Fabrizio De André – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 14 Jun 2025 20:00:29 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Scuola, motori e lavoro a tutti i costi https://www.carmillaonline.com/2024/09/26/scuola-motori-e-lavoro-a-tutti-i-costi/ Thu, 26 Sep 2024 20:00:11 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=84644 di Paolo Lago

Paolo La Valle, Gli automotivati. La love story tra scuola e motori, Alegre, Roma, 2024, pp. 255, euro 16,00.

Il mondo dei motori, delle automobili e delle moto si insinua in modo pervasivo in quello della scuola e dell’educazione soprattutto se le scuole in questione si trovano nella cosiddetta “Motor Valley”, collocata tra Bologna, Modena e Reggio Emilia. È quello che ci racconta Paolo La Valle nel suggestivo Gli automotivati. La love story tra scuola e motori, uscito recentemente per la collana Quinto Tipo di Alegre: si tratta di una sorta di diario-saggio che focalizza un anno di [...]]]> di Paolo Lago

Paolo La Valle, Gli automotivati. La love story tra scuola e motori, Alegre, Roma, 2024, pp. 255, euro 16,00.

Il mondo dei motori, delle automobili e delle moto si insinua in modo pervasivo in quello della scuola e dell’educazione soprattutto se le scuole in questione si trovano nella cosiddetta “Motor Valley”, collocata tra Bologna, Modena e Reggio Emilia. È quello che ci racconta Paolo La Valle nel suggestivo Gli automotivati. La love story tra scuola e motori, uscito recentemente per la collana Quinto Tipo di Alegre: si tratta di una sorta di diario-saggio che focalizza un anno di insegnamento svolto dall’autore, docente di Italiano, in un Istituto Professionale della zona. La scrittura alterna l’immediatezza della presa diretta sugli avvenimenti legati all’universo scolastico (in cui protagoniste sono classi ‘difficili’, composte spesso di soli alunni maschi) a inserti dal taglio più saggistico, dove si infittiscono osservazioni e riflessioni su un tessuto sociale irretito dal produttivismo capitalista che si ingrandisce e si sviluppa sempre di più a scapito della vita delle persone. Il tutto scandito da capitoli che portano nei titoli formati dal verso di una canzone sempre diversa l’ispirazione musicale che li ha mossi.

Il lavoro è un dogma, da quelle parti, e gli stessi alunni del Professionale odiano la scuola e non vedono l’ora di finirla o interromperla per mettersi a lavorare nel settore automotive e cioè per quelle fabbriche e per quelle aziende che si estendono a macchia d’olio provocando un abnorme consumo di suolo e per tutto il grande circo spettacolare che si erge dietro questo apparato, in primis il Motor Show di Bologna che nel 2018 ha visto la sua ultima edizione. Se, come nota l’autore, nel 1976, ai suoi albori, il Motor Show occupava un’area di 5mila metri quadrati, nel 2004 “si arriva a 230 mila facendo da volano all’aumento di consumo di suolo in un territorio che oggi con la sua Zona Fiera raggiunge i 375 mila metri quadrati e ospita iniziative di ogni tipo, grazie al protagonismo del Gruppo BolognaFiere, in grado di allestire settantacinque eventi all’anno tra Bologna, Modena e Ferrara” (p. 34). Lo stesso Motor Show ha rappresentato l’aspetto più spettacolare dell’ideologia che gli esponenti del capitale pretendono di inculcare nei giovani che gravitano attorno al settore, e la progressione dei suoi chilometri quadrati equivale all’aumento esponenziale della densità di auto in Italia, che provoca un ulteriore aumento di suolo nella costruzione di sempre nuove strade (come il progetto del cosiddetto Passante di Bologna), di sempre nuovi svincoli e rotatorie realizzati asfaltando e cementificando innumerevoli aree verdi. Non c’è da meravigliarsi, perciò, se a ogni nuova pioggia violenta (eventi che ormai non si possono più considerare ‘eccezionali’ nella realtà del cambiamento climatico che ci troviamo a vivere) quel territorio dell’Emilia Romagna (che è terza in Italia per consumo di suolo) viene devastato e allagato: è cronaca, purtroppo, anche di questi giorni.

Il lavoro è un dogma e risuona come un vero e proprio mantra, fin dalla scuola, irretendo gli adolescenti e le adolescenti. Laura, ad esempio, che adesso ha trentadue anni, ha lavorato al Motor Show come ragazza immagine fin da quando stava per compiere diciotto anni e andava ancora a scuola, in un contesto in cui gli atteggiamenti sessisti risultano assolutamente normali e si esplicitano in continui apprezzamenti volgari e viscidi (e il racconto di Laura e di altre ragazze si materializza all’interno di un capitolo intitolato Quante belle figlie da sposar, verso tratto da Ottocento di Fabrizio De André, in un momento in cui la canzone accelera musicalmente commentando in forma iperbolica l’iperproduzione spettacolare dei primi anni Novanta). Certo, è questa l’altra faccia del capitale, è il suo truce spettacolo che ‘macchinizza’ e capitalizza gli stessi corpi, come vediamo nelle sequenze iniziali del film Titane (2021) di Julia Ducurnau, in cui alcune ballerine sexi si esibiscono sui cofani delle automobili in un autosalone di fronte a maschi per i quali non c’è alcuna differenza – sembra – fra l’estetica delle auto e quella delle ragazze.

L’ideologia del lavoro a tutti i costi, come già notato, si insinua anche tra i banchi di scuola, dove si trovano, fra gli altri, gli studenti El J, Cucciolotto, Pablo, Thomas, e allora la scrittura diaristica erompe in volute sintattiche e lessicali che esondano da qualsiasi schema, in un sinuoso pastiche che ricalca il parlato ma soprattutto i gerghi giovanili mentre sullo sfondo, come un magico folletto portatore di pace all’interno di una quotidiana guerra, si aggira fantasmaticamente la Chica, la compianta canina del narratore e professore che scambia con lei uno sguardo nei momenti più difficili, in momenti in cui bisogna dare forse un conforto o una pacca sulle spalle a chi è inserito nella macina di un sistema più grande di lui, come succede a molti di questi giovani, cresciuti fra vita non facile e motori. Il lavoro si fa breccia anche attraverso la cosiddetta alternanza scuola-lavoro, oggi rappresa nell’acronimo Pcto, largamente diffusa nell’Istituto Professionale in questione. Un percorso che dovrebbe essere formativo ma che ha al suo attivo una scia di morti, giovani studenti vittime di incidenti sul lavoro. E, come scrive La Valle, un’ideologia di questo tipo nella sua classe è introiettata a tal punto che si tende a dare la colpa alla persona incidentata che avrebbe dovuto prestare maggiore attenzione alle misure di sicurezza e non, magari, alla quasi totale mancanza di queste ultime o a un sistema che non fa in modo che siano sufficienti e all’altezza.

I messaggi che dall’alto vengono fatti passare, infatti, sono quelli di una contrapposizione muro contro muro fra scuola e mondo del lavoro:

da una parte c’è il mondo della scuola, con le sue materie inutili e le sue fissazioni, mentre dall’altra c’è il mondo che conta, quello del lavoro, quello da cui arrivano i soldi. Il primo mondo impone regole per te incomprensibili, il secondo le ammorbidisce. Quale scegli?
Se nel primo ti inseguono perché stai fumando e nel secondo fingono di non accorgersene? Se nel primo si arrabbiano per un commento che hai fatto a una ragazza, mentre nel secondo scherzi a voce alta su culi e tette? Se nel primo insegnano cose che per te sono inutili e nel secondo ti dicono che l’importante è guadagnare? Con queste opzioni, a sedici anni, le scelte sono facili (p. 201).

Oggi anche la scuola è stata raggiunta dalla longa manus del capitale e si sta trasformando in un’azienda “che vive secondo i criteri delle temporalità formalizzate, della competitività e delle mille categorizzazioni che comprimono le attività spingendole verso l’individualismo. È una modalità repellente e se a questa roba non abbiamo dato il nome di fascismo è perché ancora non gli abbiamo fatto la guerra” (p. 208). Assieme al lavoro, si fanno strada anche la competitività e il meccanismo della valutazione sempre e comunque con l’intento di disciplinare gli individui in una forma mentis economica fin dai banchi di scuola. Niente di nuovo sotto il sole, insomma, rispetto a quanto aveva scritto nel 1995 Raoul Vaneigem nel suo Avviso agli studenti: “Dopo aver strappato lo scolaro alle sue pulsioni di vita, il sistema educativo opera per ingozzarlo artificialmente allo scopo di immetterlo sul mercato del lavoro, dove continuerà a ripetere fino alla nausea il leitmotiv dei suoi anni giovanili: vinca il migliore!” (R. Vaneigem, Avviso agli studenti – Terrorismo o rivoluzione, trad. it. di S. Ghirardi, piano b edizioni, Prato 2010, p. 34).

L’adolescenza è fatta anche per perdere tempo, per bighellonare, per sbagliare e prendersela con calma, non solo per diventare efficienti e produttivi al più presto. Ecco perché, alla fine, bisognerebbe – citando Gilles Clement insieme all’autore – “elevare l’improduttività fino a conferirle dignità politica” (Gilles Clement, Manifesto del Terzo paesaggio, Quodlibet, 2005, p. 61). Infatti, il capitale che impone produttività, efficienza e competitività nella scuola è lo stesso che costruisce sempre più strade perché ci siano sempre più auto in circolazione, a scapito delle aree naturali, cementificate e distrutte ed è lo stesso che devasta montagne e boschi per creare i tunnel dell’alta velocità; allora sarebbe meglio “pensare alla cura e alla riparazione dei suoli, andando nella direzione opposta rispetto all’asfalto, al cemento e alle camicie di forza con cui ci ostiniamo a perimetrare ogni forma di vita” (p. 224). E anche la produzione dei nuovi veicoli elettrici (che necessitano di onerose materie prime e di un complesso smaltimento), verso cui si lancia la corsa del capitale, rappresenta soltanto un’altra faccia della devastazione di sempre nuovi territori. Infatti, come riflette amaramente Paolo La Valle nella pagina finale del suo libro, l’impressione è “che la progressiva scomparsa del fumo dei gas di scarico stia contribuendo a rinnovare una speranza che potrà pure comportare la fine del motore a scoppio, ma nella logica del sacrificio messianico” (p. 244).

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L’orizzonte degli eventi di Vittorio Giacopini https://www.carmillaonline.com/2024/06/06/lorizzonte-degli-eventi-di-vittorio-giacopini/ Thu, 06 Jun 2024 20:03:30 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=82795 Mondadori, Milano 2024, 302 pagine, 20 euro

di Marc Tibaldi

“Lo zingaro che mi appare in sogno ha gli occhi azzurri”, già nell’incipit troviamo tre di molti concetti-chiave di questo romanzo: zingaro, sogno, occhi azzurri. Zingaro come rifiuto dei confini, resistenza a ogni assimilazione, nomadismo, alterità disturbante, assenza di mentalità di vittima. Sogno come immaginazione non sottomessa e verifica critica degli assunti surrealisti – la poesia, la rivoluzione, l’amore – a un secolo di distanza dal Manifesto di André Breton e compagni.

Il ritorno del sogno nella letteratura ci pare già un grande obiettivo, ma, attenzione, senza cadere nel freudismo letterario, [...]]]> Mondadori, Milano 2024, 302 pagine, 20 euro

di Marc Tibaldi

“Lo zingaro che mi appare in sogno ha gli occhi azzurri”, già nell’incipit troviamo tre di molti concetti-chiave di questo romanzo: zingaro, sogno, occhi azzurri. Zingaro come rifiuto dei confini, resistenza a ogni assimilazione, nomadismo, alterità disturbante, assenza di mentalità di vittima. Sogno come immaginazione non sottomessa e verifica critica degli assunti surrealisti – la poesia, la rivoluzione, l’amore – a un secolo di distanza dal Manifesto di André Breton e compagni.

Il ritorno del sogno nella letteratura ci pare già un grande obiettivo, ma, attenzione, senza cadere nel freudismo letterario, storicamente consunto e neanche nella ripetizione formale dell’avanguardia francese, di cui mantiene gli orizzonti della rivolta (trasformare il mondo, cambiare la vita).Occhi azzurri: sono quelli dello Zingaro, coprotagonista del romanzo, l’alterità disturbante. Non so se Giacopini volesse creare anche un riferimento diretto a Profezia, celebre poesia di Pierpaolo Pasolini, tratta da Poesia in forma di rosa, che è stata riproposta e riletta in maniera opposta in occasione delle molte tragedie mediterranee dei migranti, ma la potente immagine di […] Alì dagli occhi azzurri / uno dei tanti figli di figli / scenderà da Algeri, su navi / a vela e a remi. Saranno / con lui migliaia di uomini / coi corpicini e gli occhi / di poveri cani dei padri / sulle barche varate nei Regni della Fame […] è impossibile non ritorni in mente, anche per la genesi di questa poesia dedicata a Jean-Paul Sartre. Alla fine degli anni Cinquanta, il filosofo aveva da poco presentato I dannati della terra di Franz Fanon e aveva raccontato, al geniale e contradditorio poeta bolognese-friulano romano, “la storia di Alì dagli Occhi Azzurri”.

Il romanzo esplora il mondo della marginalità contemporanea attraverso il dialogo onirico e reale tra l’io narrante e lo Zingaro, intrapreso tra le pieghe dell’evento pandemico; adotta una struttura narrativa densa di rimandi e sorprese, suddivisa in tre parti (Sogno, Notte, Viaggio); affronta temi come la guerra, la stasi del presente e le mutazioni del capitalismo; si distingue per un carattere espressionista, dove epifanie soggettive si alternano tra protesta e amore per la complessità del mondo. Il magnifico risvolto di copertina (arte nobile come dimostrarono Italo Calvino, Giorgio Manganelli, Leonardo Sciascia, Elio Vittorini…) ci segnala che

“il personaggio che dice ‘io’ quasi non ha il tempo di presentarsi: lo Zingaro appare subito in scena […] e, salvo rare assenze, la tiene occupata sempre. Lo Zingaro viene da lontano, è il freak, il drop out, il filosofo, il profeta. Entra ed esce portando saggezza e provocazione, gioca, straccia le facili verità, fustiga le eredità culturali, fa linguacce a buonismi e isterismi. […] Stabilisce con l’autore un dialogo serrato” – tanto da sembrare un io sdoppiato, aggiungiamo noi – “uno scambio sbilanciatissimo di opinioni. I due si scontrano e si incontrano, viaggiano lungo le rotte del presente, attraversando la pandemia, la crisi climatica, le migrazioni, lo stimolo costante dell’informazione e il progresso scientifico. Sorta di nano nietzschiano, che porta alla luce la voce degli ultimi, lo Zingaro conduce alla verità negletta, al passato obliterato, alla fine del tempo. I due protagonisti si scontrano e si annientano, fino ad arrivare al limite degli eventi, letteralmente al buco nero destinato a inghiottire il loro addio. Siamo di fronte a un romanzo pamphlet che ruota intorno alla consapevolezza della Storia e del tempo […] Parla a chi vuole intendere, e per una volta questa limitazione deve essere interpretata come una sfida vera, come coraggio intellettuale”.

Se, come scriveva Valerio Evangelisti, “il neoliberalismo è stato capace, attraverso un uso quasi scientifico dei mass media, di penetrare nei nostri cervelli e svuotarli di tutti i contenuti non funzionali. In pochi anni, ha compiuto un assalto senza precedenti alla sfera dell’immaginazione, infettandola con non-valori, false certezze e illusioni ottiche ispirate da una logica mortificante che vede il più forte come avente non solo il diritto di vincere la lotta per la vita, ma anche il diritto accessorio di calpestare il vinto, ignorando la sua umanità”. Se come scriveva Lucien Goldmann: “lo scrittore si muove all’interno di diversi sistemi: uno è quello dell’insieme della letteratura, a cui deve giocoforza rapportarsi, l’altro è quello della società in cui vive”, allora per Giacopini uno dei campi prioritari della battaglia politica è proprio l’immaginario, così come per Evangelisti. Questo significa che non ci serve una letteratura consolatoria o edificante che racconta la realtà in modo intimista-descrittivo o secondo i canoni scontati dell’impegno o dell’autofiction.

Giacopini lo fa in questo suo nuovo romanzo. Significa che la paralisi immaginativa e – dalla pandemia in poi – può essere interrotta con la ripresa di un’azione rivoluzionaria che ribalti il “cronosisma” in cui siamo prigionieri. Per farlo è necessario “capire in pieno l’innocenza dell’immaginazione”, come dice Luis Buñuel in un esergo del romanzo. Ecco allora che il canale di Suez viene bloccato, si forma una Comune internazionalista di marinai ribelli, un circo misterioso vaga per le terre d’Europa, una missione Oms costruita con criteri di gender equality è alla ricerca delle Cause del Morbo, un’astronave fantasma vaga nello spazio verso il gran buco nero. Notre Dame va in fiamme … Scrive l’autore a proposito del suo libro “Un romanzo è (o dovrebbe essere) un caleidoscopio spiazzante, un maledetto dedalo, un labirinto […] l’immaginazione va dove vuole lei (metodo Bunuel) senza giustificarsi di niente, senza alcun perbenismo”.

Fabrizio De Andrè canta in Khorakhané (a forza di essere vento): “Saper leggere il libro del mondo / Con parole cangianti e nessuna scrittura” senza imbalsamare la lingua e l’immaginazione – “come un rame a imbrunire su un muro”, che a nulla serve. Canzone che ha fatto arrabbiare i codificatori della lingua rom, senza capire che in quel brano – come nel romanzo di Giacopini, non è di lingue-madri e di lingue di stato che si tratta, ma di lingue-figlie, che non temono la contaminazione e il divenire. È l’immaginazione frutto di una lingua-figlia quella di L’orizzonte degli eventi, piena di fabulazioni e accadimenti, di invenzioni narrative, linguistiche e concettuali che si rincorrono velocemente prima della calma finale. Una felicità della mente.

“Occhi Azzurri mi assilla, esorta, pungola: è tempo di partire, gaggio, è tempo di andare. Sbattezzati da tutto, fatti zigano”.

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L’ampiezza di riferimenti e rimandi di L’orizzonte degli eventi è rintracciabile nel percorso delle pubblicazioni di Vittorio Giacopini, che comprende saggi come Scrittori contro la politica; Fuori dal sistema. Il linguaggio della protesta; la cura della raccolta di scritti di Albert Camus, Mi rivolto dunque siamo. Scritti politici; Al posto della libertà. Breve storia di John Coltrane; e con Goffredo Fofi: Prima e dopo il sessantotto. Antologia dei Quaderni piacentini; e vari romanzi, tra cui: Re in fuga. La leggenda di Bobby Fischer, Il ladro di suoni, L’arte dell’inganno, Non ho bisogno di stare tranquillo, dedicato alla figura di Errico Malatesta, Roma, e la raccolta di racconti Il manuale dell’eremita, un gioiello memorabile, che narra il rapporto contradditorio tra il mago di Messkirch, ossia Martin Heidegger, con René Char e Paul Celan, in cui si possono trovare alcune delle, anche nostre, debolezze intellettuali ed etiche.

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“Io capitano”: morfologia di una fiaba vera https://www.carmillaonline.com/2023/09/25/io-capitano-morfologia-di-una-fiaba-vera/ Mon, 25 Sep 2023 20:00:33 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79179 di Paolo Lago

Non ci si può approcciare a un’opera come Io capitano (2023) di Matteo Garrone criticandone la presunta verosimiglianza o l’incapacità di raccontare il fenomeno migrazione in generale. Infatti, non ci troviamo di fronte a un documentario il cui intento è la ricostruzione puntuale dei meccanismi migratori o la rappresentazione, mediante il suo racconto, della globalità di tali meccanismi. È molto probabile che chi è andato al cinema con queste aspettative sia rimasto estremamente deluso. Si tratta di un film di finzione creato da un autore che possiede un suo peculiare [...]]]> di Paolo Lago

Non ci si può approcciare a un’opera come Io capitano (2023) di Matteo Garrone criticandone la presunta verosimiglianza o l’incapacità di raccontare il fenomeno migrazione in generale. Infatti, non ci troviamo di fronte a un documentario il cui intento è la ricostruzione puntuale dei meccanismi migratori o la rappresentazione, mediante il suo racconto, della globalità di tali meccanismi. È molto probabile che chi è andato al cinema con queste aspettative sia rimasto estremamente deluso. Si tratta di un film di finzione creato da un autore che possiede un suo peculiare mondo poetico e creativo. Per cui, non posso certo essere d’accordo con alcune recensioni uscite nei giorni scorsi che lo criticano per mancanza di verosimiglianza, definendolo addirittura un “falso storico”, definizione che nasce da un delirio allo stato puro nonché da una ignoranza pressoché totale dell’intera opera dell’autore. Chi pretende verosimiglianza ad ogni costo crede anche che su temi scottanti come migrazioni, guerre, disastri, distruzioni, omicidi efferati non si possa che lavorare in maniera ‘neorealista’ o documentaria. L’interpretazione fiabesca o fantastica di tali fenomeni, in molti casi (compreso quello in questione), non induce davvero a una inutile spettacolarizzazione o a gratuiti estetismi ma serve a edulcorare, per mezzo del linguaggio artistico, fenomeni spesso difficili da raccontare. Mi viene in mente la trasposizione fiabesca realizzata da Fabrizio De André con La canzone di Marinella: come dichiarò il cantautore, quella sua fiaba messa in musica derivava da un fatto di cronaca nera relativo all’uccisione di una giovane prostituta scaraventata in un fiume. Compito dell’arte è anche questo: sublimare, creare metafore, visioni, spazi incantati liberi e resistenti. In tema di migrazione possiamo ricordare il delicato Miracolo a Le Havre (2011) di Aki Kaurismäki, un film che racconta con tono fiabesco e visionario l’avventura del piccolo Idrissa, arrivato nel porto francese come migrante clandestino in un container.

Il più importante tema ‘garroniano’ – se così si può dire – presente nel film è quello della crescita e della formazione. Il giovane Seydou (Seydou Sarr), dal Senegal, vuole intraprendere una migrazione verso l’Europa che si trasforma in un viaggio di formazione irto di pericoli. Il film non ha la pretesa di raccontare documentaristicamente i viaggi dei migranti verso la Libia ma di narrare l’avventura personale di Seydou, assimilabile quasi a un nuovo Pinocchio che vuole scappare di casa per compiere il suo viaggio scendendo negli inferi della coscienza. Non si dimentichi che Garrone è l’autore di una versione cinematografica (2019) del celebre romanzo di Collodi, versione in cui importanti sono appunto i temi della crescita e della formazione, del corpo e del suo mutamento (si veda la metamorfosi in asino e i risvolti più fisici e dolorosi che ne derivano, come lo scricchiolio delle ossa che sentiamo durante la trasformazione). Il mutamento del corpo, coi suoi dolorosi e angoscianti risvolti, nel cinema di Garrone è poi presente in Primo amore (2004), in cui il personaggio di Sonia, interpretato da Michela Cescon, martirizza il proprio corpo dimagrendo fino all’anoressia per assecondare le ossessioni di Vittorio (uno strepitoso Vitaliano Trevisan). Seydou scende negli inferi delle prigioni libiche, laddove il corpo viene ferito e martoriato, legato e appeso con lacci di cuoio durante le torture (anche in questo caso avvertiamo il ‘perturbante’ suono dei lacci che stringono). Il film racconta la fiaba vera di Seydou, una fiaba che rimanda in forma allusiva all’atroce e cruda realtà che i migranti africani sono costretti ad affrontare per arrivare in Europa. D’altra parte, è lo stesso Vladimir Propp, autore della Morfologia della fiaba, a ricordarci, in un’altra sua opera – Le radici storiche dei racconti di fate – che le fiabe non nascono certo dal nulla ma possiedono un sostrato storico ben radicato nella realtà sociale delle popolazioni che le creano.

Seydou e suo cugino Moussa, interpretato da Moustapha Fall (insieme al quale il ragazzo vuole intraprendere il viaggio), a Dakar, si recano presso un anziano riparatore di televisori il quale sconsiglia i due giovani dall’intraprendere il viaggio perché andranno sicuramente incontro alla morte, dal momento che lui stesso lo ha intrapreso e ha incontrato solo morte e sofferenze. Non è un caso che l’uomo appaia circondato di vecchi televisori, sui quali sta lavorando, che rappresentano un lembo malato di quell’Europa che i giovani vogliono raggiungere e che, appunto con i suoi strumenti mediatici, attira tanti africani desiderosi di ricostruirsi una vita. Ma quegli strumenti appaiono adesso come vuote scatole inerti, marchingegni fossilizzati in una funebre inutilità, contenitori di falsità abbrutenti, latori della civiltà occidentale e consumistica. Se l’Europa per l’anziano senegalese è un luogo di morte, così sono morti anche quegli oggetti che lo circondano, simbolo dei fasti promessi dalla ricca società del capitalismo. Seydou e Moussa però non captano i messaggi della ricca Europa tramite quei vecchi e inutili involucri, bensì con il loro smartphone; il musicista Seydou, allora, arriva a creare dal nulla una canzone composta da brevi frasi giunte via internet attraverso il telefonino. Si tratta però di frasi tristi (“perché non mi chiami più?”, “Dove sei?”, “perché mi hai lasciato?”), segno che quella stessa Europa, alla fine, non è il paese di Bengodi ma è attraversata anch’essa dalla solitudine e dal dolore.

Intraprendere un viaggio difficile, che può mettere a repentaglio la stessa vita, possiede risvolti attinenti alla sfera del sacro, ed è così che i due ragazzi, prima di partire, si recano presso uno sciamano. Visitano anche un vecchio cimitero nel quale riposano i loro antenati perché per partire è necessario avere, in un certo senso, la loro ‘benedizione’. Vicino al cimitero svettano degli alberi che si muovono al vento e sembrano quasi impersonare antiche e quiete divinità che ondeggiano per proteggere i due giovani: si potrebbe pensare alla rappresentazione delle Furie, destinate a trasformarsi in Eumenidi, cioè in “benevole”, negli Appunti per un’Orestiade africana (1969) di Pier Paolo Pasolini, mostrate dal regista sotto la forma di alberi. Anche nel documentario di Pasolini, perciò, sono presenti diversi elementi di finzione dal carattere ‘fiabesco’ e immaginativo. A fianco di alcuni documenti filmici dell’epoca, anche molto crudi, relativi a uccisioni e massacri, Pasolini effettua in diversi momenti del suo film delle scelte antirealistiche, immagini che mostrano in forma allusiva la difficile situazione dei paesi africani della fine degli anni sessanta.

Il racconto fiabesco di Garrone apre a dei momenti di resistenza che sembrano confermare il verso di Hölderlin che recita, più o meno, “là dove c’è il pericolo cresce anche ciò che salva”. Il viaggio nel deserto mostra spazialità sconfinate care al cinema di Garrone: spazialità che sembrano quasi inghiottire i personaggi; si può pensare, allora, al già citato Pinocchio ma anche agli sfondi di Il racconto dei racconti (Tale of Tales, 2015) che, in alcuni casi, inglobano e annichiliscono le figure umane oppure, ancora, alle periferie di Roma solcate dal ‘canaro’ Marcello (Marcello Fonte) in Dogman (2018), spazi che sembrano inchiodare il personaggio al suo triste destino. Ma appunto, in questo spazio annichilente e assassino, Seydou incontra dei momenti incantati che sembrano allontanarlo dalla disperazione. Non potendo fare niente per salvare un’altra migrante che morirà di stenti nel deserto, il ragazzo immagina di farla volteggiare in una levitazione semplicemente tenendola per mano: il dolore, la morte e la disperazione vengono sublimati ma certo non spariscono. Si potrebbe pensare a certi momenti incantati di Il tempo dei gitani (1988) di Emir Kusturica, momenti che salvano i personaggi dalla dura realtà che li circonda, la povertà, le faide, la microcriminalità e la violenza diffusa. La scena della levitazione è una via di fuga dal dolore, un momento di resistenza in cui si può essere liberi e, appunto, resistere alle afflizioni e ai dolori inflitti ai più poveri dalla società basata sull’accumulo di capitale. In modo non troppo diverso, i migranti siciliani di Nuovomondo (2006) di Emanuele Crialese, durante il terribile viaggio di terza classe sul piroscafo (costruito come una grande scenografia teatrale) che li conduce a New York, si immaginano squarci incantati che restituiscono loro la dignità e la libertà sottratte da un sistema malato e meschino che offre agi e possibilità soltanto ai ricchi.

Un’altra spazialità che ingloba i personaggi è quella del mare: uno spazio “liscio”, secondo l’analisi di Deleuze e Guattari, che l’egemonia dell’Occidente ha sempre cercato di ‘striare’, di sottoporre, cioè, alle griglie del controllo. La ‘striatura’ del mare emerge nelle inquadrature che mostrano il passaggio del peschereccio guidato da Seydou vicino a delle gigantesche piattaforme petrolifere: se dapprima i migranti, vedendo delle luci, credono di aver finalmente raggiunto la terra, si rendono successivamente conto di trovarsi di fronte a delle costruzioni mostruose a cui non sanno bene dare un nome. È l’egemonia dell’Occidente, lo sfruttamento capitalistico del petrolio che erige quei mostri, un interesse economico che produce sempre nuove ricchezze a scapito dei “dannati della terra”, per utilizzare un termine di Frantz Fanon. Qui, la fiaba diviene dura realtà: pur apparendo, in immagini dalla forte impronta visionaria, come delle costruzioni mostruose, quelle piattaforme sono reali. In una fiaba, forse, i migranti avrebbero incontrato delle navi da crociera predisposte dagli stessi stati occidentali per accoglierli invece di lasciarli morire in mare. Dagli spazi ‘striati’ reali, invece, è impossibile aspettarsi qualcosa che non sia puramente dettato dagli interessi economici.

Il film si chiude con un grido: Seydou, giunto in prossimità delle coste della Sicilia, urla le parole che danno il titolo al film, “Io capitano”. Parole urlate che entrano in conflitto con il suono ossessivo e meccanico delle pale di un elicottero della Guardia di Finanza che si staglia sul peschereccio dei migranti. Sì, è vero, l’elicottero li trarrà in salvo ma poi verranno rinchiusi in un CPT e magari espatriati; nella fiaba vera raccontata da Garrone, il peschereccio sarebbe probabilmente arrivato sano e salvo fino alla costa (quando, invece, nella dura realtà, molte imbarcazioni fanno naufragio). Il rumore dell’elicottero è il rumore dello spazio “striato” che si contrappone alle spazialità “lisce” e “nomadi” da cui i migranti provengono: è il suono del potere, del controllo, del respingimento. È il suono dell’egemonia occidentale che costruisce le piattaforme petrolifere e costringe molti giovani africani ad affrontare la morte nei loro terribili viaggi. Il grido di Seydou (“sono io il capitano”) è lanciato anche contro la finta costruzione mediatica occidentale del mito dello scafista, figura che in realtà non esiste. Non sono certo i trafficanti di esseri umani a mettersi alla guida delle barche ma i migranti stessi, arruolati dalla manovalanza inviata dai trafficanti di alto bordo, i quali magari se ne stanno tranquilli nei loro palazzi del potere. Il cosiddetto “scafista” è un mito mediatico che serve a spostare l’attenzione dal mancato salvataggio di esseri umani ad opera delle istituzioni verso la criminalizzazione di una figura da utilizzare come capro espiatorio. Seydou non fugge, accetta fino in fondo la sua responsabilità di essere il “capitano”, parola che, se ci pensiamo bene, rimanda ancora una volta ad un universo favolistico e avventuroso ed entra in contrasto con la costruzione mediatica dello “scafista”: il giovane, infatti, grida forte il suo rifiuto di essere inquadrato in un ruolo preconfezionato dal perbenismo occidentale, da un potere che non si assume le proprie responsabilità di fronte al fenomeno contemporaneo delle migrazioni. “No, non sono uno scafista” – dice Seydou, “sono un capitano”, parola che sembra uscire da un mondo letterario e incantato, fatto di storie di mare, dei romanzi di Conrad e di Stevenson, dei capitani delle navi pirata e di quelli “coraggiosi” di Kipling.

Seydou, urlando di essere il capitano, innalza il suo immaginario coraggioso, libero e resistente contro il suono granitico del controllo, del potere che lo vorrebbe imprigionare nel ruolo anonimo e indefinito del ‘diverso’, dell’“immigrato” o dello “scafista”. Nella fiaba vera raccontata da Garrone, Seydou è diventato – parafrasando i versi di William Ernest Henley ripetuti come un mantra da Nelson Mandela durante la sua prigionia – il “padrone del suo destino”, “il capitano della sua anima”. E nessun potere e nessun controllo, mai, lo potrà fermare.

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“Versicidio”: Riccardo Delfino, il poeta della vita tra amore ed eresia https://www.carmillaonline.com/2023/03/21/versicidio-riccardo-delfino-il-poeta-della-vita-tra-amore-ed-eresia/ Tue, 21 Mar 2023 21:00:08 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76554 di Iuri Lombardi

Riccardo Delfino, Versicidio, Terra d’ulivi edizioni, collana Deserti Luoghi, a cura di Giovanni Ibello, Lecce, 2023, pp. 60, euro 8,50.

È ancora fresco di stampa Versicidio, l’ultimo lavoro, il secondo per essere esatti, di Riccardo Delfino e la sorpresa pare esserci anche questa volta. Non solo perché Riccardo è – a mio avviso- uno dei poeti più bravi della sua generazione (il poeta ha appena ventidue anni), ma per il semplice fatto che questa sua ultima fatica poetica, che ho avuto il privilegio di seguire a cantiere aperto, viene ad arricchire il [...]]]> di Iuri Lombardi

Riccardo Delfino, Versicidio, Terra d’ulivi edizioni, collana Deserti Luoghi, a cura di Giovanni Ibello, Lecce, 2023, pp. 60, euro 8,50.

È ancora fresco di stampa Versicidio, l’ultimo lavoro, il secondo per essere esatti, di Riccardo Delfino e la sorpresa pare esserci anche questa volta. Non solo perché Riccardo è – a mio avviso- uno dei poeti più bravi della sua generazione (il poeta ha appena ventidue anni), ma per il semplice fatto che questa sua ultima fatica poetica, che ho avuto il privilegio di seguire a cantiere aperto, viene ad arricchire il panorama della poesia contemporanea e il coro di quella che ho definito scuola romana. Ma procediamo per punti.

L’opera si divide in tre sezioni (Necessità, Baricentro, Terraferma) e, senza tanti convenevoli, il giovane poeta romano ci propone i temi a lui più cari, già presenti nella sua precedente fatica Il sorriso adolescente dei morti (RP libri). In effetti anche in Versicidio troviamo, ma accresciute e con maggiore smalto, la morte, l’amore, l’incomunicabilità dell’uomo contemporaneo, e quel pizzico di eresia che è tout court per il semplice fatto che Riccardo non solo va contro ogni realtà precostituita – la famiglia, lo stato, la religione, la sessualità- ma le smonta con pennellate di unicità lirica. Il tema della morte sembra di fatto essere caro al nostro Delfino, al punto di essere esplicita sino dai primi versi. Sorge così spontanea la domanda: di che morte stiamo parlando? A mio avviso non si tratta di una morte fisica, del noto trapasso, ma di una morte esistenziale che in Versicidio, a differenza del suo precedente lavoro, è molto meno astratta, molto meno metafisica e più materiale, coinvolge infatti la materia, la persona, il dolore della sopravvivenza quotidiana diventa fisico. E questo mi sembra esplicito sin dai primi versi che aprono il libro «quando viene quella scarica/accuratissima, stringo sempre le labbra/a due dita, è lei, è l’oscena prefazione/ del fine vita…», dove la morte si fa premessa del trapasso e diventa il viaggio stesso dell’esistenza umana. Per Riccardo pare non esserci altro modo per definirla, per farci sapere che lei (che potrebbe essere anche una donna) è parte della vita stessa e non un trapasso che si ottiene a meta raggiunta. Dunque, il discorso si fa materiale, privo di metafora.

Allo stesso tempo, medesima cosa è l’amore, vista non come un amarsi in due, come un esserci all’unisono, ma come un attitudine di sensi. Il sesso stesso si esplicita nella ricerca ossessiva dell’altro che ricorda il Pasolini di Supplica a mia madre «… ho un’infinita fame/d’amore, dell’amore di corpi senza anima». Una ricerca che fa dell’io del poeta l’Ulisse e il viaggio stesso, di un viaggio doloroso, sofferto, fisico a cui non è dato il conforto dello sbarco in terraferma. L’amore, questa ricerca spasmodica e probabilmente senza soluzione si muove « tra il vomito dei respinti muove gli ultimi passi/per consegnare alla morte una goccia di splendore», come ci suggerisce in Smisurata preghiera Fabrizio De André. E il muovere gli ultimi passi – siamo sempre al margine e sul margine di qualcosa di non definito, ma sicuramente di compulsivo- conduce come Virgilio fa con Dante in una ricerca ontica, in un terreno quasi mai condivisibile con il prossimo «li preferisco di età prepuberale./Magri. Che paiono morti di fame». Ecco allora il terreno poco frequentabile dai molti, eccolo il tabù non condivisibile con il prossimo. L’amore si tinge di eresia, scardina i preconcetti, ogni istituzionale convenzione, va al di là di un rapporto d’etichetta, diventa trasversale, soggetto di un trasformismo inevitabile. Smontando quindi ogni sorta di convenzione e di istituzione – lo stato stesso, e per stato intendo il contesto, lo stato di cose- ecco che Riccardo riesce a plasmare molto, riesce a scardinare (finalmente!) la famiglia. Perché dissezionando l’amore, non facendolo secondo i canoni prestabiliti dalla maggioranza, inevitabilmente si scompagina la logica della famiglia. Famiglia intesa come unione tra un uomo e una donna che è destinata alla riproduzione e quindi della trasmissione di potere a cominciare dal cognome, mentre invece quella del nostro, l’idea che in esso serpeggia, è qualcosa che si concretizza e si tiene in piedi solo attraverso l’affetto; un elemento da non sottovalutare. È l’affetto ciò che muove il mondo, è questo impensabile sentimento (e il più delle volte dato per scontato) è l’asso piglia tutto, il jolly della vita stessa.

È scontato, per non dire ovvio, come il poeta sviluppa questo costituendo una propria geografia interiore, tirando dal taschino la propria bussola. Si tratta di una geografia romana, dei luoghi della sua infanzia, degli amori trovarti e lasciati, di quelli persi per sempre, della Roma per bene, lo spazio entro cui la lupa alleva i propri figli. In questo Riccardo è eretico, fuori misura, per la semplice ragione che non è condivisibile, si lascia fasciare dal vento dell’incomprensibile. Se Versicidio inizia infatti con la sezione Necessità e sviluppa un proprio piano d’attacco con Baricentro e infine con Terraferma è proprio perché Riccardo edifica una propria struttura, fonda richiamato dal canto delle sirene il suo mondo. Si tratta di un universo che lui difende con le unghia e con i denti, corazzato dal proprio cavallo di Troia.

Detto questo, al mio discorso sulla raccolta edita da “Terra d’ulivi” manca la giustificazione, il deterrente, l’ingerenza che costituisce l’alibi del delitto: la ragione dell’eresia. La giustificazione credo sia un discorso generazionale. In Delfino si riscontrano tutte quelle peculiarità che sono le fondamenta della scuola romana e che vedano in Gabriele Galloni il capostipite, l’apripista. Nello specifico non si tratta di una vera scuola, ma di un gruppo di poeti che sentono e percepiscono l’esistenza in una certa maniera. Si può parlare quindi di una tendenza romana. Sorvolo sui nomi di questa scuola per il semplice fatto che ogni esponente è diverso l’uno dall’altro e per età e per contenuti. Ciò che li accomuna è appunto una certa percezione, una assoluta sensibilità che fa della poesia un corpo civile dotata di una cifra stilistica di pregio. Questi elementi si possono brevemente elencare in due punti:

a) la morte come nuova possibilità dell’essere

B) l’amore per la vita

Questi due elementi, a partire dal primo punto, gettano le basi a livello di contenuto ad una ingerenza continua da parte di questi esponenti romani che trovano nella morte il senso dell’esistenza. Se la morte, infatti, come ebbe a dire Pasolini è il montaggio della propria vita, per questi poeti (nati dal ‘92 in giù) non è il passaggio finale, ma la lotta quotidiana, non è la resa ma la guerra consueta. La morte per loro coincide con la vita, e non c’è altra soluzione. È la lotta alla sopravvivenza.

In secondo luogo, ma non per ordine di importanza, li contraddistingue l’amore che questi autori hanno per la vita stessa. Nella vita si annidano morte e distruzione, lotta e speranza, ma anche rinascita e, al contempo, l’eresia; vale a dire la consapevolezza di infrangere certe regole convenzionali e le istituzioni stesse. Si tratta di un romanticismo di tendenza, un modo di percepire la vita e che Mario Praz nel saggio La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica riscontrò nei lirici metafisici inglesi. Insomma, siamo davanti ad un fenomeno che ha risollevato le sorti della letteratura contemporanea e lo ha fatto sia partendo dal piano stilistico sia dai contenuti.

Altro aspetto comune, ben lungi da prototipi precostituiti, è lo sviluppo in poesia di un piano prospettico, narrativo. Delfino, come il capostipite di questa scuola Galloni, non è un lirico, ma la sua poesia è un veicolo di un dramma a posteriori dove in esso germogliano possibilità narrative. L’opera stessa oggetto di questa mia riflessione è la prova schiacciante. Nelle tre sezioni della raccolta assistiamo a una forma stilistica che ricorda la migliore tradizione del poemetto, gettando le basi a una narrazione delle varie scene. Le liriche, i singoli testi non sono autosufficienti, non si tratta di istantanee, ma sono parti di una sequenza, di una storia. E questo è suggerito dalla mancanza di titoli dei singoli brani, elencati a numero romano progressivo.

Infine, mi sembra scontato gettare un occhio all’impianto ontologico della raccolta. A partire dall’io che come ci suggerisce la postfazione è mutevole. E lo è in quanto contemporaneo, fuori misura. L’io non più decodificabile spazia nel tempo e nello spazio, non fa sedere il poeta sulla cattedra come la tradizione (maledetta tradizione) vorrebbe. Permette invece all’autore una indagine più profonda, una presa di coscienza fino ad ora inedita. Il poeta della scuola romana, in questo caso Riccardo Delfino, scende dall’olimpo negli inferi, compie un viaggio in caduta libera, una rivoluzione antropologica che i colleghi delle generazioni precedenti non sono riusciti a compiere. Facendo questo il poeta diventa dimentico, la sua poesia diventa una esigenza di vita, un romanzo civile, che fa dell’esistere un perpetuo riaffermarsi. Non ci resta quindi difficile parlare di una poesia come scrittura di scena.
In ultima battuta, in zona Cesarini, tanto per usare un gergo calcistico, Riccardo incarna le caratteristiche di un autore contemporaneo per la consapevolezza che la poesia di oggi non ha futuro. È la poesia di un eterno presente, di un momento. Di un’espressione artistica che per fortuna vive una propria vita lontana dai chliché del mercato che la vorrebbero come merce. Mentre invece la poesia è un veicolo dell’oggi, di un adesso, senza tante pretese, e il poeta un giocoliere a cui spesso scappa di mano il cerchio.

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Divine Divane Visioni – 85 https://www.carmillaonline.com/2022/07/14/divine-divane-visioni-85/ Thu, 14 Jul 2022 20:00:59 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=72543 di Dziga Cacace

Chi vive sperando, muore cagando. Lorusso, isoletta dell’Egeo che non conta un cazzo, 1941. Sono anche un autore. Buonanotte.

981 – La guerre est déclarée di Valérie Donzelli, Francia 2011 Mi son reso conto che non c’è verso: alla fin fine, per quanto mi sforzi, vedo pochi film che non siano firmati da maschietti. Non mi pongo particolarmente il problema quando devo scegliere ma la realtà che mi si propone è sconsolante: i film firmati da donne sono pochissimi e io, con le mie visioni, non [...]]]> di Dziga Cacace

Chi vive sperando, muore cagando. Lorusso, isoletta dell’Egeo che non conta un cazzo, 1941. Sono anche un autore. Buonanotte.

981 – La guerre est déclarée di Valérie Donzelli, Francia 2011
Mi son reso conto che non c’è verso: alla fin fine, per quanto mi sforzi, vedo pochi film che non siano firmati da maschietti. Non mi pongo particolarmente il problema quando devo scegliere ma la realtà che mi si propone è sconsolante: i film firmati da donne sono pochissimi e io, con le mie visioni, non faccio altro che fotografare le percentuali figlie di un sistema maschilista, dove i registi sono maschi e i produttori sono maschi. Tendenzialmente, eh, perché ci sono sempre ovvie e virtuosissime eccezioni, ma se guardiamo i grandi numeri questo accade. Il pippello è ovviamente dovuto ai sensi di colpa, sensi di colpa che aumentano quando vedo un bel film come questo, firmato da Valérie Donzelli. Non so neanche come ci sono arrivato ma è stata una bella sorpresa. Juliette e Romeo sono giovani e innamorati appassionatamente: un figlio sembra la logica conseguenza. Vediamo l’ansia genitoriale, la difficoltà di imparare giorno per giorno a fare da papà e mamma e i primi dubbi, le ansie, il pensare di non capire qualcosa per concludere che si è troppo apprensivi. Però il bimbo, Adam, cresce male, non parla, vomita all’improvviso, non riesce a stare in piedi. E allora comincia un rosario pietoso di visite, di sguardi imbarazzati, di responsi detti a bassa voce, fino a quello finale, il peggiore che un genitore possa sentirsi dire: vostro figlio ha un tumore al cervello. Un tumore di quelli brutti. La narrazione è pulita, essenziale senza essere brutale, ma invece con momenti di vita straordinari, liberatori, perché il bimbo soffre e i genitori sono annichiliti da questo calvario e una serata con degli amici, un bacio rubato, una fuga dal dovere, diventano momenti di serenità esistenziale impagabile, fino al prossimo esame. Combattono una guerra assieme al loro figliolo, una guerra logorante, senza tregua dove non c’è alcuna certezza né eroismo. Io nulla sapevo del film prima di vederlo e al termine scopro che i protagonisti hanno vissuto sulla loro pelle tutto questo dolore e hanno saputo restituirlo con umanità e asciuttezza, senza compiacimenti familiari e ricatti emotivi. Un film bello e intenso: cercàtelo! (10/10/12)

982 – Quasi amici – Intouchables di Olivier Nakache e Éric Toledano, Francia 2011
Torniamo al cinema, quello vero, dopo tempo immemorabile e l’occasione ce la fornisce un parrocchiale vicino a casa, gestito da fratacchioni francescani molto attivi. Il giovedì poi è giornata ideale: c’è la pulizia delle strade e fino a mezzanotte si trova parcheggio. Vi assicuro: è cosa non da poco in questa fetente città che è Milano. La sala è ampia e confortevole e Barbara mi fa sedere in mezzo a un sacco di gente, nel centro geometrico perfetto della platea. Sa benissimo che sono un eccentrico (perlomeno in termini spaziali), ma si impone. Sono tutti over 60 e non so se sentirmi giovanissimo o vecchissimo anch’io. Pavento catarri grassi, tossi asinine, borborigmi digestivi, dentiere che ballano tra le gengive, sordità gravi, cellulari dimenticati accesi e “eh?” a ripetizione. E invece saranno tutti bravissimi. Quando Quasi amici finisce, al primo titolo le luci vengono subito accese, con l’effetto di un flash al fosforo sulla retina. Tutto non si può avere, del resto. E il film? Beh, è indubbiamente piacevole per quanto con una trama abbastanza telefonata e che rischia pericolosamente di essere edificante. Dunque: Philippe è un ricco vero, sfondato, ma tetraplegico e condannato alla sedia a rotelle. Per scommessa assume come badante Driss, un giovane nero della banlieue dalla lingua scioltissima. Funzionerà a meraviglia. Recitazione inappuntabile di Omar Sy e François Cluzet, diversi momenti piacioni che effettivamente piacciono molto, sceneggiatura con qualche esitazione nel finale un po’ allungato. La scelta del terreno di confronto tra i due attori è notevole e la banalità del plot (tipico scontro che produce crescita reciproca tra due situazioni diametralmente opposte – ricco/povero, bianco/nero, vecchio/giovane, colto/ignorante, paralitico/ballerino, chiacchierone/laconico etc.) è attualizzata e resa vivace da una marea di idee: ogni episodio va a segno e si sorride anche per le situazioni e le facce, senza dare troppa enfasi alle battute. E poi devo dire che la regia non è pigra anche in termini fotografici, cosa rara in queste pellicole medie, per il grande pubblico. Film accattivante, gestito con delicatezza e altrettanta capacità di ridere grasso senza mai scadere nella volgarità, politicamente scorretto in maniera naturale, accettabile, senza che si voglia fare la faccia cattiva apposta. Poi, certo, è un film consolatorio, ma ogni tanto un po’ di consolazione, in questa vita, che c’è di male? Perché no? E detto tra noi, con l’emancipazione dello spettatore, quale film ormai non è consolatorio, che sia prevedibile o prevedibilmente imprevedibile, eh? (Questa non ve l’aspettavate, ma pensateci). (Cinema Rosetum, Milano; 11/10/12)

986 – Les amants réguliers di Philippe Garrel, Francia 2005
Sono 4 anni che mi aspetta lì, sulla mensola, messo tra le visioni urgenti. E poi ce n’è sempre una e si rimanda, sinché una sera – questa – frego Barbara e la inchiodo. Prima le propongo un Mizoguchi (giappo immoto in b/n), poi un Kalatozov del ’65 in russo e sottotitoli in inglese e infine Les amants réguliers. Che almeno è dell’ultimo decennio. La cosa le pare liberatoria, ma non le dico della durata: 3 ore secche. E non sapevo neanche io che saremmo stati chiamati a una tenzone di altri tempi: di Garrel ho giusto visto 14 anni fa J’entends plus la guitare, di cui ho ricordi vaghissimi e non precisamente entusiastici. Qui abbiamo dei giovanissimi reduci dal maggio ’68 appena trascorso, ancora tramortiti dall’esperienza. Artisti, studenti, fancazzisti che si ritrovano in una casa dove nascono amori, fughe, tradimenti. La prima ora del film è veramente una sfida ai nostri sensi anestetizzati da editing spedito, sintesi narrative estreme e ricchezza scenografica. Qui si parte lentissimi, con scene che durano eternità, senza che la semplice idea del montaggio abbia mai sfiorato la regia. È come se funzionasse da gradimento all’entrata: il regista seleziona il suo pubblico. Non siamo noi a sceglierci il film, e il film che procede alla decimazione e poi accoglie i sopravvissuti. Stringiamo i denti, non con qualche moto d’irritazione: se la sintesi è intelligenza, ti vien da pensare che Garrel sia stupido del tutto. Barbara è scocciatissima e non riesce a entrare nella vicenda, sbuffa e mi maledice: “Ma se io non l’ho mai sentito, ‘sto Garrel, ci sarà ben un motivo, no?”. Poi, però vieni trascinato dalla narrazione indolente e anche da un certo affetto per il protagonista François, poeta renitente alla leva e ribelle placido e innamorato. Perlomeno accade a me, conquistato nonostante un finale improvviso come una coltellata nella schiena. Non so bene come spiegarlo, ma questi ritmi, queste immagini antiche, questa inattuale messa in scena, riportano alla mia mente tanto cinema visto nei cineclub una decina di anni fa, La maman et la putain, Godard, Bertolucci ovviamente (e c’è un omaggio spudorato, con strizzata d’occhi in camera). È autoerotismo, lo so, ma chi dice che non abbia le sue qualità, eh? Il film è il racconto di una sconfitta in fondo produttiva (di esperienze, di conoscenza) dei giovani sessantottini di Parigi, ma senza la lagna del “quanto avevamo ragione”. Il regista ci fa vedere come fossero belli e puri i protagonisti di quell’epoca con semplicità, senza retorica, senza nostalgie reazionarie. C’è il rifiuto delle armi, la lotta con la (propria) paura, il volto duro della Legge e dei militari, la poesia come fuga e l’oppio che funziona sia come anestetico che da propellente della creazione e in ultima lettura anche come portatore di morte (intellettuale). Tanti temi, affrontati con un linguaggio autoriale sincero, quasi ingenuo, totalmente fuori tempo ma anche accordato a quell’estetica sessantottina: formato in 4/3, bianco e nero contrastatissimo, belle facce, pochi dialoghi emblematici che paiono ogni volta tranches di discorsi colti per caso, sussurrati, perché non c’è bisogno di declamarli. Musiche pianistiche suadenti (un incrocio innaturale tra Satie e i Beatles (!)) e l’improvvisa dissonanza di Nico (che era stata compagna del regista) con un brano straniante del 1981. L’attore principale è il figlio del regista, quel Louis Garrel già protagonista proprio di The Dreamers che fa andare in deliquio orgasmico qualunque femmina conosca; lei è l’intensa Clotilde Hesme. Bel film, carico di significati e memorie. Ah, questo film che parla d’amicizia e condivisione e chiacchiere e sorrisi e tradimenti, mi porta a segnarmi – come futuro ammonimento, se diventerò un vecchio bilioso e misantropo – che veramente avevano ragione Vinicius, Endrigo e pure Ungaretti: La vita, amico, è l’arte dell’incontro! (Dvd; 30/10/12)

990 – La bocca del lupo di Pietro Marcello, Italia 2010
Questo è un film splendido, un colpo al cuore immediato e un’endorfina a lento rilascio per il cervello. In breve è la storia d’amore tra Enzo e Mary, sottoproletari dell’angiporto genovese che s’incontrano e uniscono le rispettive difficoltà di vivere in una storia intensissima, lontana da ogni cliché romantico. Protagonisti loro – superstiti di un mondo del Centro Storico che sta scomparendo – e la città stessa. Le loro testimonianze – alcune riprese come confessioni esplicite, altre casuali, altre ancora recitate – si mescolano a immagini straordinarie di Genova durante il Novecento, tratte da film documentari e filmini amatoriali, testimoniando l’evoluzione spaziale e sociale di questa città incredibile. Ovviamente questo ha aumentato il mio delirio emozionale e sdraiato sul divano, era tutto un continuo rimbalzare gridandomi – da solo – “La mia facoltà di Architettura!”, “Santa Maria di Castello!”, “Sestri Ponente!” e così via. Inoltre in testa, a metà e in coda al film, tre parti liriche, con nuovi vecchi abitanti precari che vivono nelle grotte sotto il monumento di Quarto dei Mille (se non ho capito male). Il film – breve il giusto – lascia la voglia di saperne ancora: i due protagonisti, vessati da una vita veramente difficile, hanno finalmente trovato requie in una casetta sui monti sopra Genova, da cui si vede, lontano, il teatro delle loro esistenze tribolate. La storia non è immediata: Mary racconta Enzo ed Enzo rievoca solo a tratti, con un italiano incerto e coinvolgente, il suo passato carcerario (27 anni al gabbio, in tre periodi diversi) e le sue gesta criminali. La figura di Mary è più sfumata, fino al finale: un piano sequenza senza interruzioni in cui ancora una volta è Mary a svelare la sua identità di persona trans, la sua fuga da una famiglia borghese ostile, la solidarietà trovata nei carruggi. E poi l’incontro in carcere: Enzo rinchiuso per avere sparato a due poliziotti, lei eroinomane. Un amore fulminante, immediato e senza mediazioni: non si lasceranno più, si difenderanno dal mondo, continueranno a comunicare – dopo averlo fatto a gesti, nel silenzio delle celle separate da due spioncini – con audiocassette, lettere, disegni e brevissimi incontri in licenza. Una storia struggente e magnifica, messa in scena con rigore antico, senza MAI dire il nome De André, grazie a dio (e Fabrizio sarebbe stato contento!), senza inseguire pruriti morbosi del pubblico snobbetto che gode di film così, ma guai a metter piede nel Centro Storico (lo scrivo maiuscolo perché ce ne sono tanti, ma grande e ricco così, solo uno, quello di Genova). Bravi Pietro Marcello e Sara Fgaier (montatrice e tantissimo altro). Come tutti i film editi da Feltrinelli, il dvd si accompagna a un buon libro, curato da Daniela Basso ricco di testimonianze e di documenti accessori. Dario Zonta, uno dei produttori, racconta l’iter che ha portato a vincere diversi premi in tanti festival: un testo esemplare della fatica e della forza richiesta per fare qualcosa in questo paese, che si conclude con un paragrafetto che scolpirei nel marmo: in Italia basta realizzare un’opera – magari coi piedi – per attribuirsi subito una patente da artista: sono tutti pittori, scrittori, autori etc. E anche chi produce un film, magari un corto sgarrupato, diventa subito produttore. Ecco, lui e gli altri che hanno aiutato questo film a venire alla luce, sono i veri produttori che ci mancano. Bravi, veramente. (Dvd; 9/11/12)

991 – 3 giorni per la verità di Sean Penn, USA 1995
Sono a Genova, dai miei, e la città è ferma, immobile, bellissima. A sera, papà tira fuori un vecchio ritaglio di giornale dove un critico definisce il secondo film di Sean Penn “da non perdere” e siccome lui si fida del Sole24Ore e non del Cacace lo vediamo. E non vale niente. Cioè, poco: ho perso due ore della mia vita davanti a una pellicola con una fotografia smorta, attori mal diretti, musica di Jack Nitzsche purtroppo senz’anima (e pure una canzone di Springsteen anonima, francamente) e trama esagerata, poco credibile anche quando qualcosa di emozionale potrebbe emergere. Perché la storia è questa: lui, Freddy, è Jack Nicholson (bisognerebbe dirgli: se il film non è Batman, non devi comunque fare il Joker, eh) e non ha mai superato il trauma della morte della figlioletta di sette anni, investita da un guidatore ubriaco, John, che sta uscendo dal carcere, roso dal rimorso e con la faccia incolore di tale David Morse (massì, se lo vedete capite chi è: caratterista di tanti film con registro interpretativo limitato a tre smorfie: assente, basito, addoloratissimissimo). La madre della vittima, Anjelica Huston, se n’è fatta una ragione e vive tranquilla ma Freddy non ci sta, è ossessionato dal desiderio di vendetta e si brucia tra alcol, sigarette e spogliarelliste e quando John esce dal carcere dopo 5 anni va ad ammazzarlo. Ma non ha messo il proiettile in canna (!) e allora si trova un accordo: tra tre giorni ti faccio secco. Cosa che John quasi vorrebbe, essendo uno zombi che non riesce ad amare la bella Jojo (interpretata da Robin Wright). Dopo un’ora e trenta di scassamento di palle dovuti ad andirivieni narrativi neghittosi e compiaciuti dialoghi sentenziosi, Freddy fugge ai poliziotti che l’han fermato ubriaco (e vai di elicotteri… per un ubriaco, boh) e riesce a raggiungere John che lo aspetta in plastica posa con fucile con cannocchiale. I due si confrontano ed è quasi una gara a chi si fa ammazzare dall’altro per mettere fine al tormento, dello spettatore, però. Dopo un pochissimo credibile inseguimento asmatico (e ci credo: fumano tutti come turchi, con Penn – tabagista convinto – dietro la cinepresa) conclusione sulla lapide della piccina, con Freddy che la vede per la prima volta e nota che si tratti di una pietra color rosa. Poi i due si danno la manina e fine, the end. Bestemmie a non finire, ma solo mentali per riguardo dei vecchi genitori che subiscono la pellicola ammettendo che il Sole24Ore è nemico della classe lavoratrice e degli spettatori. Altre cose notate in questa schifezzina con pretese: Nicholson ha le lunghie laccate, giuro. Robbie Robertson (particina) dovrebbe solo suonare la chitarra. E poi (e parliamo di un direttore della fotografia altrimenti validissimo, Vilmos Szigmond), rallenti agghiaccianti, zoom da interdizione e luci al neon che facevano schifo durante gli Ottanta, figuriamoci se utilizzate a metà Novanta e viste oggi. Inoltre traduzione in italiano tremenda, ma la colpa è mia che preferisco vedere i film in originale e soffro di gran spaesamento quando sento i migliori doppiatori del mondo non andare a tempo col labiale dei doppiati e condire tutto con inflessioni dialettali. Concludendo questa tirata sicuramente scomposta: film dall’idea buona ma dalla drammaturgia bislacca e dalla messa in scena sovraccarica. Per cui: Penn, sei tanto bravo quando reciti però i film falli fare ad altri, eh. (La promessa, da Dürrenmatt, non mi era dispiaciuto ma chissà cosa mi passava per la testa. O forse Sean aveva imparato, nel frattempo. Boh, non importa). (Diretta su Sky Cinema Cult; 16/11/12)

994 – Diaz – Don’t Clean Up This Blood di Daniele Vicari, Italia 2012
Torno a casa distrutto da una giornata di lavoro spossante e – dopo cena – quando le pupattole accettano di andare a dormire, dopo denti, bidet, scelta dei vestiti, letture varie, implorazioni di ancora un minutino etc. etc. decidiamo di vederci un film. Ne scegliamo uno che ci tenga sulla corda, perché incombe il sonno, e non sbagliamo. Mi fa male ripercorrere la o le storie del G8, perché non c’ero, avrei voluto esserci, ma ho anche ringraziato il caso che mi ha impedito di partecipare. Diaz non ti molla un attimo: è un film importante e necessario (e lo so che sono termini abusatissimi e pericolosi, ma ho deciso che valesse la pena usarli), forse non esaltante in termini drammaturgici, però ben teso, diretto, senza sbrodolate, con pochissime sbavature (qualche dialogo didascalico). È un film che rinuncia al grido di dolore esagitato e militante (ed è un bene inestimabile) così come alla precisione assoluta di nomi, ore, luoghi, evitando un documentarismo che avrebbe reso sterile e non emotiva la narrazione. Certo: violento, sì, ma se avete visto i documentari con le immagini vere, vi assicuro che questa – al confronto – è una passeggiata di salute. Il racconto è corale, scomposto in termini temporali in modo intelligente, mettendo in scena le diverse anime dei manifestanti del G8 e senza dimenticare anche lo sconcerto di alcuni (pochi pochi) rappresentanti delle forze dell’ordine di fronte al cinismo, al sadismo e alla vendetta esercitata così brutalmente. E le scelte non sono per essenza democristiana quanto per trovare un equilibrio narrativo e per raccontare lo spaesamento di tutti. Cast a regime, ricco e ben diretto. Sulla pagina di Wikipedia leggo attonito i commenti di tanta stampa e, sarà perché io sono il Cacace, mi sembrano tutti sfocati, con addirittura un critico del Giornale (…) che lamenta la mancanza di scene con violenze dei dimostranti. E certo, perché così la lezione cilena alle zecche comuniste era più comprensibile, no? Io veramente non so perché devo pagare con le mie tasse lo stipendio a certa gente. (Dvd; 27/11/12)

995 – Millennium – Uomini che odiano le donne di David Fincher, USA 2011
Torno a Genova per il battesimo del terzo nipotino. E la sera, dopo parca cena, film su Sky, come vuole papà, che sceglie questo thriller tratto dal celeberrimo libro che ho letto 3 anni fa con mucho gusto. Millennium parte con Immigrant Song dei Led Zeppelin in versione industrial su titoli di testa stilosissimi e assolutamente inutili, messi giusto per fare sciato, come diciamo qui da noi. Però nella testa di regista e produttori il ragionamento è: se faccio sentire il pezzo vichingo dei Led Zepp ho già fatto capire di cosa parliamo, di gente che vive in quelle zone là, di là dall’oceano, in Scandinavia, Ikea, Volvo, tetrapak, robe così. E anche per quel che riguarda personaggi e contesto, non si perde un secondo, tanto il librone l’han letto tutti e magari qualcuno s’è già visto le riduzioni svedesi. Per cui si parte come se sapessimo ogni cosa (e mi evito anch’io qualunque riassunto): chi è Mikael Blomqvist e di cosa si occupi al giornale Millennium. E Lisbeth Salander, idem. Scene brevi, veloci, secche: un sunto concentrato, un bigino, un dado Liebig della vicenda, con una narrazione spezzettata e velocizzata che mi ha presto rotto le palle. Siccome si crede che l’abilità del montaggio sia fare tutto in fretta e furia, a stacchi frenetici, senza piacere del racconto, hanno pure pensato di dare l’Oscar al film. E vabbeh, cara Academy: ma allora la prossima volta premiamo un trailer, dài! E poi, la cosa più incredibile. Seguitemi! Siamo in Svezia, con personaggi svedesi che parlano – si suppone – svedese. E invece Blomqvist prende appunti… in inglese. E i suoi Post It sulla lavagna sono… in inglese. E Lisbeth Salander, tatua “I am a rapist pig”, sul suo tutore violentatore svedese, che così non potrà più avere vittime anglofone, ma svedesi forse. E poi: libri svedesi stampati in inglese, polizia svedese che redige rapporti in inglese, giornali svedesi con titoli e articoli in inglese… Ma non è straordinario, tutto ciò? Neanche durante l’autarchia fascista! Si vede che Fincher deve aver pensato: in che lingua cantavano gli ABBA? Inglese! Per cui la vera scoperta di questo film, il suo valore occulto e il messaggio rivelatore che ci passa questo regista che se la tira da novello Hitchcock è: VOI NON LO SAPETE MA GLI SVEDESI PENSANO, PARLANO E SCRIVONO IN INGLESE. Aaaah, ecco. Stupido io! Vabbeh: David Fincher è considerato un maestro della cinematografia attuale ma ogni volta che vedo un suo film mi pare che manchi sempre quello che per me conta veramente: le emozioni, il senso di ciò che si dice, la moralità dello sguardo. E sì che nel primo libro della trilogia di Millennium ci sono il nazismo civile, il fanatismo religioso, la grande imprenditoria maledetta e tarata, la giustizia sociale assolutamente ingiusta, il diritto all’informazione contro i poteri forti, i rapporti tra uomini e donne e l’insopportabile prevaricazione maschile. Bene: qui è tutto buttato in un calderone in nome della funzionalità del thrilling. Ed è per questo che Fincher, nel grande schema delle cose della MIA vita, non conta né mai conterà un cazzo. Perderò qualche grande film? Di sicuro, perché questo sa anche (non qui) mettere in scena da Dio, chi dice di no. Ma chi se ne frega: ho tante colpe, una più una meno finirò lo stesso all’inferno. Come voi, del resto. (Diretta su Sky Cinema 1 HD; 1/12/12)

997 – Funeral Party di Frank Oz, Gran Bretagna 2007
Zia Luisa è un po’ che me lo dice: guardalo! E io, da bravo nipotino, obbedisco. Funeral Party è una commedia nera, abbastanza teatrale, che bordeggia il grottesco e la farsa facendoti sghignazzare assai. Come da titolo siamo a una veglia funebre e l’occasione impone misura, discrezione, rispetto, in un ambito british già di per sé molto controllato. E ovviamente accade la catastrofe. Le scene divertenti lo sono molto, ma molto proprio, facendo ricorso a comicità bassa, grassa e scatologica. A volte le gag sono un po’ fuori dal tempo (si scopre che il defunto era gay e si accompagnava a un nano) e soprattutto è quasi sgraziato nella sua banalità il motivo perturbatore principale: una boccetta di Valium che contiene invece delle pasticche di droga allucinogena. Chiaramente fanno ricorso al medicinale diversi partecipanti alla cerimonia e da lì il delirio: la realtà trasfigura e diventa tutto verde, come accadeva a Duccio in Boris (forse era una citazione, chissà). Con attori bravissimi, il film è gradevole, lungo il giusto e non posso certo criticarlo se poi rido come un posseduto perché un personaggio mette le mani nelle feci di un paralitico. (Dvd; 10/12/12)

1001 – Breaking BadThe Complete First Season di Vince Gilligan, USA 2008
Alla fine abbiamo ceduto: tutti ci dicono che si tratta di una serie eccezionale e son costretto a smentire. Non è eccezionale, è MONUMENTALE. Il livello di scrittura è francamente pazzesco rispetto ad altri prodotti seriali televisivi e dal punto di vista della messa in scena non vedo niente di meno rispetto a una produzione per il grande schermo. Ma quello che poi ti stupisce di più, ti affascina, ti cattura e ti convince, è trattare – e con naturalezza – assieme argomenti come l’etica, il decorso di un tumore, la produzione e il consumo delle droghe, i rapporti familiari, l’handicap, le aspirazioni frustrate, il sistema sanitario americano… La serialità consente affreschi molto ampi ma qui si rimane ammirati dalla capacità di condensazione di così tanti temi, come il team di scrittura riesca a svilupparli con credibilità, come sappia trattare l’ambiguità umana con questa misura eccezionale. Giusto per capirci: Walter White è un insegnante di liceo che avrebbe potuto diventare milionario con le sue competenze da chimico. Ha una moglie incinta e un figlio handicappato. Una casa (con piscina) ancora da pagare e i conti al limite. E un tumore ai polmoni. L’aspettativa di vita è bassa e allora Walt decide di sfruttare il suo talento per produrre metamfetamina e mettere da parte qualche soldo da lasciare alla famiglia. Metamfetamina purissima, di qualità eccelsa. Ma ovviamente a ogni scelta, a ogni azione, chimicamente segue una reazione, le cui conseguenze però, a differenza che in un processo di laboratorio, non sono mai prevedibili. Da timido studioso si può diventare spietati e avidi, pur di difendere la tribù o gli affari che permettono di tirare avanti. E così proviamo di nuovo l’angoscia persistente dell’ultima serie di The Shield, quella maledetta spada di Damocle sopra la testa, il continuo sentimento di non farcela, che da un momento all’altro sarai fottuto, e ogni tentativo per uscire dai tuoi casini implicherà ripercussioni che peggioreranno le condizioni di partenza, già disperate. Ogni episodio ha un arco drammatico spettacolare, sono belli i dialoghi perché son scelte bene le parole, è curiosa la localizzazione, in uno stato – il New Mexico – che è frontiera, deserto, prossimità al mondo latino, nuove possibilità e vicolo cieco. Ed è notevolissimo il discorso sulle droghe, senza infingimenti o balle: con un realismo disturbante ci viene raccontato tutto su produzione, consumo, cultura, società (permeata dal vizio a tutti i livelli), repressione (la lotta patetica della DEA) e giustizia, con i pesci piccoli vittime e quelli grossi che continuano, perché la droga è un affare anche per chi la combatte e senza non ci sarebbe un nemico per cui chiedere armi e denaro. Bravissimi e credibili, sempre, gli attori (su tutti il protagonista Bryan Cranston), belle le musiche, perfetto il montaggio e le continue sorprese registiche. E poi c’è il cattivo Tuco (rimando a chi ha memorie leonine), beh: uno splendore unico, specie quando sniffa i cristalli. Serie di livello superiore. (Dvd; dicembre 2012)

1002 – Michel Petrucciani – Body and Soul di Michael Radford, Francia 2010
Come fai a raccontare veramente la vita di uno come Michel Petrucciani? Questo bel documentario è una visione succinta e sicuramente parziale della sua vicenda umana e artistica ma se una storia come la sua potrebbe essere raccontata per ore, il regista (quello de Il postino, ma non solo) decide di concentrarsi sul versante emozionale: c’è la musica ma soprattutto c’è la vita e il documentario (abbastanza basic nella rievocazione biografica ma ricchissimo di contributi e testimonianze) è un inno al potere dell’arte che riesce a lenire le ferite di un’esistenza difficile. La storia di questo pianista – un piccolo grande uomo dalle ossa fragili e dalle mani abilissime – ha dell’incredibile: affetto da osteogenesi imperfetta e nanismo, aveva una fame incontenibile di tutto: amore, droghe, musica. Petrucciani voleva vivere la vita fino in fondo, reale o di fantasia che fosse: era un incontenibile contapalle (in una delle testimonianze si specifica: “Bisognava dividere per dieci quello che diceva”), respingeva ogni pietismo, si sentiva e voleva vivere come tutti gli altri. Del resto: “Abbiamo tutti dei problemi, chi non ne ha?”. Sorridente, ironico, cialtrone, esagerato, presuntuoso, bugiardo, egoista e traditore: la sua storia è un continuo accompagnarsi e lasciarsi, segnata dal rapporto col padre (l’assenza dopo il primo successo, come la debordante presenza prima, quando lo ha tirato su con spietatezza e gelosia) e dal desiderio di lasciare qualcosa di sé, come i figli voluti ostinatamente. Radford non esita a raccontarci (o meglio, a farci intravedere) attraverso le sue cinque compagne e i tantissimi amici, il lato oscuro del piccolo pianista: alcune meschinità, l’arroganza e l’incapacità di impegnarsi seriamente. Ma il genio andava di pari passo a questa ansia di vivere tutto fino in fondo, di non lasciare nulla per strada. Poca analisi musicale (tecnica non ortodossa, grande velocità e capacità melodica, criticato spesso proprio per la sua accessibilità o il suo virtuosismo da critici coglioni e totalitari) e un consueto errore di pigrizia registica: nessuna didascalia per dirci chi parla. Però bel film, e che musica, mamma mia. (Dvd; 1/1/13)

(Continua – 85)

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Il nuovo disordine mondiale / 15: Follow the money! https://www.carmillaonline.com/2022/05/18/il-nuovo-disordine-mondiale-15-follow-the-money/ Wed, 18 May 2022 20:00:48 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=72027 di Sandro Moiso

Il nemico non è, no non è oltre la tua frontiera; il nemico non è, no non è al di là della tua trincea (Il monumento – Enzo Jannacci, 1975)

Nonostante la versione patinata di stile hollywoodiano della guerra fornita dalla propaganda occidentale, che continua a parlare di vittoria di Kiev e della NATO, ballando una sguaiata rumba sia sulla pelle dell’orso russo (non ancora acquisita, però, come trofeo) che su quella delle vittime civili e militari di entrambi i fronti in guerra, i fatti degli ultimi giorni, [...]]]> di Sandro Moiso

Il nemico non è, no non è
oltre la tua frontiera;
il nemico non è, no non è
al di là della tua trincea

(Il monumento – Enzo Jannacci, 1975)

Nonostante la versione patinata di stile hollywoodiano della guerra fornita dalla propaganda occidentale, che continua a parlare di vittoria di Kiev e della NATO, ballando una sguaiata rumba sia sulla pelle dell’orso russo (non ancora acquisita, però, come trofeo) che su quella delle vittime civili e militari di entrambi i fronti in guerra, i fatti degli ultimi giorni, se non delle ultime ore, rivelano uno scenario ben diverso da quello così superficialmente descritto. Soprattutto per quanto riguarda le alleanze economiche, politiche e militari che gravitano intorno agli Stati Uniti e all’Europa e che vanno man mano disfacendosi lungo i confini orientali di quest’ultima,

Un’immagine che potrebbe riassumere per tutte lo stato delle cose sul campo è quella della parziale resa e ritirata dall’acciaieria Azovstal di Mariupol dei buona parte dei difensori.
Simbolo dell’”eroismo” e della “resistenza” ucraina1 nel corso dei primi 82 giorni di una guerra destinata a durare ed allargarsi negli anni a venire, paradossalmente, è stato anche il primo contingente militare ucraino ad entrare, seppur parzialmente, in conflitto con Zelensky e il suo governo, proprio per il tentativo di quest’ultimo, molto simile a quello di Hitler con le truppe tedesche assediate a Stalingerado nell’inverno tra il 1942 e il 1943, di elevare i militari ad eroi destinati al martirio senza tentare di far alcunché, nemmeno sul piano delle trattative per cercare di salvarne almeno un certo numero.

Per cui, nonostante le ultime dichiarazioni rilasciate dal comandante del battaglione Azov, Denis Prokopenko, riferentisi alla necessità di obbedire agli ordini del comando supremo, e le divisioni intercorse tra gli stessi soldati sulla resa o meno, appare evidente che in realtà la trattativa per la resa e l’evacuazione dei feriti sia iniziata sul campo e in seguito alle proteste dei famigliari dei soldati del battaglione e dei marines ucraini ancora lì asserragliati, represse e disperse a Kiev nelle settimane precedenti, prima che a livello governativo e diplomatico.

Ora Zelenky deve far buon viso a cattivo gioco, ma è evidente che la completa soppressione dei combattenti del battaglione avrebbe permesso al governo ucraino di ottenere due piccioni con una fava ovvero trasformare i militari in eroici “martiri della Patria” e allo stesso tempo liberarsi dell’ingombrante bagaglio rappresentato, agli occhi dell’Europa più restia all’intervento, da una formazione militare ispirantesi all’iconografia e all’ideologia nazista.

Anche se tale resa è stata accompagnata dalle fotografie di unità ucraine giunte in qualche punto non meglio precisato del confine con la Russia, è chiaro che la situazione militare sul campo più che di stallo è ancora di lento ma progressivo avanzamento delle forze russe.
L’uso massiccio dell’artiglieria2 e le lente e costose, in termini di vite umane, avanzate delle fanterie, contraddistinguono da sempre, o almeno dalle campagne anti-napoleoniche in poi, le tattiche dell’esercito russo, imperiale un tempo poi staliniano e oggi putiniano.

Tattiche che in un momento in cui, come rilevano molti osservatori militari occidentali, la guerra si sta nuovamente trasformando in una guerra di trincea3, come quella del primo conflitto mondiale e del secondo sul fronte orientale, tornano a far pesare una tradizione militare che più che sulla velocità di azione conta sul territorio conquistato e solidamente fortificato per essere mantenuto nel tempo.
Mentre, al contrario, la guerra condotta con i droni danneggia gravemente il nemico, come le perdite russe in uomini e mezzi dimostrano, ma non permette di occupare o rioccupare saldamente i territori .

E’, in fin dei conti, il solito vecchio problema dei boots on the ground (scarponi sul terreno), che assilla soprattutto le forze armate USA successivamente alla guerra in Vietnam, il cui numero di vittime americane (70.000 morti e diverse centinaia di migliaia di soldati feriti o profondamente scossi sul piano psicologico) non potrebbe più essere sopportato dall’opinione pubblica di un paese sempre più diviso e impoverito. Lo stesso che, solo per fare un esempio, spinse il presidente Bill Clinton ad abbandonare la missione Restore Hope in Somalia, nel 1993, dopo poco più di due decine di caduti nella battaglia di Mogadiscio4.

Come ha affermato l’ex-generale Fabio Mini, sulle pagine del «Fatto Quotidiano»:

Ci viene detto che le forze russe sono state respinte a Kharkiv e la città è “liberata”. Non era mai stata occupata dai russi, bombardata sì ma occupata no. Come a Kiev, i carri armati russi se ne sono andati a fare altro e le forze ucraine in città sono rimaste esattamente dov’erano […] Sempre che Kharkiv sia un obiettivo che i russi vogliano veramente acquisire. E’ certamente un centro nevralgico delle comunicazioni tra Russia e Ucraina ed è una regione di confine parzialmente occupata dai russi fino a Izyum, dove da settimane risiede uno dei bracci della morsa sull’area di Kramatorsk […] Cosa facciano le forze armate ucraine in quest’area non è chiaro. Da un lato dichiarano che si riprenderanno anche la Crimea già annessa alla federazione russa, dall’altro si dedicano a lanci sporadici di missili sugli obiettivi navali individuati daglli americani (del Pentagono o della Raytheon) e all’uso maniacale delle sirene d’allarme aereo, come in tutto il resto del territorio ucraino. Una misura che ormai sembra più rivolta al controllo interno della popolazione attraverso la paura che protettiva […] La situazione tattica è quindi rallentata, ma non è di stallo e chi auspica una interruzione dei combattimenti o la loro escalation “una volta per tutte” dovrà pazientare5.

Se sul campo la situazione è quanto meno di stallo, non evolve certo in direzione favorevole all’Occidente, alla Nato e agli Usa neppure quella diplomatica e internazionale.
Basti pensare alla durissima presa di posizione di Erdogan e della Turchia rispetto all’ingresso nell’Alleanza Atlantica di Finlandia e Svezia. Con tale mossa il sultano di Istanbul opera sui tre fonti che lo vedono impegnato al rilancio di un nuovo impero ottomano: non allontanarsi troppo da Putin, favorendone le mosse senza rafforzarlo troppo; colpire sempre più duramente i curdi del Rojava per ottenere il controllo definitivo di buona parte della Siria e far pesare il ruolo politico, diplomatico e militare di un paese che è la seconda potenza militare della Nato dopo gli USA6.

Per autoritaria e reazionaria che sia la figura del capo di Stato turco, è evidente che, come si dice da tempo su queste pagine, la crescita esponenziale del ruolo della Turchia nel quadrante mediorientale e nordafricano e, in un futuro neppur troppo lontano, centro-asiatico rivela uno degli aspetti importanti di quel nuovo disordine mondiale, causato dalle disordinate e ingovernabili politiche di globalizzazione volute e dirette da Washington, che sta alla base del conflitto in corso.

Uno dei tanti aspetti da sempre poco sottolineati dai media mainstream e dai funzionari del capitalismo liberal e falsamente democratico, che avrebbe fatto dire a Fabrizio De Andrè: anche se non ve ne siete accorti, siete lo stesso coinvolti. Con buona pace di tutte le anime belle che ancora si interrogano se davvero sia già in corso una guerra tra Nato, Russia e, andrebbe ancora detto, tutti gli altri.

Una guerra che se da un lato rivela il sogno neo-imperiale di Putin, dall’altra vede gli USA cercare di ottenere diversi risultati, non tutti solo a scapito della Russia o della Cina, ma anche degli “alleati europei”. Una imposizione di politiche economiche e militari devastanti per l’economia delle principali nazioni europee, cui evidentemente Francia e Germania cercano di opporsi, seppure ancora con guanti di velluto.

Una politica che cerca di sostituire petrolio e gas russi con quelli estratti negli o dagli Stati Uniti, molto più costosi, nel tentativo di creare un’ulteriore dipendenza economica e strategica dell’Europa Unita in chiave americana. Scelta che sta frantumando non solo il fronte europeo, ma anche quello delle sanzioni e che in data 16 maggio ha visto, al momento dell’insediamento del nuovo governo Orban in Ungheria, una autentica, anche se interessata alla possibilità di ottenere una maggiore assegnazione di fondi (dai 2 miliardi di euro ai 15 richiesti), dichiarazione di alterità rispetto alle politiche e alle sanzioni messe in atto della UE, soprattutto nel settore delle importazioni di petrolio dalla Russia.

Occorre notare poi ancora come queste scelte politiche ed economiche già dividono l’Europa dei 27 tra Est e Ovest forse in maniera ancora maggiore che ai tempi della Guerra Fredda e della Cortina di Ferro, poiché penetrano in profondità negli interessi dei singoli paesi, frantumandone la coesione sociale e politica non soltanto, o almeno non ancora, sul piano della lotta di classe, ma soprattutto su quello degli interessi delle varie branche e settori produttivi oppure politico-elettoralistici.

Come, nell’italietta da sempre giolittiana, dimostrano gli altalenanti e preoccupati giudizi di una parte dei rappresentanti dell’industria7 e i mal di pancia elettorali di Conte, Salvini, Giorgetti e Berlusconi. Che hanno portato il 16 maggio alla mancanza, per ben tre volte, del numero legale in aula per l’approvazione del Dl Ucraina bis8.

E’ un’Europa che si sfalda in maniera evidente sotto gli occhi di tutti, al di là delle vuote frasi di principio di Ursula von der Leyen, Sergio Matterella, Enrico Letta o di qualunque altro illusionista di un’unità che, se c’è mai stata, oggi è sempre meno viva ed efficace. Sfaldatura e sbriciolamento che non può fare a meno di riflettersi pesantemente sull’euro, ovvero la moneta che avrebbe dovuto garantire l’unità politico-economica europea stessa e la sua indipendenza rispetto al “re dollaro”.
Re, quest’ultimo, la cui autorità viene oggi severamente messa in discussione non tanto da un euro esangue e sconfitto su tutti i piani, ma dalle stesse sanzioni che avrebbero dovuto indebolire gli avversari e rafforzare il ruolo degli USA e della loro moneta.

Se, infatti, nell’analisi della guerra fosse più frequentemente adottata una concezione materialistica accompagnata da un saldo riferimento all’inevitabile scontro tra le classi da un lato e a quello tra le nazioni e gli imperi dall’altro, più che porre l’attenzione su inutili disquisizioni sui diritti liberali o il diritto alla resistenza degli Stati, si coglierebbe tra gli elementi che hanno contribuito a scatenare il conflitto, con il suo corollario di morte e distruzione, quello dello scontro di carattere monetario ovvero dettato dalle necessità non soltanto di ordine geopolitico ed egemonico dal punto di vista militare, ma anche da quella di dar vita ad un nuovo ordine multipolare monetario destinato a sopravanzare e sostituire quello sorto a Bretton Woods nel 1944.

Con gli accordi siglati nella località statunitense, per la prima volta nella storia, si erano stabilite delle regole internazionali per i commerci e i rapporti finanziari fra le principali potenze economiche mondiali. Gli USA, che meno di dodici mesi dopo sarebbero usciti come assoluti vincitori dal conflitto mondiale, imposero al resto del mondo la loro valuta, il dollaro.
Venne infatti stabilito che il dollaro diventasse la valuta di riferimento per i commerci mondiali. Grazie a quegli accordi gli Stati Uniti imposero il dollaro, che era dipendente dalle decisioni prese dalla Federal Reserve e dal dipartimento del Tesoro Usa, al resto del mondo.

E’ chiaro che tale situazione, che favoriva l’utilizzo del dollaro per tutte le principali transazioni finanziarie internazionali riguardanti sia il mercato azionario che quello dei beni e delle materie prime, avrebbe nel tempo suscitato rivalità e tentativi di scalzare una supremazia della moneta americana che, contemporaneamente, favoriva sia una facilitazione per le transazioni economiche che il predominio degli USA sul mercato mondiale. Principalmente finanziario, ma non solo.

Prima dell’avvento dell’euro che, nel corso dei venti anni dalla sua adozione, si era ritagliato una quota del 20%, la percentuale degli scambi in dollari era ancora più alta, con lo yen giapponese, la sterlina inglese e il marco tedesco a giocare il ruolo di debolissimi comprimari. La nascita dello stesso aveva eliminato un concorrente nazionale, il marco tedesco, e fortemente ridimensionato il ruolo delle altre due monete.

Così, in realtà tale contrasto tra il dollaro e le altre valute scorre sotto gli occhi degli spettatori distratti da diversi anni a questa parte, almeno fin dall’entrata in vigore dell’euro. Valuta che fu creata, ancor prima che per unire monetariamente l’Europa, proprio per dare all’economia europea una moneta comune in grado di scalzare il potere del dollaro sul mercato mondiale. Motivo per cui, però, tardando ad affermarsi come moneta di scambio e di riserva, pari o di poco inferiore al ruolo svolto dalla moneta americana, ha per un certo periodo contribuito al mantenimento del ruolo centrale svolto da quest’ultima.

Non a caso, solo per fare un esempio, agli occhi americani si rivelò particolarmente perniciosa la proposta di Saddam Hussein di accettare il pagamento in euro del petrolio iracheno. Motivo che rese l’ex-alleato inviso agli Stati Uniti ben più delle sue presunte frequentazioni terroristiche e delle sue mai trovate armi di distruzione di massa.

La finanza, la weaponizing finance, è diventata così un’arma che al momento attuale sono principalmente gli Stati Uniti a voler utilizzare, contando sullo strapotere del dollaro nel sistema monetario internazionale. Applicata alla Russia, nel breve periodo e fino ad ora, non ha però ottenuto l’effetto devastante che ci si aspettava, anzi, come vedremo tra poco, ha danneggiato più i suoi utilizzatori, in termini di inflazione, aumento del valore delle materie prime e beni di prima necessità come il grano. Iniziando già a contribuire sia ad uno sviluppo delle contraddizioni tra le classi, come in Sri Lanka e Tunisia, sia tra gli interessi degli Stati presunti alleati, come l’impossibile accordo sul tetto al costo del petrolio e del gas e la posizione di diversi stati europei sulle sanzioni alla Russia cominciano a dimostrare ben al di là della semplice sfera economica.

Se per alcuni anni l’indebolimento dell’euro rispetto al dollaro è stato sfruttato in maniera concorrenziale dall’industria europea per favorire le proprie esportazioni, oggi con il cambio euro-dollaro giunto a 1,04 rispetto a quello di 1,20 di un anno fa o a quello di 1,45 di circa dieci/dodici anni fa, inizia a preoccupare seriamente gli investitori che prevedono che nel giro di qualche mese il ribasso potrebbe giungere ad una quasi parità tra moneta unica e dollaro (1,02 circa).

In altre parole, poco importa se l’inflazione nell’Eurozona sia schizzata al 7,5% in aprile, record storico da quando esiste l’euro. L’istituto non riesce ad alzare i tassi, perché teme che ciò provochi un innalzamento del costo del debito insostenibile per paesi come l’Italia. D’altra parte, la guerra in Ucraina sta colpendo direttamente il Vecchio Continente e per il momento non l’America. Dunque, la Federal Reserve sta alzando i tassi d’interesse e continuerà a farlo a passo veloce nei prossimi mesi per battere l’inflazione. La BCE ritiene di non poterselo permettere.
Per questo il cambio euro-dollaro sarebbe destinato a restare debole e a contrarsi maggiormente nei prossimi mesi. L’Eurozona rischia di entrare in recessione, per cui la BCE tentennerà sul rialzo dei tassi. Nel frattempo, la FED sarà pressata per battere l’inflazione, anche perché questo è diventato il capitolo più spinoso per l’economia americana prima delle elezioni di metà mandato a novembre. L’amministrazione Biden non può permettersi i lusso di lasciar correre ulteriormente i prezzi al consumo, altrimenti rischia una batosta storica in occasione del rinnovo del Congresso9.

Però il processo inflattivo acceleratosi a partire dall’inizio del conflitto ucraino ha fatto sì che la debolezza dell’euro si accompagnasse alla crescita dei prezzi del petrolio. Un anno fa, il Brent sui mercati internazionali era quotato meno di 68 dollari al barile. Allora, poi, il cambio euro-dollaro era di circa 1,21. E così un barile costava 56 euro. Ora le quotazioni salite, in aprile, sopra i 104 dollari e con il cambio euro-dollaro sceso a 1,06, un barile costa sui 98 euro, il 75% in più su base annua. Con tutte le conseguenze che si possono facilmente immaginare sia a livello di consumi privati, deprezzamento delle retribuzioni dei lavoratori e aumento generale del costo della vita accompagnato, in un prossimo futuro, da pesanti perdite, chiusure e licenziamenti in diversi settori industriali.

Ma fin qui ci porremmo ancora e soltanto sul piano dei conti della serva o di un ragionier alla Mario Draghi, poiché la weaponizing finance ha ottenuto anche ben altri risultati sul piano monetario.

Alla fine di gennaio, la Russia deteneva riserve in valuta estera per un valore di 469 miliardi di dollari. Questo tesoro è nato dalla prudenza insegnata dal suo default del 1998 e, sperava Vladimir Putin, anche una garanzia della sua indipendenza finanziaria. Ma, quando è iniziata la sua “operazione militare speciale” in Ucraina, ha appreso che più della metà delle sue riserve erano congelate. Le valute dei suoi nemici hanno cessato di essere denaro utilizzabile. Questa azione non è significativa solo per la Russia. Una demonetizzazione mirata delle valute più globalizzate del mondo ha grandi implicazioni […] Un denaro globale – uno su cui le persone fanno affidamento nelle loro transazioni transfrontaliere e nelle decisioni di investimento – è un bene pubblico globale. Ma i fornitori di quel bene pubblico sono i governi nazionali. Anche sotto il vecchio gold exchange standard, era così. […] Nel terzo trimestre del 2021, il 59% delle riserve globali in valuta estera era denominato in dollari, un altro 20% in euro, il 6% in yen e il 5% in sterline. Il renminbi cinese costituiva ancora meno del 3% delle riserve globali. Oggi, i fondi globali sono emessi dagli Stati Uniti e dai loro alleati, compresi quelli piccoli. Questo non è il risultato di una trama. I fondi utili sono quelli delle economie aperte con mercati finanziari liquidi, stabilità monetaria e stato di diritto. Eppure l’armamento di quelle valute e dei sistemi finanziari che le gestiscono mina quelle proprietà per qualsiasi detentore che teme di essere preso di mira. Le sanzioni contro la banca centrale russa sono uno shock. Chi, si chiedono i governi, sarà il prossimo? Cosa significa per la nostra sovranità? Si può obiettare alle azioni dell’Occidente per motivi strettamente economici: l’armamento delle valute frammenterà l’economia mondiale e la renderà meno efficiente. Questo, si potrebbe rispondere, è vero, ma sempre più irrilevante in un mondo di gravi tensioni internazionali. Sì, è un’altra forza per la deglobalizzazione, ma molti si chiederanno “e allora?”. Un’obiezione più preoccupante per i politici occidentali è che l’uso di queste armi potrebbe danneggiarli. Il resto del mondo non si affretterà a trovare modi per effettuare transazioni e immagazzinare valore che aggira le valute e i mercati finanziari degli Stati Uniti e dei loro alleati? Non è questo che la Cina sta cercando di fare in questo momento? Lo è. In linea di principio, si potrebbero immaginare quattro sostituti delle odierne valute nazionali globalizzate: valute private (come bitcoin); moneta merce (come l’oro); una valuta globale (come i diritti speciali di prelievo del FMI); o un’altra valuta nazionale, più ovviamente quella cinese10.

Ma un opuscolo recente di Graham Allison, dell’Università di Harvard, su The Great Economic Rivalry conclude che la Cina è già un formidabile concorrente degli Stati Uniti. La storia suggerisce che la valuta di un’economia delle sue dimensioni, sofisticazione e integrazione diventerebbe un denaro globale. Finora, tuttavia, questo non è accaduto. Questo perché il sistema finanziario cinese è relativamente poco sviluppato, la sua valuta non è completamente convertibile e il paese manca di un vero stato di diritto. La Cina è molto lontana dal fornire ciò che la sterlina e il dollaro hanno fornito nel loro periodo di massimo splendore. Mentre i detentori del dollaro e di altre importanti valute occidentali potrebbero temere sanzioni, devono sicuramente essere consapevoli di ciò che il governo cinese potrebbe fare loro, se lo scontentassero. Altrettanto importante, lo stato cinese sa che una valuta internazionalizzata richiede mercati finanziari aperti, ma ciò indebolirebbe radicalmente il suo controllo sull’economia e sulla società cinese. Questa mancanza di un’alternativa veramente credibile suggerisce che il dollaro rimarrà la valuta dominante del mondo. Eppure c’è un argomento contro questa visione compiacente, esposta in Digital Currencies, un opuscolo stimolante della Hoover Institution. In sostanza, questo è che il sistema di pagamento interbancario transfrontaliero cinese (Cips – un’alternativa al sistema Swift) e la valuta digitale (l’e-CNY) potrebbero diventare un sistema di pagamento dominante e una valuta veicolo, rispettivamente, per il commercio tra la Cina e i suoi numerosi partner commerciali. A lungo termine, l’e-CNY potrebbe anche diventare una valuta di riserva significativa. Inoltre, sostiene l’opuscolo, ciò darebbe allo stato cinese una conoscenza dettagliata delle transazioni di ogni entità all’interno del suo sistema. Sarebbe un’ulteriore fonte di potere. Oggi, il dominio schiacciante degli Stati Uniti e dei loro alleati nella finanza globale […] conferisce alle loro valute una posizione dominante. Oggi non esiste un’alternativa credibile per la maggior parte delle funzioni monetarie globali. Oggi, è probabile che l’alta inflazione sia una minaccia maggiore per la fiducia nel dollaro rispetto alla sua militarizzazione contro gli stati canaglia. A lungo termine, tuttavia, la Cina potrebbe essere in grado di creare un giardino recintato per l’uso della sua valuta da parte di coloro che le sono più vicini. Anche così, coloro che desiderano effettuare transazioni con i paesi occidentali avranno ancora bisogno di valute occidentali. Ciò che potrebbe emergere sono due sistemi monetari – uno occidentale e uno cinese – che operano in modi diversi e si sovrappongono a disagio. Come per altri aspetti, il futuro promette non tanto un nuovo ordine globale costruito intorno alla Cina quanto più disordine. Gli storici futuri potrebbero vedere le sanzioni di oggi come un altro passo in quella direzione11.

Non soltanto le sanzioni nei confronti della Russia possono dunque contribuire allo sviluppo di un autentico avversario valutario con la crescita della Cina e del suo peso finanziario, oggi non ancora pari a quello produttivo, ma hanno già contribuito ad un rafforzamento dello stesso rublo che, dall’inizio della guerra, non soltanto ha raggiunto, nei confronti del dollaro, un valore di scambio precedentemente mai conseguito12, ma si è di fatto anche imposto come moneta per le transazioni riguardanti l’acquisto di petrolio e gas da parte dei paesi occidentali13.

Nonostante i balletti e le recite a soggetto messe in atto formalmente da Bruxelles, è chiaro e sotto gli occhi di tutti che, al momento attuale, i paesi europei, Germania e Italia in testa ma anche Austria, Ungheria e altri, non possono fare a meno del petrolio e del gas russo (che solo per l’Italia costituisce il 38% delle importazioni energetiche) e che per tali motivi sono disposti a pagare in rubli, pur facendo finta di niente. Oppure ricorrendo all’escamotage proposto loro dal governo russo e dal colosso Gazprom di poter indifferentemente accedere a due conti del gigante russo del gas, uno in rubli e uno in euro/dollari poi riconvertibili in rubli dalla stessa Gazprom.

Insomma dopo giorni e settimane e mesi di discussioni su sanzioni e pagamenti, alla fine ad uscirne rafforzata è stata la Russia che per la prima volta può ottenere il pagamento delle sue materie prime in rubli, prima ancora che in dollari. Se questa la si vuol chiamare sconfitta lo si faccia pure, magari in omaggio all’Eurovision Song Contest e alla società dello spettacolo che in tal modo vuole farci intendere il mondo, ma perché allora in un recente editoriale il direttore della «Stampa» si è dimostrato così preoccupato da scrivere quanto segue:

L’euro ha forgiato un nucleo duro di paesi. L’Unione monetaria ci ha illuso di poter far da traino a tutto il resto, dalla difesa al Welfare. E di poter diventare , addirittura, valuta di riserva su scala globale. Oggi naufraga anche quella illusione sotto i colpi dei missili Kalibr e delle bombe al fosforo di Mosca. C’è un altro conflitto che non stiamo vedendo […] è la guerra per l’egemonia valutaria, che potrebbe spazzar via il poco che resta del pur già instabile “ordine finanziario” nato dagli accordi di Bretton Woods del luglio del ’44, quando il mondo incoronò Re Dollaro come moneta di riferimento dei commerci internazionali […] Oggi quel Regno, già periclitante, è insidiato dagli stravolgimenti geo-politici innestati dalla guerra santa di Putin. E l’America, che attraverso il dollaro controlla il 90% degli scambi globali e il 59% delle riserve delle banche centrali del mondo, combatte a distanza al fianco di Zelensky anche per difendere il suo trono valutario.
[…] Per togliere ossigeno allo Zar e al suo esercito, Washington e Bruxelles hanno varato sanzioni che hanno colpito finora 5.500 obiettivi russi […] Putin ha risposto imponendo l’obbligo del pagamento in rubli su tutte le forniture di gas e petrolio. USA e UE, dopo un secco rifiuto iniziale, stanno gradualmente cedendo al ricatto […] Questa escalation sancisce già l’inizio della fine di un sistema monetario “aperto”. L’uso massiccio ed esteso delle sanzioni è un formidabile dissuasore non solo politico, ma anche finanziario e commerciale […] Ma ora il fenomeno si sta allargando ed elevando a sistema. Ma proprio perché elevate a sistema, le sanzioni contribuiscono a minare la fiducia nel dollaro e spingono a cercare soluzioni valutarie alternative o parallele. Sta già succedendo. La Cina ha avviato trattative con l’Arabia Saudita, per convincere Riad ad accettare renmimbi al posto dei dollari nel pagamento delle forniture petrolifere. Pechino ha anche avviato lo sviluppo dello “e-yuan”, la sua moneta digitale, e del “China Interbank Payment System”, piattaforma autonoma per i pagamenti internazionali, con l’obiettivo di staccarsi il prima possibile dal circuito occidentale Swift. A Erevan, a metà marzo, si è svolto il meeting “Nuova fase della cooperazione monetaria e finanziaria tra l’Unione Economica Euroasiatica e la Repubblica Popolare Cinese” […] L’idea di Eurasia è esattamente questa: costruire un sistema monetario e finanziario internazionale “post-americano” […] Secondo Mosca e il cartello euro-asiatico il congelamento delle riserve valutarie russe nei conti di deposito delle banche centrali occidentali , da parte degli Stati Uniti, dell’UE e del Regno Unito, ha incrinato lo status del dollaro, dell’euro e della sterlina come valute di riserva globale. Ed è questo che impone un’accelerazione verso lo smantellamento dell’ordine economico mondiale imperniato sul biglietto verde.
Ecco dunque l’altra posta in gioco della guerra ucraina, che fa convergere Putin e XiJinping. L’attacco all’egemonia americana attraverso il dollaro […] Ovviamente non è detto che riesca. Ma il tentativo è avviato. E come minimo produrrà una riaggregazione tra società “chiuse” e una de-globalizzazione per zone di interesse […] In questa terra incognita, va da sé, chi rischia di cadere e farsi male è ancora una volta l’Europa con la sua moneta zoppa. Nell’ultimo anno l’euro si è già deprezzato del 15%. Nelle ultima settimane è scivolato a quota 1,04 contro il dollaro […] Un disastro, visto che il grosso della nostra inflazione è importata e deriva soprattutto dai costi proibitivi delle risorse energetiche14.

Bene, dopo questa autentica “confessione” di un rappresentante dell’informazione mainstream, è giunto il momento di tirare alcune prime conclusioni.

La prima è che non vi possono essere più dubbi sulla gravità del conflitto militare in atto e sull’inevitabilità del suo allargamento su scala mondiale, visto che è destinato ridefinire ruoli e posizioni di comando all’interno del controllo dei mercati, delle ricchezze e delle risorse mondiali.

La seconda è costituita dal fatto che tutte le attuali alleanze, soprattutto in Occidente, sono destinate a sfaldarsi e a diventare motivo di conflitto più che di mantenimento di un ordine qualsiasi o della pace.

La terza è che l’Europa ancora una volta sarà al centro del conflitto, con tutte le conseguenze che da ciò deriveranno.

La quarta, e per ora ultima, è che i giovani, le donne, i lavoratori, i ceti medi impoveriti, le classi che non hanno mai neppure potuto intravedere una possibilità di miglioramento delle proprie condizioni economiche e sociali e gli stessi soldati non hanno e non avranno alcun interesse a schierarsi e a combattere per l’euro, il dollaro, la sterlina, il rublo o lo yuan.

Non avranno alcun interesse a schierarsi con sistemi che attraverso lo sfruttamento della forza lavoro e dei corpi, l’estrattivismo, la proprietà privata, il Dio denaro e l’accaparramento nelle mani di pochi delle ricchezze socialmente prodotte hanno creato le condizioni del conflitto militare e di quello di classe in ogni angolo del globo.
E proprio su quest’ultimo punto si giocherà la sopravvivenza dell’intera specie e il suo divenire.

il nemico è qui tra noi,
mangia come noi, parla come noi,
dorme come noi, pensa come noi
ma è diverso da noi.
Il nemico è chi sfrutta il lavoro
e la vita del suo fratello;
il nemico è chi ruba il pane
il pane e la fatica del suo compagno;
il nemico è colui che vuole il monumento
per le vittime da lui volute
e ruba il pane per fare altri cannoni
e non fa le scuole e non fa gli ospedali
e non fa le scuole per pagare i generali, quei generali
quei generali per un’altra guerra…

N. B.
La canzone “Il monumento” è firmata per il testo e la musica da Jannacci, ma una nota all’interno del disco in cui era pubblicata nel 1975, “Quelli che…” , dall’etichetta Ultima Spiaggia di Nanni Ricordi, segnalava che il testo antimilitarista, era tratto da un volantino trovato durante l’inaugurazione di un monumento ai caduti; nella realtà era invece tratta da una poesia di Bertolt Brecht (pubblicata tradotta in italiano nel settembre del 1965 nel numero 6 della rivista Nuovo Canzoniere Italiano a pagina 32).

(Fine prima parte )


  1. Sull’argomento si potrebbe rivelare utile la lettura di Domenico Quirico, Azov, gli eroi impossibili serviti per la propaganda di russi e ucraini, «La Stampa», 18 maggio 2022  

  2. “Kiev deve fronteggiare le operazioni a sud e a est, settori in cui l’artiglieria ha un ruolo predominante, per le caratteristiche del territorio e perché i russi l’hanno sempre considerata una specialità: la stanno usando infatti in modo massiccio per «arare» le posizioni della resistenza. Vogliono distruggere le trincee ben costruite, ma anche piegare il morale. L’artiglieria permette infatti di colpire da lontano, rallentando o distruggendo le forze nemiche e consentendo al tempo stesso a fanteria e blindati di avanzare. I russi sono dunque incessanti nei tiri, come loro stessi raccontano nei bollettini ufficiali: soltanto martedì sono stati colpiti 400 siti, sostiene la Difesa russa.
    Dalla sua, Mosca ha l’esperienza, i numeri, la potenza: l’artiglieria è il cuore dell’esercito russo già dai tempi dell’Impero, nota l’Economist. Durante il precedente conflitto nel Donbass i suoi soldati erano in grado di agire nell’arco di 4 minuti dal momento in cui veniva identificato il target. Quell’operazione ha infatti avuto successo, anche grazie ad un arsenale vasto. Un suo lanciatore multiplo Smerch di progettazione sovietica può arrivare a 70 chilometri di stanza, un pezzo D-30 a 22, quindi i mortai pesanti trainati da mezzi (il Tyulpan) tra 9 e 20 chilometri, i veri semoventi corazzati capaci di arrivare fino a 30 chilometri. Le batterie inquadrano un’area, gli uomini sono assistiti dai droni e dalla ricognizione, quindi iniziano a martellare. Possono continuare per giorni, a patto di avere scorte a sufficienza, ma anche una rete logistica di livello: una singola «bomba» da 155 mm può pesare 50 chilogrammi”, da Andrea Marinelli e Guido Olimpio, La potenza russa contro gli aiuti esterni ucraini: il ruolo dell’artiglieria nella seconda fase della guerra, «Corriere della sera», 5 maggio 2022

     

  3. Si veda qui  

  4. Si veda in proposito il sempre utile e dettagliato film di Ridley Scott, Black Hawk Down, del 2001  

  5. Fabio Mini, Kharkiv né occupata né liberata. A Mariupol niente più resistenza, «il Fatto Quotidiano», 16 maggio 2022  

  6. Si veda, a titolo di esempio, Steven A. Cook, Ukraine’s War Is Erdogan’s Opportunity. «Foreign Policy», 29 marzo 2022  

  7. Si veda l’intervista a Paolo Agnelli, industriale leader nel settore dell’alluminio e presidente di Confimi Industria – associazione che raccoglie 45milaimprese e 650mila dipendenti – sulle pagine di «Verità & Affari» del 15 maggio 2022: Maurizio Cattaneo, «Draghi non faccia il ragioniere. Materie prime ed energia? Si rivede il baratto»  

  8. qui  

  9. Giuseppe Timpone, Cambio euro-dollaro sulla parità entro fine anno, ecco perché, «Investire oggi», 12 maggio 2022  

  10. Martin Wolf, Un nuovo mondo di disordine valutario incombe, «Financial Times», 29 marzo 2022  

  11. Martin Wolf, cit.  

  12. Si veda qui  

  13. Vanessa Ricciardi, Putin sta vincendo almeno la guerra del gas. Anche l’Italia si piega, «Domani», 12 maggio 2022  

  14. Massimo Giannini, L’Occidente prigioniero e il trono di Re Dollaro, «La Stampa», 15 maggio 2022  

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Il soprannaturale come strumento di libertà https://www.carmillaonline.com/2022/04/06/il-soprannaturale-come-strumento-di-liberta/ Wed, 06 Apr 2022 21:00:43 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=71296 di Paolo Lago

Paolo Zanotti, Trovate Ortensia!, Ponte alle Grazie, Milano, 2021, pp. 486, euro 22,00.

Trovate Ortensia! è un romanzo polifonico nel senso che possiede una pluralità di voci nel testo, secondo la definizione offerta da Michail Bachtin soprattutto in relazione ai romanzi di Dostoevskij. Si tratta di un’opera animata da più punti di vista, da più voci che si intrecciano e entrano in conflitto tra loro. Ma è anche un’opera aperta a una pluralità di stili e di registri nonché a una pluralità di ispirazioni. Non sono pochi, cioè, i riferimenti [...]]]> di Paolo Lago

Paolo Zanotti, Trovate Ortensia!, Ponte alle Grazie, Milano, 2021, pp. 486, euro 22,00.

Trovate Ortensia! è un romanzo polifonico nel senso che possiede una pluralità di voci nel testo, secondo la definizione offerta da Michail Bachtin soprattutto in relazione ai romanzi di Dostoevskij. Si tratta di un’opera animata da più punti di vista, da più voci che si intrecciano e entrano in conflitto tra loro. Ma è anche un’opera aperta a una pluralità di stili e di registri nonché a una pluralità di ispirazioni. Non sono pochi, cioè, i riferimenti letterari sui quali è imbastita la sua tessitura narrativa. Il romanzo giunge solo ora alle stampe ma è stato scritto circa vent’anni fa, sul finire degli anni Novanta, da uno dei più originali scrittori e saggisti contemporanei, Paolo Zanotti, scomparso prematuramente nel 2012.

La vicenda si svolge a Pisa, nell’ambiente universitario della seconda metà degli anni Novanta (lo stesso vissuto dall’autore e, fra parentesi, anche dal sottoscritto). A creare scompiglio fra i personaggi principali del racconto (Florian, regista del teatro “Sant’Andrea”, la sua fidanzata Emilia, l’ingegnoso Luca, il poeta Giacomo, il “seduttore punito” Simone, Oreste e Lodovico, padri rispettivamente di Florian e di Emilia), a un certo punto, sopraggiunge una bellissima ragazza sconosciuta, Ortensia, la cui identità è sfuggente e non definibile dal momento che assume anche nomi diversi a seconda della situazione, Viola, Lisa, Arabella. Ortensia è un personaggio fluido, nomadico, caratterizzato da una propensione naturale all’erranza, soprattutto notturna, aperto a una pluralità di ruoli e di identità ed è caratterizzato da tratti soprannaturali tanto da essere connotato, in diversi momenti, come una vampira. Anche un altro personaggio, Emilia, possiede in sé una fluidità di genere che si oppone al rigido schematismo maschile-femminile. A un certo punto, infatti, per mezzo di una vera e propria metamorfosi transgender, la ragazza si tramuterà – fasciandosi i seni e indossando abiti maschili, quasi come la protagonista del film Titane (2021) di Julia Ducournau – nel fantomatico fratello Edoardo, che ha abbandonato da anni la casa paterna per vivere all’estero.

E sul palcoscenico pisano (importanti, come vedremo, sono i riferimenti al teatro) agisce una sarabanda di personaggi che sembrano muoversi ininterrottamente da una parte all’altra della città, in un impianto narrativo tenuto saldamente insieme da una struttura di tipo picaresco. Il soprannaturale, però, non si insinua nella narrazione solo tramite il personaggio di Ortensia: ci sono altri personaggi evanescenti, eterei, onirici, connotati anche da una venatura a metà fra il diabolico e il buffonesco, come Tancredi, il gatto parlante di Florian, con tanto di stivali, che si esprime con una elegante cadenza francese da moschettiere, o come Titti e Osvaldo, i “fratellini infernali”, o il personaggio ambiguo e sfuggente di Francesco Paolo o, ancora, il misterioso Hermann Salice Contessa.

Chissà se, tra le fonti di ispirazione di Zanotti, figura anche Il Maestro e Margherita di Michail Bulgakov, uno dei più grandi scrittori russi contemporanei, nato a Kiev nel 1891. L’atmosfera fiabesca e onirica che si respira in Trovate Ortensia!, venata di soprannaturale, ricorda molto quella che ci avvolge se sfogliamo le pagine del capolavoro dell’autore russo. Secondo Francesco Orlando, “il soprannaturale è qui prima di tutto scatenamento dei precedenti leggendari dentro il quotidiano”1. Nella quotidianità della Mosca degli anni Trenta fanno irruzione una serie di personaggi dai tratti soprannaturali: Woland, un misterioso professore straniero esperto di magia nera (che altri non è se non il Diavolo in persona) e i suoi accoliti, tra cui incontriamo l’enorme gatto Behemoth che, insieme a Korov’ev (Fagotto) crea scompiglio in tutta Mosca con i suoi poteri magici; poi Azazello, che porta sempre un pince-nez con un vetro rotto, Hella, un vampiro femmina il cui nome è un chiaro riferimento a “Hell”, “inferno” e, infine, Abadonna, signore della guerra e servo di Woland. Secondo Orlando, questo romanzo “propugna anche di fatto una solidarietà tra soprannaturale e letteratura, dimensione privilegiata del diritto alla fantasia e alla libertà”2.

Anche il soprannaturale che pervade le pagine di Trovate Ortensia! dischiude una dimensione di fantasia e libertà: apre al lettore un immaginario liberato e trasforma i momenti quotidiani di una città in una sospensione magica e incantata, attraversata in alcuni momenti da connotazioni veramente orrorifiche e infernali. Come già accennato, i personaggi sono persi in un vortice nomadico e picaresco, impegnati in scorribande cittadine che diventano viaggi onirici e fiabeschi in spazi senza confini. Come sempre osserva Orlando, rifacendosi alle teorie freudiane, “come i giochi del bambino, la letteratura apre uno spazio immaginario fondato sulla sospensione o neutralizzazione della differenza tra vero e falso, uno spazio in cui vige il diritto di rispondere al piacere dell’immaginario”3. In uno spazio aperto ad un immaginario liberato si muovono anche i piccoli protagonisti di Bambini bonsai (2010), in cui Zanotti racconta con grazia e maestria il viaggio di Pepe e altri bambini in un futuro post-apocalittico e eco-distopico, verso la “casa-nave” di Petronella. In Trovate Ortensia! non sono solo i tratti soprannaturali a dischiudere una dimensione di fantasia e di libertà ma anche la stessa struttura “polifonica” della narrazione. Sono anche le svariate voci che agiscono nel racconto a offrire spazi di libertà, sono anche i diversi registri stilistici e lessicali, aperti verso un pastiche quasi gaddiano che bene ingloba nella narrazione parole ed espressioni del vernacolo pisano (i cui termini sono spiegati in un glossario alla fine del libro), a plasmare nuove aperture verso il piacere dell’immaginario. E, non da ultimo, a permettere le vie di accesso a una fantasia liberata è anche la natura enciclopedica dell’opera, cui si è già accennato, quella pluralità di generi e di autori che si nascondono dietro la tessitura narrativa.

Una natura enciclopedica che è riscontrabile fin dal titolo, il quale è una vera e propria citazione da Rimbaud, da H, un componimento delle Illuminazioni – nel quale l’enigmatica figura femminile è caratterizzata da “mostruosità” e “gesti atroci” – che si conclude proprio con le parole “trovate Ortensia” (“trouvez Hortense”). Del resto, un preciso rimando a Rimbaud lo possiede anche il personaggio di Florian, caratterizzato, durante uno dei suoi vagabondaggi per la città, come un “Pollicino rêveur incapace di rintracciare il filo della prossima mollica”. In La mia bohème, è lo stesso poeta francese a definirsi come un “Petit-Poucet rêveur” (“Pollicino sognatore”) mentre vagabonda per strade e osterie nelle notti di settembre. Il romanzo ritrovato di Zanotti è costellato anche da criptocitazioni, le quali, parafrasate, si inseriscono quasi naturalmente all’interno della narrazione, perfettamente inglobate e ‘naturalizzate’ nel testo ospitante. Ad esempio, nel momento in cui Francesco Paolo, nel suo giardino, è intento a sfogliare un libro sul Madagascar, sopraggiunge Ortensia come un’apparizione fantasmatica e l’autore commenta: “Perché gli spettri ti possiedano non c’è bisogno di una stanza, non c’è bisogno di essere una casa”, frase che appare quasi come una parafrasi dei seguenti versi di Emily Dickinson: “Non occorre esser camera né casa / per sentirsi invasati dallo Spettro” (One need not to be a chamber – to be Haunted / One not to be a House”).

Una spiccata letterarietà di fondo non risparmia neppure certe descrizioni trasognate dei personaggi. Nel momento in cui Emilia e Florian si incontrano per la prima volta, la reciproca attrazione che li travolge è rivestita di connotazioni romantiche venate di letteratura. Infatti, “Emilia era bella come una reincarnazione di Emilia Viviani, la Rapunzel dell’Ottocento rinchiusa nel convento di Sant’Anna e amata dal poeta Shelley esiliato a Pisa: Emilia Viviani, l’«anima amante che si slancia fuori del creato e si crea nel infinito un Mondo tutto per essa diverso assai da questo oscuro e pauroso baratro»”. Se Florian, nel guardare Emilia, possiede un filtro romantico e letterario, anche la ragazza, nel momento in cui vede il giovane per la prima volta, non è da meno: “E a questa apparenza di anima bella corrispondevano pensieri altrettanto romantici, se anche Emilia era riuscita allora a vedere in Florian, nei suoi riccioli e nella sua barba che sapeva di mare l’ultimo fiore di una lunga genìa di viaggiatori, pirati, avventurieri, liberatori della Grecia, garibaldini, anarchici cavalieri dell’ideale, partigiani, sessantottini e più in generale combattenti per la libertà”. Anche le descrizioni della città di Pisa sono incastonate in una dimensione letteraria e incantata. Se nella frase “in questo periodo, le notti di Pisa hanno qualcosa delle notti bianche”, la città toscana è immediatamente accostata all’immaginifica Pietroburgo di Dostoevskij, in quest’altro brano un po’ più lungo, la città, sotto lo sguardo di Ortensia, si trasforma letteralmente in uno scenario da romanzo:

Per le strade di Pisa, intanto, Ortensia cammina col suo passo ciondolante, eppure svelto e snello. Di tanto in tanto, senza fermarsi, sorride e ridacchia. Percorre via Vittorio Veneto, e poi via Battelli e via De Amicis fino all’arco e a piazza Gondole. Di lì inizia la scenografia notturna di via Santa Marta, e infine si arriva all’Arno. Dal ponte della Fortezza il fiume si vede più largo che dal ponte di Mezzo. Ci si può anche scendere e trovare un piccolo lembo di terra tra erbosa e sabbiosa. Ortensia si ferma sul ponte, ma guarda in alto. Al di sopra dell’Arno incombe un cielo romanzesco: metà turchino intenso, metà blu cobalto – forse domani pioverà (e forse è quello che stanno pensando tutti). Nella parte più chiara del cielo, le stelle vanno a comporre un percorso prefissato. Un aereo ne costeggia alcune e poi, sotto forma di automobile, si scontra con una stella più luminosa. Ortensia ridacchia e sorride, sorride e ridacchia, poi guarda al vecchio palazzo del lungarno Galilei, si rabbuia e se ne va (pp. 112-113).

Come in un esperimento di geopoetica, le vere strade di Pisa si trasformano in uno scenario narrativo e romanzesco. Con Trovate Ortensia! possiamo insomma divertirci a seguire un personaggio letterario sulla mappa reale di una città, come fa Umberto Eco con Parigi per scoprire “dove abitava quell’individuo reticente e misterioso che era Aramis”4 oppure a ripercorrere dal vero quelle stesse strade nella Pisa contemporanea che, da quella seconda metà anni Novanta, non è poi cambiata così tanto.

Una ben salda caratterizzazione letteraria (e musicale in quanto, in un’occasione, si trasforma quasi nella Marinella della celebre canzone di De André) la possiede anche Ortensia. Nella sua veste di personaggio etereo e fantasmatico viene infatti più volte avvicinata a una vampira. Non a una vampira qualunque, ma a Carmilla, la protagonista dell’eponimo romanzo di Joseph Sheridan Le Fanu del 1872, a cui si ispira anche il nome di questa webzine. I riferimenti alla vampira del romanzo dello scrittore irlandese vengono attuati anche tramite un sottile gioco allusivo, in quanto “Carmilla” è il nome di un locale di Pisa, molto frequentato dagli studenti nel periodo in cui si ambienta il romanzo. Ad esempio, a proposito di Viola-Ortensia così si esprime Luca: “Luca, per sdrammatizzare, gli disse che l’aveva scampata bella, perché questa Viola – che non a caso, beh, era finita al Carmilla – doveva essere tipo una vampira aliena che deve accoppiarsi, e all’uopo cerca il maschio più adatto […]”. E anche di fronte alle avances del “seduttore” Simone, Ortensia ha una reazione quasi vampiresca: “La reazione di Ortensia a queste effusioni si dimostrò, anzi, persino eccessiva, specie quando si chinò sul collo di Simone e iniziò a succhiarlo e baciarlo metodicamente, quasi a fargli male”. Successivamente, la ragazza appare preda di una misteriosa malattia – simile a quella da cui è afflitta Carmilla – che la illanguidisce e la fa dormire molto, rendendola ancora più evanescente ed eterea. Tra l’altro, ammalata, viene condotta a casa di Emilia, la quale le si affeziona nello stesso modo in cui, nel romanzo di Le Fanu, Laura, che vive con il padre in un castello isolato della Stiria, si affeziona alla languida e bellissima protagonista. E, non a caso, una volta che Ortensia si sarà ristabilita, Emilia progetta di portarla proprio al “Carmilla”: “Progetto per il prossimo fine settimana: la metto in tiro e la porto al Carmilla”. Un diretto rimando a Carmilla di Le Fanu è poi attuato da Florian, in riferimento alla possibilità che Arabella e Ortensia possano essere la stessa persona: “Però, se è veramente il suo vampiro, doveva averci il nome anagrammato: Carmilla-Mircalla. Ortensia, invece, non c’incastra con niente”. Si può ricordare che un riferimento alla protagonista del romanzo dello scrittore irlandese lo incontriamo anche in un racconto di Zanotti dal titolo La cella geografica (adesso, insieme ad altri racconti usciti sul “Caffè illustrato” fra il 2004 e il 2010, incluso nella raccolta L’originale di Giorgia e altri racconti, pubblicata nel 2017): qui, l’io narrante riveste di connotazioni quasi demoniche e soprannaturali una sua amica d’infanzia di nome Camilla, chiamata appunto con i due appellativi dei doppi di Carmilla, Mircalla e Millarca, anagrammi del nome della fanciulla vampiro.

Come già accennato, anche la dimensione teatrale riveste una notevole importanza in Trovate Ortensia!. Punto culminante della polifonia espressiva che anima l’intera narrazione è la messa in scena finale al “Sant’Andrea” del Racconto d’Inverno di Shakespeare: il teatro pisano si configura come lo spazio affabulatorio verso il quale convergono le erranze narrative del racconto e che vedrà riuniti tutti i personaggi. Il paradigma teatrale, nel romanzo di Zanotti, non è però rappresentato soltanto dal modello illustre di Shakespeare (pure se diverse opere dell’autore inglese appaiono come importanti ipotesti nel senso delineato da Gérard Genette). Esso compare anche, se così si può dire, in una sua dimensione più umile e popolare incarnandosi in una vera e propria rappresentazione di teatro vernacolare pisano attraversata dal registro stilistico più basso e buffonesco. Memorabile è la scenetta domestica, dominata da trovate comiche espresse con termini dialettali e popolari, che vede protagonisti il signor Lodovico, sua figlia Emilia, il signor Oreste e suo figlio Florian. Lodovico arriverà poi a trasformarsi quasi in un re che tiene imprigionata la figlia nella torre del suo castello per impedirle la frequentazione del pretendente Florian. Allora si scateneranno duelli, singolar tenzoni, avventure degne di un romanzo cavalleresco, monologhi drammatici in una granduignolesca mescolanza fra alto e basso.

Ogni dimensione narrativa appare dolcemente pervasa da un soprannaturale che, alleandosi con la letteratura, come osservava Orlando riguardo al Maestro e Margherita, permette il dischiudersi di un irrinunciabile diritto alla fantasia e alla libertà. È qui, credo, che risiede l’aspetto più significativo di Trovate Ortensia!, un vero e proprio gioiello letterario che finora era rimasto nascosto e che adesso, come un dispettoso e salvifico folletto, è riemerso dalle brume degli anni Novanta. E davvero, ai giorni nostri, c’è più che mai bisogno di una letteratura che, per mezzo di un immaginario venato di soprannaturale, possa offrire inediti slanci di liberazione a percorsi fin troppo obbligati. E allora ci rendiamo conto di quanto ci manca, oggi, la magica penna di Paolo Zanotti.


  1. F. Orlando, Il soprannaturale letterario. Storia, logica e forme, Einaudi, Torino, 2017, p. 159. 

  2. Ivi, p. 162. 

  3. Ivi, p. 22. 

  4. U. Eco, Lo strano caso di via Servandoni, in Id., Sei passeggiate nei boschi narrativi. Harvard University, Norton Lectures 1992-1993, Bompiani, Milano, 1995, p. 124. 

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L’immaginario di un secolo (tutt’altro che breve) https://www.carmillaonline.com/2021/06/17/limmaginario-di-un-secolo-tuttaltro-che-breve/ Thu, 17 Jun 2021 21:00:11 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=66628 di Sandro Moiso

Diego Gabutti, Maschere e pugnali. Utopisti e avventurieri da Platone a Nero Wolfe, Write Up Books, Roma 2021, pp. 466, 28,00 euro

Robert Louis Stevenson osserva che i personaggi d’un libro sono sfilze di parole. A questo, per quanto blasfemo ci possa sembrare, si riducono Achille e Peer Gynt, Robinson Crusoe e Don Chisciotte. A questo anche i potenti che ressero la terra: una seriedi parole è Alessandro, Attila un’altra. (Jorge Luis Borges, Nove saggi danteschi)

E’ una lunga esplorazione dell’immaginario del ‘900 quella che Diego Gabutti ci propone [...]]]> di Sandro Moiso

Diego Gabutti, Maschere e pugnali. Utopisti e avventurieri da Platone a Nero Wolfe, Write Up Books, Roma 2021, pp. 466, 28,00 euro

Robert Louis Stevenson osserva che i personaggi d’un libro sono sfilze di parole. A questo, per quanto blasfemo ci possa sembrare, si riducono Achille e Peer Gynt, Robinson Crusoe e Don Chisciotte. A questo anche i potenti che ressero la terra: una seriedi parole è Alessandro, Attila un’altra. (Jorge Luis Borges, Nove saggi danteschi)

E’ una lunga esplorazione dell’immaginario del ‘900 quella che Diego Gabutti ci propone con la sua ultima raccolta di scritti. Un secolo che supera certamente i cento anni canonici, visto che le radici del suo immaginario si allungano almeno fino alla metà dell’Ottocento, mentre i suoi rami più lunghi si protendono fino al primo ventennio di quello attuale. Un percorso temporale caratterizzato tanto da numerosi “fin de siècle”, mai definitivi, quanto da altrettanti ripetuti inizi.

Una coazione a ripetere e ripetersi che sembra, di fatto, la base reale di ciò che viene definito spesso come post-moderno e che, a sua volta, guardando con attenzione ai personaggi e ai miti ri/proposti da Gabutti con il suo solito stile beffardo, non fa altro che rimodellare un immaginario definito una volta per tutte (o quasi) dal medesimo modello sociale e di produzione affermatosi nello stesso periodo su scala planetaria.

Simile per molti versi a due delle raccolte di testi più belle di Geminello Alvi1, con cui condivide l’attenzione per personaggi come Emilio Salgari, Amadeo Bordiga, J.R.R. Tolkien e Charlie Chaplin, Maschere e pugnali se ne distacca per la capacità dell’autore di sintetizzare in ogni occasione una enorme quantità di osservazioni di carattere letterario, filosofico, politico e fantastico mantenendo dritta la barra della fantasia scatenata come forza e utopia liberatrice dalle miserie del vivere quotidiano. Affiancando però, a differenza di Alvi, i personaggi reali a quelli altrettanto vividi prodotti dalla fantasia di autori di ogni genere, e suggerendo così al lettore che la vita possa essere essenzialmente null’altro che un sogno, tra i tanti che l’immaginario, sia individuale che collettiva, finisce col produrre e riprodurre in continuazione.

Problematica che ben si adatta ad una collana, DELIRIA, della casa editrice Write Up e diretta da Marco Vettorato, il cui intento è quello di sottolineare che: « Ricordare è sempre immaginare. Ci sono realtà entro le quali l’ignoto prende forma: dietro la razionalità dubitante c’è il genio creativo, c’è il lato fantastico della ragione che non riesce a distinguersi dalla follia sognante ».

E’ un enorme favoliere quello che Gabutti ci propone con le sue pagine, che racchiudono la Storia del lungo Novecento nella sua dimensione più autentica: quella della affabulazione letteraria e della narrazione, sia che questa si presenti come singola o collettiva, tossica o innovativa oppure , ancora, “realistica” o “fantastica”. Una grande narrazione, spesso destinata a ripetersi con trame ed eroi, malvagità e miracoli, speranze e deliri che solo apparentemente esplodono dal “nulla” come novità. Si tratti di ideologie oppure di catastrofi, di violenza, di incubi, sogni o avventure tutto finisce col confluire in una gigantesca e continua ricostruzione e distruzione del mondo che le ha prodotte. Una sorta di demiurgo impersonale, prodotto da migliaia o milioni di personalità, che come afferma l’autore a proposito dell’opera di Tolkien:

non si limitò a inventare nuove storie e neppure semplicemente raccolse quelle tramandate dalle
nonne e dalle antiche tradizioni letterarie. Organizzò un intero universo che agisse da cornice perfetta e smisurata per quell’idea di fiabe che lo divorava […]
Diede forma a un intero mondo, anzi a un intero cosmo, completo di storia, di lingue vive e morte, di popoli e di specie animali, con una geografia e uno scenario culturale perseguiti fin nei dettagli […] Quindi lo farcì di storie e accadimenti, di saghe celesti e d’ombre tenebrose, fino a comporre un quadro immane e labirintico, così vertiginoso e dettagliato da stordire chi troppo a lungo vi avesse fissato lo sguardo. La Terra di Mezzo divenne così un mondo storico, non meno reale di quelli testimoniati nei libri di scuola, persino altrettanto orribile e pericoloso2.

Letteratura, giornali, cinema e fumetti contribuiscono così a creare e ricreare quel “mondo reale” in cui, più che vivere, fantastichiamo di vivere e in cui, per esempio, la Cina romantica e mitica di Edgar Snow

In balia di briganti, artisti di strada, orfani, prostitute e «intellettuali borghesi al servizio del popolo»; percorsa da sinistri signori della guerra e da generali comunisti simili a «soldati di Cromwell» (per citare Beppe Fenoglio) «col fucile a tracolla e la Bibbia nel tascapane», è stata per un po’ – prima di Piazza Tien An Men e d’Alibaba.com – l’equivalente radical dell’Inghilterra vittoriana, della Contea di J.R.R. Tolkien o della Parigi di Balzac: una terra immaginaria e un modello sociale, un miraggio nel deserto e un’utopia3.

Un’azione continua di costruzione e decostruzione dell’immaginario e, in fin dei conti, del mondo che vede quella che un tempo fu sbrigativamente liquidata come sovrastruttura rivelarsi come parte fondante della struttura e dell’ordine del discorso che la regge. Sia nell’arte del governo dell’esistente che del suo rovesciamento utopico. In un secolo in cui Batman e Stalin, Hitler e Superman, Sauron e Bordiga possono direttamente o indirettamente scontrarsi su piani che rinviano alle antiche saghe, rinnovandone i fasti con la potenza della stampa e dei massa media, del digitale o del technicolor.

Nuovi eroi, nuovi dei malvagi e nuove terre di mezzo o lande selvagge popolano continuamente l’immaginario della modernità; nuovi pericoli la minacciano e nuovi salvatori, in mutande e costume attillato oppure nel grigiore di giacca e cravatta si propongono per la salvezza della stessa.
Generali in divisa e drag queen piene di lustrini percorrono con la stessa naturalezza il palco dell’immaginario del ‘900. Si tratti di San Remo e della TV di oggi oppure della Berlino della fine degli anni ’20. I demoni di Dostoevskij possono essersi trasformati tanto negli hippy sbiellati al seguito di Charles Manson quanto negli esaltati combattenti dell’ISIS oppure riposare sotto le spoglie dell’impiegato cantato da Fabrizio De André in una delle sua ballate più celebri.

Un territorio, quello dell’immaginario di questo lungo secolo, in cui le funzioni dell’autore e dello spettatore, dello scrittore e del lettore, magari quest’ultimo insaziabile e compulsivo (come nel caso di Philip José Farmer citato nel testo), finiscono col fondersi in un’unica figura destinata a inventare e reinventare il mondo in continuazione. In uno scambio di ruoli, spesso involontario, in cui non si capisce più davvero chi crei e perché o, al contrario, perché distrugga per poi rifondare.
Alla fine sembrerebbe essere James Ballard, di cui Gabutti è gran conoscitore, a muovere i fili della faccenda anche se è l’unico a cui non sia stato destinato neanche un capitolo4.

Ma, sospendendo un’interpretazione che potrebbe farsi un po’ “ingombrante”, chi scrive questa recensione deve assolutamente rimarcare come la lettura del libro di Gabutti si riveli, ancora una volta, non solo stimolante ma anche estremamente divertente. Basterebbe infatti soltanto il capitolo dedicato alla ricerca da parte dell’autore della casa in cui sarebbe nato Nero Wolfe in Montenegro per fondere in una girandola di invenzioni e peregrinazioni (autentiche) la realtà con la fantasia, lo humour con la letteratura e la vita dello scrittore con quella del suo personaggi preferito.

Sono più di 160 i soggetti dell’antologia di recensioni, spunti di riflessione e articoli che ci vengono proposti nelle 450 pagine del libro (cui ne vanno aggiunte altre 15 soltanto per l’elencazione dei testi citati): da Bob Dylan a Ian Fleming, da Hugo Pratt a Marx e Engels oppure da Lord Greystoke (Tarzan) a Star Wars passando per Kerouac e Lucky Luciano, Orson Welles e Raymond Chandler.
In un’autentica enciclopedia che non dovrebbe mancare nella biblioteca di chiunque si occupi dell’immaginario del ‘900 e della funzione mitopoietica e creatrice della letteratura e della affabulazione mediatica.

“Ti passano un pezzo di carta coperto di lettere e numeri e tu devi tirarci fuori una partita di baseball. Crei il clima, dai un corpo ai giocatori, li fai sudare, brontolare, gli fai tirar su le brache a strattoni, ed è straordinario, pensa Russ, quanto trambusto concreto, quanta estate e quanta polvere la mente sia in grado di sollevare da una singola lettera latina piatta su un foglio.” (Don Delillo, Underworld)


  1. Geminello Alvi, Uomini del Novecento, Adelphi, Milano 1995 e G. Alvi, Eccentrici, Adelphi, Milano 2015  

  2. Diego Gabutti, Tolkien 2 (vita, morte e miracoli) in D. Gabutti, Maschere e pugnali, Write Up Books, Roma 2021, pp. 114-115  

  3. D. Gabutti, Edgar Snow in op. cit., p. 97  

  4. “In qualche modo, è difficile definire dove sia il confine tra sogno e realtà. Credo lo sia ancora di più nel nostro mondo moderno, dove l’ambiente esterno in cui tutti viviamo, ciò che siamo abituati a chiamare realtà, oggi è una fantasia creata dai mass media, dai film, dalla televisione, dalla pubblicità, dalla politica – che ormai non è altro che un ramo della pubblicità. Ho detto più volte che oggi stiamo vivendo all’interno di un enorme romanzo, come personaggi dentro una storia immensa. È molto difficile dire cosa sia la realtà. Un campo d’erba che cresce ai bordi di un’autostrada è più reale della pubblicità dell’ultimo film di Arnold Schwarzenegger?
    Quale dei due è la realtà? Io direi che la pubblicità di Schwarzenegger è più reale.” James Ballard, All That Mattered Was Sensation, intervista a cura di Sandro Moiso, Krisis Publishing, Brescia 2019, p. 37  

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Se sono chiuse le eterotopie del sogno https://www.carmillaonline.com/2021/01/18/se-sono-chiuse-le-eterotopie-del-sogno/ Mon, 18 Jan 2021 21:30:18 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=64576 di Paolo Lago

Oggi, a causa della pandemia, sono stati chiusi cinema e teatri, biblioteche e musei. Tutti questi spazi sono accomunati dal fatto di costituire, all’interno della nostra società, delle eterotopie. Tale definizione è stata coniata da Michel Foucault, in un suo intervento del 1967 dal titolo Des espaces autres, per definire i luoghi “che costituiscono delle specie di contro-spazi, delle specie di utopie effettivamente realizzate in cui gli spazi reali, tutti gli spazi reali che possiamo trovare all’interno della cultura, sono, al contempo, rappresentati, contestati e rovesciati, delle specie di luoghi [...]]]> di Paolo Lago

Oggi, a causa della pandemia, sono stati chiusi cinema e teatri, biblioteche e musei. Tutti questi spazi sono accomunati dal fatto di costituire, all’interno della nostra società, delle eterotopie. Tale definizione è stata coniata da Michel Foucault, in un suo intervento del 1967 dal titolo Des espaces autres, per definire i luoghi “che costituiscono delle specie di contro-spazi, delle specie di utopie effettivamente realizzate in cui gli spazi reali, tutti gli spazi reali che possiamo trovare all’interno della cultura, sono, al contempo, rappresentati, contestati e rovesciati, delle specie di luoghi che stanno al di fuori di tutti i luoghi, anche se sono effettivamente localizzabili”1. Le eterotopie sono degli “spazi altri” che costituiscono “una specie di contestazione, al tempo stesso mitica e reale, dello spazio in cui viviamo”2.

Secondo Foucault, teatri e cinema hanno la caratteristica di giustapporre, in un unico luogo reale, numerosi spazi tra loro incompatibili: nel teatro, sulla scena, vengono ricreati una serie di luoghi estranei gli uni agli altri; nella sala del cinema, invece, in uno spazio a due dimensioni ne viene proiettato uno a tre dimensioni. Cinema e teatri sono poi strettamente legati alla fantasia, alla libertà dell’immaginazione, al sogno. Quando entriamo in un teatro o in un cinema si entra veramente in uno “spazio altro”, uno spazio del sogno, in cui si materializzano davanti ai nostri occhi, come per magia, delle storie messe in scena da attori presenti lì in carne ed ossa oppure presenti in una sorta di altra dimensione, all’interno della pellicola proiettata. Il cinema si è sempre caratterizzato come una vera e propria macchina dei sogni: alle sue origini, infatti, altro non vi è che la “lanterna magica”, uno strumento che proiettava su una parete, in una stanza buia, delle immagini dipinte. Gli spazi del teatro e del cinema sono poi caratterizzati dall’essere al buio: in essi, durante lo spettacolo, è presente solo la luce sulla scena o quella emanata dalla proiezione. Lo spettatore del cinema, rilassato nel buio della sala, dà libero sfogo alla sua immaginazione di sognatore giungendo a identificarsi con i personaggi cinematografici. Il cinema e il teatro, perciò, possono essere definite come delle vere e proprie eterotopie del sogno.

Le biblioteche e i musei sono definite da Foucault come “eterotopie del tempo accumulato all’infinito”, in cui “il tempo non smette di accumularsi”3. Anche questi sono spazi della fantasia e dell’immaginazione: nelle biblioteche possiamo dare libero sfogo alla nostra immaginazione per mezzo della lettura; nei musei incontriamo la bellezza dell’arte che, spesso, si unisce a racconti e storie del tempo passato, vestigia e testimonianze che ci parlano e ci incantano. In tutti questi spazi, nei cinema, nei teatri, nei musei e nelle biblioteche cadiamo insomma preda di un vero e proprio incantesimo, entriamo in una dimensione magica, in un altro spazio e in un altro tempo liberati dalle dinamiche della quotidianità, grigia e banale, che ci aspetta fuori.

Fra i diversi tipi di eterotopie ce n’è una, secondo Foucault, che si configura come “l’eterotopia per eccellenza”, la nave. Essa è un “pezzo di spazio vagante”, “un luogo senza luogo che vive per se stesso” e che diventa un vero e proprio “serbatoio di immaginazione”, uno spazio del sogno e della fantasia liberata. In una precedente versione radiofonica del suo intervento, per descrivere tali qualità della nave, lo studioso francese usava tonalità più poetiche rispetto alla successiva: “Le civiltà senza navi sono come i bambini, i cui genitori non hanno un letto matrimoniale sul quale poter giocare. I loro sogni allora si inaridiscono; lo spionaggio si sostituisce all’avventura, e lo squallore della polizia prende il posto dell’assolata bellezza dei corsari”4. Da una parte abbiamo l’immaginazione, simbolicamente rappresentata dai pirati e dalle loro avventure; dall’altra la polizia, simbolo del controllo e dello “spionaggio”.

Al pari della nave, anche i teatri e i cinema, le biblioteche e i musei sono dei serbatoi di immaginazione. E quando sono chiusi, in un certo senso, ci viene negata la possibilità di immaginare, di sognare, di arricchire e curare una parte importante di noi stessi. Probabilmente, invece di una totale chiusura, nonostante la situazione di emergenza, si potevano mantenere gli accessi limitati e scaglionati, come nei negozi o nei centri commerciali. Ma le eterotopie del sogno non hanno certo un immediato ritorno economico. Non c’è quindi da stupirsi che siano state immediatamente chiuse (come anche un altro spazio eterotopico, la scuola) in una società dominata dal modello di sviluppo capitalistico, che insegue soltanto il profitto economico. Una società senza teatri, cinema, biblioteche e musei è – al pari di una “civiltà senza navi” – come un bambino “i cui genitori non hanno un letto matrimoniale sul quale poter giocare” e, allora, “i sogni si inaridiscono”.

I sogni e l’immaginazione si annientano anche quando le navi, eterotopie per eccellenza, sono costrette a fermarsi nei porti, quando vengono bloccate, per motivi economici o per gli interessi degli armatori; quando la loro libera erranza sulla distesa del mare viene negata e annullata. Di navi ferme, nella narrativa e nel cinema contemporanei, ne incontriamo diverse: pensiamo al romanzo di Álvaro Mutis, Ilona arriva con la pioggia (Ilona llega con la lluvia, 1988), in cui una nave, la Hansa Stern, viene bloccata a Panama, sequestrata dalle banche. Il protagonista del racconto, Maqroll il Gabbiere, marinaio della Hansa Stern, è costretto a sbarcare e ad affrontare il grigiore e la noia della vita a terra. Mentre la nave sta entrando in porto, i funzionari della guardia di finanza di Panama vi si avvicinano per salire a bordo ed effettuare i controlli. Nell’ingresso in porto, lo stesso aspetto del mare cambia: l’immaginifico “imprevedibile disordine” del mare aperto lascia il posto a una “palude grigia” disseminata di spazzatura e di uccelli marini in putrefazione, segnali del progressivo avvicinamento dello spazio della terraferma, quasi esso stesso paludoso e putrefatto. La noia, il controllo e la “polizia” sembrano avere il sopravvento e il comandante della nave, Wito, si uccide con un colpo di pistola. Il suicidio, di fronte al blocco forzato dei sogni del mare, appare anche l’unica alternativa al capitano della London Valour (“che si sparava negli occhi”) dopo il naufragio, nel brano di Fabrizio De André, Parlando del naufragio della «London Valour», in Rimini (1978). Anche in Marinai perduti (Les marins perdu, 1997) di Jean-Claude Izzo, una nave, l’Aldébaran, è costretta al blocco nel porto di Marsiglia, sequestrata dalle banche a causa dei debiti contratti dall’armatore. Marsiglia, a differenza di Panama nel romanzo di Mutis, si presenta come uno spazio generatore di nuovi sogni per i tre personaggi principali del racconto: il capitano Abdul, il suo secondo Diamantis e il giovane marinaio turco Nedim. Ma la nave bloccata nel porto può trasformarsi anche in uno strumento di contestazione e resistenza, come nel documentario di Peter Marcias, La nostra quarantena (2015), che riflette una situazione reale mostrando la vicenda di una nave bloccata nel porto di Cagliari e occupata da quindici marinai marocchini, senza stipendio da mesi. La nave ferma (stavolta non in un porto) si trasforma poi in uno spazio di contestazione “fuori dai confini” e “fuori controllo” nel film di Richard Curtis, I love Radio Rock (The Boat That Rocked, 2009), in cui una nave ancorata nel Mare del Nord viene trasformata da alcuni simpatici e squinternati deejay in una stazione radio pirata che trasmette musica rock illegale nell’universo perbenista dell’Inghilterra del 1966.

Se sono chiuse le eterotopie del sogno e se le navi sono bloccate, la “polizia” comincia perciò ad offuscare l’assolata bellezza dei corsari e la sua fantasia. Ma, forse, possono nascere e svilupparsi anche inediti e creativi percorsi di resistenza e di liberazione.


  1. M. Foucault, Eterotopie, in Id., Estetica dell’esistenza, etica, politica. Archivio Foucault 3. Interventi, colloqui, interviste. 1978-1985, Feltrinelli, Milano, 2020, p. 310. 

  2. Ivi, p. 311. 

  3. Ivi, p. 314. 

  4.  Id., Utopie Eterotopie, a cura di A. Moscati, Cronopio, Napoli, 2011, p. 28. 

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Fucilate Sartre https://www.carmillaonline.com/2020/11/04/contro-lopportunistica-accettazione-del-discorso-antirazzista-di-sinistra/ Wed, 04 Nov 2020 21:50:04 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=63345 di Sandro Moiso

Tommaso Palmi (a cura di), Decolonizzare l’antirazzismo. Per una critica della cattiva coscienza bianca, DeriveApprodi, Roma 2020, pp. 128, 9,00 euro

“Militante è colui che non smette mai di crescere e quindi di formarsi. Militante è colui che non si accontenta mai di ciò che ha già a disposizione, ma che si proietta costantemente verso la sfida e la messa a verifica delle sue insufficienze” (Tommaso Palmi)

Sulla base di quanto affermato dal curatore del testo appena pubblicato da DeriveApprodi, può essere utile e necessario sottolineare come, troppo spesso, [...]]]> di Sandro Moiso

Tommaso Palmi (a cura di), Decolonizzare l’antirazzismo. Per una critica della cattiva coscienza bianca, DeriveApprodi, Roma 2020, pp. 128, 9,00 euro

“Militante è colui che non smette mai di crescere e quindi di formarsi. Militante è colui che non si accontenta mai di ciò che ha già a disposizione, ma che si proietta costantemente verso la sfida e la messa a verifica delle sue insufficienze” (Tommaso Palmi)

Sulla base di quanto affermato dal curatore del testo appena pubblicato da DeriveApprodi, può essere utile e necessario sottolineare come, troppo spesso, anche il razzismo endemico del modo di produzione vigente e dell’immaginario che ne deriva sia presentato come un’eccezione, un errore di carattere prevalentemente culturale risolvibile con la forza della ragione. Quel crescere e formarsi dei militanti di cui parla Palmi si riferisce quindi esplicitamente alla necessità di superare una visione stereotipata del mondo e delle sue insufficienze, troppo spesso ispirata da una cattiva coscienza di origine borghese e falsamente democratica. Visione del mondo in cui il razzismo sembra solo più costituire una sorta di sogno o di incubo ritornante da un passato che la società moderna avrebbe già da tempo superato e accantonato.

Non a caso, proprio per chiarire la necessità di fare i conti con un passato che è invece ferocemente parte del nostro presente, il curatore inizia la sua recensione proprio con una citazione da Karl Marx (mica da individui insignificanti come Salvini o Giorgia Meloni oppure dai soliti dei malvagi di cui sono piene le pagine di libri di Storia scolastici) in cui il fondatore del comunismo moderno si lascia andare ad una serie di considerazioni tutt’altro che politically correct sui popoli delle colonie europee in Asia e Africa.

Lo fa, Palmi, non per sottoporre a critica severa l’autore originario di Treviri, ma piuttosto per storicizzarne le formulazioni e per dimostrare come alcuni assunti sulle condizioni di presunta “arretratezza”, non solo economica ma anche politica e culturale, dei popoli oppressi degli altri continenti abbiano finito per condizionare pesantemente la riflessione e la conseguente azione politica di coloro che pur si ritengono antirazzisti e di sinistra.

Le considerazioni del curatore, contenute nella bella introduzione, e quelle degli altri testi contenuti nel libro sono il risultato di un corso di formazione politica che si è svolto a Bologna, presso la Mediateca Gateway, nell’autunno/inverno 2019, con l’intento di fornire chiavi di lettura e categorie interpretative per decolonizzare il discorso e la pratica dell’antirazzismo italiano ed europeo. Cinque interventi ed un’intervista a Houria Buteldja1, che si focalizzano sulla compassionevole e falsificatrice rimozione della “razza” dal discorso storico e politico non solo ufficiale, ma anche di un certo antagonismo.

Qual è il presupposto da cui si dipanano le riflessioni contenute nel testo collettaneo? Sostanzialmente quello che il razzismo non sia una componente secondaria della società capitalistica e del suo prodotto sociale, ma piuttosto ne costituisca un fondamento essenziale. Forse il più importante insieme a quello della divisione in classi della società stessa. Ma mentre per la seconda si potrebbe affermare che in fin dei conti questa sia esistita in forme diverse fin dalla fine della comunità primordiale e dall’apparizione della proprietà privata della terra e dei mezzi di produzione, del primo si può dire che esso nasca con l’occidente moderno. Ed è per questo che tra le sue pagine si legge più volte che per coloro che si oppongono al razzismo la data di riferimento non può essere il 1789 ma il 1492.

D’altra parte, e non soltanto per salvaguardane il buon nome, fu lo stesso Marx a sottolineare, fin dal 1846, come:

La schiavitù diretta è il cardine del nostro industrialismo attuale proprio come le macchine, il credito ecc. Senza schiavitù niente cotone. Senza cotone niente industria moderna. Solo la schiavitù ha conferito alle colonie il loro valore, solo le colonie hanno creato il commercio mondiale e il commercio mondiale è la condizione necessaria della grande industria meccanizzata. Così le colonie, prima della tratta dei negri, fornivano al vecchio mondo pochissimi prodotti e non cambiarono in modo percepibile il volto del mondo. Perciò la schiavitù è una categoria economica della massima importanza. Senza la schiavitù l’America del nord, che è il paese più progredito, si trasformerebbe in un paese patriarcale. Si cancelli l’America del nord dalla carta delle nazioni e si avrà l’anarchia, la decadenza totale del commercio e della civiltà moderni. Ma fare scomparire la schiavitù vorrebbe dire cancellare l’America dalla carta delle nazioni2.

Schiavitù che nello “sviluppo” coloniale non assunse soltanto le caratteristiche dell’oppressione dell’uomo sull’uomo ma, anche e soprattutto, di una razza sulle altre. Far finta che questo abbia costituito soltanto un errore sul percorso del progresso significa rimuovere uno dei macigni che ancora tengono ancorata una parte consistente della classe operaia e del proletariato europeo, o più genericamente “bianco” come vediamo drammaticamente oggi negli Stati Uniti, agli interessi e all’immaginario del capitale. Anche quando di pensa progressista.

Non si tratta infatti di rimuovere una colpa attraverso la compassione o il soccorso umanitario (sia in loco che in mare), ma di prendere coscienza che la lotta antirazzista, esattamente come quella di genere, è un fattore dirimente all’interno del conflitto di classe e che, sostanzialmente, lo sopravanza. Come afferma infatti Palmi nell’introduzione:

questo libro vuole porsi in netta discontinuità con una lunga tradizione di studi sul razzismo che non ha mai fatto i conti con la sua matrice coloniale e ha scelto deliberatamente di non nominare la razza, rimuovendo dal discorso la materialità delle condizioni di subordinazione e sfruttamento dei soggetti razzializzati. Rovesciando questa impostazione, la volontà è quella di fornire alcuni strumenti fondamentali per leggere la realtà della composizione sociale razzializzata, senza ricrearne una rappresentazione edulcorata, eterodiretta e costruita introno a un’idea di vulnerabilità e dipendenza.
È su questo crocevia che si colloca la nostra critica della cattiva coscienza bianca. Lì dove la rimozione della storicità della razza significa occultamento della sua funzione strutturale e strutturante dell’ordine sociale.
Un antirazzismo che si dica ancorato alla materialità dei processi di razzializzazione non può prescindere da questo punto. Sacrifichiamo il moralismo pedagogico sull’altare di accademici e preti del conflitto. Non c’è nessuno a cui dobbiamo insegnare cos’è il razzismo, come non saremo noi, dall’alto del nostro paternalismo bianco e coloniale, a fornire ai soggetti razzializzati gli strumenti necessari a risollevarsi dalla propria condizione materiale e soggettiva. La ricomposizione della frattura razziale non è un dato sovrastrutturale di cui basta prendere coscienza, ma u n obiettivo politico da perseguire secondo processualità diverse e autonome 3.

Nella narrazione tradizionale, stereotipata e tossica, poi « Il regime fascista e le leggi razziali vengono assunti come forme idealtipiche del razzismo proprio in virtù del loro carattere di eccezionalità, che relega così le gerarchie della razza al ruolo di fugace comparsa nel processo di costruzione dell’italianità. Una coscienza lava l’altra e il dibattito pubblico italiano ci parla di un passato senza macchie», facendo così che

l’antirazzismo ha, in tempi recenti, preso dapprima la piega dell’educazione universale ai diritti dell’uomo e poi del richiami umanitario, definito nella crescita ipertrofica del sistema dell’accoglienza ed esacerbato dall’esplosione della cosiddetta «crisi dei rifugiati» […]
Quella umanitaria è divenuta a tutti gli effetti un’industria, entro cui il dispositivo razziale lavora senza sosta nella sua opera di valorizzazione e gerarchizzazione delle differenze. La retorica di cui questi contenitori si ammantano è spesso e volentieri quella delle forze della sinistra antirazzista, comprese quelle della cosiddetta sinistra radicale e dei movimenti sociali. Alternando un registro tragico e vittimizzante a uno paternalista, la figura del soggetto migrante viene metabolizzata per rispondere positivamente ai criteri di gestione e governo delle migrazioni internazionali. Quella che si spaccia per integrazione non risulta altro che la precisa collocazione dei e delle migranti all’interno di una più complessa catena di sfruttamento ed estrazione del valore […] La riproduzione dei rapporti sociali razzializzati passa innanzitutto attraverso forme di assimilazione dalle tinte arcobaleno, che parlano di educazione all’intercultura e rispetto dei diritti umani. Tirocini, stage, lavori socialmente utili e infinite altre tipologie di mansioni non retribuite, formalmente indirizzate all’inserimento del migrante nella società bianca e spesso sovvenzionate direttamente dallo Stato o dall’Unione Europea, agiscono in maniera ben più profonda e capillare nell’incanalare i soggetti razzializzati verso la loro collocazione subordinata e marginale di qualunque squadraccia dalle simpatie neonaziste. Non è il mercato degli schiavi di Lisbona e nemmeno il porto di Ellis Island. È l’etica illuminata della sinistra bianca, che generosamente raccoglie naufraghi in balia del Mediterraneo, per poi condannarli a una vita d’inferno fra galera, marginalità sociale e caporalato 4.

Negli altri contributi Miguel Mellino definisce la «crisi dell’antirazzismo europeo»; Anna Curcio ripercorre il filo rosso che tiene assieme la storia nazionale dal primo processo di unificazione fino all’incontro-scontro, piuttosto recente, con i grandi flussi delle migrazioni postcoloniali e con le nuove forme di gerarchizzazione fra Nord e Sud Europa, mentre Jamila Mascat propone una riflessione che punta a identificare razza e genere come forme specifiche della modernità capitalistica e Alvise Sbraccia propone una trattazione della relazione fra razzismo, crimine e criminologia, dove si individua la stretta relazione tra le matrici disciplinari della criminologia e la gerarchizzazione razziale figlia dell’esperienza coloniale, che insiste su l’attitudine delinquenziale del colonizzato. Infine Dhanveer Singh Brar, nel penultimo contributo, affronta il tema del pensiero politico legato alla blackness a partire dall’esperienza della diaspora, attraverso il richiamo a tre differenti prospettive, quella afroamericana,quella caraibica e quella britannica. A conclusione del volume un dialogo fra Anna Curcio e Houria Bouteldja fa il punto sull’antirazzismo decoloniale proposto dalla prassi teorico-politica del Parti des Indigènes de la République di cui è la portavoce. La conversazione ripercorre il rapporto con la sinistra francese, il rimosso coloniale e la narrazione eurocentrica della modernità e propone una critica tagliente all’astratto universalismo del femminismo bianco.

Occorre poi dire che proprio la Bouteldja riesce a coronare degnamente la raccolta di testi con un intervento radicale e interessante. Riuscendo a dare in sintesi alcune indicazioni politiche di cui coloro che si definiscono oggi nemici del capitale e del suo Stato dovrebbero tenere profondamente conto.

Noi indigeni affermiamo di non riconoscere la differenza fra sinistra e destra. Lo diciamo dall’inizio della nostra storia politica. Questa frattura della politica bianca non è un nostro problema. Per noi la distinzione fra sinistra e destra non ha alcun significato pregnante. Noi situiamo il nostro discorso sulla questione razziale, per questo «non 1789, ma 1492». Ma non è perché non la riconosciamo che questa differenza sparirà. Noi abbiamo la necessità imprescindibile di essere pragmatici e quando i membri della sinistra bianca si mobilitano contro i crimini della polizia diventano nostri alleati.
Tuttavia, perché questa sinistra possa posizionarsi rispetto alla questione decoloniale, deve in primo luogo operare una sorta di rivoluzione culturale e finalmente prendere in considerazione la questione razziale per intero. Deve far sua la critica all’eurocentrismo che pervade gli ambienti di sinistra. Nel libro ho scritto «fucilate Sartre». Perché le figure come la sua sono quelle che hanno permesso di perpetuare il crimine coloniale. Sartre è stato a lungo considerato fra i migliori esponenti del pensiero anticoloniale bianco ed europeo e negli anni Sessanta, ha ricevuto vari attacchi dall’estrema destra. In un certo senso i primi a fucilare Sartre sono stati loro, per la sua posizione a favore dell’indipendenza algerina e solidale alla causa vietnamita. Tuttavia, Sartre non è mai riuscito a farsi veramente carico del suo ruolo di intellettuale anticoloniale, poiché non è stato in grado di abbandonare la causa di Israele e sostenere il popolo palestinese. Per questo è rimasto bianco a tutti gli effetti. «Fucilare Sartre» ha precisamente il significato di fucilare la sinistra bianca5.

Nel corso del dialogo, Anna Curcio, infine, afferma: « Si potrebbe dire, riassumendo, che per abolire la razza bisogna innanzitutto nominarla, mettere le gerarchie razziali al centro del discorso politico antirazzista…» dando così modo alla Boutreldja di concludere:

Esattamente. Mettere la razza al centro per abolirla. Mettere in evidenza che esiste un razzismo strutturale dentro la società per combatterlo […] C’è la necessità di arrivare a un momento in cui la classe operaia bianca capisca che ha più interessi ad allearsi con noi, piuttosto che con la borghesia bianca. Si possono prendere molti esempi di questa dinamica, soprattutto rispetto ai Gilet Gialli, in quanto specificità francese. Avevamo molta paura all’inizio che il movimento dei Gilet Gialli si indirizzasse verso l’estrema destra, ma al contrario si sono progressivamente radicalizzati verso sinistra e hanno avuto modo di provare sulla propria pelle, attraverso l’attività politica, cosa volesse dire diventare bersaglio delle sistematiche persecuzioni della polizia. In questo modo è stato possibile trovare un punto di convergenza, nella violenza dello Stato e della polizia […]
Se si va alla ricerca del popolo perfetto, sempre pronto ad alzare la voce in nome della questione sociale, come piace pensare alla sinistra, la rivoluzione difficilmente sarà mai realizzabile. Noi non abbiamo problemi con quello che è l’essere «reazionario » delle classi indigene, perché siamo perfettamente consapevoli di quello che è lo stato politico dell’indigenato […] Diciamo a chiare lettere di essere un’organizzazione anti-integrazionista. Per noi la condizione di partenza per un movimento decoloniale è quella di mettere in discussione le strutture fondanti dello Stato-nazione e dell’imperialismo. Il nostro progetto e la nostra ambizione non è quella di diventare francesi6.

Ancora una volta con tanti saluti alle anime candide e alle belle addormentate nel bosco (sugli allori delle sconfitte passate), che dovrebbero almeno sforzarsi di imparare qualcosa dalle parole della Canzone del maggio di Fabrizio De André:

anche se voi vi credete assolti
siete lo stesso coinvolti.


  1. Della quale su Carmilla è stato recensito l’unico testo tradotto in Italiano, I bianchi, gli ebrei e noi (qui)  

  2. Karl Marx, Lettera a Pavel Valisevič Annenkov del 28 dicembre 1846 

  3. T. Palmi, Introduzione a Decolonizzare l’antirazzismo, p. 11  

  4. T. Palmi, cit., pp. 8-9  

  5. H. Bouteldja, Decolonizzare l’antirazzismo, conversazione con Anna Curcio in op. cit. pp. 111-112  

  6. H. Bouteldja, cit., pp. 114-117  

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