ascrivere Russia e Cina nell’ambito dell’impolitico. Difficile relegare Russia e Cina a semplici realtà etniche. La loro forma politica e statuale non può essere posta in discussione, la presenza del nemico torna ad albeggiare con tutte le ricadute del caso. Di ciò diamo qui di seguito una sintetica ricapitolazione.

Le avvisaglie che qualcosa stava iniziando a cambiare si sono avute tra la notte del sette e dell’otto agosto 2008, quando la Georgia ha attaccato l’Ossezia del Sud. La reazione di Mosca, alleata dell’Ossezia del Sud, è stata immediata. Le truppe georgiane sono state immediatamente sconfitte e le truppe russe hanno occupato gran parte della Georgia la quale, immediatamente, ha chiesto l’intervento dell’alleato statunitense e della NATO. Intervento che non si è minimamente profilato lasciando la Georgia con il più classico dei pugni di mosche in mano. Nel momento in cui, USA ed Europa si sono trovati di fronte un avversario nei confronti del quale non era realisticamente possibile muoversi in maniera asimmetrica, questi Paesi hanno fatto un corposo passo indietro. Un piccolo incidente che, se isolato, non avrebbe significato più di tanto.

Quanto accaduto in Ossezia del Sud, però, si è ripetuto, e in maniera decisamente esponenziale, nel momento in cui Stati Uniti, Europa e Giappone hanno ipotizzato di attaccare la Siria. In quel caso non solo la Russia ma anche la Cina si è apprestata alla mobilitazione dichiarandosi pronta, in caso di intervento, a schierarsi militarmente al fianco di Damasco facendo seguire, a tali dichiarazioni, fatti quanto mai espliciti. Entrambi i Paesi hanno indirizzato verso il possibile scenario di guerra alcune unità della propria flotta attrezzate per contrastare e neutralizzare l’eccedenza tecnologica che le forze NATO potevano vantare nei confronti dell’apparato militare siriano. A quel punto, a differenza di quanto accaduto in Libia, il conflitto non avrebbe potuto giocarsi attraverso il dominio incontrastato dei cieli e del mare in modo da spianare, sul terreno, la via agli “insorti” di turno ma avrebbe comportato un coinvolgimento diretto, dagli esiti per lo meno incerti, di tutte le forze militari Occidentali. Uno scenario decisamente poco appetibile. Non per caso l’intervento diretto Occidentale è stato rimandato sine die e la guerra “appaltata” a forze locali che stanno dilaniando la Siria in un conflitto dai tratti sempre più endemici e con costi immani per le popolazioni. Nel frattempo, anche se forse poco osservato, vi sono stati tutta una serie di episodi, con protagonista la Corea del Nord, particolarmente degni di interesse.

La Corea del Nord, nonostante agli occhi dell’imperialismo Occidentale e giapponese vanti tutti i requisiti dello “Stato canaglia”, non è stata oggetto di alcun intervento eppure, la sua linea di condotta, lo avrebbe in più occasioni ampiamente sollecitato e meritato. La Corea del Nord, oltre alle continue scaramucce belliche con la Corea del Sud, la costruzione di un potenziale missilistico di media portata e la testazione di ordigni nucleari ha obbligato il Giappone a intraprendere alcune, per quanto limitate, operazioni militari difensive. Ve ne sarebbe abbastanza perché, almeno Stati Unti, Giappone e Corea del Sud, oltre a mai mancanti volenterosi compagni di merende del caso, intraprendessero nei suoi confronti un’operazione non troppo diversa da quella messa in atto in Iraq. Come è noto di ciò non si è mai avuto un qualche sentore. Pechino ha sempre dichiarato che un eventuale attacco alla Corea del Nord avrebbe comportato l’automatico coinvolgimento della Cina nel conflitto il che, per forza di cose, avrebbe ascritto l’intervento in Corea del Nord in qualcosa di ben diverso e distante dall’operazione di polizia. La presenza attiva della Cina avrebbe portato il piano del conflitto fuori dal modello coloniale, rendendo gli esiti della partita perlomeno incerti.

(fine quinta parte – continua)

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