Fantascienza – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 02 Dec 2025 21:00:18 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Le grandi storie della fantascienza https://www.carmillaonline.com/2025/12/02/le-grandi-storie-della-fantascienza/ Tue, 02 Dec 2025 21:00:18 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91244 di Valerio Evangelisti

[Il testo che segue riunisce due scritti pubblicati dall’autore su “Carmilla online” il 24 Gennaio 2009 e il 28 Marzo 2009, quando presso Bompiani erano apparsi 12 volumi, sui 20 previsti, de Le grandi storie della fantascienza, a cura di Isaac Asimov. Questi sono i testi introduttivi pubblicati nel risvolto di copertina. Assieme, formano una difesa di un genere letterario tra i più importanti del nostro tempo. Di seguito le prefazioni ai volumi da 1 a 10.]

1. Il nome Isaac Asimov è divenuto sinonimo di fantascienza. Nessuno come lui ha saputo rendere familiari ai lettori le dimensioni sconfinate [...]]]> di Valerio Evangelisti

[Il testo che segue riunisce due scritti pubblicati dall’autore su “Carmilla online” il 24 Gennaio 2009 e il 28 Marzo 2009, quando presso Bompiani erano apparsi 12 volumi, sui 20 previsti, de Le grandi storie della fantascienza, a cura di Isaac Asimov. Questi sono i testi introduttivi pubblicati nel risvolto di copertina. Assieme, formano una difesa di un genere letterario tra i più importanti del nostro tempo. Di seguito le prefazioni ai volumi da 1 a 10.]

1.
Il nome Isaac Asimov è divenuto sinonimo di fantascienza. Nessuno come lui ha saputo rendere familiari ai lettori le dimensioni sconfinate dell’universo, e trascinarli in viaggi vertiginosi tra le galassie. Dunque, era il più titolato per scegliere le storie di fantascienza definibili come “grandi”. La sua attenzione, è ovvio, si concentra sulla cosiddetta “età d’oro”: quando, su rivistine popolari americane stampate su pessima carta, si concentravano idee, visioni allucinate ma credibili, proiezioni critiche del presente. Si era alle soglie degli anni ’40, ma già un pugno di scrittori intelligenti sollevava problematiche che sarebbero divenute attuali ai giorni nostri.
Asimov si concentra su Astounding Science Fiction, la pubblicazione diretta da John W. Campbell a partire dal 1937. Una palestra di testi sempre stimolanti e ben scritti, a firma dello stesso Asimov, di Robert A. Heinlein (i migliori della scuderia), di Jack Williamson, di Alfred E. Van Vogt, di Henry Kuttner. In Italia sarebbero approdati quindici o vent’anni dopo la loro prima apparizione. Avrebbero condizionato, ma in senso liberatorio, l’immaginario di decine di migliaia di giovani lettori. Lo avevano già fatto in patria.
In questo primo volume, alcuni racconti davvero memorabili. Il distruttore nero di A. E. Van Vogt (maestro di Philip K. Dick), che diverrà il primo capitolo del suo romanzo Crociera nell’infinito. Il triangolo quadrilatero di William F. Temple, un gioco d’ingegno irripetibile. E le prime narrazioni geniali di Heinlein1, di Theodore Sturgeon, dello stesso Asimov. Che cosa si vuole di più?
La fantascienza di allora non poteva saperlo, ma stava per divenire parte imprescindibile della letteratura.

2.
In questo secondo volume de Le grandi storie della fantascienza, Isaac Asimov continua l’esplorazione del periodo memorabile, alle soglie e a cavallo degli anni Quaranta del secolo scorso, in cui un genere letterario creduto marginale riuscì a conquistare l’immaginario di intere generazioni e a perpetuarsi fino ai giorni nostri.
Merito soprattutto di Astounding Science Fiction, la rivista diretta da John W. Campbell, che impose ai propri autori un rigore stilistico trascurato dalle pubblicazioni precedenti, senza tuttavia limitare la carica visionaria dei loro racconti.
Si formò quindi, negli Stati Uniti, uno straordinario gruppo di scrittori che comprendeva lo stesso Asimov, Robert A. Heinlein, Fritz Leiber, Theodore Sturgeon, A.E. Van Vogt e molti altri. A volte il tono era realistico, altre volte beffardo, altre ancora sognante (soprattutto nella rivista gemella di Astounding, Unknown). La costante era la ricchezza di idee, di spunti, di sguardi inediti, ispirati allo sviluppo di scienza e tecnologia ma non appiattiti su di esse.
Si usciva dunque dalla narrativa detta “di anticipazione” e si entrava nella fantascienza moderna, attenta ai cambiamenti della società sotto l’impatto di mutazioni tecnologiche o ambientali. L’elemento puramente avventuroso veniva dunque messo al servizio di un discorso quasi filosofico, in cui il futuro era metafora del proprio tempo.
Alcuni racconti scelti da Asimov (Requiem di Heinlein, La cosa di Sturgeon, La cripta della Bestia di Van Vogt, Uno strano compagno di giochi, dello stesso Asimov, ecc.), anche quando restano nel campo del puro intrattenimento, dimostrano una maturazione rilevante: solo pochi anni prima tante opere di fantascienza sarebbero state del tutto diverse, sciatte, scritte alla meno peggio, tese a descrivere improbabili (o probabili) invenzioni.
Senza queste “grandi storie”, la fantascienza sarebbe morta nel giro di pochi decenni, e non avrebbe contribuito a modellare il modo in cui, oggi, guardiamo il mondo.

3.
Il terzo volume de Le grandi storie della fantascienza, curato da Isaac Asimov, è in assoluto tra i più convincenti. Contiene infatti almeno tre gioielli: il mitico racconto Nightfall (“Cade la notte”) dello stesso Asimov, ritenuto una delle migliori storie brevi che la science fiction abbia mai prodotto; And He Built A Crocked House (“Ed egli costruì una casa deforme”), di Robert A. Heinlein: un racconto semplicemente geniale, mille volte riproposto; e, dello stesso Heinlein, Universe, all’origine di un romanzo omonimo che tuttora affascina e sorprende.
Asimov, Heinlein; e, oltre a questi due giganti, gli altrettanto grandi Fredric Brown, Theodore Sturgeon, A. E. Van Vogt, Alfred Bester, ecc. Erano gli anni ’40, la seconda guerra mondiale era imminente, ma su rivistine quasi artigianali si stava solidificando il genere narrativo che avrebbe dominato, a livello popolare, la fine del XX secolo e gli inizi del XXI. Capace di guardare al futuro, a volte remotissimo, senza scordare le inquietudini del presente. Anzi, trasportandovele.
Asimov, Van Vogt, Heinlein, Sturgeon e i loro colleghi, uniti tra loro da una comune marginalità rispetto al mondo ufficiale delle lettere, forse non sapevano nemmeno di dar vita a ciò che sarebbe diventato non solo letteratura, ma anche costume. Davanti ad antiquate macchine da scrivere battevano, per pochi soldi, i loro sogni e i loro incubi. Quelli che oggi ci ritroviamo, con pochissime varianti, nel cinema, nella televisione, nella pubblicità, nei fumetti, nei videogiochi.
Questa antologia è di una freschezza sorprendente. Pullula di idee e di visioni. Nessun critico serio dovrebbe prescinderne, non per cogliere l’avvenire, ma per interpretare il mondo che lo circonda. Sessantacinque anni fa un manipolo di scrittori, ignorato dai critici, vi aveva riflettuto. Si potrebbe dire altrettanto per ciò che si scrive oggi?

4.
Continua, sotto la qualificata guida di Isaac Asimov, l’esplorazione de Le grandi storie della fantascienza, ormai giunta al quarto capitolo. Storie che genereranno altre storie. Sono presenti, in questo quarto volume, racconti che saranno all’origine di cicli di romanzi memorabili. Da Fondazione dello stesso Asimov nascerà la famosa e omonima “trilogia galattica”, destinata in seguito a ramificarsi ulteriormente. Da Il negozio d’armi di A.E. Van Vogt prenderà vita il ciclo rutilante dei Negozianti d’Armi, aperto dall’indimenticabile Le armi di Isher.
Saghe stellari vertiginose, ospitate negli anni ’40 sulle riviste di John W. Campbell jr. Astounding e Unknown. Tuttavia, come antologista, Asimov si rivela duttile e si spinge oltre il genere avventuroso da lui coltivato. Troviamo così testi di Fredric Brown, maestro del racconto breve e fulminante, dell’ironico Lester del Rey, del complesso Alfred Bester e di molti altri.
A quei tempi nessuno poteva immaginare che la fantascienza, da genere popolare coltivato da una minoranza sia pur consistente di lettori, si sarebbe espansa al punto da invadere ogni campo mediatico: dal cinema alla televisione, dalla pubblicità ai videogiochi, dal fumetto alla musica, fino a divenire una componente essenziale della cultura contemporanea.
Il segreto di una tale vitalità va ricercato nelle pagine di questa antologia. Un’intera generazione di giovani scrittori americani, ancora oscuri e malpagati, profittavano della libertà che una condizione marginale offriva loro per tentare esperimenti arditi e affrontare tematiche assolutamente inedite, con la sola arma dell’intelligenza. Era una vera rivoluzione narrativa quella che silenziosamente, col mondo già travolto da un conflitto spaventoso, si stava preparando. Chi la tentava non poteva ancora sapere che si sarebbe trasformata in una rivoluzione di costume, capace di modificare il modo di vedere e di descrivere l’esistente con un impatto che nessun’altra forma letteraria aveva mai avuto.

5.
1943. Si è nel pieno di una guerra mondiale dagli esiti ancora incerti. Quasi tutti i migliori scrittori americani di fantascienza sono al fronte. Eppure Astounding e le altre riviste di sf seguitano a uscire, e propongono nuovi nomi e nuovi racconti.
Isaac Asimov dedica al 1943 questo quinto volume de Le grandi storie della fantascienza, e la messe è ricca. Degli autori più popolari figurano solo Van Vogt e Lewis Padgett (pseudonimo di Henry Kuttner, spesso in compagnia di Catherine L. Moore). Poi Leigh Brackett, moglie di un altro scrittore presente nell’antologia, Edmund Hamilton. Famosa anche come sceneggiatrice di film noir e di fantascienza, tra cui L’impero colpisce ancora di George Lucas.
C’è anche la riconferma di Fredric Brown quale maestro del racconto brevissimo e crudele. Più nuove scoperte: Peter Schuyler Miller, attivo da oltre un decennio nella rete dei fan, o l’inglese Eric Frank Russell, versato nell’ironia, proposto finalmente come merita al pubblico americano. Si obietterà che, del conflitto in corso, non ci sono in questi racconti che impalpabili riflessi. Il fatto è che la fantascienza aveva trattato di guerre mondiali fin dalla nascita — si pensi a La guerra dei mondi di Wells, parabola eloquente del disfacimento dell’impero inglese — ed era abituata a guardare lontano. Nelle pieghe dei racconti si troveranno spunti e problematiche inerenti non alla guerra, bensì al dopoguerra.
La fantascienza ha dunque valore profetico? No, per nulla. Semplicemente si guarda intorno, scopre linee evolutive e ne fa oggetto letterario. Certo, ogni tanto divaga, sogna, si abbandona alla fantasia più bizzarra. Ma chi non lo farebbe, mentre è in corso il più grave conflitto nella storia dell’umanità?
Chiamiamola evasione, se vogliamo. Dove evasione significa distogliersi da un presente intollerabile e chiedersi cosa potrà avvenire dopo.

6.
Il sesto volume de Le grandi storie della fantascienza, a cura di Isaac Asimov, comprende racconti scritti nel 1944, quando la seconda guerra mondiale volgeva al termine e già si intuiva chi ne sarebbe uscito vincitore. Include un racconto che fece scalpore, e contribuì ad attirare l’attenzione sul più eclettico dei generi letterari: Termine ultimo, di Cleve Cartmill.
Non un grande autore, né un grande racconto. Tuttavia vi era descritta molto in dettaglio una bomba potentissima assai simile alla bomba atomica che gli scienziati del Progetto Manhattan, a Los Alamos, stavano elaborando in segreto. Cartmill si trovò alle prese con l’FBI, sospettato di collaborare con il nemico. Poi l’accusa cadde, e restò alla fantascienza l’aura leggendaria di essere narrativa profetica.
Alcuni vi si crogiolarono, eppure mai nomea fu tanto falsa. Lo dimostrano altri testi dell’antologia, come quelli firmati da Clifford D. Simak. Soprattutto City sarà l’incipit di un romanzo memorabile, trasognato e malinconico, che tratta del lento prevalere delle formiche sugli umani, fino al costituirsi di una società ibrida.
Una fantasia poetica, una fuga da una realtà sanguinosa e bestiale? No, per niente. Il conflitto che si stava combattendo in Europa era proprio contro chi intendeva disciplinare gli uomini come formiche. Simak, pur usando la metafora, era in fondo più realistico di Cartmill. Non descriveva bombe future, bensì scenari presenti trasfigurati. La solita operazione condotta dalla migliore fantascienza e dalle sue “grandi storie”.

7.
E’ il 1945 e il secondo conflitto mondiale volge al termine. Scrittori di fantascienza tornano dal fronte; altri, esentati dall’ecatombe, continuano a scrivere come se nulla fosse; altri ancora si preparano a una fase ulteriore, la “guerra fredda”, che scoppierà di lì a poco.
Nessuno di loro forse immagina che la catastrofe più grande nella storia dell’umanità — stermini basati sull’appartenenza a una presunta “razza”, mezzi terrificanti di massacro, armate in lotta su ogni quadrante del mondo — rilancerà la fantascienza. Genere trascurato, e tuttavia capace di descrivere, sia pure in via metaforica, grandi sistemi in lotta. Cosa che la letteratura mainstream non riesce a fare se non di rado.
Il settimo volume de Le grandi storie della fantascienza, a cura di Isaac Asimov, riflette bene la transizione in corso. C’è il recupero insistito di un caposcuola della sf degli anni Venti, Murray Leinster. Generazioni hanno sognato sulle sue forse ingenue fantasie, zeppe di scienziati brillanti, di astronavi misteriose, di messaggi enigmatici provenienti dallo spazio, di energia positivista. Ma ci sono anche, molto più problematici, Fredric Brown, Lewis Padgett, Fritz Leiber e molti altri. Quasi un’antitesi a Leinster. Quale futuro luminoso, dopo una guerra che aveva imbruttito e fatto sanguinare il mondo intero?

8.
Il discrimine è la bomba atomica. Nel 1945 la si subiva, nel 1946 la si riconsidera. Una previsione della fantascienza si è avverata: esiste un’arma capace, si suppone, di distruggere il mondo conosciuto. E, spenta la guerra aperta, sta per aprirsi l’era della guerra fredda.
L’ottavo volume de Le grandi storie della fantascienza, curato da Isaac Asimov, riflette il momento di transizione. Il testo fondamentale è il racconto Monumento, di Theodore Sturgeon, dedicato alla bomba definitiva e allo sviluppo logico del suo uso. Non si troveranno molti riferimenti a quel cambiamento epocale, nella narrativa corrente dello stesso periodo. Solo la science fiction, attenta alla tecnologia, intuisce che si sta entrando in un periodo storico totalmente inedito.
Lo testimoniano anche gli altri racconti antologizzati, di Ray Bradbury (una nuova stella destinata a future glorie), dello stesso Asimov, di Arthur C. Clarke, di Henry Kuttner, che morirà pochi anni dopo, di altri ancora.
Si è alle soglie di un revival della fantascienza. Non perché, in un mondo in rovine, ci si distragga a pensare futuri remoti. E’ vero il contrario. La fantascienza è, più di ogni altra forma narrativa, ancorata al presente. Guarda lontano in quanto le contingenze storiche impongono di farlo. La visione non è molto ottimistica, ma ciò non dipende dagli scrittori.
Non sono stati loro a fare del fungo atomico il simbolo degli anni a venire.

9.
Nel nono volume de Le grandi storie della fantascienza, Isaac Asimov comincia a raccogliere le inquietudini che, nel dopoguerra, serpeggiano nella società americana, come in ogni altra società. E’ il 1947, l’euforia per la guerra vinta dalle potenze antifasciste si sta attenuando. Sorgono altri problemi, che dividono gli stessi vincitori: politici, geopolitici, sociali.
La fantascienza di stampo avventuroso resta appannaggio di un Jack Williamson, che aggiorna le formule degli anni ’20, mentre quella che pare occuparsi di pura tecnologia ha in Arthur C. Clarke il più illustre esponente.
Accanto a questi nomi ne emergono altri, e nuove tendenze ancora embrionali. Sturgeon e Bradbury paiono interessarsi più all’uomo che agli “effetti speciali”. Il quasi esordiente William Tenn, con il suo caustico umorismo, mette in luce i difetti della società che lo circonda, e anticipa la science fiction che verrà.
E’ un disagio collettivo, quello che mettono in luce, a volte trasfigurato in ironia, gli scrittori che Asimov chiama a raccolta: da un veterano come Lewis Padgett (pseudonimo di Henry Kuttner, quando scrive con la moglie Catherine L. Moore) all’inglese Eric Frank Russell.
Rispetto alla fantascienza delle origini, quella del secondo dopoguerra è profondamente diversa. Niente positivismo, piuttosto smarrimento. Carenza di finali lieti. E, se c’è da divertirsi, sarà un ghigno, più che una risata.

10.
Nel 1948 la fantascienza americana è in piena forma, anche perché gli Stati Uniti sono emersi dalla guerra come la maggiore potenza mondiale, grazie a una tecnologia rimasta intatta e incentivata dal conflitto. Pare aprirsi una fase di espansione senza limiti, si respira ottimismo. Nessuno dubita che l’esplorazione degli spazi, cui stanno già lavorando scienziati nazisti passati al nemico, possa tardare.
Naturalmente il progresso ha come sempre un lato oscuro. L’Unione Sovietica, da alleata che era, si è trasformata in rivale (per fortuna non ha ancora la bomba atomica), il comunismo si espande e lambisce l’Europa occidentale, il maccartismo fa la sua apparizione, limitata per il momento al mondo del cinema. L’uccisione, all’inizio dell’anno, del mahatma Gandhi, che Asimov ricorda nella prefazione, sembra preannunciare la fine di un periodo di pace durato solo due anni.
La fantascienza, narrativa intrinsecamente ambigua, da un lato vive di ottimismo, dall’altro si alimenta di tensioni. Prevale il gusto dolceamaro, nel decimo volume de Le grandi storie della fantascienza. Gli autori antologizzati da Asimov, dal Ray Bradbury di Marte è il paradiso!, che colpirà profondamente un giovane Stephen King, al caustico Fredric Brown, all’epico Van Vogt, a molti altri, tra esordienti e veterani, non adottano l’uno o l’altro registro, ma spesso li fondono tra loro. Perché dolceamara è la società occidentale che, fuori delle camere in affitto in cui lavorano, sta prendendo forma.


  1. Per una questione di diritti, nessun racconto di Heinlein, tra quelli citati qui e in seguito, figura effettivamente nell’antologia. Circostanza ignota al prefatore, che aveva tra le mani l’originale americano. 

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Quando la fantascienza proviene dall’ucronia https://www.carmillaonline.com/2025/11/25/quando-la-fantascienza-proviene-dallucronia/ Tue, 25 Nov 2025 21:00:09 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91661 di Paolo Lago

Daniele Comberiati, Eugenio Barzaghi, L’uomo dall’altro mondo. Fantascienza di un’Italia [im]possibile, Machina Libro / DeriveApprodi, Bologna, 2025, pp. 96, euro 12,00.

Immaginiamo un’Italia appartenente ad una dimensione alternativa, in cui negli anni Sessanta avviene un colpo di Stato militare; d’altra parte, se guardiamo alla storia di quegli anni (con il Piano Solo del 1964 e il tentativo del golpe Borghese del 1970), era ciò che sarebbe anche potuto succedere. Siamo quindi proiettati in una vera e propria ucronia, una immaginifica e possibile direzione degli eventi storici diversa rispetto a quella reale. L’aspetto più interessante del recente, godibilissimo libretto [...]]]> di Paolo Lago

Daniele Comberiati, Eugenio Barzaghi, L’uomo dall’altro mondo. Fantascienza di un’Italia [im]possibile, Machina Libro / DeriveApprodi, Bologna, 2025, pp. 96, euro 12,00.

Immaginiamo un’Italia appartenente ad una dimensione alternativa, in cui negli anni Sessanta avviene un colpo di Stato militare; d’altra parte, se guardiamo alla storia di quegli anni (con il Piano Solo del 1964 e il tentativo del golpe Borghese del 1970), era ciò che sarebbe anche potuto succedere. Siamo quindi proiettati in una vera e propria ucronia, una immaginifica e possibile direzione degli eventi storici diversa rispetto a quella reale. L’aspetto più interessante del recente, godibilissimo libretto di Daniele Comberiati ed Eugenio Barzaghi, uscito per Machina Libro / DeriveApprodi, è quello di presentarci quasi un’ucronia dentro un’altra ucronia: gli autori allestiscono infatti un vero e proprio saggio documentaristico sul cinema di fantascienza italiano prodotto sotto il regime militare fra anni Sessanta e Settanta. Si tratta di un cinema possibile, come d’altronde la stessa Italia raccontata, in cui il prefisso “in” è posto fra parentesi quadre.

Cerchiamo quindi di capire cosa è avvenuto, secondo i due autori, in quest’Italia «[im]possibile»: il 6 gennaio 1965 ha buon esito un colpo di stato militare guidato da Giovanni Paoloni, consulente del Ministero dell’Interno, coadiuvato dai servizi segreti. La sera stessa gli Stati Uniti appoggiano e riconoscono il governo formato da Paoloni, il quale diventa presidente della Repubblica acquisendo un potere esecutivo inedito. Non si tratta di un nuovo ventennio mussoliniano – come avvertono anche gli autori – ma di un potere autoritario gestito in modo più sottile, come è avvenuto nelle dittature dell’Europa meridionale di quegli anni (Spagna, Portogallo, Grecia). Il libro, nelle pagine iniziali, offre una cronologia degli accadimenti di natura politica e sociale avvenuti sotto la giunta Paoloni in cui si mescolano eventi reali e inventati: ad esempio, il disastro di Seveso nel 1976 al quale si aggiungono però altre tre fabbriche che rilasciano diossina, un nuovo Piano Marshall approntato dagli Stati Uniti per sostenere l’Italia, l’esondazione dell’Arno nel 1966, il ritiro di Moro dalla scena politica e il Partito comunista dichiarato come illegale (i cui membri sono costretti a andare in esilio in Francia), un terrorismo anti-regime che proviene soprattutto dal Meridione, la completa assenza nel Paese di qualsiasi manifestazione legata al ’68, un Grande Piano Energetico Nazionale che promuove e incentiva l’energia nucleare. Vengono anche nominati dei personaggi reali legati alla cultura e allo spettacolo come, ad esempio, Luigi Tenco (nell’Italia ucronica il suo suicidio diventa un omicidio imputato a dei terroristi anarco-comunisti), Umberto Eco, Emilio de Rossignoli, Pier Vittorio Tondelli, Lucio Villari mentre manca del tutto la presenza di un intellettuale significativo di quel periodo come Pasolini: forse, chissà, eliminato e fatto sparire dalla stessa giunta Paoloni prima che nel mondo reale del 1975 venisse massacrato e ucciso e ai giorni nostri trasformato in un’icona-giocattolo utilizzabile anche dai post-fascisti.

Quest’Italia «[im]possibile» è però anche “possibile” e vengono in mente diverse sottili connessioni con la realtà di oggi e con ciò che è stato il Paese a partire dal Dopoguerra. Come affermano i due autori in una interessante intervista dal titolo Come si immagina «L’uomo dall’altro mondo»? uscita lo scorso 16 ottobre su «Machina» (qui), il nome inventato «Paoloni», con la terminazione in “-oni”, possiede una singolare assonanza con un rilevante personaggio politico della contemporaneità. Gli autori ricordano poi come l’idea del libro sia nata da una visita, una domenica pomeriggio del dicembre 2019, all’ufficio dell’Agenzia delle Entrate, nel quartiere di Tor Marancia a Roma, un edificio enorme costruito negli anni Sessanta intriso di un’atmosfera un po’ inquietante, coi muri umidi e con l’acqua che cadeva da un punto del soffitto. Come afferma Comberiati, «il giorno dopo ci sarebbero state centinaia di impiegati a lavorare, eppure sembrava un luogo post-apocalittico, che della burocrazia moderna – una modernità già vecchia, rimasta davvero agli anni Sessanta – portava solo i segni della scomparsa». Questo luogo (definito da Barzaghi come uno dei «luoghi in bilico che raccontano il passato ma respirano il presente e lasciano vedere il futuro») visitato dagli autori assume un valore emblematico divenendo quasi il simbolo di un oscuro e sottile potere che ha continuato a sussistere attraverso il tempo, forse dalle derive più autoritarie e violente del fascismo. Quella «modernità già vecchia» ci può far pensare a certi uffici del potere del futuro messi in scena da David Cronenberg in Crimes of the Future (2022): si tratta degli spazi di un futuro decadente e già vecchio, intriso di un’opprimente burocrazia, che sembra appartenere a un orrendo e greve passato. In Italia, più che in altre nazioni – a Roma soprattutto ma non solo – è possibile incontrare queste squallide vestigia appartenenti al passato: non soltanto architetture dell’era fascista ma anche edifici risalenti alle ricostruzioni degli anni Cinquanta e Sessanta realizzate da un potere democratico che – pure se non avviatosi verso una deriva dittatoriale come immaginato nel libro – nelle sue buie viscere è rimasto legato a doppio filo a un fascismo sovversivo; quel potere legato alle “stragi di Stato”, a relazioni occulte e segrete, agli insabbiamenti, a omicidi e sparizioni ancora irrisolti. Questi edifici mostruosi e grevi, che paiono abbandonati e in rovina ma che pure vengono utilizzati ancora oggi dagli apparati di potere, sono un po’ l’immagine dello stesso potere oscuro e patriarcale, familistico e paternalistico, destrorso e razzista, che vige più o meno occultamente nell’Italia di oggi. Non si parla naturalmente di un potere centrale che proviene dall’alto, ma di una «microfisica del potere» in senso foucaultiano, presente in modo sottile nelle più svariate dinamiche sociali.

Un’altra somiglianza fra l’Italia ucronica inscenata da Barzaghi e Comberiati e quella reale riguarda la caratterizzazione sociale degli anni Ottanta. Come nota Comberiati nella citata intervista, «nel nostro caso, vediamo come l’Italia di oggi sia molto più una conseguenza degli anni Ottanta che degli anni Settanta, al punto che, se quel decennio fosse stato diverso, forse il nostro presente non sarebbe così dissimile da quello che è. Si tratta ovviamente di una provocazione, ma con un fondo di verità, se ci pensiamo bene». Infatti, poco prima lo stesso Comberiati ricorda come «nei tempi distopici che stiamo vivendo la fantascienza sia una sorta di nuovo realismo. Il genere popolare che, proprio come il neorealismo degli anni Cinquanta, sottolinea le contraddizioni della realtà. Ecco, se la fantascienza è il nuovo realismo, l’ucronia è un liquido di contrasto che ci fa vedere non un altro passato, ma un altro presente. O almeno il presente da una prospettiva diversa». Gli anni Ottanta sorti dopo la caduta della giunta Paoloni, nel 1979, rappresentano per l’Italia, come afferma un Umberto Eco ‘ucronico’ in un articolo uscito nel 1989, una vera e propria «ubriacatura democratica». Nella realtà sappiamo bene cosa sono stati quegli anni, dominati dal disimpegno e dal rampantismo sociale.

Veniamo quindi al cuore pulsante del libro, e cioè alla fantascienza, definita come «nuovo realismo» all’interno della ‘distopia’ reale che ci troviamo a vivere. L’uomo dall’altro mondo offre le schede dettagliate di 23 film di fantascienza, con tanto di foto di scena, locandine e bibliografia critica, girati in Italia nel periodo della giunta Paoloni. Se la maggior parte sono opere, se così si può dire, di propaganda del regime, che mirano alla sua esaltazione, alcune rappresentano una contestazione più o meno velata allo stesso. Qual è il background reale di questi film inventati? Ci risponde Eugenio Barzaghi, sempre nell’intervista uscita su «Machina»: l’Elio Petri di La decima vittima, Mario Bava, Antonio Margheriti, Luciano Salce, Ugo Gregoretti con Omicron, Ubaldo Ragona con L’ultimo uomo della Terra e diversi altri. I nomi inventati di registi e attori fanno tanto – se così si può dire – anni Sessanta e primi Settanta: suonano come reali possedendo quasi l’anima di tutto quell’universo cinematografico di matrice ‘popolare’, fatto di attori di sceneggiati e di stuntmen (“cascatori”, come si diceva all’italiana), di campioni sportivi convertitosi al cinema (ad esempio Carlo Pedersoli-Bud Spencer), di registi-attori più che, come diversi anni dopo, attori-registi. Ricordiamone alcuni, che spesso tornano di film in film: Dino Cipressi, Italo Quassi, Arrigo Speri, Giacomo Infanti, Giuseppe Fagiani, Attilio Biseglie, Aldo Moiso, Giacomo Alberti.

Fra i film inventati e analizzati dagli autori incontriamo, all’inizio della disamina, La fabbrica, del 1965, con la regia di Carlo Sacci, «probabilmente il primo film di fantascienza contro il regime, anche se giunse nelle sale il 3 gennaio, tre giorni prima dell’arrivo al potere della giunta militare» (p. 30). La storia si ambienta «in un ipotetico 1999, anno in cui l’Italia non esiste più, inglobata in un’alleanza transatlantica che fa pensare alla Nato e che è riuscita a conquistare anche il blocco sovietico. Il mondo è un’immensa megalopoli gestita dai padroni della Fabbrica, l’impresa dell’alleanza transatlantica che organizza il lavoro globale» (p. 30). Un altro film contro il regime è Dopo la bomba, sempre del 1965, di Francesco Billotti, che mette in scena una Roma devastata dall’esplosione atomica; il lungometraggio, progettato nel 1964, ebbe degli intoppi produttivi perché la Rai, che avrebbe dovuto co-produrlo, si tirò indietro all’ultimo momento su pressione del ministro della ricerca scientifica che vi intravedeva una critica al Grande Piano Energetico Nazionale, varato solo nel 1970 ma presentato fin dall’insediamento della giunta Paoloni nel 1965. Il film si ricorda anche perché lo scrittore Emilio de Rossignoli ne rimase colpito e ne trasse ispirazione per il suo romanzo H come Milano (1966), che inizialmente ha circolato solo in traduzione francese perché vietato in Italia. Un esempio di cinema di fantascienza clandestino è Passaggio vietato (1970), di Aristide Tirotti, un regista dal passato letterario, in quanto aveva svolto l’attività di traduttore di autori come Aldous Huxley e George Orwell. Nel film si immagina una società del futuro iperproduttiva divisa in due classi sociali, i Liur, manager ricchi e potenti, e gli Opres, proletari schiavizzati dai ricchi. Il film, oggi, costituisce una testimonianza del clima di angoscia che si respirava in Italia all’inizio degli anni Ottanta. Ricordiamo anche La morte dolce (1976), realizzato dai Collettivi autonomi proletari, considerati dalla giunta Paoloni un’organizzazione terroristica (gli attori, infatti, per non essere riconosciuti hanno tutti il volto oscurato o coperto). Il film intende denunciare il disastro di Seveso del 1976 e l’esplosione nello stesso anno di altre tre fabbriche (fra cui una fabbrica di gazzosa al caffè) che rilasciarono ingenti quantità di diossina: è la storia di una coppia di operai in una fabbrica di gazzose che vengono avvolti da una nuvola di fumo grigio e intossicati. L’ultima scena mostra in modo raccapricciante la giovane operaia che partorisce un neonato mostruoso in un ospedale dietro l’immagine pubblicitaria della bibita. Fra i film ostili al regime si può infine ricordare quello che offre il titolo – con una leggera modifica – al volumetto di Comberiati e Barzaghi, cioè L’uomo dell’altro mondo, del 1977, con la regia di Aldo Moiso. Si tratta di una produzione ufficiale della Rai, finanziata con soldi pubblici del Ministero della Propaganda, eppure venne recepito come un film ostile alla giunta militare. La storia si incentra sull’arrivo, in un’azienda statale, di un nuovo impiegato che giunge da una dimensione parallela, un «altro mondo» appunto. Il messaggio implicito nel film (la cui ucronia riflette en abyme quella che avvolge l’intero libro), probabilmente voluto dagli stessi autori, è allora che esiste un «altro mondo» rispetto all’Italia irreggimentata dalla giunta Paoloni.

Fra i film ufficiali e inneggianti al governo troviamo invece La camminata sbilenca del granchio (1968), di Giacomo Infante, appartenente al sottogenere dei mostri mutanti, «piuttosto utilizzato nella fantascienza ufficiale durante la giunta Paoloni» (p. 38). Uno scienziato crea un granchio gigante per debellare un virus che si trasmette attraverso le acque salate ma un gruppo di terroristi, venuto a conoscenza della scoperta, uccide il dottore e cattura la sua assistente. Il granchio, che aveva un debole per quest’ultima, li elimina e riesce a debellare il virus. Probabilmente, nella figura del granchio vi è una metafora delle azioni della polizia nel 1968 a Catanzaro, quando una rivolta di studenti venne repressa nel sangue grazie a una manovra militare detta appunto “del granchio”. Interessante è anche Alieni ad Asmara (1974), di Adriano Grimi (il libro è corredato anche di una foto del regista con la divisa da ufficiale coloniale del nonno) un film di propaganda mirante a perseguire la legittimazione dell’avventura coloniale italiana portata avanti dalla giunta Paoloni. Ad Asmara, nonostante gli italiani abbiano riportato l’armonia fra la popolazione, ci sono ancora alcuni eritrei ostili. Arriva quindi una nave spaziale aliena con intenti bellicosi: sarà solo grazie agli italiani e agli eritrei fedeli che gli extraterrestri verranno sconfitti e sarà riportata la pace. Film di regime è anche Le proprietà dello stralisco (1976): racconta la ribellione di un giovane a un proprietario terriero generoso e di buon cuore; il giovane, grazie a una pozione realizzata con foglie di stralisco, una pianta che cresce in quelle zone, acquista una forza sovrumana e aggredisce il proprietario terriero il quale però riuscirà a impadronirsi della pozione e a ristabilire l’ordine. Si tratta di una storia caratterizzata da un’originale ambientazione bucolica che possiede un riferimento all’uccisione di due proprietari terrieri avvenuta nel 1975 a Matera, in piena crisi economica, attribuita a cinque militanti dei Collettivi autonomi proletari arrestati alla frontiera con la Svizzera. In un momento di crisi del regime, vicino al suo tracollo, si colloca Domani, l’apocalisse (1978), ultimo film di finzione prodotto in Italia sotto la giunta militare. Il protagonista è Franco Aldi, ex campione di catch (lo vediamo anche in una foto di scena, con baffi posticci e collanona) passato al cinema: il suo personaggio è ispirato allo Zed interpretato da Sean Connery nel film Zardoz (1975) e si muove in una Roma deserta attraversata di notte da terribili creature che rappresentano i nemici del regime. Le violenze inscenate sono una metafora dei pericoli che correva l’Italia ad abbandonare la sicurezza del governo Paoloni. Ma il film appare alla «vigilia delle elezioni che sancirono il declino politico di Paoloni, che però non venne mai arrestato né inabilitato politicamente» (p. 85).

Dopo aver qui preso in considerazione alcuni dei film presentati, possiamo quindi pensare che uno dei temi principali di L’uomo dall’altro mondo sia proprio la stretta connessione fra la dimensione socio-politica e la produzione artistica legata al genere della fantascienza. Nella realtà come nell’ucronia immaginata dai due autori, la fantascienza rappresenta una significativa cartina di tornasole delle dinamiche sociali, economiche e politiche; abbiamo visto come sia nei film ostili al regime sia in quelli ad esso compiacenti si riflettano costantemente gli avvenimenti legati a queste dinamiche: scontri tra manifestanti e forze dell’ordine, arresti, attentati, crisi economica, sociale e politica, momenti di debolezza o di forza del potere. Come leggiamo nell’introduzione a un saggio sulla narrativa di fantascienza italiana contemporanea dal significativo titolo di Ideologia e rappresentazione, realizzato da Comberiati assieme a Simone Brioni, la produzione di genere ha sempre affrontato «importanti temi nella cultura italiana contemporanea quali, fra gli altri, il colonialismo e la sua eredità, la robotica, il sessismo, l’ecocritica, le leggi sui manicomi, il terrorismo, il ‘ventennio’ berlusconiano, il complesso rapporto fra l’Italia e l’Europa, e la fine dell’antropocene»1. I due studiosi affermano poi che l’intrattenimento che deriva dalla fruizione di queste opere potrà servire «come l’ispirazione per la creazione di un sistema di norme e regole alternativo a quello esistente»2. Come ha scritto Valerio Evangelisti, «l’immaginario è dunque tra i terreni salienti di battaglia, per chi voglia sottrarsi alla dittatura più insinuante, senza scrupoli e invasiva che la storia ricordi»3 cioè quella del capitale. Un importante terreno di battaglia che anche oggi, più che mai, dovrebbe essere tenuto vivo e acceso perché il pericolo dell’arrivo di nuove giunte Paoloni mascherate da alfieri della democrazia è sempre in agguato.


  1. S. Brioni, D. Comberiati, Ideologia e rappresentazione. Percorsi attraverso la fantascienza italiana, Mimesis, Milano-Udine, 2020, p. 12. 

  2. ivi, p. 15. 

  3. V. Evangelisti, Prefazione. La lotta per le “altre” otto ore, in AA.VV., Immaginari alterati. Politico, fantastico e filosofia critica come territori dell’immaginario, Mimesis, Milano-Udine, 2018, p. 8. 

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Il futuro della Palestina https://www.carmillaonline.com/2025/10/24/il-futuro-della-palestina-2/ Fri, 24 Oct 2025 20:00:05 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=90936 di Valerio Evangelisti

[Pubblicato dall’autore su “Carmilla online” il 16 Marzo 2022. Il testo è uscito originariamente come postfazione a un’antologia di racconti di fantascienza di autori palestinesi: Basma Ghalayini, a cura di, Palestina 2048 – Racconti a un secolo dalla Nakba, Lorusso, Roma, 2021].

Dal 1948 una delle peggiori infamie che la storia ricordi si consuma sulle coste orientali del Mediterraneo. Un popolo perseguitato, in nome di un diritto ripescato in antiche mitologie, si è appropriato con la forza e col denaro di un territorio occupato da secoli da un’etnia diversa. Intenzionato non a fondersi con gli autoctoni, ma per scacciarli, [...]]]> di Valerio Evangelisti

[Pubblicato dall’autore su “Carmilla online” il 16 Marzo 2022. Il testo è uscito originariamente come postfazione a un’antologia di racconti di fantascienza di autori palestinesi: Basma Ghalayini, a cura di, Palestina 2048 – Racconti a un secolo dalla Nakba, Lorusso, Roma, 2021].

Dal 1948 una delle peggiori infamie che la storia ricordi si consuma sulle coste orientali del Mediterraneo. Un popolo perseguitato, in nome di un diritto ripescato in antiche mitologie, si è appropriato con la forza e col denaro di un territorio occupato da secoli da un’etnia diversa. Intenzionato non a fondersi con gli autoctoni, ma per scacciarli, piegarli e nel frattempo schiavizzarli.

Lo Stato di Israele è nato con la violenza, e con la violenza continua ancora oggi a espandersi a spese di genti arabe che abitavano quelle terre, di cui nega persino l’identità: palestinesi. Facenti parte, secondo i governanti israeliani presenti e passati, di un coacervo islamico indistinto in cui ricacciarli a furia di prepotenze e di stragi.

Nel 1948 le Nazioni Unite, nel riconoscere il sopruso iniziale, posero all’invasore dei confini. Inutile: Israele si gonfiò come un tumore, cosparse di metastasi le porzioni di suolo che ancora osavano chiamarsi Palestina. Scoppiò un conflitto mai sopito, con dubbi rigurgiti bellicosi del resto del mondo arabo. Si arrivò alla situazione odierna, in cui ai palestinesi ostinatamente affezionati alla loro terra natia e alla propria identità culturale sono riservate insignificanti frange geografiche divise tra loro, lembi di mare, aree impervie private di acqua.

Ogni volta che si manifesta qualche conato di resistenza, Israele lo punisce non solo con una brutale repressione armata, ma distruggendo case palestinesi, schiantando oliveti, devastando terreni coltivabili, impedendo la pesca, sabotando i commerci, bloccando i rifornimenti vitali. Nel deserto così creato sorgono le colonie (mai termine fu più azzeccato) di nuovi occupanti da sistemare, armati, arroganti, minacciosi, feroci. Se una Palestina unita, non confessionale e democratica non è più all’orizzonte, ancor meno lo è l’ipotesi “due popoli, due patrie”. I tentacoli israeliani, penetrati a fondo nel territorio da annettere, l’hanno resa impossibile. Spinta nel campo della fantasia.

Ed ecco che le possibili soluzioni sono affidate alla fantascienza. Una FS moderatamente utopica e pochissimo tecnologica, proiettata di poco nel futuro e basata su sviluppi attendibili di tecnologie correnti. Realtà virtuali, hackeraggi, inganni informatici. La Palestina del 2048 spesso così prende forma, con contorni onirici e provvisori. Non è un avvenire consolante. La maggior parte delle storie di questa antologia tende alla tristezza, alla perpetuazione del dolore.

Siamo mille miglia distanti dalla fantascienza anglosassone. L’elemento scientifico è tutto sommato marginale, mai descritto in dettaglio. Eppure, la forza espressa in questi racconti supera buona parte di quel che emerge dalla narrativa avveniristica americana o britannica. Contrariamente a quel che si sostiene in uno dei testi, una letteratura utopica esisteva in Medio Oriente fin dal tempo ottomano (L. Mignon, in Cycnos A. 22 n.2, Nizza 2005). Qui però parliamo non di utopia, bensì di distopia. Nulla, nel presente, allude a un rapido riscatto, a un trionfo della giustizia. Al contrario, quel che attende i palestinesi del futuro sono fatica e dolore, ulteriori sofferenze, inganni e false vie d’uscita.

Che c’è di autenticamente palestinese in ciò, di lontano dall’imitazione di prose occidentali? Metterei al primo posto una scrittura raffinata, elegante, che lascia trapelare una cultura antica mai soffocata interamente. E la costruzione di caratteri credibili, simpatetici, umani, molto più di quanto accade nella fantascienza corrente: brillante nelle idee, fragile nelle psicologie.

Cosa augurare a questo nucleo di scrittori palestinesi? Quello che nemmeno loro osano immaginare; una Palestina unita, laica, aconfessionale, in cui arabi ed ebrei possano convivere. E magari una Palestina socialista, perché no. Serviranno molti scontri e lutti per giungere allo scopo, ma chi sa scrivere così bene sa anche battersi bene.

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Terrestri e Viandanti https://www.carmillaonline.com/2025/08/22/terrestri-e-viandanti/ Fri, 22 Aug 2025 20:00:54 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=89949 di Sara Passannanti

Arkadij e Boris Strugackij, Lo scarabeo nel formicaio, con una postfazione di Boris Strugackij, trad. Claudia Scandura, pp. 256, € 18,50, Carbonio, Milano 2024.

“Noi non avevamo scritto un giallo. Noi avevamo scritto una storia tragica sul fatto che, persino nel mondo più buono e giusto possibile, l’apparizione della polizia segreta porta inevitabilmente sofferenza e morte a persone che non sono colpevoli di nulla, per quanto nobili siano gli scopi di questa polizia segreta e per quanto onesti, corretti e per bene siano i collaboratori di cui si è dotata.” Corre l’anno 2179. Maksim Kammerer, agente al servizio [...]]]> di Sara Passannanti

Arkadij e Boris Strugackij, Lo scarabeo nel formicaio, con una postfazione di Boris Strugackij, trad. Claudia Scandura, pp. 256, € 18,50, Carbonio, Milano 2024.

“Noi non avevamo scritto un giallo. Noi avevamo scritto una storia tragica sul fatto che, persino nel mondo più buono e giusto possibile, l’apparizione della polizia segreta porta inevitabilmente sofferenza e morte a persone che non sono colpevoli di nulla, per quanto nobili siano gli scopi di questa polizia segreta e per quanto onesti, corretti e per bene siano i collaboratori di cui si è dotata.”
Corre l’anno 2179. Maksim Kammerer, agente al servizio della Commissione di Controllo (COMCON), riceve l’incarico di trovare Lev Abalkin, esiliato dalla Terra che è tornato sul pianeta senza registrare il proprio ingresso. Tutto quello che Kammerer sa di Abalkin è che è un progressore, ovvero un esperto facilitatore nelle relazioni interplanetarie.
Inizia così a prender forma una detective story nella quale la caccia all’uomo si trasforma pagina dopo pagina in ricerca della verità e in cui più volte Maksim Kammerer (e noi con lui) si trova a chiedersi quale sia la parte del giusto, in un conflitto che travalica quello individuale tra fuggitivo e inseguitore.
Più di altri romanzi dei fratelli Strugackij, Lo scarabeo nel formicaio appare dialogico già nella sua costruzione: un dialogo in cui le domande hanno più rilevanza delle risposte e in cui le stesse risposte non hanno mai la forma di affermazioni, piuttosto di ipotesi; ma comunque un dialogo che rende vive le motivazioni dell’una e dell’altra parte. Gli autori mescolano le carte: una detective story scritta come una relazione investigativa dal taglio scientifico, schematico, in cui le ipotesi vengono scandagliate e tutti i passaggi di azione vengono precisati in modo analitico (con indicazione metodica di date, orari, durate e localizzazione: la frase di apertura del romanzo è proprio “Alle tredici e diciassette Sua Eccellenza mi convocò”); dall’altro lato, un romanzo nel romanzo che consta di un dossier scientifico vero e proprio, detto semplicemente “Rapporto di Lev Abalkin sull’operazione Mondo Morto”, la cui forma invece è libera e concepita per consentire agli psicologi di desumere dal testo le sensazioni soggettive e personali del suo autore.
Anche all’interno di ciascuno dei due blocchi narrativi c’è poi un continuo gioco di doppi.
Oltre alla contrapposizione Kammerer/Abalkin, il conflitto che innesca tutta la vicenda è quello tra i due monoliti Rudolf Sikorski e Isaak Bromberg. Entrambi sono a conoscenza del mistero che aleggia intorno ad Abalkin ma, mentre Bromberg, anziano storico ottimista, reputa Lev innocuo come uno scarabeo in un formicaio, Sikorski, a capo del COMCON, deve farsi carico della sicurezza mondiale e pertanto assume una postura sospettosa e valuta Lev come una possibile minaccia per la Terra.
Nel dossier, l’elemento del doppio è incarnato nella coppia formata da Lev Abalkin e Ščekn, un ranger appartenente alla specie dei testoni, alieni con l’aspetto di uomini-cane. Uno dei temi più affascinanti nel testo è la descrizione del rapporto tra le due diverse specie, umana e testona. Si tratta di una relazione complessa, perché presenta contemporaneamente elementi di trasparenza e di opacità: trasparenza nel momento in cui i testoni sono perfettamente integrati in un ambiente e perciò le loro azioni appaiono “naturali”; opacità perché tale disinvoltura è legata a un istinto che segue regole aliene diverse da quelle alle quali è sottomessa la razionalità umana e ha delle motivazioni che sono e restano incomprensibili. Lungo tutto il suo rapporto, Lev Abalkin si interroga sulle azioni del suo amico Ščekn, cerca di interpretarne i movimenti, senza mai raggiungere ipotesi soddisfacenti. E noi che leggiamo abbiamo l’impressione di un profondo non detto e non dicibile che separa i due, un buco nella comprensione reciproca talmente profondo che ci porta a chiederci se e in che misura sia possibile un’amicizia non solo tra due specie diverse (certo, questo ci interroga a maggior ragione), ma tra due qualsiasi individui diversi, perché le intenzioni e i pensieri profondi dell’altro rimangono per noi sempre e solo sul piano delle ipotesi e della fiducia.
E questo risulta ancora più interessante se messo nella prospettiva di una scrittura a quattro mani, in cui non è scontato che i due autori insieme vogliano e non vogliano le stesse cose.
La diversità di Abalkin e Ščekn viene resa non solo attraverso il loro dialogo – o l’assenza di esso nelle riflessioni di Lev – ma anche attraverso la differenza di percezioni tra i due, così dove Lev vede “una casa come un’altra”, “Ščekn la guarda fisso, la punta con un’attenzione vigile” attribuendole un pericolo definito “un odio fortissimo”. O ancora, in un altro passaggio, Lev dice nella lingua dei testoni di non vedere alcuna fossa e Ščekn replica “Non puoi vedere. Non sei capace.”
È curioso che nella postfazione al romanzo questo, che in fase di progetto non aveva ancora un titolo, venga chiamato provvisoriamente “Bestie”, che è la parola che usiamo in due casi: quando dobbiamo indicare un animale non umano che non sappiamo identificare e quando vogliamo connotare negativamente l’animale. Entrambe le sfumature di significato sono presenti nel modo in cui i terrestri si riferiscono ai Viandanti.
In effetti, la comprensione dell’altro, dei suoi bisogni e delle sue intenzioni, non è solo il nocciolo del romanzo nel romanzo, ma si erge a tema portante di tutto il testo e ne influenza la struttura. È il motivo per cui Lev Abalkin scappa e viene inseguito e, prima ancora, per cui parte dell’umanità, nonostante sia un’utopia in cui tutti gli abitanti della Terra convivono nell’interesse del bene collettivo, è così spaventata dai sarcofagi-incubatrici che i Viandanti hanno abbandonato sul pianeta. Il problema dell’inconosciuto si propaga e si somma a un’ulteriore questione che i due autori hanno particolarmente a cuore, ovvero il ruolo della polizia segreta, per quanto utopica sia la società in cui essa opera e per quanto nobili siano le intenzioni dell’istituzione.
La sintesi tra queste due tensioni ci conduce alla domanda che costituisce il nodo cruciale del romanzo, nodo che non ha soluzione: in che misura è possibile superare la paura dell’ignoto e assicurare la sicurezza e il bene dell’intera civiltà terrestre senza sacrificare la libertà e i diritti dell’individuo?
Questa domanda, come l’indagine di Maksim Kammerer, rimane un mistero aperto, che ammette nessuna o più risposte possibili. Ed è sul dubbio che sia o meno possibile trovare una risposta al dilemma che Lo scarabeo nel formicaio instaura con noi che lo leggiamo un dialogo profondo e durevole.

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Fondali di una città https://www.carmillaonline.com/2025/08/04/89736/ Mon, 04 Aug 2025 20:00:01 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=89736 di Roberta Cospito

Gloria De Paoli, Fondali, Zona 42, pp.236, euro 15,90 stampa

Gloria De Paoli è una scrittrice esordiente che sceglie di iniziare la sua carriera letteraria con un romanzo in odor di distopia. Scelta inusuale, dal momento che la letteratura italiana femminile è piuttosto povera di titoli distopici. Viene in mente, per esempio, Nicoletta Vallorani e il suo Avrai i mei occhi (Zona 42, 2020) ambientato in una Milano soffocata da nubi pulviscolari, divisa in zone da alte mura, nelle cui strade si incrociano ragazzini stracciati e mucchi di cadaveri e Maria Attanasio che colloca la sua storia distopica Il condominio di [...]]]> di Roberta Cospito

Gloria De Paoli, Fondali, Zona 42, pp.236, euro 15,90 stampa

Gloria De Paoli è una scrittrice esordiente che sceglie di iniziare la sua carriera letteraria con un romanzo in odor di distopia. Scelta inusuale, dal momento che la letteratura italiana femminile è piuttosto povera di titoli distopici.
Viene in mente, per esempio, Nicoletta Vallorani e il suo Avrai i mei occhi (Zona 42, 2020) ambientato in una Milano soffocata da nubi pulviscolari, divisa in zone da alte mura, nelle cui strade si incrociano ragazzini stracciati e mucchi di cadaveri e Maria Attanasio che colloca la sua storia distopica Il condominio di Via della Notte (Sellerio, 2013) in un ambiente urbano, precisamente a Nordìa. una metropoli-stato, miraggio di perfezione collettiva, fondato su disciplina, sicurezza e un consenso sociale estremo e intollerante che entusiasma la maggioranza della popolazione, spaventando chi sceglie di resistere.
Tra questi nomi si inserisce De Paoli che, invece, ci cala in una Torino riconoscibile solo dai nomi delle strade e dei palazzi, una Torino già visitata in chiave distopica sotto la guida di Giorgio Di Maria che ne Le venti giornate di Torino (Frassinelli, 2017) la descrive come una città sconvolta da fatti di sangue, in cui misteriose e spettrali figure grigie compaiono per le strade sbattendo violentemente al suolo o contro gli alberi gli umani che malauguratamente incontrano nelle notti insonni che caratterizzano quel periodo.
In Fondali la città è ormai un cumulo di macerie, ridotta così da una serie di epidemie, alluvioni, lunghi periodi di siccità e da una continua guerriglia urbana.
C’è una profonda spaccatura tra un mondo di privilegiati protetti da mura, un mondo sotterraneo dove pare prosperare un nuovo violento potere e un mondo di profughi e sbandati che hanno deciso di non sottostare alle varie regole imposte dagli altri in nome di una più probabile sopravvivenza.
La protagonista del romanzo, Rosalina, appartiene a quest’ultimo gruppo di diseredati.
“A quei tempi c’erano solo due scelte: sprangarsi in casa, o unirsi alla guerriglia. A un certo punto l’esercito è entrato in città in grande spolvero: avevano carrarmati e granate e jeep blindate e soldati in tenuta d’assalto, il pacchetto completo. Sembrava che le cose fossero tornate più o meno sotto controllo, e invece poco dopo il governo aveva smesso di esistere, fagocitato dalla sua stessa irrilevanza. I militari ne avevano approfittato, si erano messi anche loro a saccheggiare e distruggere e stuprare, gonfi di ferocia repressa. Alcuni si erano creduti più furbi, e avevano venduto ai rivoltosi tutte le armi e gli esplosivi che erano riusciti ad arraffare. Tutti contro tutti, armati fino ai denti: non poteva finire bene.”
Nonostante la devastazione tutti, in qualche modo, cercano di sopravvivere grazie anche a una piccola routine quotidiana fatta di ricerca di cibo e altri generi di prima necessità, di una qualche attività volta a procacciarsi medicine e droga, e scandita anche da momenti di condivisione del tempo libero con amici e conoscenti; per fortuna, questa piccola comunità ha ancora voglia di organizzare feste e ascoltare musica: molti di loro sono ex raver e quindi hanno vissuto per anni frequentando feste clandestine.
Il punto di forza della storia è la particolarità della protagonista che pone tutto il racconto in una prospettiva non banale. Rosalina, non è una donna giovane ed è afflitta dalla sclerosi multipla, malattia invalidante in progressione e questo, in un mondo in disfacimento e senza un futuro immaginabile, rende ancora più problematico il vivere quotidiano. Non solo, il tutto si complica quando Aron, l’amato nipote diciassettenne, scompare e lei decide di andare alla sua ricerca attraversando la città armata solo di un bastone glitterato che l’aiuta nella sua difficoltosa e spesso dolorosa deambulazione, e un piccolo coltello a serramanico.
Usando la lente della distopia, Gloria De Paoli descrive un mondo che sicuramente riconosciamo come nostro, caratterizzato da comunità relegate ai margini che faticano a sopravvivere; decisioni imposte dall’alto senza nessuna condivisione o richiesta di un parere a chi, con queste, si trova a dover convivere; dalla solitudine di chi è diverso o semplicemente non allineato; dalla necessità o voglia di fuga da una realtà difficile da capire e sopportare; da rapporti familiari tesi e minati da preconcetti; da persone trattate come merce di scambio; dalla difficile vita di chi ha una disabilità non alleggerita da grosse disponibilità economiche.
Per fortuna, ci possiamo riconoscere anche in alcuni personaggi ben descritti dall’autrice che fanno parte di un’umanità capace di solidarietà e di rendersi utile senza secondi fini, che riesce a vedere la bellezza dove oggettivamente non c’è, che trova la forza di resistere nello sguardo degli altri, che sceglie di decidere della propria vita in autonomia, nonostante le varie pressioni esterne e che riesce a trovare una giusta collocazione in un mondo in cui tutto appare sbagliato.

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Ambigue utopie della DDR https://www.carmillaonline.com/2025/07/25/ambigue-utopie-della-ddr/ Fri, 25 Jul 2025 20:00:21 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=89810 di Paolo Bertetti

Angela e Karlheinz Steinmüller, Andymon, trad. di Beatrice Sensini, pp. 392, euro 20,oo stampa, Del Vecchio Editore, Bracciano 2025.

La fantascienza tedesca, al pari – occorre dire ­– delle altre tradizioni non anglofone, ha sempre avuto scarsa circolazione dalle nostre parti, a parte la pubblicazione ormai quasi 50 anni fa di una intera collana dedicata a Perry Rhodan, un fortunato quanto mediocre (e interminabile) serial di avventure spaziali incentrato sulle vicende dell’omonimo personaggio. Pochi gli autori tradotti in Italia: tra gli altri Herbert Franke, Andreas Eschbach, Frank Schätzing (che hanno impreziosito gli storici cataloghi di CELT, Nord e Fanucci) [...]]]> di Paolo Bertetti

Angela e Karlheinz Steinmüller, Andymon, trad. di Beatrice Sensini, pp. 392, euro 20,oo stampa, Del Vecchio Editore, Bracciano 2025.

La fantascienza tedesca, al pari – occorre dire ­– delle altre tradizioni non anglofone, ha sempre avuto scarsa circolazione dalle nostre parti, a parte la pubblicazione ormai quasi 50 anni fa di una intera collana dedicata a Perry Rhodan, un fortunato quanto mediocre (e interminabile) serial di avventure spaziali incentrato sulle vicende dell’omonimo personaggio. Pochi gli autori tradotti in Italia: tra gli altri Herbert Franke, Andreas Eschbach, Frank Schätzing (che hanno impreziosito gli storici cataloghi di CELT, Nord e Fanucci) e, più di recente, Uwe Post (Future Fiction) e Dietmar Dath, il cui L’abolizione della Specie (Nero Edizioni) è stato sicuramente uno dei romanzi di fantascienza più stimolanti apparsi lo scorso anno. In particolare, nessuna testimonianza era finora arrivata da noi della produzione fantascientifica della DDR, pure non trascurabile quantitativamente e qualitativamente, come osserva Paola Del Zoppo nell’approfondita introduzione.
Grande plauso, dunque, a Del Vecchio Editore che propone ora (tra l’altro in prima traduzione mondiale e con una splendida veste grafica) quello che è considerato il romanzo di fantascienza più popolare nella vecchia Repubblica Democratica; tanto più che Andymon, uscito in origine nel 1982, non è un mero reperto storico, ma un piccolo grande gioiello che parte dalla hard science fiction alla Arthur Clarke (assieme a Stanislaw Lem sicuramente un nume tutelare di Angela e Karlheinz Steinmüller) per giungere a un’ampia riflessione sulla natura dell’utopia. Del resto, il sottotitolo dell’edizione originale del romanzo era “Utopia dello spazio”, e non a caso Del Zoppo associa i coniugi Steinmüller al nome di Ursula Le Guin in nome di una comune tensione verso una fantascienza intesa come indagine sulla società e sull’uomo.
Il romanzo affronta il tema della colonizzazione di altri sistemi stellari tramite navi più lente della luce in maniera piuttosto originale: non siamo di fronte a un’astronave generazionale, né a coloni in sonno criogenico; invece, il carico della gigantesca astronave (certo non immemore dalla clarkiana Rama) è costituto da ovuli umani che nell’approssimarsi al pianeta Andymon, meta del viaggio, vengono fecondati da sistemi automatici. Generati in vitro in gruppi di otto, bambine e bambini vengono cresciuti da balie meccaniche (le Ramme) e istruiti da insegnanti robot, in vista dell’insediamento sul pianeta. La prima parte del romanzo si incentra sulla loro crescita e educazione, sviluppando alcuni affascinanti interrogativi: è possibile allevare un’intera generazione affidandola soltanto a creature meccaniche, senza alcun contatto con esseri umani adulti? E quali potrebbero essere le conseguenze sulla loro psiche e sulla loro stessa percezione del mondo? Nel corso della loro formazione, i futuri coloni apprendono dagli insegnanti robot l’eredità culturale umana, ma le conoscenze acquisite confliggono con l’esperienza quotidiana: la Terra finisce di essere considerata “una favola bella e crudele” impossibile da dimostrare, un luogo mitico se non addirittura una menzogna, e la stessa umanità diviene mera ipotesi e finzione. E forse, arriva a pensare uno dei protagonisti, non vi è nessuna realtà, ma solo illusione e apparenza”, e loro non sono altro che esseri prodotti con memorie artificiali in un universo virtuale.
Tale straniamento è accresciuto dal fatto che gli scopi e le motivazioni che hanno portato i leggendari Costruttori della nave a varare il progetto di colonizzazione spaziale sono avvolti nel mistero. Escamotage questo originariamente pensato, a detta degli stessi Steinmüller, per eludere la censura della DDR, ponendo la vicenda del romanzo in un altrove senza alcuna continuità con il presente, ma che assume nel romanzo un suo significato preciso. È infatti proprio dalla cesura con il passato che è possibile, sembrano dirci gli autori, costruire l’utopia. Un’utopia che è qui considerata in maniera dinamica, come pratica utopica, possibilità di compiere delle scelte e di costruire un futuro.
È la possibilità di costruire un’utopia la vera Utopia. E questo anche, e a maggior ragione, se il pianeta Andymon non è l’Eden auspicato, ma “un inferno rovente e velenoso”, che deve essere terraformato attraverso un lungo lavoro. Alla terraformazione del pianeta e alla costruzione di una nuova società è dedicata la seconda parte del romanzo, che vede in coloni dare origine a vari insediamenti, ognuno dei quali persegue una diversa via alla propria Utopia: Andymon City, dove vivono i favorevoli al progresso tecnologico e al proseguimento della terraformazione, Oasis, i cui abitanti perseguono un’esistenza semplice e rurale e un ritorno alla riproduzione naturale, Kastell, l’avamposto sede di una superintelligenza nata dall’intima connessione di un gruppo di menti umane.
In contrapposizione all’ambiente della nave, dove tutto è programmato e previsto (“la nave intera, quell’apparato titanico, seguiva movimenti stabiliti dall’inizio. Perfino il nostro desiderio di libertà, perfino i miei pensieri di quell’esatto momento erano parte del calcolo” si legge a un certo punto) e ogni bambino è benevolmente assistito ma anche costantemente sorvegliato (difficile non vedere qui un riferimento critico alla pianificazione socialista), Andymon è in ogni caso il luogo dell’impredevibilità, dove si è liberi, anche a costo di fallire: “un nuovo mondo, un mondo in cui le illusioni non contavano più nulla: […] l’inizio di tempi stracolmi di esperienze reali, di verità dirompente”.

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Philip K. Dick e l’Aforisma di NietzscheNel Labirinto di Philip K. Dick 3 https://www.carmillaonline.com/2025/07/24/philip-k-dick-e-laforisma-di-nietzche/ Thu, 24 Jul 2025 20:00:53 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=89163 di Diego Gabutti

Prima di Philip K. Dick – californiano, anima tormentata, scomparso poco più che cinquantenne nel 1982 – quelle della fantascienza erano tempeste in un bicchier d’acqua: battaglie spaziali, omini verdi, distopie e utopie sempliciotte. Con lui tutto cambiò. Restarono gli alieni, i viaggi nel tempo, i «dopobomba», i bersagli ingenui della fantascienza detta «sociologica» (la pubblicità, l’ambiente, i boom demografici, le catastrofi spicciole nonché varie ed eventuali da fondo di giornale) e gli universi paralleli. Restarono, ma mutati di segno, per così dire transustanziati, con un tocco d’horror metafisico – una miscela di Kafka, Beckett, Lovecraft e [...]]]> di Diego Gabutti

Prima di Philip K. Dick – californiano, anima tormentata, scomparso poco più che cinquantenne nel 1982 – quelle della fantascienza erano tempeste in un bicchier d’acqua: battaglie spaziali, omini verdi, distopie e utopie sempliciotte. Con lui tutto cambiò. Restarono gli alieni, i viaggi nel tempo, i «dopobomba», i bersagli ingenui della fantascienza detta «sociologica» (la pubblicità, l’ambiente, i boom demografici, le catastrofi spicciole nonché varie ed eventuali da fondo di giornale) e gli universi paralleli. Restarono, ma mutati di segno, per così dire transustanziati, con un tocco d’horror metafisico – una miscela di Kafka, Beckett, Lovecraft e Dalí.

Chissà se per caso oppure di proposito, o se non fu piuttosto un semplice scherzo del destino, come nella canzone di Bob Dylan, ma il giovane Dick s’era spinto più in là di qualunque scrittore di fantascienza della sua generazione. Chissà come e perché, gli capitò un giorno di lanciare uno sguardo oltre le copertine di Galaxy, Astounding, Worlds of Tomorrow e Amazing Stories – prima da lettore di Heinlein, Asimov e soprattutto van Vogt, poi da scrittore di novelle «brevi» e «lunghe», secondo le misure contemplate all’epoca delle riviste pulp, oggi per lo più scomparse – si trovò puramente e semplicemente a contemplare l’abisso. Lì, Oltre la Soglia, c’era l’Aforisma di Nietzsche – simile all’Occhio di Dio che d’un tratto si spalanca nel cielo in Eye in the Sky, del 1975, oggi nel vol. II del Meridiano delle Opere scelte di Dick – e l’Aforisma ricambiò il suo Sguardo. Dick non fu più lo stesso dopo questo incontro con l’indicibile (un po’ come Johnny Yen, il Criminale Nova di William Burroughs e «galoppino del trauma della morte», quando spiega all’Ispettore J. Lee: «Ero molto più bello prima dell’incidente»). Philip Dick trasformò l’ingenua cassetta degli attrezzi della fantascienza (i marziani, l’iperspazio, i robot, gli androidi) in un calderone stregato e fumante nel quale ribollivano incubi metafisici e terrificanti dubbi sulla natura della realtà.

Straordinario autore di racconti, come quasi tutti i suoi semblables nell’epoca d’oro delle riviste, gli anni Cinquanta e Sessanta, scrisse anche romanzi giustamente molto celebrati, ma niente di paragonabile all’eccezionale sequenza di storie brevi e lunghe che in una serrata successione di pagine – dialoghi serrati, finali non «a sorpresa», come nei racconti più banaloidi dell’epoca, ma affilati come rasoiate – mettevano in scena agghiaccianti paradossi filosofici, singolarità e metamorfosi da incubo, terrificanti loop temporali dai quali non c’era uscita, macchine assassine in veste umanoide che non sapevano d’essere tali. Trovate queste novelle nei quattro volumi (preziosissimi) di Tutti i racconti editi da Mondadori tra il 1994 e il 1997 (poi ristampati, non saprei quanto fedelmente, da Fanucci, una decina d’anni dopo, nel 2009). Dick, dicebamus, ha scritto anche romanzi giustamente celebrati, e i migliori compaiono tutti, in veste particolarmente reverente e sciccosa, oltre che in traduzioni ineccepibili, nei due volumi appena usciti delle sue Opere scelte. Ma i racconti brevi e lunghi (più i brevi che i lunghi) restano fuori gara. Dick novelliere è stato semplicemente un gigante.

La sua, fin dalle primissime prove, è una fantascienza d’avant-garde radicale (il tempo scorre all’indietro, i dittatori modellati su Mussolini si moltiplicano come virus mutanti del Covid attraverso gli universi paralleli, gli oggetti d’uso comune tipo le caffettiere e i tostapane diventano senzienti grazie all’«effetto Rushmore», i quiz televisivi sono la copertura di guerre apocalittiche, tutto è Matrix, nulla è come sembra, tutto è permesso, niente è vero). Lì per lì, nei Cinquanta e Sessanta, non se ne accorge nessuno, tanto meno i lettori di fantascienza, per lo più incapaci di distinguere un Urania dall’altro, figurarsi Dick da E.T.A. Hoffman (o da Ursula Le Guin, che frequentò la sua stessa scuola, il Berkeley High School di Berkeley, California, dove si diplomarono entrambi nel 1947). È soltanto dopo la sua morte, come capita agli artisti di Montmartre nei melò strappacore, che l’opera di Dick attira l’attenzione di lettori sofisticati, registi e sceneggiatori alla ricerca di soggetti insieme romanzeschi e inquietanti, saggisti controcorrente, autori non soltanto di fantascienza che si professano a lui affini (per esempio Emmanuel Carrère, che gli dedicq un lungo e ammirato saggio, Io sono vivo, voi siete morti, Adelphi 2016). A dimostrazione, come pensava lui, gnostico convinto, che qui nel mondo d’Arimane non c’è giustizia, anche i film (a partire da Blade Runner, regia di Ridley Scott, 1982) che furono tratti dalle sue storie come pure i serial televisivi ispirati dai suoi racconti e romanzi (tra gli altri L’uomo nell’alto castello nel 2015-2019 e Philip K. Dick’s Electric Dreams nel 2017-2018) uscirono tutti dopo la sua morte.

Oggi Mondadori pubblica nei Meridiani – iniziativa meritoria, che ne impreziosisce il côté pop del catalogo – una scelta ricca e ragionata dei suoi romanzi a cura di Emanuele Trevi e Paolo Parisi Presicce; Carrére firma la cronologia. Sono storie abissali. Poco prima di morire, e di passare per questa via alle edizioni prestigiose e all’immortalità, Dick partecipò a una convention di fan della fantascienza. Si presentò con una maglietta sulla quale c’era scritto: «Se non vi piace questo mondo, dovreste vederne certi altri».

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Prima stella a destra https://www.carmillaonline.com/2025/06/18/prima-stella-a-destra/ Wed, 18 Jun 2025 05:00:16 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=88665 di Andrea Pighin

Alessandro Montoro, Prima stella a destra, Ali Ribelli, pp. 318, euro 15,00 stampa

Alessandro Montoro è un giovane autore che, negli ultimi anni, sta fornendo un importante contributo alla fantascienza italiana. Vincitore del Premio Urania Short nel 2022 con il racconto La causa fantasma, ha pubblicato anche su Urania Millemondi e su Delos Digital.

Prima stella a destra è una raccolta di racconti in cui la narrativa scientifica è l’approccio dominante, pur con suggestioni più generali legate al fantastico. I dieci racconti sono eterogenei nelle ambientazioni, ma uniti da alcuni fili tematici, come l’immortalità tecnologica, la morte e l’elaborazione del lutto; [...]]]> di Andrea Pighin

Alessandro Montoro, Prima stella a destra, Ali Ribelli, pp. 318, euro 15,00 stampa

Alessandro Montoro è un giovane autore che, negli ultimi anni, sta fornendo un importante contributo alla fantascienza italiana. Vincitore del Premio Urania Short nel 2022 con il racconto La causa fantasma, ha pubblicato anche su Urania Millemondi e su Delos Digital.

Prima stella a destra è una raccolta di racconti in cui la narrativa scientifica è l’approccio dominante, pur con suggestioni più generali legate al fantastico. I dieci racconti sono eterogenei nelle ambientazioni, ma uniti da alcuni fili tematici, come l’immortalità tecnologica, la morte e l’elaborazione del lutto; la duplicazione dell’identità e il rapporto con la memoria; l’ambientalismo e l’entropia morale del genere umano.

Montoro si muove tra la speculazione filosofica e l’immaginario fantascientifico, attingendo tanto dai classici della narrativa di genere quanto dalla riflessione esistenziale sul presente. Nel racconto d’apertura, Saldi sull’eternità, assistiamo a una svolta epocale per la nostra specie: la reincarnazione viene scientificamente dimostrata, e con essa crollano le religioni tradizionali. L’idea è forte: l’anima non è più oggetto di fede ma di calcolo, e ciò che resta è un’umanità spaesata, alla ricerca di senso nel vuoto lasciato dal sacro. Ashutosh, il protagonista, è ossessionato dalla sorte della madre scomparsa, e la sua angoscia si fa specchio di una crisi collettiva. Zio Baji, che sceglie la criostasi con la Still Eternity, simboleggia un’attesa messianica laica, un “tempo sospeso” che diventa l’unico appiglio in un mondo senza più mistero. Il lieto fine, in questo caso, non è un cedimento ma un gesto di compassione narrativa: l’Autore sembra suggerirci come un’umanità disillusa abbia comunque bisogno di riconciliazione. Più legato alla tradizione fantastica è Il suono della perseveranza, il racconto di un uomo che ascolta un album “impossibile”, che non risulta in alcun database. Durante l’ascolto vive un’esperienza che sembra allucinatoria e che lo porta a viaggiare in un universo alternativo del suo passato. Nel racconto compare anche la Morte, un’«entità cosmica» che dialoga con il protagonista attraverso riferimenti colti (Clark Ashton Smith, la pellicola Il settimo sigillo, etc.). Montoro sfiora qui la weird fiction, creando una tensione tra due fratelli (Frank e Chuck) che abitano realtà parallele. La Morte, lontana da ogni retorica, è ciò che delimita ma anche ciò che rivela: l’incomunicabilità tra le dimensioni è il vero inferno e il tempo diventa un medium instabile e poetico, da preservare nella sua fuggevolezza. In Partenogenesi il tema del doppio, della specularità e dell’ambiguità viene elevato su scala cosmica: i pianeti Gemini si comportano infatti come cellule, evolvendosi in una gigantesca metafora genetica. Gli “Specchi”, entità che copiano per natura, ricordano tanto gli Ultracorpi quanto le strutture del DNA. C’è qui un richiamo (che ritengo sia consapevole) a Olaf Stapledon e a Il costruttore di stelle, ma anche un gusto per il perturbante che sfocia quasi nel body horror: le Incudini, astronavi-simbionti, agiscono come agenti mutageni, generando inquietudine più che meraviglia.

Con L’universo delle teste, Montoro sposta l’asse su un racconto pseudo-storico, immaginando il matematico Evariste Galois coinvolto in un duello che nasconde molto più di una vendetta d’onore. Si intrecciano qui le suggestioni di Hoffmann (L’uomo della sabbia) e le cospirazioni di realtà parallele, come in certe storie di Philip K. Dick. La matematica – simbolo per eccellenza di razionalità – si rivela incapace di spezzare le catene del destino, e l’intera vicenda diventa un’allegoria dell’impotenza della mente contro l’assurdo del mondo. Cuori wireless, invece tenta la sintesi tra il noir e la distopia: in una Roma futuristica e isolana, i cuori dei cittadini vengono conservati dalla nascita come forma di controllo da parte di un governo globale. L’abolizione della tecnologia paradossalmente convive con un potere ipertecnologico: un cortocircuito ideologico che richiama George Orwell ma anche certo cyberpunk alla Blade Runner. I nomi dei due detective (Egger e Klane) stonano un po’ nell’ambientazione e nella trama (che coinvolge un’italianissima Sara Fasari), ma l’Autore riesce comunque a costruire un’atmosfera carica di fumo, bourbon scadente e dialoghi espliciti. Con Il trono di diamante torniamo allo spazio profondo, ma attraverso una struttura che rievoca Dune di Herbert: un impero terrestre che domina il sistema solare; un principe che sposa una ribelle; un mistero tecnologico che rivela una verità autodistruttiva. L’idea che il nucleo della Terra sia stato convertito in macchinari bellici è una delle più riuscite della raccolta: un corpo planetario svuotato per alimentare un potere che si autodistrugge. Il disegno narrativo di Montoro è qui ambizioso, ma avrebbe avuto bisogno di un romanzo intero per dare adeguato respiro al soggetto.

In Scarti immortali, l’immortalità è al contempo conquista e condanna. Montoro indaga non tanto la possibilità di vivere per sempre, quanto la deriva etica che ne scaturisce: gli ultimi Immortali sono perseguitati, e una nuova età dell’oro viene corrotta proprio dal prolungamento dell’esistenza. Il paradosso è chiaro: senza la morte il tempo perde valore e l’umanità si trasforma in altro da sé. In controluce, ho intravisto una critica all’attuale ideologia della performance eterna, del progresso senza limiti, della negazione della fragilità. Nails 3020 è il racconto più ironico, quasi grottesco: in un futuro in cui l’umanità è divenuta del tutto sostenibile, dove persino le civiltà aliene apprendono dagli umani, gli androidi (denominati cytron) scioperano, si sindacalizzano e – perché no? – cercano lavoro come nail artist. Il risvolto sociale con la nostra attualità è evidente: l’umanizzazione delle macchine non avviene tramite la presa di coscienza, ma attraverso il lavoro precario. Il COG (Comitato Ottimisti Gigatronici) è una trovata che non sfigurerebbe in un racconto di Douglas Adams. La mano che ti nutre – forse il racconto più riuscito – con un ritorno al perturbante: Samaritan è un’astronave trasparente che cela entità aliene camuffate da vittime dei terrestri. Montoro inserisce citazioni esplicite a Il conte di Montecristo e suggestioni che mi hanno ricordato Gli uccelli di Hitchcock, mescolate con atmosfere da Area X, quel luogo indecifrabile che Jeff VanderMeer ha raccontato nell’omonima trilogia. Il monito può apparire controverso: bisogna prestare attenzione a chi si intende aiutare, poiché il bene, senza discernimento, potrebbe aprire le porte all’orrore.

Infine, La causa fantasma sfrutta una cornice da legal thriller per seguire un caso dell’avvocato Fatasma. Il suo cliente, Antonio, si lamenta che il fantasma-ologramma della moglie non corrisponda davvero alla donna. L’avvocato, esperto di spectroscopia (la tecnologia che permette di creare i fantasmi), giunge a una risoluzione della controversia: semplice sul piano legale, ma più complessa su quello personale.

Montoro dimostra uno stile accessibile, che unisce suggestioni speculative, riferimenti letterari e una vena filosofica mai pedante o gratuita, ma la caratteristica narrativa risiede nell’ibridazione: fonde il racconto gotico, il noir, l’hard sci-fi e il weird in un mosaico che riflette l’indeterminazione del nostro tempo, l’incertezza. Non tutti i racconti hanno lo stesso spessore e alcuni spunti meriterebbero un maggiore respiro, ma nel complesso Montoro riesce a farci guardare all’umanità da una distanza che ci obbliga a cambiare, o quantomeno a dubitare di noi stessi.

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L’Eternauta: neve letale su Javier Milei. https://www.carmillaonline.com/2025/06/07/leternauta-neve-letale-su-javier-milei/ Fri, 06 Jun 2025 22:01:53 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=88478 di Walter Catalano

C’era molta attesa per l’uscita della serie Netflix tratta da L’Eternauta, il capolavoro del fumetto di fantascienza scritto da Héctor Oesterheld, disegnato da Francisco Solano López, e pubblicato sul periodico argentino Hora Cero Suplemento Semanal dal 1957 al 1959, poi ristampato nel 1961 su testata omonima. Come il mate o i tanghi di Carlos Gardel, questa serie a fumetti è diventata un vero e proprio simbolo dell’identità argentina, in senso culturale, politico e sociale. In questo la versione filmata diretta da Bruno Stagnaro e interpretata da Ricardo Darín nel ruolo del protagonista Juan Salvo, con la [...]]]> di Walter Catalano

C’era molta attesa per l’uscita della serie Netflix tratta da L’Eternauta, il capolavoro del fumetto di fantascienza scritto da Héctor Oesterheld, disegnato da Francisco Solano López, e pubblicato sul periodico argentino Hora Cero Suplemento Semanal dal 1957 al 1959, poi ristampato nel 1961 su testata omonima. Come il mate o i tanghi di Carlos Gardel, questa serie a fumetti è diventata un vero e proprio simbolo dell’identità argentina, in senso culturale, politico e sociale. In questo la versione filmata diretta da Bruno Stagnaro e interpretata da Ricardo Darín nel ruolo del protagonista Juan Salvo, con la consulenza per la sceneggiatura dello stesso nipote di Oesterheld, non smentisce affatto le proprie radici e proprio questi aspetti probabilmente non sono stati compresi dai critici (non pochi) che l’hanno attaccata, rinfacciandole la lentezza, il ritmo posato, la visione corale, e preferendole altre serie apocalittiche di origine statunitense – L’Eternauta, secondo loro, ha perso la sua originaria singolarità ed è diventata ormai scontata, inutile, una fra le tante. Niente di più sbagliato. L’Eternauta, molto semplicemente, ha rifiutato di svendersi ai canoni hollywoodiani della narrazione e ha scelto di restare per atmosfera, scenari e cadenza, profondamente argentina: perfino il gioco di carte che gli amici si trovano a giocare all’inizio della mortale avventura, significativamente, non è il poker ma il truco, gioco quasi sconosciuto fuori dall’America Latina.

Un’autenticità che le evita, per esempio, tutti i luoghi comuni fritti e rifritti in cui cadono gran parte delle altre serie fantascientifiche, più o meno catastrofiche, statunitensi, anche quelle che erano apparentemente partite bene come The Last of Us – della cui prima stagione avevo su queste pagine parlato positivamente ma che ho interrotto già alla prima puntata della seconda stagione dopo un patetico incipit fatto di ridicoli stereotipi: rapporto conflittuale padre-figlia, “brutalismo” femminista di maniera, immancabili e noiosissime storie di lesbiche, ecc. ecc. – e che sottolinea invece più della rappresentazione indiscriminata della violenza, ossessione tipicamente nordamericana, il rapporto di unione e di solidarietà delle comunità che fronteggiano la catastrofe. Altri critici, di opposto orientamento, non nordamericanofili ma invece troppo puristi, non hanno invece apprezzato i cambiamenti della serie rispetto al fumetto: che sia ambientato, per esempio, nell’Argentina contemporanea e non in quella degli anni ’50, che i protagonisti siano tutte persone di mezza età, se non anziane, e il trentenne Juan Salvo del fumetto abbia qui almeno trent’anni di più, una compagna matura e una figlia adulta. Alla prima obiezione risponde efficacemente lo stesso regista: Oesterheld usava la metafora fantascientifica per parlare della sua attualità, dell’Argentina del suo tempo; Stagnaro ha voluto mantenersi coerente con tali propositi non facendo dell’archeologia visiva ma denunciando – come avrebbe fatto Oesterheld – il presente, l’Argentina alla deriva di Javier Milei. Un taglio profondo sull’attualità che implica inserire anche una prospettiva storica: l’eco della dittatura di Videla, la tragedia dei desaparecidos – che colpì lo stesso Oesterheld con le sue quattro figlie e i loro compagni, tutti legati ai Montoneros, la frangia marxista dei peronisti – e questo giustifica l’età matura dei protagonisti, gli incubi ricorrenti di Juan Salvo che si rivede giovane, disperato combattente abbandonato in una trincea delle Malvinas sotto le incursioni inglesi e che quarant’anni dopo deve imbracciare ancora le armi, ma questa volta per una causa. “Se si vuole essere fedeli a tutto, non si è fedeli a niente”- aggiunge il regista Stagnaro.

Una prospettiva che ritengo sia un arricchimento rispetto al fumetto così come il tentativo di spiegazione “scientifica” dell’origine della nevicata mortale – imprecisata nel testo originale – il “collasso” delle fasce di Van Allen, come spiega Tano (César Troncoso), l’ingegnere elettronico: “È un anello di particelle radioattive che circonda la terra ed è sostenuto dalla forza magnetica dei due poli; è come uno scudo che protegge la Terra da venti solari e altri agenti. Ma se i poli si annullano le particelle radioattive ci piovono addosso”. I fiocchi di neve che cadono su Buenos Aires sono particelle radioattive provenienti dalle fasce di Van Allen. Il malfunzionamento delle bussole che risultano fuori asse, lo porta a sospettare che è in atto un’inversione dei poli magnetici terrestri che ha alterato il campo geomagnetico. Secondo la sua teoria, una forza sconosciuta ha innescato un’inversione dei poli, indebolendo temporaneamente la magnetosfera. Di conseguenza, quella che sta cadendo sulle loro teste non è semplice neve ma “frammenti della fascia di Van Allen in tempo reale”.

L’estrema qualità visiva e di scrittura conferma anche per questa serie il balzo in avanti di Netflix che ha realizzato ultimamente produzioni assai originali e fuori dai canoni abituali, come, in campo western, la bellissima American Primeval, o in quello noir, l’altrettanto sorprendente Ripley, tratta dal primo romanzo di Patricia Highsmith dedicato all’amorale Tom Ripley. Come quelle citate, anche L’Eternauta si discosta con vigore dagli stilemi correnti e corrivi: chi l’ha criticata, chi ha parlato di flop, di mancanza di ritmo, di occasione mancata, di noia, semplicemente è del tutto assuefatto a tali stilemi e non riesce ad apprezzare niente di quanto sfugga a temi, personaggi, situazioni e ritmi banalmente convenzionali. In realtà queste incomprensioni ci sembrano, se non analoghe, certo non del tutto dissimili da quelle che colpirono direttamente Oesterheld e la sua riscrittura del 1969 di El Eternauta, pubblicata sul settimanale argentino Gente y la Actualidad (e in seguito tradotta su varie pubblicazioni a fumetti come Linus, El Globo, alteralter, Il Mago, Charlie Mensuel, Métal Hurlant) e disegnata non più da Solano López, ma dall’assai più estremo e sperimentale Alberto Breccia. Qui lo sceneggiatore – divenuto nel frattempo responsabile della comunicazione dei Montoneros, e la cui funzione di autore partigiano si rese evidente anche nelle altre opere realizzate in quegli anni, come La guerra degli Antares, una serie simile all’Eternauta ambientata in un’Argentina alternativa ricca e prosperosa in cui il peronismo non è mai finito, ed Evita, vida y obra de Eva Perón, una biografia a fumetti dedicata a Evita Peròn – accrebbe i riferimenti politici, fece un’aperta critica al regime dittatoriale a cui il peronismo di destra dell’ultimo Peròn e dei governi retti dopo la sua morte dalla moglie Isabelita, stava aprendo la strada nel paese e denunciò in metafora l’imperialismo statunitense – il dettaglio simbolico degli invasori che collocano la loro base operativa nella Plaza del Congreso di Buenos Aires, per esempio – enfatizzando l’idea che la salvezza dei cittadini sia un’impresa collettiva.

Nonostante il risultato di sorprendente qualità grafica e narrativa, la nuova versione di El Eternauta non piacque. I lettori inviarono lettere alla redazione della rivista per protestare contro i cambiamenti nel personaggio e il contenuto rivoluzionario della storia, motivo per cui la direzione di Gente decise di sospendere la serie. Una decisione che costrinse Oesterheld e Breccia a sintetizzare la storia e a inserire ampi chiarimenti scritti, con l’obiettivo di dare al fumetto un finale coerente. Nonostante questa brutta esperienza, Oesterheld volle far rivivere il personaggio dopo il colpo di Stato del 1976 per aumentare ulteriormente il suo impegno politico. Il progetto, intitolato El Eternauta II, proseguiva la storia della lotta di Juan Salvo contro gli invasori ed era di nuovo illustrato dal primo disegnatore della serie, Solano López, al quale Oesterheld riuscì a inviare le sceneggiature che stava scrivendo in clandestinità. Anche qui la trama è sempre più orientata alla critica politica, con Oesterheld stesso che diventa un personaggio narrante nella storia e che, in un sorprendente rispecchiarsi di narrazione e realtà, continuò a scrivere i capitoli successivi fino alla sua scomparsa a seguito del rapimento e conseguente assassinio nell’aprile del 1977. La saga è continuata dopo la morte di Oesterheld, proseguita da altri autori come Alberto Ongaro e Pablo Maiztegui e sempre disegnata da Solano López ma senza serbare del tutto il mordente dei primi cicli. Chi storce il naso quindi di fronte alle inevitabili modifiche della versione filmata rispetto al fumetto originario si comporta un po’, magari non tanto per preclusioni politiche quanto prevalentemente estetiche, come i lettori conservatori di Gente che vollero l’interruzione del rinnovato Eternauta in versione engagé e pop.

Anche l’adattamento televisivo persegue affini obbiettivi di rinnovamento stilistico e tematico nel pieno rispetto dello spirito originario della narrazione. La recitazione composta, i volti segnati dagli anni dei personaggi, il ritmo lento e la fotografia gelida, conferiscono un’intensità immersiva e potente alla visualizzazione dell’incubo immaginato da Oesterheld, molto angosciante e tutt’altro che noiosa. Un incubo che inizia e si protrae nella prima parte delle sei puntate della prima stagione (una seconda è già stata annunciata, alla faccia dei criticoni) come mortale catastrofe climatica, che svolta a metà serie in invasione extraterrestre con l’apparizione improvvisa dei Cascarudos, gli insettoni micidiali e di misteriosi oggetti luminosi nel cielo, e nel finale prelude alle successive sorprese del fumetto: gli Uomini-Robot (umani sotto controllo mentale alieno) che già si sono manifestati; dei Kol invece, l’altra razza aliena schiavizzata dagli invasori, abbiamo visto per ora – proprio nell’ultima puntata – solo la mostruosa mano brulicante di dita; per la seconda stagione aspettiamo ancora i Gurbos, ciclopici e invulnerabili pachidermi, e infine Ellos, Loro, i manipolatori ultimi, gli inavvicinabili e invincibili padroni. Senza volto come le lobbies supreme del capitalismo multinazionale.

 

 

 

 

 

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Fantascienza capitalista https://www.carmillaonline.com/2025/05/31/88511/ Sat, 31 May 2025 05:00:52 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=88511 di Marco Pittaluga

Michel Nieva, Ciencia ficción capitalista. Cómo los multimillonarios nos salvarán del fin del mundo, Barcelona: Anagrama, 2024

In Ciencia ficción capitalista, lo scrittore argentino Michel Nieva legge lo stato presente del capitale attraverso la lente del rapporto fra fantascienza e capitalismo. È una scelta di metodo che appare al passo coi tempi. Oggi le pratiche imprenditoriali, i rapporti con i dipendenti, gli stili di vita e le dichiarazioni pubbliche dei capitalisti di punta, per semplificare al massimo l’élite che controlla le aziende della Silicon Valley, parlano di una fase nuova nella storia del capitale. Stiamo attraversando una di [...]]]> di Marco Pittaluga

Michel Nieva, Ciencia ficción capitalista. Cómo los multimillonarios nos salvarán del fin del mundo, Barcelona: Anagrama, 2024

In Ciencia ficción capitalista, lo scrittore argentino Michel Nieva legge lo stato presente del capitale attraverso la lente del rapporto fra fantascienza e capitalismo. È una scelta di metodo che appare al passo coi tempi. Oggi le pratiche imprenditoriali, i rapporti con i dipendenti, gli stili di vita e le dichiarazioni pubbliche dei capitalisti di punta, per semplificare al massimo l’élite che controlla le aziende della Silicon Valley, parlano di una fase nuova nella storia del capitale. Stiamo attraversando una di quelle turbolenze di solito spiegate col fatto che là fuori sta avvenendo un cambio di paradigma. Tratto decisivo di questo passaggio è l’individualismo assoluto del capitalista, che è appunto assolto da qualsiasi vincolo, nei confronti della comunità dei propri simili, che possa limitarne le scelte in materia di impresa, investimenti e vita. “È proprio quando opero in regime di totale irresponsabilità”, dice il plurimiliardario tipico del XXI secolo, “che faccio l’interesse dell’umanità (del quale, sia chiaro, non mi importa nulla). Se accettassi di limitarmi, soprattutto concettualmente, pensando cioè che esista un interesse sociale in linea di principio superiore al mio, non farei affatto un favore alla mia specie, tutt’altro. Agendo in questo modo priverei infatti gli umani dell’infinita capacità di innovazione che possiede un individuo come me quand’è dedito, con successo, al proprio arricchimento. Tale abilità innovativa si traduce in una ricaduta, nei termini di maggior invenzione e produzione, di cui beneficiano tutti, anche se ovviamente, e giustamente, in misura infinitamente minore della mia”.

Si potrebbe sostenere che è sempre stato così da quando esiste il capitalismo. Ma la novità del nostro tempo è che la rivendicazione da parte del capitalista della propria totale libertà in nome della sacralità del proprio egoismo si accompagna all’esplicito abbandono della democrazia. Quando Peter Thiel, il padrone di PayPal, dichiara, nel 2009, di non credere più che libertà e democrazia siano compatibili, compie una mossa decisiva1. È una svolta in grado di cambiare quel particolare rapporto fra capitale e Stato che sin dalla Grande Depressione degli anni Trenta e dalla sconfitta del nazi-fascismo nel 1945 caratterizza la vita sociale in Europa occidentale e Nord America. Qui non avrebbe torto chi dicesse che anche a Gianni Agnelli, tanto per citare un capitalista di un certo nome, della democrazia non importava assolutamente nulla. Però non lo diceva, anzi non lo poteva dire. Che non è un punto da poco. Come è misura dell’abisso in cui siamo caduti il fatto che oggi Thiel lo possa dire.

L’opzione antidemocratica adottata dal tecnocapitalismo della Silicon Valley costituisce la fase suprema dell’Ideologia Californiana, nata durante gli anni Sessanta lungo la costa Ovest degli Stati Uniti e oggi capace di coniugare valori e mentalità hippie con i loro omologhi yuppie. È un approccio al mondo basato su due principi: da una parte il rifiuto dell’autorità statale, responsabile, un tempo, delle cartoline precetto che mandavano i loro destinatari in Vietnam e oggi di un’insensata tassazione della ricchezza, e dall’altra la visione della tecnologia come utopia libertaria ed ecologista. Questo a dispetto sia del devastante impatto ambientale esercitato da molte delle tecnologie in voga nella Silicon Valley sia del lavoro supersfruttato che le rende possibili.

In questo contesto, per continuare a immaginarsi un futuro, il tecnocapitalismo si appropria della fantascienza. Qui siamo a un punto chiave dell’analisi di Nieva, perché il tipo di capitalista descritto sopra, quello alla Thiel, non può vivere nel presente. L’anarco-miliardario deve, al contrario, proiettarsi in continuazione nel futuro, perché è un visionario. L’insaziabile fame di ricchezza che lo tormenta lo costringe a immaginarsi sempre nuovi modi di guadagnar denaro, così da muoversi anni luce davanti al resto degli umani, quelli che si accontentano di quel che passa il convento. Così, mentre Mark Zuckerberg, insoddisfatto della realtà in cui vive la sua specie, lancia se stesso e le sue aziende in una realtà virtuale, il Metaverso, Elon Musk si prepara a colonizzare Marte. Jeff Bezos, infine, vuole rendere possibile l’immortalità; investe così in Unity Biotechnology, un laboratorio della ricerca contro l’invecchiamento cellulare. I tecnocapitalisti propongono il futuro come soluzione delle crisi del presente, con mossa tipica di chi scrive fantascienza. Ma si tratta di un genere del tutto nuovo, la fantascienza capitalista, basata sull’aporia che le crisi provocate dal capitalismo possano essere risolte solo attraverso più capitalismo. Esempio di questa fallacia è l’idea che il capitalismo possa utilizzare nella colonizzazione di altri pianeti le stesse tecnologie che hanno distrutto il nostro.

Nieva vede nel racconto fantascientifico narrato nella Silicon Valley l’ultima fase di una corrente della fantascienza iniziata con un articolo di Jules Verne, “La fin des guerres navales” (1903). In quel saggio, l’autore di De la Terre à la Lune (1865) sostiene che la fantascienza “scrive su carta quel che poi altri scolpiranno nell’acciaio” (18)2. La fantascienza capitalista compie un salto di qualità rispetto alla “hard science fiction” che si sviluppa negli anni fra il 1930 e il 1970, che specula “sul progresso tecnico-scientifico con la maggior verosimiglianza possibile nel quadro delle conoscenze esistenti” (p. 21). Il primo a tematizzare questo sottogenere della fantascienza è Hugo Gernsback quando, nel settembre del 1928, conia il termine scientifiction sulla sua rivista Amazing Stories, fantascienza che mette l’enfasi sui fatti scientifici3.

Si tratta di una fantascienza profetica, praticata da scrittori che posseggono un retroterra scientifico: Isaac Asimov (chimico), Arthur C. Clarke (fisico e matematico), James Blish (microbiologo), Rober A. Heinlein (ingegnere aeronautico) e Larry Niven (matematico). A questi dati si aggiungono le collaborazioni di Heinlein e Clarke con l’industria aerospaziale. All’inizio del terzo millennio, alcuni imprenditori di punta, Richard Branson (Virgin Galactic), Jeff Bezos (Blue Origin) e Elon Musk (Space X), entrano nel settore aerospaziale: “in un contesto marcato dalla minaccia urgente portata dal cambio climatico, camuffarono il verde dollaro della loro avidità speculativa con eroici progetti ambientalisti per salvare l’umanità portandola su altri pianeti” (p. 29). Nel 2001 nasce Space Adventures, che da allora invia turisti alla stazione spaziale. Negli anni successivi si aggiungono Virgin Galactic, Blue Origin, SpaceX, OrionSpan, United Launch Alliance, Aerojet Rocketdyne, Northrop Grumman, Maxar, Rocket Lab. Il luogo del commercio fra fantascienza e imprenditoria, a cominciare dal racconto che i milionari fanno di se stessi come raffinati lettori del genere, è naturalmente Silicon Valley. Così Nieva si chiede se la fantascienza non rappresenti la fase superiore del capitalismo e se i casi appena citati non siano esempi di una nuovissima tecnica di copiatura e riscrittura, “quella del lettore-imprenditore che trasferisce le infinite possibilità speculative della finzione letteraria alla speculazione finanziaria nel settore economico” (p. 33).

Tutti gli eroi della fantascienza capitalista sono dei ricconi con soluzioni eroiche ai problemi del mondo, bianchi, maschi, gringos, più Musk che si fa passare per afroamericano perché nato in Sud Africa4. Nel racconto fantascientifico del capitalismo, il maschio bianco imprenditore salva il mondo perché i problemi politici ed economici del pianeta sono in realtà insufficienze tecnologiche che soltanto il virile valore degli dei della Silicon Valley può risolvere. Se la tecnologia e il capitalismo sono responsabili del disastro ambientale, solo più capitalismo e più tecnologia troveranno la soluzione. Questo approccio ha un nome, “ecopragmatismo”, un ecologismo che mantiene rapporti amichevoli col ceto imprenditoriale. Mentre l’ambientalismo tradizionale genera soltanto più regolamenti statali e più pastoie burocratiche, la soluzione ecopragmatica dà vita a un “capitalismo verde ed efficiente”, senza limiti: energia nucleare, cibo transgenico, auto elettriche. Al vertice dell’ecopragmatismo si colloca la “geoingegneria solare”, ovvero l’approccio militaresco alla crisi climatica: “bombardare la stratosfera con enormi nubi di gas che, come una cappa atmosferica artificiale, proteggerebbero la Terra dalle radiazioni del Sole e ridurrebbero l’impatto del riscaldamento globale” (p. 40).

Michel Nieva

Una volta chiarito come il capitalismo fantascientifico sia la scorciatoia per complicarci terribilmente la vita sul pianeta, il passaggio chiave per immaginare una soluzione del presente disastro ambientale viene dall’osservare l’omologia fra la conquista dello spazio e la colonizzazione delle Americhe nei quattro secoli che seguono il 1492. Nelle dichiarazioni dei miliardari impegnati nella nuova corsa allo spazio, appaiono di frequente parole come “conquista” e “colonizzazione”, le stesse usate, dal viaggio di Colombo in poi, per descrivere le operazioni degli europei sul continente americano. Se le cose stanno così, solo i popoli indigeni della Terra, quelli che conoscono per esperienza il vero significato di “colonizzazione”, riusciranno a spiegarci cosa davvero hanno in testa i padroni di Silicon Valley quando discorrono dello spazio. Le uniche esperienze che possono essere avvicinate alla presente crisi socioambientale sono infatti quelle dei popoli colonizzati, per oltre quattro secoli decimati dalle malattie e dalla crudeltà europea: soltanto le comunità indigene sopravvissute al colonialismo possiedono un sapere in grado di immaginare modi nuovi di abitare un pianeta altrimenti posto davanti a una fine irreversibile. Quelle comunità ci diranno che dobbiamo passare dal territorio come fonte di merci morte al territorio come essere vivente. In altri termini, è necessario abbandonare l’idea che il territorio si possa sempre sostituire con un altro, fino al punto di mettere Marte al posto della Terra, per assumere quella che il territorio sia unico. Se la fantascienza capitalista è parte di una lunga storia – dalla distruzione delle popolazioni indigene nelle Americhe fino alla colonizzazione di nuovi pianeti – allora solo la decolonizzazione e il divenire indigeni, e non la ripetizione delle violenze originarie, come ci propongono i miliardari di Silicon Valley, ci possono salvare. Non a caso, a scrivere così, è uno scrittore cresciuto nel paese, l’Argentina, dove la fantascienza ha prodotto un grande racconto di una colonizzazione mortifera, l’Eternauta di Héctor German Oesterheld e Francisco Solano Lopez (1957-59), storia a fumetti della calata degli alieni a Buenos Aires.

Le varie meraviglie tecno-scientifiche che i tecnocapitalisti ci sciorinano davanti non illuminano il futuro, ma il passato. Si incamminano verso una fessura temporale dove i razzi di SpaceX con destinazione Marte “arrugginiscono nella polvere degli archibugi spagnoli”. È tutto un ammasso di ferraglia che si tinge del sangue della mattanza indigena, “in una violenza senza tempo che per non essere mai stata riparata si ripete con il ritmo di una catastrofe che non smette mai di ricominciare” (p. 65). Sembrerebbe, argomenta Nieva, che solo “il divenire indigeni” e “l’appartenere invece del possedere” costituiscano l’unica politica di respiro cosmico che “se obbedita salverà l’umanità dal crollo del cielo” (p. 65). In questo contesto la fantascienza acquista una centralità prima imprevista: si trova di fronte a un bivio. O la celebrazione idiota e il collaborazionismo tipico dei prodotti narrativi del capitalismo da una parte, o la politicizzazione tecnologica dell’arte, la critica politica della tecnologia posta al servizio dell’estrattivismo capitalista dall’altra. “Ma se la fantascienza capitalista […] ha sempre favorito la collaborazione di scrittori nordamericani, […] “la politicizzazione tecnologica prepara molto meglio chi scrive fantascienza a partire dell’esperienza del Sud, per la maniera in cui lì, storicamente, la tecnologia ha facilitato il saccheggio delle risorse, la repressione e il massacro” (p. 71).

L’epilogo di Ciencia ficción capitalista rappresenta un esempio di scrittura operante dentro un quadro di politicizzazione tecnologica. Mentre stavo scrivendo il saggio, scrive Nieva, mi arriva la lettera di un professore nordamericano che mi chiede di scrivere un racconto di fantascienza. Insieme ad altri oggetti d’arte, scelti fra i prodotti di letteratura, musica, arti plastiche e audiovisive, avrebbe formato una selezione della creatività umana da inviare sulla Luna con un razzo, alla fine del 2024. Dopo settimane di riflessione Nieva decide di rispondere affermativamente alla richiesta e inizia a scrivere “Criptolombrices”. Nel racconto, ambientato nel secolo XXVI, la terra è inabitabile e i multimilionari, compreso Musk che ha sconfitto la mortalità, vivono su Marte. Sul pianeta rosso c’è un inquinamento pazzesco, prodotto dagli umani per creare un effetto serra capace di riscaldare l’atmosfera. La vita consiste nel bruciare le maggiori quantità di carbonio possibili e nel mangiar la carne prodotta da enormi allevamenti di animali, necessari per la loro capacità di rilasciare grandi quantità di peti che contribuiscono al riscaldamento globale. Si ripete l’economia che ha distrutto la Terra, ma questa volta in maniera virtuosa: inquinare protegge la vita. Ma l’innalzamento della temperatura risveglia i “criptolombrichi”, una specie congelata da millenni, un parassita intestinale che migra fino a Muskonia e provoca la prima pandemia marziana.

L’epidemia distrugge la colonia umana su Marte: i pochi sopravvissuti, Musk compreso, si rifugiano in una stazione spaziale. Ma il fatto inesplicabile è che i vermi espulsi, con atroci dolori, dal ventre degli ammalati si distribuiscono ogni volta in gruppi di quattordici lombrichi, ordinati sempre in base alla stessa sequenza:


Dopo un lungo lavoro di interpretazione, la direttrice della commissione creata per spiegare la sequenza dei quattordici lombrichi, rende pubblico il messaggio finalmente decifrato: “FUCK YOU ELON MUSK”. “Magari lo mandassero sulla Luna!” è la battuta che conclude sia il racconto sia il libro.


  1. Quinn Slobodian. Crack-Up Capitalism: Market Radicals and the Dream of a World Without Democracy. New York: Holt, 2023. 1-2.  

  2. La responsabilità delle traduzioni da Ciencia ficción capitalista è mia.  

  3. Dall’editoriale di Hugo Gernsback intitolato “Science Fiction vs. Science Faction” in Wonder Stories Quarterly, vol. 2, n.º 1, 1930, p. 5:

    Non c’è dubbio che in futuro la fantascienza sarà guardata con grande rispetto da ogni persona ragionevole. Il motivo è che la fantascienza ha già contribuito non poco al progresso e alla civiltà e lo farà sempre di più con il trascorrere del tempo.
    Tutto è iniziato con Jules Verne e il suo Nautilus, che è stato il precursore di tutti i moderni sottomarini. La brillante immaginazione di Jules Verne ha senza dubbio contribuito in modo determinante a stimolare gli inventori e i costruttori di sottomarini. Ma naturalmente Jules Verne era un’eccezione in quanto sapeva usare i fatti scientifici e combinarli con la fantasia.
    Nei prossimi anni, inoltre, i nostri autori opereranno una netta distinzione tra la science fiction e la science faction, se posso usare questo termine.
    La distinzione dovrebbe essere abbastanza ovvia. Nella fantascienza l’autore può dare libero sfogo alla sua immaginazione e, purché non trasformi la storia in una favola scontata, rimarrà comunque nei limiti della pura fantascienza. La fantascienza può essere profetica, nel senso che gli avvenimenti immaginati dall’autore potrebbero avverarsi tra qualche tempo, anche se questo “qualche tempo” potrebbe significare tra centomila anni. Poi, naturalmente, si deve tenere conto che si possono applicare diversi gradi di fantasie nella fantascienza stessa. Si può spaziare tra previsioni probabili, possibili e quasi impossibili.
    In netta controtendenza rispetto alla fantascienza, c’è la science faction. Con questo termine intendo la fantascienza in cui sono presenti così tanti elementi scientifici che la storia, per quanto riguarda la parte scientifica, non è più una fiction ma diventa più o meno un rendiconto reale.
    Per esempio, se qualche anno fa si parlava di velivoli con motori a razzo, queste macchine sarebbero state ovviamente classificate come fantascienza. Oggi questi velivoli rientrano propriamente nella fantascienza, perché la propulsione a razzo è ormai a uno stadio molto avanzato. Sebbene questa tecnica di propulsione sia oggi ancora in fase sperimentale, come era stato per il prototipo dei fratelli Wright per l’aeroplano, i ricercatori che hanno lavorato con la propulsione a razzo sono stati sufficientemente incoraggiati da permetterci di prevedere con sufficiente sicurezza che nei prossimi venticinque anni il volo con questi tipi di propulsori  diventerà all’ordine del giorno.
    Qual è la storia migliore, quella che tratta di pura fantascienza o quella che si occupa di scienza? È difficile dirlo. Dipende, ovviamente, interamente dalla storia, dal suo trattamento e dall’ingegno dell’autore.
    Naturalmente, l’uomo di scienza, il ricercatore e persino l’uomo d’affari più ostinato guarderanno con più favore alla fantascienza, perché qui otterrà informazioni preziose che possono essere di utilità immediata; mentre le informazioni contenute nella fantascienza più diffusa possono forse essere troppo in anticipo sui tempi e spesso possono essere ritenute troppo fantastiche per essere di utilità immediata per l’umanità. Quindi, tra la fantascienza e la science faction ci sarà sempre un grande divario, e ognuna avrà migliaia e forse milioni di appassionati.

     

  4. In Argentina, gringo si dice dello straniero bianco, inizialmente di lingua inglese, poi in particolare italiana, a causa del prevalere dell’immigrazione dall’Italia nella regione rioplatense, specialmente negli anni fra il 1880 e il 1930. In Ciencia ficción capitalista il termine è usato nel primo senso, così da indicare sia cittadini statunitensi–per quali esiste l’alternativa, più comune in Argentina, di yanqui – sia britannici come Branson.  

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