etica – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 20 Aug 2025 18:30:02 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Contro l’etica e la disciplina del lavoro che uccide https://www.carmillaonline.com/2023/09/15/contro-letica-e-la-disciplina-delle-stragi-sul-lavoro/ Fri, 15 Sep 2023 20:00:15 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78816 di Sandro Moiso

Sandro Busso, Lavorare meno. Se otto ore vi sembran poche, Edizioni Gruppo Abele, Torino 2023, pp. 190, 14 euro.

La recensione di questa indagine di Sandro Busso, edita dal Gruppo Abele, arriva per esclusiva colpa del recensore un po’ in ritardo, ma d’altra parte non vi potrebbe essere momento migliore per segnalarne l’importanza e indicarla come validissimo strumento per riflettere su quanto sta accadendo quasi quotidianamente nei cantieri e nelle fabbriche, a partire dalla strage di lavoratori avvenuta sui binari della stazione ferroviaria di Brandizzo.

Spesso, su Carmillaonline, chi [...]]]> di Sandro Moiso

Sandro Busso, Lavorare meno. Se otto ore vi sembran poche, Edizioni Gruppo Abele, Torino 2023, pp. 190, 14 euro.

La recensione di questa indagine di Sandro Busso, edita dal Gruppo Abele, arriva per esclusiva colpa del recensore un po’ in ritardo, ma d’altra parte non vi potrebbe essere momento migliore per segnalarne l’importanza e indicarla come validissimo strumento per riflettere su quanto sta accadendo quasi quotidianamente nei cantieri e nelle fabbriche, a partire dalla strage di lavoratori avvenuta sui binari della stazione ferroviaria di Brandizzo.

Spesso, su Carmillaonline, chi qui scrive ha sottolineato l’hybris, l’arroganza e la tracotanza, di un modo di produzione che pur di soddisfare le proprie ambizioni di guadagno non si preoccupa minimamente della salvaguardia della specie e dell’ambiente in cui dovrebbe soprav/vivere. Un distruttività che in nome del profitto e del “lavoro” non si perita nemmeno di salvaguardare o proteggere chi, per salari spesso da fame, si adatta ad accettarne le logiche e le richieste legate a una necessità di estrazione di plusvalore e plus-lavoro che risponde soltanto agli interessi immediati del capitale e dei suoi miserabili funzionari.

Anzi, si potrebbe dire che proprio dallo sfruttamento selvaggio della forza lavoro deriva quello dell’ambiente e delle sue risorse, tra le quali, è bene non dimenticarlo mai, il lavoro umano e l’intelligenza ad esso applicata sono forse da annoverare tra le principali per il prosieguo della specie e della sua riproduzione.

Però è proprio sul concetto di “lavoro” che lo scontro deve e dovrà farsi, così come è già avvenuto in passato, particolarmente cruento nel prossimo futuro. Proprio per liberarlo da ogni ambiguità e ogni residua permanenza di intesa tra interessi del Capitale e interessi della specie e della classe lavoratrice. Ed è proprio intorno a questo punto che la riflessione di Sandro Busso, professore associato di Sociologia dei fenomeni politici presso il Dipartimento di culture, politica e società dell’Università di Torino, che insieme a Eugenio Graziano aveva già curato l’edizione italiana di Disciplinare i poveri. Paternalismo neoliberale e dimensione razziale nel governo della povertà di Joe Soss, Richard C. Fording e Sanford F. Schram (Mimesis Edizioni 2022, recensito qui), si rivela particolarmente efficace.

In un testo destinato a portare la riflessione sulla necessità di ridurre l’orario lavorativo, più che ad aumentarlo a dismisura per chi già lavora escludendo dal circuito del lavoro regolare un numero sempre più ampio di giovani, donne e lavoratori di vario genere e provenienza, e su quella di migliorare le retribuzioni ad esso collegate, l’autore sembra non dimenticare mai, nemmeno per un momento, l’autentica lezione, o se si vuole il filo rosso, che corre lungo tutta la storia del movimento operaio: quello della lotta non “per il lavoro”, ma “contro il lavoro salariato” e lo smisurato sfruttamento dell’uomo sull’uomo.

Occorre qui ricordare che a caratterizzare la classe operaia e la sua funzione di innovazione rivoluzionaria, per Marx, non era tanto l’orgoglio del lavoro, ma la necessità di liberarsi proprio dalle catene di quel lavoro che la schiavizzava, abbruttiva e sfruttava senza sosta. Come ebbe infatti a ricordare più volte il rivoluzionario originario di Treviri, «la classe o lotta o non è». Affermazione non tanto apodittica, quanto chiarificatrice del fatto che per l’antagonismo sociale il termine classe nella sua essenza non costituisce una categoria sociologica, ma politica.

Nella classe sociologica il lavoratore e la lavoratrice sono individui dispersi in conteggi dal carattere puramente alfanumerico (occupati, disoccupati, etc.), di volta in volta valutabili attraverso il plusvalore prodotto (di cui è il PIL nazionale a render conto) oppure come vittime di uno sfruttamento “eccessivo ed erroneo”. Mai come protagonisti della propria esistenza collettiva e autori della trama del proprio futuro insieme a quello della specie.

Basterebbe riferire le frasi fatte piene di lacrime di coccodrillo, gli stanchi riti delle istituzioni e dei sindacati per cogliere questo aspetto, così come è stato fatto nei giorni successivi alla strage sul lavoro di Brandizzo, per comprenderlo al meglio. Si piangono gli oggetti e si ignorano i soggetti, comodamente liquidabili con le frasi di circostanza ammantate di pietà i primi, ma non riconoscibili e forse addirittura innominabili i secondi.

Troppo spesso si pensa, infatti, che il rifiuto del lavoro sia stata una bella e originale invenzione o teorizzazione dell’autonomia operaia degli anni ’70, dimenticando che il rifiuto del lavoro salariato, delle sue stimmate sociali, culturali, economiche e politiche e dell’interiorizzazione delle sue logiche è stato, già nel passato, l’elemento centrale delle lotte operaie più avanzate. Là dove i braccianti di Captain Swing incendiavano macchine e stalle dei proprietari terrieri che erano anche i datori di lavoro agli albori dell’Ottocento; là dove i minatori e ferrovieri americani impugnavano i winchester contro le squadre armate della Pinkerton e l’esercito federale alla fine del XIX secolo e là dove i giovani operai degli anni ’60 e ’70 lanciavano sanpietrini e molotov contro le forze dell’ordine che intervenivano per riportarli alla disciplina di fabbrica: là si manifestava la classe nel suo significato politico ovvero nel suo rifiuto di una condizione di sottomissione che proprio nel lavoro “ben disciplinato e organizzato” e nei suoi implacabili ritmi produttivi riconosceva spontaneamente il volto del suo avversario storico: il capitale.

Capitale che proprio intorno all’esaltazione del lavoro e del suo valore etico, dall’epoca del protestantesimo medioevale fino alla Rivoluzione industriale e dopo, aveva visto costituirsi la classe che ne avrebbe rappresentato gli interessi e l’essenza: la borghesia.

Per comprendere come l’etica del lavoro sia a pieno titolo da considerare come il prodotto di processi sociali, e non un immanente comandamento morale insito in ognuno di noi, è necessario tornare […] a quelle civiltà classiche che vedevano nel lavoro un’attività squalificante da riservare unicamente a chi si trovava ai livelli più bassi della stratificazione sociale. Solo adottando una prospettiva temporale così è possibile cogliere come la rappresentazione positiva del lavoro sia un fenomeno culturale estremamente recente e sostanzialmente riconducibile alla rivoluzione industriale del XIX secolo […] Il concetto di valore morale del lavoro è ovviamente di molto precedente l’industrializzazione, e il suo processo di estensione è almeno in parte graduale […] quell’impianto valoriale era diffuso in un ambiente estremamente ristretto e dinamico che si collocava (temporalmente) «tra il feudo e la fabbrica»: era il credo del capitalismo preindustriale […] il binomio grazia-ricchezza rendeva quell’etica un tratto distintivo dei «salvati»1.

Un tale «stato di grazia» attribuibile al lavoro lo si può, in fin dei conti, riscontrare anche in slogan triti e ritriti, e oggi decisamente populisti, spesso con un fondo di intrinseco razzismo, come «Chi non lavora non mangia!». Ispirato sicuramente in origine dall’odio contro la borghesia e gli imprenditori, ma che rischia di rivoltarsi contro la stessa classe lavoratrice quando questa, come in passato e ancor ai nostri giorni, pencola sempre più tra lavoro e non lavoro, tra proletariato occupato e proletariato marginale (lumpenproletariat).

Quello che succede a metà del XIX secolo è un processo di «astrazione», in cui tutti i lavori divenivano nobili, indipendentemente dal prestigio o dalla ricchezza che ne poteva conseguire, ma unicamente per l’atto in sé. Questa estensione rispondeva a un obiettivo politico: utilizzare la dimensione morale per giustificare le condizioni di lavoro di una crescente massa di proletariato e dunque garantirsi la sua «collaborazione» senza bisogno di eccessi di coercizione […] Le prescrizioni dell’etica del lavoro sono incredibilmente stabili nel tempo, non mutano a seconda dei soggetti che la predicano e comportano sempre «l’identificazione e la dedizione sistematica al lavoro salariato, l’elevazione del lavoro a centro della vita e l’affermazione del lavoro come un fine in sé»2.

Come dire che il proletariato deve fare di necessità virtù e di ciò accontentarsi, come la deriva sindacale e delle politiche di sinistra sembra predicare e aver fatto sua ormai da decenni. Anche al di là di una riflessione non solo di classe, ma anche di genere. Busso, infatti, sottolinea ancora, grazie alle le ricerche della studiosa femminista Kathi Weeks, come le due strategie del femminismo delle prime due ondate:

tanto quella che si è concentrata sull’ingresso delle donne in tutte le forme di lavoro salariato, quanto quella mirata a ottenere il riconoscimento sociale e la pari responsabilità degli uomini per il lavoro domestico non salariato non abbiano problematizzato il lavoro, ma anzi l’abbiano considerato una leva materiale e simbolica imprescindibile.
Un meccanismo analogo può essere rintracciato adottando altri sguardi. A ben vedere, per quanto eretico possa sembrare, possiamo pensare che il valore in sé del lavoro sia uno dei pochi tratti ad accomunare operai e borghesi o che si ritrova su entrambi i lati della lotta di classe o nelle retoriche tanto di progressisti quanto di conservatori. Addirittura, la si trova al centro della lotta generazionale: giovani desiderosi di dire la loro nel mondo del lavoro contro anziani che rimproverano una mancanza di etica e di spirito di sacrificio. Il risultato è una chiusura dello spazio discorsivo che porta con sé la scomparsa delle alternative3.

Alternative che, oggi, si riferiscono solo e sempre all’interno dei diritti individuali distribuiti dall’ordine liberale del mondo e in cui tutti devono essere oggetto di legge ma non soggetto di cambiamento radicale e definitivo dell’esistente (delle sue stragi, distruzioni e guerre).

Ed è esattamente questo meccanismo che rende l’etica del lavoro uno strumento disciplinare molto efficace, che lo trasforma in un elemento che accomuna tutti e genera identità collettiva occultando come i benefici che ha portato non sembrano essere per nulla equamente diffusi. In fondo , riprendendo un aforisma attribuito al sindacalista statunitense Lane Kirkland, «se il duro lavoro fosse davvero una cosa così preziosa, i ricchi lo avrebbero tenuto tutto per loro»4.

Su queste note si rende necessario chiudere la recensione di un testo utile e ricco di spunti che, alla luce di avvenimenti come quelli legati alle sempre più frequenti morti sui luoghi di lavoro, occorrerebbe leggere con estrema attenzione. Specie se si è giovani, donne, lavoratori precari o disoccupati, disposti a tutto pur di avere un lavoro, anche a costo della vita stessa. Poiché la morte, che ormai troppo spesso attende in agguato chi lavora, non è un errore di percorso o «un oltraggio alla convivenza civile» come ha affermato la più alta carica dello Stato in occasione della morte dei cinque operai a Brandizzo, ma l’estrema espressione di quello sfruttamento mascherato da norma universalmente condivisa che costituisce altresì la base della più incivile forma di convivenza sociale.


  1. S. Busso, Lavorare meno. Se otto ore vi sembran poche, Edizioni Gruppo Abele, Torino 2023, pp. 91-93  

  2. S. Busso, op. cit., pp. 93-94  

  3. Ivi, pp. 94-95  

  4. Ibidem, p. 95  

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Immaginari seriali. Rough heroes televisivi https://www.carmillaonline.com/2017/05/03/37635/ Tue, 02 May 2017 22:01:26 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=37635 di Gioacchino Toni

boardwalk-empire-222Da qualche tempo numerose serie televisive di successo hanno dato spazio a protagonisti che poco hanno a che fare con gli eroi (e gli antieroi) tradizionali. Basti pensare, ad esempio, a produzioni della HBO come The Sopranos (1999-2007), The Wire (2002-2008), Boardwalk Empire (2010-2014) e True Detective (2014-in produzione), della Fox come The Shield (2002-2008), Sons of Anarchy (2008-2014) o, ancora, della AMC come Breaking Bad (2008-2013).

La presenza massiccia di protagonisti atipici in molte serie televisive contemporanee ha spiegazioni sia di ordine sociale-culturale che di ordine narrativo.

Andrea Bernardelli, [...]]]> di Gioacchino Toni

boardwalk-empire-222Da qualche tempo numerose serie televisive di successo hanno dato spazio a protagonisti che poco hanno a che fare con gli eroi (e gli antieroi) tradizionali. Basti pensare, ad esempio, a produzioni della HBO come The Sopranos (1999-2007), The Wire (2002-2008), Boardwalk Empire (2010-2014) e True Detective (2014-in produzione), della Fox come The Shield (2002-2008), Sons of Anarchy (2008-2014) o, ancora, della AMC come Breaking Bad (2008-2013).

La presenza massiccia di protagonisti atipici in molte serie televisive contemporanee ha spiegazioni sia di ordine sociale-culturale che di ordine narrativo.

Andrea Bernardelli, docente di semiotica all’Università di Perugia, nel suo saggio Cattivi seriali. Personaggi atipici nelle produzioni televisive contemporanee (2016), pubblicato da Carocci editore, ha analizzato tale fenomeno passando in rassegna i principali studi, soprattutto anglosassoni, che se ne sono occupati.

In una recente pubblicazione Jason Mittel (Complex Tv: The Poetics of Contemporary Television Storytelling, 2015) collega la presenza nelle produzioni recenti di tanti antieroi problematici alle particolari strutture narrative seriali televisive; le figure problematiche si legherebbero pertanto alla scelta di produrre serie complesse ed elaborate. Conviene però fare qualche passo indietro e partire, come fa Bernardelli nel suo saggio, dalla classificazione dei personaggi di finzione proposta da Aristotele che li distingue in base a quale persona reale essi intendono imitare; dunque si possono avere personaggi migliori di noi, peggiori di noi o come noi. Northrop Frye (Anatomy of Criticism, 1957) all’aspetto “morale” della classificazione aristotelica sostituisce la capacità d’azione del personaggio che può dunque palesare una capacità migliore, peggiore o uguale alla nostra. Da ciò deriva una griglia di classificazione dell’eroe associata ai generi letterari. Tale classificazione, sottolinea Bernardelli, diviene applicabile anche a livello sovrastorico permettendo una cartografia di macrogeneri narrativi.

Umberto Eco (Apocalittici ed Integrati,1964) affianca al personaggio caratterizzato in modo da elevare l’individualità a tipicità proposto da György Lukács, il personaggio topos, cioè convenzionale e facile da riconoscere ed accettare dal lettore che si identifica in esso senza fatica permettendogli di concentrarsi sulla sola azione. Si tratterebbe di un personaggio senza spessore, una sorta di eroe pop attorno al quale Eco delinea la figura del superuomo di massa. Già queste tipologie di eroi, continua Bernardelli, mettono in crisi il concetto di figura eroica con connotazione positiva.

Per quanto riguarda l’ambito dei cattivi – del tutto cattivi – che si contrappongono specularmente agli eroi positivi – del tutto positivi -, si ha una lunga tradizione sia nella letteratura che nel cinema. Nel mondo anglosassone questa figura piatta, stereotipata, del cattivo-solo-cattivo viene chiamata villain. Nelle narrazioni tradizionali eroe ed antagonista sono tendenzialmente costruiti come personaggi privi di sfumature sulla falsariga di quelli che Eco definisce topoi ed è tra queste polarità che è possibile costruire/individuare le figure degli antieroi, tanto protagonisti antieroici, quanto antagonisti antieroici.

A partire dalla presa d’atto che non può esservi equivalenza automatica tra la figura dell’eroe e quella del protagonista, nel suo saggio Bernardelli propone una fenomenologia dell’antieroe. Il rovesciamento delle caratteristiche peculiari dell’eroe (coraggio, moralità ecc.) «può portare alla definizione di un particolare tipo di antieroe: si tratta in questo caso della figura dell’inetto, dell’antieroe che può svolgere una funzione critico-parodica oppure sfociare direttamente nel comico della commedia. Ma potremmo trovarci di fronte a narrazioni in cui il rovesciamento delle caratteristiche eroiche stereotipate sia solo illusorio: ad esempio l’inetto, il personaggio incapace di farsi carico del ruolo di eroe rivela nel corso della trama di poter assolvere al suo compito eroico» (p. 19). Oppure il protagonista può presentare caratteristiche contraddittorie, persino da antagonista o villain.

Secondo lo studioso possiamo allora avere un antieroe per sovversione (“non voglio, quindi mi oppongo”); un eroe mancato (“vorrei, ma non posso”); un inetto (“vorrei, ma non riesco”); il caso in cui colui che non lo era si trasforma in eroe abbandonando il suo ruolo negativo (“non posso – sarei un villain, ma devo essere eroe”); l’eroe per caso (“non vorrei, ma sono coinvolto mio malgrado, quindi devo”); una sorta di personaggio neutro rispetto ai due poli eroe-antieroe (“sono quel che sono…”).

true detective111La figura dell’antieroe la si ritrova nella narrativa, nel cinema, nel comics e nelle serie televisive. Andando alla ricerca di un parallelo con l’antieroe letterario, occorre verificare se nelle serie televisive l’antieroe possa essere visto come uno strumento di sovversione di ruoli culturali stereotipati; secondo Bernardelli sarebbe necessario comprendere se l’antieroe televisivo svolga un ruolo critico/parodico/satirico nei confronti delle serie televisive classiche con eroi piatti.
Applicando le categorie narrative alle serie televisive lo studioso individua, ad esempio, nel protagonista di Californication (2007-2014, Showtime) la figura dell’antieroe per sovversione, oppure nei due protagonisti della prima serie di True Detective (2014-in-produzione, HBO) esempi di eroi per frustrazione (eroi mancati perché si scontrano con un mondo antieroico), ovvero, ancora, nella serie Heroes (2006-2010, NBC) individua esempi di eroi per caso.

Nella recente serialità televisiva esistono però, secondo l’autore, modelli di antieroe particolari, dei veri e propri bad guys “macchiati” però da qualche forma di umanità, dei cattivi ibridati con la figura eroica. Il protagonista di Dexter (2006-2013, Showtime) può essere definito un villain che, a causa degli eventi (o della propria umanità nascosta fino a quel momento), deve essere eroico. In Breaking Bad (2008-2013, AMC), Walter White è un antieroe per caso, un normale cittadino che si trova a divenire un villain “per rabbia e per sopravvivenza”.

Secondo Bernardelli l’insistenza con cui le recenti serie televisive presentano protagonisti cattivi si è spinta oltre le categorie tradizionali imponendo la «necessità di aggiungere un’ulteriore categoria di antieroe, o di antivillain […]: il “devo (essere cattivo), ma non posso (qualcosa ancora mi spinge all’umanità)”. In questo caso il personaggio in sé completamente negativo cede parzialmente alla normalità e all’umanità, e non può più essere piatto; ora anche la figura del villain può essere approfondita, scavata e analizzata, dandole una terza dimensione. Il villain protagonista di alcune serie diventa fragile, mettendo in mostra il proprio lato umano, una rappresentazione che lo pone in discussione in quanto cattivo in termini assoluti» (p. 25). In personaggio è dunque un villain che resta tale, mantiene la sua negatività, ma mostra qualche barlume di umanità «ed è qui che si ferma la sua interazione o spostamento verso il polo eroico» (p. 25). Il protagonista di The Sopranos (1999-2007, HBO) rappresenta il capostipite di tale tipologia.

Secondo lo studioso la figura del villain parzialmente umanizzato deriva più dal teatro che dal romanzo; tutto sommato Tony Soprano assomiglia più a Macbeth che a Edmond Dantés, è un cattivo che riesce a far partecipare lo spettatore alle sue peripezie in attesa della prevista redenzione finale attraverso la morte tragica che però la struttura “a stagioni” delle serie televisive inevitabilmente rimanda.

Se l’antieroe tradizionale è tale perché non ha le caratteristiche dell’eroe, mentre annovera una serie di debolezze considerate dal pubblico non così gravi da giustificare una condanna morale definitiva, quello che Anne W. Eaton (Robust Immoralism, 2012) definisce rought hero è contraddistinto invece da difetti decisamente più gravi ed anche le sue qualità positive «sono comunque direttamente correlate al suo carattere moralmente negativo. Inoltre il rough hero è privo di rimorsi e agisce con l’intenzione di compiere azioni malvagie […] è intrinsecamente immorale, al contrario dell’antieroe che sembra esserlo solo superficialmente per poi rivelarsi in fondo, o nella sua sostanza, moralmente positivo» (pp. 26-27).

Visto che il rough hero, al di là della sua immoralità, è pur sempre il protagonista del racconto, dunque è il personaggio con cui lo spettatore è indotto ad un qualche coinvolgimento emotivo, deve possedere alcune caratteristiche volte ad umanizzarlo e, a tal fine, viene spesso messo a confronto con personaggi peggiori di lui. «Il rough hero fondamentalmente non è un buono, un eroe, che si sporca e che diventa un cattivo, ma solo in superficie come Walter White, ad esempio. Potremmo invece dire che viene dall’altra direzione, è un villain che sotto rivela delle tracce di umanità e i problemi che essa comporta. Ma questa umanizzazione nel caso del rough hero resterà sempre la superficie della sua vera sostanza immorale e negativa» (pp. 27-28).

Un capitolo del saggio di Bernardelli è dedicato al dibattito sulla questione etica suscitato da tale tipologia di protagonista e circa il fatto se sia più o meno giustificato giudicare un’opera in base all’aspetto etico o morale (Ethical Criticism of Art) lo studioso individua due polarità contrapposte; una (moralism) ritiene inevitabile il legame tra giudizio estetico ed etico, l’altra (autonomism) reputa invece che il giudizio estetico prescinda dalle questioni di ordine etico. All’interno di tali estremi si ritrovano posizioni diversamente sfumate; si passa da un automatismo radicale (dipende esclusivamente da ragioni estetiche) ad uno moderato (a volte le questioni etiche possono concorrere alla definizione di un giudizio estetico ma le due cose restare separate) e da un moralismo moderato (è possibile in alcuni casi valutare l’opera dal punto di vista etico), all’eticismo (gli spetti etici concorrono pienamente al giudizio estetico), all’immoralismo (il difetto etico diviene parte fondante del giudizio estetico positivo), fino al moralismo radicale (l’opera deve contenere valori morali per essere giudicata positivamente).

Circa il coinvolgimento emotivo dello spettatore Bernardelli riprende gli studi della Cognitive Media Theory. L’approccio cognitivista ritiene che a proposito del coinvolgimento emozionale indotto dagli audiovisivi nel pubblico «il processo di costruzione dello stato emotivo sia il medesimo attivo nelle emozioni nate a partire da uno stimolo reale […] Sostanzialmente lo studio cognitivista del coinvolgimento filmico si incentra sull’analisi del modo in cui lo spettatore può provare identificazione, simpatia, empatia, o al contrario distacco, antipatia, presa di distanza, nei confronti dei personaggi che popolano un mondo di finzione audiovisivo» (pp. 33-34).

Bernardelli si sofferma in particolare sugli studi di Murrey Smith (Engaging Characters: Ficition, Emotion and the Cinema, 1995) in cui si sostiene che l’engagement dello spettatore nei confronti del personaggio passi attraverso l’identificazione dei personaggi (recognition), lo schieramento (alignment) – dipendente dalle modalità con cui sono costruite le strutture testuali che forniscono informazioni – ed, infine, la valutazione (orientata dal testo) di tali informazioni (allegiance). L’approvazione morale dello spettatore nei confronti del personaggio può, ovviamente, variare nel corso della narrazione.

tony-soprano-152Secondo diversi studiosi è con la serie The Sopranos, messa in onda dalla HBO nel 1999, che prende il via la tipologia del flawed character nelle produzioni seriali televisive. Nöel Carroll (Sympathy for the Devil, 2004) è stato tra i primi ad interrogarsi sui motivi che rendono il protagonista, Tony Soprano, affascinante agli occhi degli spettatori. Secondo lo studioso nei confronti di questo tipo di personaggio si può avere soltanto un’identificazione parziale e questa la si ha con ciò che egli ha in comune con noi (la banalità quotidiana). A restare estraneo allo spettatore sarebbe dunque il lato criminale di Soprano. Altro elemento che attenua il giudizio negativo sul protagonista è dato dal suo apparire tutto sommato “meno immorale” di altri personaggi che compaiono nella serie. Secondo Carroll il provare simpatia nei confronti di un personaggio della finzione che nella realtà sarebbe disprezzato è dovuto al fatto che, nel suo essere “irreale”, esso è costruito in modo da essere affascinante.

Secondo Murrey Smith (Just What Is It Thet Makes Tony Soprano Such an Appealing, Attractive Murdered?, 2011) l’accettabilità di Tony Soprano è dovuta ad una narrazione che alterna la sua appartenenza a due “famiglie”, quella criminale e quella biologica. Altro elemento che suscita fascino, secondo Smith, è dato dalla possibilità del protagonista di trasgredire dalla comune morale; lo spettatore può così immaginare di agire in maniera moralmente trasgressiva nella più totale impunità. «É la differenza di livello ontologico […] – tra la realtà dello spettatore e la finzione del mondo narrativo di Tony Soprano – a permettere al pubblico di godere di questo paradosso, e di accettare un personaggio che viene rappresentato come morale e immorale allo stesso tempo» (p. 48).

Anne W. Eaton (Robust Immoralism, 2012) sostiene che l’attrazione dello spettatore nei confronti del rough hero è determinata dal meccanismo retorico-testuale con cui è costruita la serie che rende il personaggio tanto accettabile quanto inaccettabile e sarebbe proprio tale incertezza a generare piacere estetico. La visione della Eaton deriva dall’idea che è possibile, attraverso particolari modalità narrative, costruire testi in cui elementi di negatività morale vengano interpretati positivamente dal punto di vista estetico. In Carroll, invece, il difetto etico si traduce anche in difetto estetico, «di conseguenza un difetto morale deve trovare una giustificazione, pena il fallimento anche estetico dell’opera […] Secondo Carroll dunque esistono opere che manifestano tali difetti morali da mettere lo spettatore nell’impossibilità di provare una qualsiasi forma di piacere estetico, ma non il contrario» (p. 49). Carroll contesta alla Eaton di «guardare solo ad un aspetto della struttura narrativa, in questo caso concentrandosi sulla figura del personaggio protagonista, senza valutare l’insieme dell’opera e la prospettiva implicita nei meccanismi narrativi del resto visti nel loro complesso» (p. 50).

Secondo Carroll lo spettatore non è attratto dal male al punto di volere condotte immorali da parte del protagonista ma, viceversa, è indotto a valorizzare i suoi tentativi di essere un “buon padre di famiglia”. Di Tony Soprano, insomma, si ammira il suo cercare di difendere se stesso ed i suoi famigliari da altri criminali e non la sua condotta criminale. «Un aspetto interessante toccato da Carroll, e spesso dimenticato da altri autori, è il fatto che non sempre ciò che viene ritenuto morale o immorale ha direttamente a che vedere con ciò che è legale o illegale da un punto di vista formale» (p. 51); se il farsi giustizia da sé risulta legalmente inaccettabile, non è detto che ciò venga percepito dallo spettatore come immorale.

Mentre Carroll sottolinea come diverse opere considerate immorali possono essere utili per migliorare lo spettatore, Eaton sostiene invece che tali opere conducono lo spettatore su posizioni di ambivalenza e di incertezza nel giudizio morale sul personaggio e ciò rappresenterebbe il risultato estetico più intrigante dei rough heroes. Dunque, sostiene Bernardelli, «la discussione tra Eaton e Carroll mette in evidenza come l’intreccio di problematiche etiche ed estetiche, quindi di due differenti livelli di valutazione di un testo, portino a interpretazioni spesso diametralmente opposte dell’effetto di un’opera narrativa, in particolare quando uno spettatore è messo di fronte ad un “eroe difettoso”» (p. 53).

Bernardelli si sofferma anche sugli studi della norvegese Margrethe Bruun Vaage (The Antihero in American Television, 2015 – Don, Peggy, and Other Fictional Friends? Engaging with Characters in Television Series, scritto con Robert Blanchet, 2012). La studiosa pone l’accento su come i prodotti audiovisivi seriali siano in grado di determinare un maggior coinvolgimento dello spettatore rispetto ai film e su come la maggiore familiarità del pubblico nei confronti dei personaggi induca ad un maggior senso di complicità nei loro confronti.
La Vaage (Relifes and Reality Checks, 2013) affronta anche l’asimmetria emotiva con cui lo spettatore giudica personaggi di fiction e personaggi reali. La differenza con cui si guarda al personaggio di ficition rispetto al suo omologo reale sarebbe determinata da un paio di meccanismi testuali. Attraverso il primo meccanismo (fictional relief) lo spettatore verrebbe condotto a modificare la propria prospettiva morale in una sorta di sospensione valoriale proprio in quanto consapevole di trovarsi di fronte ad una finzione, mentre il secondo meccanismo testuale (reality check) funzionerebbe da monito palesando le conseguenze negative che la condotta del personaggio avrebbero nella realtà.

Bernardelli riprende le principali strategie drammatiche utilizzate per rafforzare l’identificazione tra pubblico e personaggi moralmente conflittuali individuate da Alberto N. Garcia (Moral Emotions, Antiheroes and the Limits of Allegiance, 2016): la comparazione morale o il principio del “male minore” (presenza di personaggi peggiori del protagonista); il potere consolatorio della famiglia (la quotidianità del protagonista può fornire giustificazioni); la contrizione (il manifestare sensi di colpa nel personaggio); la vittimizzazione (l’esplicitare un passato in cui il protagonista è stato vittima).

breakingbad-222La rassegna dei lavori dedicati agli antieroi delle serie televisive proposta da Bernardelli contempla anche alcuni studiosi che si sono occupati del rapporto tra i testi e i conflitti sociali e culturali della contemporaneità nordamericana. Ad esempio Ashley M. Donnelly (The New American Hero: Dexter, Serial Killer for the Masses, 2012) colloca il personaggio di Dexter all’interno di una lunga tradizione nordamericana volta a valutare positivamente gli antieroi; la storia statunitense è piena di “ribelli per il bene comune” e «l’apparente ambiguità di Dexter non fa altro che rinforzare ideali conservatori, come quello del “vigilante” o del “vendicatore”, e attraverso la sua caratterizzazione – un cattivo apparente che nasconde un individuo positivo – offre paradossalmente una chiara differenziazione tra il bene e il male, ristabilendo il confine tra ciò che è normale e ciò che è “altro”» (p. 59).
La stessa studiosa (Renegade Hero of Fauz Rouge: The Secret Traditionalism of Television Bad Boys, 2014) analizza serie come Sons of Anarchy, True Blood, Breaking Bad e Boardwalk Empire al fine di dimostrare come questi antieroi non siano affatto conflittuali nei confronti della cultura dominante; si tratterebbe piuttosto di «semplici reincarnazioni dei tradizionali eroi conservatori, capitalisti ed etnocentrici, con la differenza che vengono rappresentati come ancor più sanguinari e razzisti» (p. 58).

Geraldine Harris (A Return to From? Pstmasculinist Television Drama and Tragic Heroes in the Wake oh The Sopranos, 2012) partendo dalla constatazione che molti antieroi che popolano diverse serie televisive recenti sono di genere maschile, distingue tra postmasculinist drama series (The Sopranos, The Wire, Deadwood, Mad Men, Sons of Anarchy) e postfeminist drama series (Sex and The City, Ally McBeal). Le prime proporrebbero scenari narrativi dominati da misoginia, omofobia e razzismo nonostante in apparenza sembrano voler stabilire una distanza ironica nei confronti di tali atteggiamenti ricorrendo a protagonisti antieroici; la situazione problematica dell’antieroe sarebbe «la rappresentazione stessa della crisi esistenziale della mascolinità dell’uomo bianco nordamericano» (p. 59).

Anche Amanda D. Lotz (Cable Guys: Television and Masculinities in the 21th Century, 2014) individua negli antieroi maschili messi in scena da parecchie serie televisive nordamericane recenti, una «rappresentazione della condizione conflittuale e vulnerabile della mascolinità nella società nordamericana […] attraverso il conflitto tra i protagonisti tradizionali e quelli antieroici viene occultamente rappresentato lo scontro tra i modelli più tradizionali di mascolinità e quei nuovi modelli più prossimi alla sensibilità del postfemminismo contemporaneo» (p. 60).

Il significato ideologico delle serie televisive contemporanee che rappresentano il conflitto tra un protagonista antieroe, bianco e maschio che si mostra ambiguo nei confronti del razzismo ed un secondo personaggio, altrettanto bianco e maschio, più esplicitamente razzista, è invece al centro degli studi di Michael L. Wayne (Ambivalent Anti-heroes and Racist Rednecks on Basic Cable: Post-race Ideology and White Masculinities on FX, 2014). Si tratterebbe, secondo Wayne, di una contrapposizione falsamente conflittuale che, costruita su visioni della questione razziale del tutto stereotipate, finisce col negare valore a tali problematiche.

Nel volume di Bernardelli viene affrontata la particolare serialità televisiva di cui si sta parlando anche dal punto di vista della sua classificazione – secondo formato, genere e registro – che, ovviamente, incide sull’interpretazione. Secondo lo studioso, oltre alle tradizionali comedy e drama, occorrerebbe introdurre la categoria di tragedia in quanto tale categoria di interpretazione narrativa permetterebbe di approfondire la questione del coinvolgimento del pubblico con il personaggio negativo protagonista.
Nella tragedia shakespeariana, sostiene lo studioso, gli atti del personaggio negativo non vengono giustificati in alcun modo, nemmeno il passato viene in soccorso; «l’unica sua possibile redenzione consiste nella morte» (p. 62). Nelle recenti serie televisive «potremmo identificare dei protagonisti che sono una tipologia specifica di antieroe, o meglio appartengono sì all’ampia famiglia degli antieroi, ma che sono in realtà eroi tragici» (p. 62).

Robert Warshow (The Gangster as Tragic Hero, 1948) spiega come mentre il tragico classico consiste nello scontro dell’individuo con un ordine morale superiore, nella modernità (scrive a fine anni Quaranta) il tragico viene identificato nel «rifiuto dell’individuo nei confronti del principio della felicità collettiva (il sogno americano)» (p. 63). Secondo Warshow la ribellione nei confronti del sogno americano, generante in molti disperazione e fallimento, trova espressione in forme di rappresentazione più o meno mascherate; il gangster del cinema degli anni Quaranta sarebbe una di queste forme. «Il gangster è un eroe tragico perché rappresenta la frustrazione e la ribellione a quello che definisce “Americanism”, il modello di vita americano. Come nella tragedia classica il gangster è un individuo che si ribella ad un superiore fato collettivo: la necessaria, ma continuamente frustrata, ricerca della felicità» (p. 63).

Il gangster cinematografico è ovviamente altro rispetto ad un gangster reale ma «esprime o rappresenta un’urgenza o esigenza molto reale per gli spettatori» (p. 63). Il percorso del gangster al cinema è il medesimo del classico eroe tragico: successo rapido ed altrettanto rapida rovina. «La morale del gangster movie per Warshow è che tutti abbiamo la sensazione di avere diritto al successo, con ogni mezzo, ma che ogni mezzo, ogni azione compiuta per avere successo, per essere un individuo, sia illegale, immorale, e che faccia sentire gli altri come soggetti ad un atto di aggressione lasciando colui che agisce per emergere in realtà solo e indifeso» (p. 63). Il diritto al successo è proposto come possibile sebbene considerato sbagliato e pericoloso.

cattici seriali carocciSe abbandoniamo l’idea che i prodotti culturali per forza riflettano la realtà e pensiamo invece ad essi come a qualcosa che riflette sulla realtà, allora la figura del rough hero può essere affrontata diversamente da come la pone, ad esempio, la Vaage che, come abbiamo visto, ragiona sulle differenze di coinvolgimento dello spettatore in base all’avere a che fare con un “cattivo” di finzione o con l’equivalente reale.

Se pensiamo alla narrazione come ad uno strumento importante al fine di ridefinire una prospettiva etica nello spettatore, allora nei racconti si può individuare «la funzione di porre dei “paletti”, per delimitare un territorio altrimenti confuso, con confini (etici) poco o non definiti. Le narrazioni di cui fruiamo pongono dei confini a quella che è la nostra concezione dei limiti del comportamento (nostro e altrui), altrimenti non razionalizzabile, non esprimibile esplicitamente» (p. 66). Dunque, secondo Bernardelli, «una prospettiva etica di questo genere fornisce un importante valore e funzione anche alle narrazioni minori, quelle dei mass media. A questo punto quale sarà la funzione di una serie televisiva in cui il comportamento del protagonista sia eticamente anomalo? Di darci una esemplificazione, seppure negativa, di quello che deve essere il nostro e l’altrui confine etico. Le serie televisive co protagonisti “difficili e complessi” contribuiscono quindi, insieme ad altre fonti di narrazioni, a costruire la nostra idea etica» (p. 66).

L’ultima parte del saggio di Bernardelli è dedicata ad alcune produzioni televisive italiane: “Dall’antieroe al rough hero nella serialità italiana”. Qua lo studioso passa in rassegna l’antieroe atipico rappresentato da L’ispettore Coliandro (2006-in produzione, Rai Fiction), ed il percorso che porta al rough hero analizzando le serie Romanzo criminale (2008-2010, Sky) e Gomorra (2014-in produzione, Sky).

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Etica e/del genocidio: i crimini nazisti e la responsabilità morale https://www.carmillaonline.com/2016/08/04/32322/ Thu, 04 Aug 2016 21:30:53 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=32322 di Armando Lancellotti

NastroBiancoClasse009Alberto Burgio, Marina Lalatta Costerbosa, Orgoglio e genocidio. L’etica dello sterminio nella Germania nazista, DeriveApprodi, Roma, 2016, pp.350, € 20,00

«Non si fa mai il male tanto a fondo e con tanta lietezza come quando lo si fa in coscienza» (Pascal, Pensieri, ed. Brunschvicg, n. 895). Questa folgorante intuizione pascaliana che Alberto Burgio e Marina Lalatta Costerbosa citano a pagina 199 del libro che qui presentiamo esprime in estrema sintesi la tesi di fondo dell’interessantissimo saggio recentemente scritto dai due docenti – di Storia della filosofia il primo, di Filosofia [...]]]> di Armando Lancellotti

NastroBiancoClasse009Alberto Burgio, Marina Lalatta Costerbosa, Orgoglio e genocidio. L’etica dello sterminio nella Germania nazista, DeriveApprodi, Roma, 2016, pp.350, € 20,00

«Non si fa mai il male tanto a fondo e con tanta lietezza come quando lo si fa in coscienza» (Pascal, Pensieri, ed. Brunschvicg, n. 895).
Questa folgorante intuizione pascaliana che Alberto Burgio e Marina Lalatta Costerbosa citano a pagina 199 del libro che qui presentiamo esprime in estrema sintesi la tesi di fondo dell’interessantissimo saggio recentemente scritto dai due docenti – di Storia della filosofia il primo, di Filosofia del diritto la seconda – dell’Università di Bologna: coloro che nella Germania nazista e nell’Europa da questa occupata perpetrarono il genocidio, o se ne resero complici collaborando in differenti modi, ovvero lo tollerarono assistendo indifferenti ad esso – pertanto si inoltrarono «tanto a fondo» nella pratica del male – lo fecero «in coscienza», cioè sapendo ciò che facevano e scegliendo consapevolmente di agire in quel modo. Ora, la prassi conseguente ad una scelta libera e consapevole pertiene all’ambito dell’etica e il caso di una prassi malvagia e criminale comporta di necessità la questione delle responsabilità morali (oltre a quelle penali, politiche o storiche) degli attori di tale crimine.
Etica e/del genocidio, si diceva: “etica e” genocidio, in quanto lo sterminio degli ebrei d’Europa per essere meglio compreso, nonostante la sua apparente e da alcuni teorizzata incommensurabilità cognitiva, deve essere osservato – secondo Burgio e Costerbosa – dal punto di vista della ragione filosofica (nella fattispecie, morale); “etica del” genocidio, perché, come i due autori spiegano dettagliatamente, il regime hitleriano concepì ed elaborò una (contro)etica, una (anti)etica, un’etica del disumano che servì come quadro di riferimento (a)valoriale dell’azione omicida dei perpetratori dello sterminio di milioni di uomini.

Nelle prime pagine del libro, Burgio e Costerbosa, sulla scorta delle considerazioni di, tra gli altri, Primo Levi e Thomas Mann, constatano come la violenza scatenata dai nazisti sia stata sempre “eccessiva”, “inutilmente sproporzionata”, comunque “ridondante” e come proprio per questi suoi aspetti non possa essere spiegata come mera conseguenza meccanica di una premessa, come «pedissequa esecuzione di ordini superiori» (p. 34), ma debba essere ricondotta alla concatenazione e all’intreccio delle singole iniziative assunte, delle varie scelte compiute, ai diversi livelli della macchina genocida, da tutti coloro che di essa furono gli ingranaggi e che diedero un contributo attivo ed essenziale al perseguimento dell’esito criminale. Attori di una politica di sterminio che – si tratta di una questione ormai da molti decenni oggetto di analisi e studi, soprattutto dopo La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme (1963) di Hanna Arendt – per lo più erano uomini e donne del tutto “normali”, “comuni”, se non addirittura individui solitamente considerabili come “persone per bene”.

Fatto questo che aggiunge sconcerto all’orrore dinanzi alla vastità senza precedenti e senza pari della violenza scatenata nel dodicennio nazista, da molti interpretata come una cesura assoluta nel corso degli eventi umani e storici, uno scisma che ha prodotto uno iato, una soluzione di continuità non ricomponibile e che ha azzerato le capacità cognitive ed interpretative della ragione, con il conseguente approdo ad una sorta di “ermeneutica negativa” dinanzi alla indicibile incommensurabilità del male. Posizione questa della indicibilità meta-storica della Shoah che ha trovato uno dei più convinti sostenitori nel recentemente scomparso Elie Wiesel, ma che gli autori di Orgoglio e genocidio rifiutano con decisione, assumendo piuttosto un punto di vista che ci sembra riconducibile a quello adorniano della Dialettica negativa. Come diceva il pensatore francofortese, il fatto che Auschwitz sia potuta accadere in mezzo a tutta la tradizione dell’arte, della filosofia, della scienza europee, dimostrando il fallimento della cultura illuministica, non deve però condurre al disarmo della ragione, la quale conserva, anzi amplifica, la propria funzione critica e pratica, nel momento in cui deve abbandonare la pretesa panlogistica di essere riconosciuta come sostanza della realtà. «È hybris il fatto che ci sia l’identità, che la cosa in sé corrisponda al suo concetto. Ma non si dovrebbe semplicemente buttarne via l’ideale: nel rimprovero che la cosa non è identica al concetto, vive anche la speranza che lo possa diventare» (Th.W.Adorno, Dialettica negativa, Torino, Einaudi, 1982, p. 134). Alla capacità critica della ragione è demandato quindi il compito di comprendere l’assurdo, di analizzare al fine di giudicare. Se infatti, come vogliono i sostenitori della indicibilità meta-storica del genocidio, quest’ultimo permanesse immobile nella sua tetragona incomprensibilità, allora verrebbe meno anche la possibilità del giudizio – il che equivarrebbe ad una paradossale ed ingiustificabile assoluzione dei colpevoli – essendo analisi e comprensione le condizioni ed i presupposti di ogni atto valutativo, anche di quello morale.

copertina BurgioDal punto di vista della metodologia seguita e degli strumenti applicati gli autori intendono fare interagire i contributi della storiografia, della sociologia storica, della psicologia sociale (ma anche della antropologia, della psichiatria e della psicanalisi), rifiutando gli insufficienti approcci monocausali in ragione della complessità dell’argomento affrontato e la compresenza e la convergenza di molteplici chiavi di lettura contribuiscono a rendere il libro ricco e molto articolato, complesso e completo, cioè capace di fornire un quadro d’insieme dettagliato dei risultati raggiunti, nei differenti ambiti disciplinari, nello studio del nazismo, dei suoi crimini e della Shoah e soprattutto della questione della responsabilità e della colpa tedesche.

Ma Burgio e Costerbosa – ed è questo uno dei tanti temi interessanti ed originali del libro – ritengono che spetti propriamente alla filosofia il compito della ricostruzione dell’intero, della sintesi complessiva e della comprensione alla luce di un punto di vista “universale”, superiore a quello delle singole scienze umane, vincolate alla parzialità di uno sguardo che deve attenersi ai limiti “scientifici” della verifica empirica, seppur secondo le modalità proprie delle scienze dello spirito. Questo non vale per la filosofia, sia per l’universalità della sua prospettiva sia perché alla ragione filosofica spetta il compito dell’indagine sul perché, sul senso complessivo sulla «forma della mente o dell’anima degli attori di questa vicenda [per arrivare] al fondo ultimo dei loro pensieri […] dal quale scaturiscono i giudizi, nel quale si strutturano le scelte, le decisioni e le azioni». (p. 10)
L’interesse della filosofia è per l’intero; il suo fine è euristico e conoscitivo; gli strumenti sono polivalenti e la sua natura è “modestamente” aporetica, non pretendendo la ragione filosofica di formulare ipotesi falsificabili, cioè scientificamente oggettive e pertanto è in grado di avventurarsi in un terreno «che né la storiografia né gli altri saperi accettano di percorrere: lo spazio della soggettività […] intesa come ciò che dà logica e senso alla vita conscia e inconscia della mente». (p.10) Spetta quindi alla filosofia tracciare un coerente quadro d’insieme e, soprattutto, disegnare il contorno della forma mentis genocida.

Tra i tanti individuabili all’interno del libro, tre ci sembrano i punti di riferimento teorici che accompagnano costantemente il dipanarsi del ragionamento e del discorso di Burgio e Costerbosa: Raul Hilberg, Hanna Arendt e Immanuel Kant.
Hilberg perché, nonostante – secondo Burgio – il tratto tendenzialmente deterministico del suo approccio prevalentemente funzionalista (determinismo che, come vedremo, gli autori del libro sottopongono a puntuale critica), il suo modello analitico ed interpretativo, per la prima volta proposto nell’ormai lontano 1961, mantiene la sua validità ed affronta il problema delle responsabilità tedesche attribuendole alla società, alle istituzioni e allo stato tedeschi nel loro insieme, evidenziando anche come ogni componente di essi abbia dato un proprio fondamentale contributo attivo, fattivo, se non addirittura solerte, e quindi non solo meramente passivo, alla realizzazione dello sterminio.

Delle riflessioni di Hanna Arendt sul nazismo e la Shoah i due studiosi utilizzano soprattutto La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, considerato da Burgio un lavoro talvolta riduttivamente interpretato, ma ancora insuperato dal punto vista – che è proprio quello che Orgoglio e genocidio ripropone – di un approccio cognitivo di tipo filosofico alla questione del genocidio e della responsabilità morale. Perché è nel campo dell’etica che gli autori collocano la materia del loro discorso ed è all’individuazione delle responsabilità individuali e collettive di coloro che in misura differente parteciparono allo sterminio e alla comprensione delle ragioni e delle dinamiche della loro scelta (im)morale genocida che si indirizzano le finalità del libro.
Autonomia del soggetto morale, consapevolezza della scelta, responsabilità rispetto alle conseguenze e moralità dell’azione: sono questi i “paletti” dentro ai quali dobbiamo collocare l’azione dei carnefici e dei tanti altri che in modi estremamente diversi parteciparono alla politica genocida del Terzo Reich.

Infine, proprio l’attenzione per la questione della “responsabilità” e della “scelta” come istanze imprescindibili per la retta comprensione del genocidio nazista conduce ad un costante riferimento ai principi fondanti dell’etica kantiana (l’autonomia del soggetto morale; la libertà come condizione e sostanza dell’agire; la dignità dell’uomo e il suo rispetto come elementi costitutivi dell’imperativo etico) e alla frequente riproposizione di stilemi di pensiero kantiani.

Il libro si compone di sei capitoli, di cui il primo, il quarto e il sesto scritti da Alberto Burgio, il secondo, il terzo e il quinto da Marina Lalatta Costerbosa.
Nel primo capitolo (Crimini condivisi), il discorso di Burgio prende le mosse dall’intento di sottoporre ad una generale e complessiva critica quelle interpretazioni – soprattutto storiografiche – del nazismo (e dei suoi crimini) che nell’insieme si possono considerare viziate da un comune determinismo. Come è noto, a partire dagli anni Settanta del secolo scorso, la storiografia del nazismo si è articolata e divisa nelle due grandi correnti degli intenzionalisti e dei funzionalisti, a loro volta poi internamente articolate in un ventaglio di diverse posizioni a seconda del radicalismo o della moderazione con cui l’idea portante delle rispettive posizioni viene proposta. Impostazioni critiche che, per quanto nel corso degli anni sostituite da altre, costituiscono due contrapposti macro paradigmi interpretativi del regime hitleriano, ma convergenti su un punto fondamentale: una lettura deterministica dei meccanismi e delle modalità di funzionamento del regime, delle sue istituzioni e dell’intera società tedesca e, nella fattispecie che interessa a Burgio, del comportamento dei carnefici e dei loro collaboratori. In queste letture prevale la forza del condizionamento esogeno (di volta in volta il volere del Führer, la catena di comando, il fascino seducente dell’ideologia, la pervasività della propaganda, l’inflessibilità della repressione, gli effetti atomizzanti della società di massa, le dinamiche spersonalizzanti delle pratiche burocratico-amministrative dello Stato moderno, ecc) che si traduce nella equazione totalitarismo = eterodirezione assoluta dell’individuo, attore pressoché inconsapevole di comportamenti prevalentemente indotti, rispetto ai quali, conseguentemente, è da ritenersi scarsamente responsabile.

Fatto salvo l’assunto che a tutti i fattori sopra elencati occorre riconoscere pro quota un ruolo ed un’importanza rilevanti in relazione all’affermazione e al funzionamento di un regime totalitario in generale e di quello nazista nel particolare e che – riteniamo – anche le dinamiche esogene siano da tenere nella giusta considerazione, condividiamo, con Burgio, l’opportunità di indebolire il paradigma eterodirettivo e di riportare al centro dell’attenzione l’analisi delle intenzioni, delle motivazioni, delle scelte libere e consapevoli e quindi responsabili che, comunque e sempre, stanno alla base del comportamento umano, anche di quello più esternamente e strutturalmente condizionato.
A ciò si aggiunga che le letture di tipo deterministico rischiano, ben al di là delle loro intenzioni, di fare propri o di avvallare i teoremi giustificativi o autoassolutori dei carnefici stessi che ricorrono sempre agli argomenti della necessità o inderogabilità degli ordini, della inconsapevolezza circa le conseguenze della loro azione, o della cosiddetta “obbedienza cadaverica”, cioè l’esecuzione di un ordine in quanto ordine (Befehl ist Befehl), argomentazioni nelle quali i principi del determinante condizionamento situazionale e della spersonalizzazione della scelta fanno da denominatore comune.

Burgio si rifà al noto saggio di Hilberg, Carnefici, vittime e spettatori, ma integra la tipizzazione dello storico austro-statunitense inserendo la “zona grigia” dei collaboratori, intermedia tra quella degli spettatori (bystanders) e quella dei carnefici, cioè i “perpetratori immediati”. Per quanto riguarda questi ultimi, si devono considerare innanzi tutto gli uomini delle SS, dei battaglioni di polizia, delle Einsatzgruppen, i soldati e gli ufficiali della Wehrmacht, ai quali poi si aggiungono tutti gli uomini e le donne di quei ministeri, apparati, istituzioni, uffici dello stato tedesco che attivamente e assiduamente presero parte (ancora una volta il riferimento è allo schema hilberghiano di La distruzione degli Ebrei d’Europa) alla identificazione, all’espropriazione, alla ghettizzazione e infine allo sterminio degli ebrei. Un totale di – calcola Burgio – 200/500 mila tra tedeschi, austriaci e Volksdeutsche (tedeschi etnici), per i quali le argomentazione deresponsabilizzanti prima riportate non reggono dinanzi ad una dettagliata analisi dei casi e alla luce dei documenti e delle testimonianze. Ciò che invece sempre emerge è che costoro «seppero e vollero compiere i propri crimini» (p. 40) nei lager o altrove, infierendo sulle loro vittime.
Si trattò di una libera scelta all’interno di un ventaglio di possibili opzioni di comportamento; gli unici che – ricorda Burgio – non avevano scelta, che si trovarono di fronte a “scelte senza scelta” furono le vittime, non certo i carnefici.

L’inconsistenza degli argomenti dell’inconsapevolezza, dell’impossibilità di fare altrimenti et similia si applica anche al caso della “zona grigia” dei “collaboratori”, che Burgio, facendo propria la tesi di Hilberg della consustanzialità e coincidenza di stato e società tedesche e regime nazista, individua nelle élites militari (grate a Hitler per l’eliminazione delle S.A. e per la politica di riarmo); negli esponenti del mondo accademico e universitario (profondamente coinvolto nell’opera di elaborazione e divulgazione della Weltanschauung nazista e razzista) e in particolare nella categoria dei medici (il cui contributo alla criminale politica eugenetica di salute e difesa della razza germanica fu essenziale); nel personale dell’apparato burocratico del Reich («una massa di normali burocrati ambiziosi ed accondiscendenti» (p.47) nonché solerti e competenti); negli imprenditori privati (che non si lasciarono sfuggire l’occasione di fare affari, che fiutarono come conseguenza della politica antisemita del governo); ed infine nei delatori, cioè «quanti permisero alla Polizia politica del regime di invadere ogni spazio […] e di stendere sull’intera società tedesca una pervasiva rete di controllo» (p.50).

Infine gli “spettatori”, cioè coloro che non parteciparono ai crimini, ma che comunque per lo più «condivisero e sostennero. E parteciparono anche evitando di agire quando avrebbero potuto farlo». (p. 57) In questo caso, per spiegare il comportamento dell’”uomo della strada” si rende necessario affrontare – sostiene Burgio – la questione del consenso politico, problematica particolarmente complessa e di difficile analisi soprattutto quando assume la forma del “consenso totalitario”, ma che nella Germania del dodicennio nazista, di fatto, fu raccolto in modo solido e consistente dal regime. Si trattò di una adesione diversamente motivata ed estremamente differenziata per tipologia e grado, ma che produsse l’effetto di una condivisione di massa, da parte di molti milioni di tedeschi, dei programmi e delle azioni politiche del regime e quindi anche delle sue pratiche criminali e genocide, che il popolo tedesco, forse non nei minimi particolari, ma certamente nella sostanza, conosceva e che quindi – ancora una volta – volle, decise liberamente di appoggiare o almeno di non ostacolare.

Se uno degli alibi preferiti dai criminali nazisti o una delle argomentazioni autoassolutorie più frequenti era quella secondo cui “la legge è la legge” e ad essa si deve obbedire comunque, indipendentemente dal contenuto che ordina, allora risulta di cruciale importanza prendere in considerazione – come fa Marina Lalatta Costerbosa nei capitoli secondo (Il cavallo di Troia della legalità) e terzo (Legalità e consenso. I capi e la società) – le modalità e le conseguenze dei processi di ridefinizione dei concetti e dei principi di legalità e giustizia e di stravolgimento del diritto che si verificarono in Germania successivamente alla ascesa al potere del partito nazionalsocialista. Ridefinizione dei fondamentali principi giuridici che agì da supporto alla politica criminale del regime, legittimandone la catena delle norme e dei comandi e rassicurando i destinatari dei medesimi ordini circa la legittimità dell’operato conseguente, anche di quello criminale. Lo studio di queste problematiche e di queste dinamiche può contribuire – secondo la studiosa – alla comprensione della complessa questione del consenso di massa, di milioni di uomini comuni, ai regimi totalitari.

Centrale nella disamina del problema proposta da Costerbosa è la tesi per cui il nazismo adottò, piegandoli alle proprie necessità, i concetti giuspositivistici di legalità e giustizia, che si definiscono sulla base dell’assunto fondamentale del giuspositivismo stesso, che pone una irriducibile differenza tra il diritto e la morale, in quanto quest’ultima è esterna ed estranea al diritto; diritto che ha natura imperativa, coincidendo col comando del potere sovrano a cui si deve obbedienza. Come vuole Kelsen, il diritto è moralmente neutro ed indipendente dal giudizio morale e la giustizia si identifica con la legalità, ovvero l’applicazione di una norma positiva, che non riguarda il contenuto della norma medesima.

Se da un lato non è difficile comprendere come le istanze fondamentali della teoria giuspositivistica del diritto si prestassero ad essere estremizzate e strumentalizzate dal nazismo, dalla sua visione gerarchico-militare della società e dei rapporti sociali, dalla sua idea totalitaria del potere, da quell’essenziale Führerprinzip che considera il Führer fonte di diritto e di giustizia, per diventare infine parte integrante della dottrina nazionalsocialista del diritto; dall’altro è indispensabile riconoscere che il regime fu capace di recuperare, stravolgendoli al punto da capovolgerli, anche principi e idee della dottrina del diritto naturale, per i quali la legalità va messa in relazione alla legittimità, cioè con la giustizia intesa come moralità dei contenuti della norma positiva.
Il nazismo quindi elaborò propri contenuti (a)morali che fecero da fondamento della legittimità delle leggi e delle norme emanate, ma mentre qualsiasi forma di giusnaturalismo si incardina sull’idea essenziale che prioritaria e assoluta sia la difesa dei diritti soggettivi, in quanto per l’appunto naturali, il “giusnaturalismo nazista” considerò “naturali” dei (non)diritti razzisti e disumani che violavano e negavano i diritti soggettivi. «Si pensi che si giunse addirittura a qualificare il Naturrecht (diritto naturale) come völkisch (nazionalistico) oppure nationalethnisch (etnonazionalistico): una palese contraddizione in termini». (p. 111)

Ne conseguì un violento stravolgimento del diritto e della legalità, preparato e permesso anche da quei prodromi negativi che erano presenti nella Costituzione di Weimar: Marina Lalatta Costerbosa si riferisce (p.121) in particolare a quell’articolo n.48 della Costituzione repubblicana che agì da condizione di possibilità della Ermächtigungsgesetz (la Legge dei pieni poteri) del 28 febbraio del 1933, in quanto, consentendo, in condizioni eccezionali, al presidente di sospendere in tutto o in parte l’efficacia dei diritti fondamentali costituzionalmente stabiliti, permise al Cancelliere da un mese in carica, Adolf Hitler, di cancellare lo stato di diritto e tra le altre cose di istituire i campi di concentramento. «Sovrano è chi decide sullo stato di eccezione», aveva scritto nel 1922 Carl Schmitt in Politische Teologie.

Quanto arrogante era stato lo sfregio del diritto nel dodicennio nazista tanto profondi dovettero essere il ripensamento e la riformulazione dei principi giuridici fondamentali dopo il 1945. A tal proposito l’autrice si riferisce in particolare all’opera di Gustav Radbruch che nel 1947 ritenne necessario riproporre con forza la teoria secondo cui vi è un diritto oltre e al di sopra della legge positiva, rispetto al quale quest’ultima può risultare un “torto legale”. Al fine di fissare un criterio sostanziale ed universale che fosse in grado di dirimere tra legge legittima e torto legale, Radbruch – ricorda Costerbosa – definisce il concetto di “equità”, che significa «giustizia essenziale, il requisito minimo di moralità che una norma, una legge, un istituto, una sentenza deve esibire per potersi dire tale. […] Funziona al negativo: tutto rientra nella sfera scarna ma costitutiva dell’equità, salvo ciò che manifesta un grado di ingiustizia, appunto di iniquità, non sopportabile, palese, al di là di ogni ragionevole dubbio, con ogni evidenza, secondo ogni intuizione razionale». (pp. 90-91)
Pertanto Radbruch parlò di “ingiustizia legale” e di “giustizia sovralegale”: la prima sistematicamente perpetrata, la seconda regolarmente ignorata dai nazisti.

Sempre Radbruch scriveva, anticipando – fa notare Lalatta Costerbosa – Hanna Arendt di quindici anni: «Fu grazie a due principi che il nazionalsocialismo seppe incatenare a sé i suoi seguaci, da un lato i soldati, dall’altro i giuristi: “Un ordine è un ordine!” e “La legge è la legge”». (p. 97) E proprio il secondo principio, secondo l’imperante pensiero giuspositivistico, valeva incondizionatamente.
Per Radbruch invece tre sono i valori che conferiscono validità alla legge: in ordine di importanza, la giustizia, la certezza del diritto e l’utilità o conformità allo scopo. Per il filosofo del diritto tedesco, pertanto, «giusta è la legge certa che sancisce l’uguaglianza tra le persone entro la comunità umana». (p. 100) Ma anche alla certezza del diritto, come vuole la tradizione del giuspositivismo, vanno riconosciuti valore ed importanza e pertanto, secondo Radbruch, in caso di conflitto tra giustizia e certezza del diritto occorre individuare un criterio-soglia al di sotto del quale è opportuno far prevalere la certezza anche a fronte di inutilità ed ingiustizia della legge, ma al di sopra del quale la certezza non ha più valore e la legge diventa un torto, o meglio si capovolge nel suo opposto, in non-diritto.

Questo criterio-soglia, questo limite fu violato sistematicamente per tutta la durata del Terzo Reich, che si presenta quindi come un esempio nella storia dei sistemi giuridici di “Stato del non-diritto”.
Osserva infine Costerbosa: «Ma se non erano leggi [quelle naziste], non era scontato il dovere di sottomissione e a decadere sarebbero stati anche gli effetti giuridici da esse generati». (p. 98)
Milioni di tedeschi, invece, assolutizzarono dogmaticamente il precetto giuspositivistico della legge per la legge e nascondendosi dietro questo paravento di immorale ed illegale legalità prestarono al regime la loro disponibilità al male e al crimine genocida.

Nel capitolo quarto (Il problema delle motivazioni) è di nuovo Alberto Burgio a portare avanti l’interessante ed approfondita analisi sull’etica del genocidio nella Germania nazista, affrontando la questione decisiva delle intenzioni e dei motivi, delle convinzioni e dei pensieri che mossero la volontà di tanti tedeschi a seguire e a realizzare i programmi omicidi del governo. La storiografia, pur non potendo eludere completamente il problema, fatica a formulare una risposta e pertanto il discorso si estende ad altri approcci, alla sociologia storica, alla psicologia sociale, ma anche alla antropologia, alla psichiatria e alla psicanalisi.

Secondo Burgio, come è importante tenere conto del fatto che il nazismo ha rappresentato una cesura epocale che ha marcato una discontinuità profonda nella storia contemporanea, così lo è altrettanto cogliere i nessi e le relazioni di continuità con il contesto storico di lungo periodo nel quale si colloca, con la tradizione della storia, della cultura e della mentalità tedesche, cioè considerare la «capacità che il regime ebbe non solo di intercettare bisogni della popolazione, ma anche di porsi in comunicazione con il senso comune del tedesco medio». (p. 164) In queste pagine Burgio si serve soprattutto di Norbert Elias che nel suo I tedeschi definisce «l’”habitus nazionale” tedesco, segnato in modo particolare da due corollari del militarismo: il bisogno di ordine (la deferenza verso l’autorità, la gerarchia, la disciplina e l’obbedienza) e il nazionalismo aggressivo (a sua volta risultante dalla combinazione di comunitarismo e imperialismo)». (p. 165)

nazi0009Il principio dell’autorità e di conseguenza quelli della incondizionata sottomissione, della esecuzione scrupolosa degli ordini, del rispetto delle gerarchie costituite (dallo Stato all’esercito, dalla scuola alla famiglia, ecc) erano componenti essenziali e determinanti della mentalità e del costume medi dei tedeschi nati a cavallo tra il XIX e il XX secolo. La tipologia di relazione interpersonale e sociale paradigmatica divenne quella gerarchica (in sostanza militare) che si estese a tutti i settori della società. Questo fenomeno da un lato produsse la tendenza dei tedeschi ad affidarsi agli ”ordini superiori”, a delegare al più alto per grado o per ruolo l’onere e la responsabilità della decisione; dall’altro – osserva Burgio – produsse «con ogni probabilità anche l’assunzione feticistica del principio di prestazione, in base al quale non conta cosa l’autorità ordini di fare ma il farlo bene, fino in fondo, soddisfacendo le aspettative dei superiori». (p. 166)
Conseguenza del principio di prestazione, come modalità di approccio al proprio lavoro o alla azione in genere che si è chiamati a svolgere, è da ritenersi anche la «peculiare Gründlichkeit tedesca», ossia la “maniacale scrupolosità”, consistente nel “bisogno” di portare fino in fondo l’incarico assunto, di svolgere a tutti i costi il compito assegnato, quasi identificandosi completamente con quell’incarico. Come fece notare Arendt, per un tedesco «essere ligi alla legge non significa semplicemente obbedire, ma anche agire come se si fosse il legislatore che ha stilato la legge a cui si obbedisce». (p. 95)

Evidentemente una mentalità ed un costume di questo genere conducono alla deresponsabilizzazione, alla rinuncia al dovere di giudicare del valore delle cose, del bene e del male delle azioni compiute; produce – dice Burgio – il passaggio dalla “coscienza” alla “coscienziosità”, dalla consapevolezza critica di sé e del proprio agire alla scrupolosa, ma irresponsabile, esecuzione di un compito.
Il militarismo prussiano, ereditato dalla Germania di Bismarck e di seguito guglielmina, esercitò senza alcun dubbio un ruolo determinante nella modellatura di tale forma mentis, prona dinanzi all’autorità, ligia al dovere, solerte e meticolosa nella esecuzione dei compiti, ma è soprattutto al modello educativo che si rivolge l’attenta analisi di Burgio, sulla scorta delle considerazioni di Elias: «un modello educativo mutuato dall’organizzazione militare e teso a consolidare l’autorità costituita e i sistemi gerarchici di comando, inibendo e delegittimando anche sul piano morale l’esercizio individuale dell’autonomia critica e plasmando, tendenzialmente, personalità per le quali le autocostrizioni imposte dalla coscienza funzionano soltanto se assoggettate a loro volta all’”eterocostrizione” di un potere superiore». (p. 167)

Al bisogno di ordine, al feticismo della disciplina e dell’autorità si collegò poi l’altra istanza portante dell’habitus nazionale tedesco, cioè il nazionalismo aggressivo, che soprattutto in età guglielmina divenne il principio guida della politica estera tedesca (Weltpolitik). Burgio considera le ben note differenze concettuali sottese alle due parole che nella lingua tedesca si usano per esprimere il concetto di patria: Vaterland e Heimat.
Vaterland letteralmente significa “padre-patria”, “terra-padre”, è la patria intesa come nazione che assume i tratti autoritari, duri ed impositivi del padre prepotente che pretende di essere obbedito senza remore; Heimat invece e la “piccola patria”, cioè il luogo di nascita, la “terra-madre”, accogliente e rassicurante in quanto custode dell’identità e dell’animo del Volk.
In realtà, al di là delle differenze, i due concetti sono complementari e si cementarono tra loro, creando un’ideologia organicistica e comunitaria (Gemeinschaft) e popolare (Volk), su cui si innestò poi il mito della omogeneità e della purezza della comunità, che presto divenne mito della purezza del “sangue” e del suo vitale legame con il “suolo” e infine mito della razza, della purezza e superiorità della Volksgemeinschaft ariana.

Il bisogno comunitario di sentirsi parte di un corpo organico, di una comunità coesa tenuta assieme dal feticismo della disciplina, dal principio di prestazione e dell’obbedienza cieca produsse – osserva Burgio – «una paradossale etica della responsabilità che tendeva a risolversi nella sua antitesi: in un’etica della “minorità” (del servilismo e della complicità) che nobilitava la rinuncia all’autonomia e induceva alla delega della responsabilità personale a beneficio dei poteri sovraordinati». (pp. 174-175) Non a caso Burgio usa il temine “minorità” per qualificare questa “paradossale” etica, che sorda all’illuministico e liberatorio appello kantiano di abbandonare lo “stato di minorità”, di esso faceva il proprio habitus.
Il logico corollario di una simile ideologia comunitaria fu un’aggressiva mentalità manichea, portata all’esclusione e alla contrapposizione del gruppo di “noi” al gruppo di “loro”, di chi è fuori dalla comunità o, peggio ancora, è ritenuto un pericolo, una minaccia.

Hitler e il nazismo non si limitarono ad ereditare i caratteri dell’habitus nazionale germanico, ma li portarono alla loro suprema espressione e fornirono un codice di (non)valori tagliato e cucito su misura della forma mentis qui descritta: una autentica etica del disumano che la maggioranza del popolo tedesco non faticò particolarmente ad introiettare. In un contesto oltremodo inquieto e problematico, come quello della sconfitta nella Grande Guerra e dei trattati di Versailles, delle crisi economiche ed in particolare di quella del ’29; in un clima di delusione, disorientamento, di esacerbato rancore e di perdita di fiducia nelle istituzioni della repubblica e nei suoi partiti, il nazismo seppe incanalare le angosce dei tedeschi e Hitler compì un lavoro di emersione, estraniazione e ipostatizzazione dei “demoni” che latenti erano cresciuti ed avevano prosperato nell’animo del popolo. I traumi e le paure furono proiettati fuori dalla coscienza collettiva e oggettivati in una serie di nemici concreti contro i quali combattere per la salvaguardia della comunità. Dinanzi al disordine e al caos politico degli ultimi anni di Weimar, «il desiderio di sicurezza e di ordine divenne impellente, e così la domanda di unità, di appartenenza, di protezione e di rassicurazione. Alle paure […] molti tedeschi reagirono invocando lo spirito della comunità germanica. […] Chiedevano nuove certezze, nuovi miti redentivi. […] sulla scelta di consegnare la Germania ai nazisti influì […] una spasmodica attesa di redenzione e di fusione in una collettività mistica». (pp. 180-181)

E il nazismo ed il suo leader carismatico tutto questo furono in grado di fornirlo al popolo tedesco, ma ad un prezzo altissimo, quello della rinuncia alla coscienza e alla volontà individuali in funzione della fusione con una comunità di uomini “minori”, irresponsabili, che hanno rinunciato alla propria autonomia di individui liberi e consapevoli; uomini che furono pronti ad adottare la “tavola dei valori” di una nuova etica che – Burgio sottolinea con forza come questo sia uno degli aspetti distintivi e più significativi del nazismo – il regime pretese di elaborare attraverso la negazione e il capovolgimento dei precetti etici tradizionali ed in particolare cristiani. Nuovi valori nazisti in cui credere, anche solo parzialmente, o in cui fingere di riporre fiducia al fine di innescare un meccanismo di rassicurante autoinganno assolutorio utile per la gestione di un conflitto morale che non poteva non insorgere, anche nei carnefici più violenti, davanti all’orrore da loro stessi prodotto.

Di grande interesse sono le pagine in cui Burgio redige la tavola di questi valori etici nazisti, partendo dall’assunto per cui, come ogni dottrina etica, anche quella nazista associa il bene alla vita, ma il valore della vita non viene più declinato in termini universalistici, ma in termini particolaristici ed esclusivi, compartimentati. A contare è solo la vita del Volk, la sua salute e quella dei Volksgenossen, non quella degli altri, che, al contrario, diviene ostacolo, pericolo da combattere. Pertanto, con un paradossale rovesciamento dei termini, per garantire la vita di alcuni uomini è buono e moralmente legittimo ucciderne altri (altre razze o le vite “non degne” perché malate, ecc). È una «etica etnocentrica e razzista […] intessuta di “valori” correlati alla superiorità dello Herrenvolk». (p. 200) «Giungiamo così rapidamente al cuore dell’etica nazista, dove la distruzione dell’umanità come universale si connette alla eroicizzazione dei “carnefici” e questa alla produzione di un lessico dell’orgoglio genocida» (p. 204), a cui fa da contraltare – ancora una volta per ribaltamento dei criteri morali tradizionali – la colpevolizzazione delle vittime. Ne consegue che la somma virtù divenne la “durezza” – cioè la spietatezza, il disprezzo per la compassione e per ogni altra forma di sentimento umanitario – a cui associare la più ferrea abnegazione nel portare avanti l’opera di realizzazione di una volontà altrui: quella del Führer.
Ancora una volta – come ci insegna Burgio – decisiva fu la scelta, dei carnefici, dei collaboratori e di buona parte dei tedeschi, di non decidere, di “farsi decidere da altri”; ma si trattò pur sempre di una decisone, che richiede l’assunzione di responsabilità.

E sulla natura e sulle diverse tipologie della responsabilità ragiona il quinto capitolo (La molteplice responsabilità) scritto da Marina Lalatta Costerbosa, che, dopo aver ricostruito il panorama completo delle forme di responsabilità, si concentra su quella più pertinente alla problematica affrontata dal saggio: la “responsabilità morale e personale”, imputabile ai perpetratori diretti del genocidio nazista e ai loro collaboratori, innanzi tutto e al popolo tedesco nel suo complesso, di conseguenza. Si tratta – scrive l’autrice – «della responsabilità riferita ad un soggetto umano capace di intendere e di volere, quella responsabilità che ha a che fare con l’agire dell’uomo. E questo non sotto il profilo giuridico (civile e penale) […] bensì dal punto di vista morale e nelle sue diverse gradazioni, ovvero, a seconda dei differenti livelli di coinvolgimento e di intenzionalità nell’azione e nelle condotte d’azione sotto esame». (p. 230)
Fanno da sfondo generale alle considerazioni di Costerbosa le riflessioni di Hans Jonas e del suo Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica in cui il filosofo tedesco chiarisce come la responsabilità, pur non costituendo di per sé ancora la morale e non ponendo da sé degli scopi all’azione, sia la condizione preliminare della morale stessa. La responsabilità, continua Lalatta Costerbosa, significa «capacità di autocontrollo rispetto ad azioni che fuoriuscirebbero dal perimetro di ciò che è ritenuto moralmente lecito» (p. 232), ciò vuol dire «capacità di impedire a se stessi di compiere un’azione determinata, rispettando la norma che la vieta». (p. 239)

Pertanto, la responsabilità, presupposto e condizione dell’azione morale, a sua volta presuppone la deliberazione autonoma, l’autonomia e l’indipendenza del soggetto morale, come bene ha chiarito nella Critica della Ragion pratica Kant, recisamente contrario a letture deterministiche dell’esperienza etica, oggigiorno rilanciate come conseguenza dello sviluppo delle neuroscienze.
Quattro sono secondo Costerbosa le condizioni di possibilità della responsabilità morale: l’assenza di qualsiasi forma di determinismo etico; la consapevolezza, almeno parziale, delle conseguenze dell’azione intrapresa; l’autocontrollo, come sopra definito; la percezione del sentimento di responsabilità.

Ancora il filosofo di Königsberg ed Agostino, letti attraverso Paul Ricoeur, fanno da punti di riferimento essenziali della breve, ma molto interessante, ricostruzione operata dalla studiosa di un problema annoso della riflessione filosofica (e teologica), quello della natura ed origine del male; il problema della teodicea.
La teoria agostiniana della non sostanzialità del male, interpretato come un nihil privativum, come una privatio boni, a cui fa da contraltare l’equazione tra essere e bontà e da corollario l’incommensurabile distanza ontica tra creatore e creatura, causa dell’imperfezione dell’uomo e condizione di possibilità del peccato, cioè del suo libero allontanamento dalla via maestra del bene di dio, trovava una soluzione (che incontrò molta fortuna) tanto sul piano ontologico della spiegazione della natura del male in relazione all’essere e a dio, quanto sul piano morale dell’origine dell’azione malvagia.
Secondo Costerbosa e come osserva Ricoeur, i termini della riflessione filosofica sul male dopo secoli di riproposizione del paradigma agostiniano mutano grazie a Kant, con il quale viene meno l’impostazione onto-teologica della teodicea e il male riguarda solo la sfera pratica e soggettiva dell’azione e della riflessione morale, non più quella oggettiva dell’ontologia; con Kant «non si può più domandare donde viene il male, ma donde viene che noi lo facciamo». (p. 245)
È un processo di laicizzazione (il male radicale prende il posto del peccato originale) e di soggettivizzazione della questione del male quello che avviene con Kant, che pone al centro dell’esperienza morale l’autonomia del soggetto che avverte in sé la propensione al male a fronte della predisposizione al bene come termini estremi della libera scelta individuale.

E ancora a Kant fa riferimento Marina Lalatta Costerbosa per definire il concetto di dignità umana e per ricondurre il discorso al tema delle responsabilità dei crimini nazisti. Il dovere del rispetto della dignità dell’uomo in se stessi e negli altri è imperativo categorico assoluto per Kant e «l’idea kantiana di dignità riesce a spiegare via negationis l’ottundimento della responsabilità» avvenuto in modo generalizzato nella società tedesca del dodicennio nazista: offende e perde la propria dignità di uomo il burocrate che ottusamente esegue il proprio compito senza farsi domande; nega e violenta la dignità dell’altro il carnefice che scarica la sua furia criminale su vittime precedentemente disumanizzate; e la vittima cerca disperatamente di difendere o di trattenere una minima parte di quella dignità umana che le viene strappata dalla violenza altrui.

Laddove e quando l’universale etico del rispetto della dignità umana lascia il posto al disprezzo della vita si producono le condizioni affinché gli uomini possano compiere l’irresponsabile scelta del male estremo. Questo ci fa pensare alle riflessioni che Karl Jaspers nel 1946 propose nel suo La questione della colpa circa le responsabilità del popolo tedesco. Come è noto il filosofo articolava il concetto di colpa secondo quattro tipologie, tutte imputabili ai tedeschi, individualmente e collettivamente – colpa giuridica, politica, morale ed infine metafisica – e l’ultima, la “colpa metafisica”, consiste nella violazione del principio di solidarietà che dovrebbe unire gli uomini tra loro e che rende ogni individuo corresponsabile in parte delle ingiustizie e dei torti subiti dall’umanità, soprattutto quando questi avvengono in sua presenza o quando ne è a conoscenza e pertanto non ha fatto tutto ciò che avrebbe potuto per impedirli.

Hannah-Arendt009Il riferimento a Jaspers è funzionale al passaggio all’analisi del sesto ed ultimo capitolo di Orgoglio e genocidio (Un’ottusità deliberata), in cui Alberto Burgio fa risalire proprio al confronto tra Hanna Arendt e il maestro Karl Jaspers, interrottosi nel 1933 e ripreso nel 1946, il ripensamento compiuto dalla filosofa di Hannover delle posizioni sul nazismo da lei stessa espresse in Le origini del totalitarismo, nonostante il carteggio tra il maestro e l’allieva di un tempo avvenga cinque anni prima della pubblicazione delle Origini (1951) e non nei dodici che separano questa opera dalla Banalità del male (1963), in cui tale ripensamento produce i suoi principali e più importanti effetti.
Nello scritto del 1951, infatti, il discorso della Arendt muove dall’analisi della società di massa, nella sua versione totalitaria e sfocia in conclusioni rigidamente deterministiche, che, applicando il modello eterodirettivo, pongono l’accento sulla «assoluta subordinazione degli individui assoggettati al potere della dirigenza nazista, ridotti a semplici marionette» sedotte dall’ideologia e mosse dalla pervasiva propaganda capace di creare un mondo fittizio «nel quale milioni di tedeschi sarebbero vissuti per dodici anni come prigionieri ignari» (p. 287) e pertanto anche scarsamente responsabili delle loro azioni; «uomini in senso proprio de-menti, privi di volontà e di coscienza». (p. 289)

Ma Burgio mostra come in uno scritto del 1945, Colpa organizzata e responsabilità universale, e nelle comunicazioni con Jaspers, Arendt avesse già iniziato ad elaborare concetti che, dopo un periodo di latenza di più di quindici anni, sarebbero stati poi alla base del saggio sul processo ad Eichmann. In questo scritto, infatti, troviamo un primo abbozzo del concetto di “normalità” di quegli uomini che si trasformarono in carnefici, grazie alla capacità del regime di sfruttare l’antropologia del “bravo cittadino borghese”, «buon lavoratore e rispettabile “pater familias”, preoccupato del benessere del proprio nucleo famigliare e tendenzialmente indifferente verso la sfera pubblica» (p.295), che in cambio di sicurezza e tutela degli interessi privati prestò al regime la propria disponibilità all’azione criminale, rassicurato dal senso di impunità e dalla irresponsabilità prodotti dall’alibi autoassolutorio della catena di comando, degli ordini superiori ricevuti all’intero dell’apparato burocratico dello stato. E – ribadisce con forza l’autore – si trattò «di uno scambio nel quale il regime aveva concesso vantaggi materiali e ottenuto consenso e complicità. Ma uno scambio del genere […] chiamava in causa la libera scelta dei tedeschi di accettare le proposte del regime […]. Da una parte benessere e sicurezza, con in più la garanzia dell’impunità; dall’altra, la violenza nei confronti dei deboli, dei diversi, degli estranei: una scelta sin troppo ragionevole (propria di accorti homines oeconomici) e persino paradossalmente morale, dettata dal senso di responsabilità verso la famiglia». (p.296)

EichmannNe La banalità del male Arendt sviluppa questa linea di pensiero e la applica allo studio di un caso che intende presentare come paradigmatico, il significato del quale cioè trascende la specificità del caso medesimo e si allarga fino a comprendere e a spiegare il comportamento della maggioranza dei tedeschi: il processo svoltosi a Gerusalemme contro Adolf Eichmann. Per rispondere alla domanda essenziale – che, come abbiamo visto, secondo Burgio solo la filosofia è in grado di affrontare in modo pertinente – “perché Eichmann ha voluto essere un carnefice?”, Arendt enuclea e descrive una nuova e desolante configurazione della mente, quella della “ottusità morale”, della “stupidità”, della Banalität, come già l’aveva definita Jaspers.
Si tratta della questione filosofica dell’enigma della libertà dell’uomo, di un uomo consapevole e libero e al tempo stesso “normale”, cioè non affetto da turbe mentali o mentalmente debole, che prende la decisione autonoma di compiere il male, un male criminale ed estremo. Ne consegue che – dice Burgio – quello che «Arendt elabora è un dispositivo filosofico, teoretico, che non si limita a recepire e riformulare problematiche storiografiche o psicosociali ma le integra con l’analisi dello stile cognitivo e riflessivo del soggetto, e della sua prospettiva morale ed etica […] sulla base del presupposto dell’autonomia e della responsabilità personale». (p. 299)

Il male compiuto da uomini come Eichmann è vuoto, privo di senso e di profondità, superficiale, insensatamente eccessivo e in tal senso “banale”; può distruggere il mondo perché – scrive Hanna Arendt – «si espande sulla sua superficie come un fungo» (p. 303), si propaga come un’epidemia ma non ha la “profondità” del “male radicale” kantiano. E chi è colui che pratica questo male “banale” e nella sua banalità estremo e senza limite? La risposta di Arendt è nota: l’attore di questa esperienza è un soggetto “insulso”, “sconsiderato”, un uomo “privo di pensiero”, thoughtlessness.
Ma il pensiero di cui si denuncia l’assenza non è né quello logico, del calcolo e del ragionamento strumentale – di cui Eichmann diede ampiamente ed indiscutibilmente prova – né quello argomentativo, colto o erudito. A mancare è la capacità di riflessione autonoma, critica e disinteressata sul senso delle cose, sul proprio e l’altrui esserci, sul valore e il senso della vita e del mondo. È la razionalità intesa come capacità di discernimento tra ciò che è giusto ed ingiusto, tra il bene ed il male, tra ciò che è umano e ciò che non lo è; è il pensiero inteso come la capacità di giudicare del valore delle cose e delle azioni.

Se – riflette Burgio – tutti, come voleva il Cartesio del Discorso sul metodo, sono in grado di saper ben giudicare e di distinguere il vero dal falso, in quanto tutti gli uomini posseggono la quantità necessaria e sufficiente di buon senso per tale scopo, allora ne consegue che chi si astiene dall’esercizio della ragione così intesa, dall’applicazione del buon senso, lo fa per scelta, per volontaria decisione di – potremmo dirlo con Max Horkheimer di Eclisse della ragione – identificarsi totalmente con una “razionalità soggettiva”, meramente calcolistica, utilitaristica ed avalutativa, allontanando da sé la “razionalità oggettiva”, critica e valutativa, che guida l’uomo nell’atto della comprensione e del giudizio.

È in questo modo – secondo Arendt – che l’uomo si predispone all’eterodirezione, all’adesione incondizionata alle regole e ai poteri vigenti, astenendosi dal valutare e dal pensare criticamente ed autonomamente. Ma si tratta comunque e sempre di una libera predisposizione alla sottomissione, di una volontaria decisione di abbandonare la propria volontà per identificarsi con quella altrui, fino al punto che tale condizione di “ottusità della mente”, di “assenza di pensiero”, di “annullamento delle capacità di discernimento e giudizio” diventa un vero e proprio abito mentale, una “seconda natura”, con la quale ci si identifica totalmente.
La “seconda natura” dell’”assenza di pensiero” produce una chiusura narcisistica dell’individuo su se stesso; una fissazione manichea sul proprio gruppo di appartenenza che esclude recisamente gli altri, i diversi; un’incapacità sostanziale di immedesimarsi negli altri e di nutrire compassione.
Si produce un effetto di “compartimentazione” della coscienza morale, che include solo il gruppo di “noi” ed esclude quello degli “altri”; un blocco di quel dialogo interiore che imporrebbe ad ogni individuo il confronto con la propria coscienza; infine lo scivolamento in una condizione di “minorità” morale, cioè di esternalizzazione e perdita della propria coscienza e della propria volontà.

Ora, se il ragionamento paradigmatico ed analogico di Hanna Arendt – come ritiene Burgio – è ancora pienamente valido e pertinente, si deve concludere che nella Germania tra gli anni Venti e Quaranta del Novecento si sia verificato un vero e proprio “crollo morale”, una “pandemia di ottusità morale”, che, seppur con responsabilità differenti e a livelli di coinvolgimento molto diversi tra loro, ha travolto ed “infettato”, come Eichmann, tanti milioni di cittadini “normali” del Terzo Reich.

Per concludere questa lunga presentazione di un libro ricchissimo ed interessantissimo, pensiamo che – proprio per dare maggiore fondatezza all’idea della valenza paradigmatica della “normalità criminale” di Eichmann e per evitare che la spiegazione del passaggio da “uno” a “molti”, dalla minoranza dei casi esemplari dei grandi criminali alla maggioranza degli “uomini della strada” si trasformi, paradossalmente, in una nuova forma di meccanicismo di tipo analogico (come i pochi… così i molti) – sia opportuno, come d’altra parte anche Alberto Burgio e Marina Lalatta Costerbosa riteniamo sostengano, fare interagire ed integrare maggiormente i due piani dell’autonomia (cioè della scelta soggettiva, libera e responsabile) e dell’eteronomia (cioè del condizionamento, del contesto, dell’intervento esogeno), della libertà soggettiva e della costrizione oggettiva, dell’individuo e della struttura.

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L’essenza criminale del potere. V. Ruggiero, Perché i potenti delinquono. Recensione e intervista all’autore https://www.carmillaonline.com/2015/10/28/lessenza-criminale-del-potere-v-ruggiero-perche-i-potenti-delinquono-recensione-ed-intervista-allautore/ Wed, 28 Oct 2015 22:30:15 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=26071 di Gioacchino Toni

ruggiero potenti delinquonoVincenzo Ruggiero, Perché i potenti delinquono, Feltrinelli, Milano, 2015, 202 pagine, € 18,00

“L’intervento dei governi in soccorso alle banche ha sancito il principio secondo cui i profitti vanno privatizzati mentre le perdite socializzate”. Vincenzo Ruggiero introduce il lettore all’analisi dello statuto criminale del potere a partire dall’esempio di come i momenti di crisi economica vengano presentati come situazioni eccezionali che richiedono deroghe alle regole ordinarie al fine di ristabilire la normalità allo stesso modo di come i paesi democratici, paladini dei diritti umani, si permettono di [...]]]> di Gioacchino Toni

ruggiero potenti delinquonoVincenzo Ruggiero, Perché i potenti delinquono, Feltrinelli, Milano, 2015, 202 pagine, € 18,00

“L’intervento dei governi in soccorso alle banche ha sancito il principio secondo cui i profitti vanno privatizzati mentre le perdite socializzate”. Vincenzo Ruggiero introduce il lettore all’analisi dello statuto criminale del potere a partire dall’esempio di come i momenti di crisi economica vengano presentati come situazioni eccezionali che richiedono deroghe alle regole ordinarie al fine di ristabilire la normalità allo stesso modo di come i paesi democratici, paladini dei diritti umani, si permettono di interrompere il rispetto di tali diritti, sempre grazie al fine ultimo di ristabilire le condizioni ordinarie. Dunque, i potenti si arrogano il diritto di trasgredire, ignorare, riscrivere le regole, forti della logica che vuole che i loro interessi coincidano con gli interessi dell’intera comunità.
L’approccio proposto da Ruggiero capovolge l’idea di deficit, cara alla criminologia, che tende a leggere gli eventi criminali come atti derivanti da una mancanza di socializzazione, di famiglia, di risorse ecc. Se ciò può essere vero in molti casi, di certo non lo è per quegli individui, o gruppi sociali, che commettono reati pur essendo ben inseriti socialmente con ambiti familiari funzionanti e disponendo di cospicue risorse. Inoltre, prima di entrare nel merito del lavoro proposto da Ruggiero, occorre sottolineare che, nell’ambito della tradizione della criminologia critica o radicale, alla quale appartiene l’autore, non ci si limita a guardare soltanto ai fatti ufficialmente giudicati come criminali, ma si presta attenzione anche a quei comportamenti che sono socialmente dannosi pur non essendo considerati criminali. La criminologia radicale, pertanto, si interessa più al danno sociale che non alla definizione ufficiale di criminalità.

A proposito dei soggetti identificati come potenti dalla trattazione, Ruggiero ricorda come le definizioni di potere non siano mai del tutto definite o incontestabili ed in diversi casi, nel momento in cui si commette un crimine, si esercita un atto di potere nei confronti delle vittime di turno indipendentemente dal fatto che le vittime siano “socialmente, economicamente e politicamente” più potenti del criminale. Occorre pertanto chiarire a quali attori ci si riferisce in questo testo quando si parla di potenti. “Molti dei responsabili di violenza domestica, di rapina o di crimini di natura razzista, dopo le loro scorribande, torneranno con ogni probabilità al loro status di persone prive di potere che li caratterizza nelle altre interazioni sociali. I comportamenti criminali esaminati nelle pagine seguenti”, sottolinea l’autore nell’Introduzione, “sono propri di attori il cui potere costituisce una risorsa disponibile anche in altri contesti e per altre iniziative, attori che, dopo aver utilizzato il proprio potere per commettere crimini, possono facilmente tornare nelle altre sfere della loro esistenza e continuare a esercitarlo”. I crimini di cui si occupa il saggio sono quelli che “hanno come autori apparati statali, grandi imprese, istituzioni finanziarie e altre organizzazioni similmente potenti; insomma tutti quegli autori di reato che posseggono risorse materiali e simboliche di gran lunga superiori a quelle possedute dalle loro vittime”.
Man mano che il saggio amplia i punti di osservazione sulla questione del crimine dei potenti si delinea un quadro che pare portare alla conclusione che “lo studio del rapporto tra potere e criminalità consiste nello studio della coincidenza tra i due”. Ruggiero, capitolo dopo capitolo, descrive il potere come “entità diffusa, una sorta di infezione pandemica che si occulta, viola le sue stesse leggi, sprigiona violenza, promuove emulazione e, allo stesso tempo, neutralizza chi vorrebbe opporvisi”.

interestinpeopleDopo aver passato in rassegna le diverse letture proposte dalla criminologia, a partire da Edwin Sutherland, circa le modalità con cui vengono letti i crimini dei potenti, l’autore giunge alla conclusione di come tale disciplina, soprattutto a proposito di questo tipo di crimine e per quelle vaste zone grigie ove risulta difficile distinguere nettamente legale ed illegale, non risulti in grado di darne una lettura esaustiva, da qui la necessità di esplorare altri terreni di analisi che possono venire in aiuto nell’esaminare il fenomeno.
Ad esempio, il concetto di “deprivazione relativa” non riesce a spiegare la criminalità dei potenti, visto che, in tal caso, i rei godono solitamente di “abbondanza relativa”. Non è possibile spiegare tale criminalità nemmeno ricorrendo all’incapacità dei soggetti in questione di stabilire legami sociali significativi. Allo stesso modo non si può associare la criminalità a condizioni economiche disagiate e/o all’inefficacia dello stato sociale, visto che la criminalità dei potenti gode sia di condizioni socioeconomiche privilegiate che di importanti contribuiti statali attraverso esenzioni tributarie e tolleranza all’evasione fiscale. In generale, molte teorie sia della criminologia classica che critica, risultano incapaci di spiegare il crimine dei potenti in quanto, in buona parte, costruite per spiegare la criminalità dei deboli.
Le teorie sociali permettono interpretazioni alternative a quelle della criminologia. Da esse si può derivare l’idea che le violazioni dei potenti delle regole a cui ufficialmente dichiarano lealtà, grazie ai successi ottenuti, possono stimolare comportamenti imitativi. Il crimine di potenti, secondo la teoria sociale classica, ha come obiettivo quello di perpetuare ed accumulare i privilegi di chi ne è autore e teme in un loro futuro ridimensionamento. L’autore pone l’accento proprio sul fatto che la criminalità dei potenti, oltre che dalle “dinamiche oggettive” dei liberi mercati, deriva anche dalla paura del futuro, dalle previsioni circa le condizioni economiche e politiche che si avranno un domani. Ciò porta Ruggiero a concludere che il tipo di criminalità di cui si sta parlando “deriva dal rapporto ossessivo che i gruppi e gli individui potenti stabiliscono con il proprio futuro, è una forma di accumulazione di un potere già ampiamente posseduto ispirata dalla paura che eventi futuri possano minacciarne il godimento”.

Nel saggio si esamina come la legge interpretata da alcuni come “tutela contro il potere”, possa essere letta come “strumento per la sua costante accumulazione”. L’autore passa in rassegna l’approccio di Kelsen volto a separare moralità e teoria della giustizia, segnalando come da un lato la sua teoria preveda il “potenziamento dei sistemi costituzionali che fanno della legalità una guida al comportamento di tutti”, dall’altro lato tale impostazione teorica “risulta vulnerabile nei confronti delle democrazie moderne, le quali mostrano illegittimità fisiologica nella miriade di norme create che contraddicono i principi costituzionali che pure dovrebbero ispirarle. Questa disgiunzione, continua Ruggiero, “è il risultato del potere acquisito da organismi ‘extra’ e ‘sovra’ statali, come i gruppi economici e finanziari, che regolarmente evadono il controllo giuridico”. In maniera opposta le “teorie dualiste” individuano nell’autorità dello stato un a priori rispetto al diritto, pertanto ritengono che lo stato debba poter agire senza autorizzazione giuridica quando non addirittura al di fuori delle norme, al di fuori dello stato di diritto.
Viene analizzata anche la tradizione marxista che vede nei potenti degli sfruttatori, dunque criminali per definizione. Nell’ambito di tale approccio Ruggiero si sofferma sul fatto che in Marx è presente tanto la denuncia del crimine dell’accumulazione primitiva quanto l’elogio del progresso: “La nascita della grande proprietà, la distruzione dei diritti consuetudinari e la privatizzazione delle terre (…) contengono un nucleo criminale che ha comunque caratteristiche evolutive e modernizzatrici”. Quando Marx analizza la distruzione dell’economia indiana tradizionale, individua nell’invasione inglese la causa di una futura rivoluzione sociale. La criminalità dei potenti può essere pertanto ritenuta una “componente naturale dei rapporti tra le classi e, in secondo luogo, il seme del progresso e della formazione di una classe destinata a rovesciare e abbattere il sistema costituito dai ‘criminali’”. Le vittime dei crimini dei potenti diventano, pertanto, martiri inconsapevoli della “futura rivoluzione sociale”. In tal modo i crimini relativi all’accumulazione primitiva divengono parte della “logica dello sfruttamento e della crescita economica”.
Il pensiero politico può venire in aiuto per comprendere la criminalità dei potenti, diverse impostazioni classiche individuano nel potere politico le radici del comportamento criminale. La criminalità dei potenti parrebbe, secondo diverse teorie, essere prodotta dalla natura implicitamente deviante del potere politico. A tal proposito Ruggiero passa in rassegna Aristotele, Agostino, Spinoza, Hobbes, Rousseau, Montaigne, Pascal, Vico, Montesquieu, Hume, Tocqueville, Smith, Kant, Hegel, Marx, Foucault e Luhmann. Successivamente, nel saggio, viene elaborata anche una critica del pensiero economico al fine di individuare alcune categorie in grado di affrontare il crimine di potenti. Anche l’etica sembra offrire buoni strumenti per affrontare la questione; la giustificazione della condotta adottata dai criminali potenti può derivare da un’interpretazione selettiva del pensiero filosofico occidentale. “Questo processo interpretativo si nutre del proposito di espandere le opportunità sociali dei potenti, di ampliare le occasioni per delinquere e di rendere accettabili i reati commessi ai loro pari e alla società in generale”.

banksy-lies-politicsParticolarmente interessante è il contributo all’analisi dei crimini dei potenti offerto, nell’ultimo capitolo, dall’analisi della Comédie Humaine di Honoré de Balzac, che ha nel denaro e nel potere i suoi principali protagonisti. In Balzac, sostiene l’autore, i gruppi sociali sono nettamente distinti e rappresentati, ciascuno di essi, da un personaggio che si presenta come condensato del gruppo. I personaggi balzachiani, continua Ruggiero, sono avidi ed ambiscono, in un’epoca in cui al “naturale istinto accaparratore” si aggiunge il “sogno dell’accumulazione”, ricorrendo ad ogni mezzo necessario, al possesso di tutto ciò che è commerciabile, compreso il potere.
Monsieur Grandet, ad esempio, si arricchisce dapprima grazie alla frammentazioni dei terreni sottratti agli aristocratici dalla Rivoluzione, poi dalla vendita di vino all’esercito Repubblicano, “quando impara che il denaro genera se stesso”, fino a diventare sindaco, seguendo la logica del disprezzo degli avversari che incontra sulla sua strada, considerati colpevoli, in fin dei conti, della loro incapacità di non farsi sopraffare.
Nel saggio si segnala anche come in Balzac siano riscontrabili tracce di una criminologia di “ispirazione fisiognomica”, come ad esempio quando dalla forma del naso e dai tratti del viso lo scrittore deduce segni della cattiveria e dell’egoismo del personaggio. Il grande scrittore francese si concentra su ladri “che non rubano per bisogno” ma per avidità e trattandosi di ladri su ampia scala, questi tendono a suscitare rispetto ed a godere di “complicità non richiesta”. Il potente, indipendentemente dai mezzi che utilizza, può sempre tornare utile e la sua disonestà tende ad essere fruita come disonestà potenzialmente in grado d trasformarsi in benessere comune. In altre parole, al potente si è più disposti a perdonare i crimini perché si spera di poter ricavare qualcosa dai suoi privilegi, mentre al piccolo ladro si tende a non perdonare nulla perché non detiene privilegi da cui ricavare qualcosa.
In Balzac, sostiene Ruggiero, “potere e criminalità si fondono in una monomania, in un’ossessione per gli appetiti intensi”, dunque, indipendentemente dallo scopo, i grandi ladri balzachiani si adoperano con “entusiasmo incondizionato” al suo raggiungimento. Nelle opere del francese l’avidità e le pratiche illecite toccano ogni classe sociale e ad essere condannato dallo scrittore, di tendenze politiche conservatrici, è “lo spettacolo di gruppi di rango elevato e infimo che si uniscono in un’alleanza simbolica avente come fulcro il denaro”. Nella società francese che si va formando a quelle date, il denaro rappresenta da un lato una “fonte di divisione e conflitto per l’individualismo che generano, dall’altro lato una forza che circola nell’organismo sociale amalgamando settori della società altrimenti contrapposti. Comprare e vendere, sfruttare e rubare, coinvolgono tutti, dall’alto al basso della struttura sociale”. La società descritta da Balzac vede i diversi gruppi sociali interconnessi, in cui ogni rango cerca di scalare le gerarchie sociali attraverso uno spirito rampante. In un mondo in cui la differenza tra lecito ed illecito appare davvero blanda, le diverse classi sociali più che lottare tra loro sembrano “impegnate nell’imitazione reciproca”. In tale contesto la figura che più di ogni altra, secondo Ruggiero, rappresenta l’apoteosi del “potere come crimine” è quella di Vautrin. In lui si condensano l’inganno, l’avidità, l’efficienza, l’imprenditorialità e la rispettabilità. Lo vediamo vestire l’abito talare, alloggiare presso la pensione di madame Vauquer e nella pièce teatrale a lui intitolata. La figura a cui si è ispirato Balzac è quella del criminologo Vidocq che da ex galeotto diventa fondatore della Sûreté, combattente nell’esercito francese contro gli austriaci, poi disertore, di nuovo nell’esercito sotto falso nome, poi, una volta costretto ad abbandonare l’uniforme, lo troviamo vivere di truffe fino a diventare informatore della polizia in carcere. Rispettato dai malviventi, ha successo come detective privato fino ad entrare a far parte della Préfecture de Police. “Questo criminologo criminale non potrebbe personificare più adeguatamente l’idea balzachiana di potere”.
Nei racconti dello scrittore francese, continua Ruggiero, nessuno sembra opporsi all’esercizio del potere anche quando questo è subito; “Balzac quindi non esamina tanto la dominazione quanto l’egemonia, una forma di preminenza culturale che attrae e coopta gli altri anziché respingerli. Il potere (…) trasforma la dipendenza in accettazione”.

Visto che i potenti hanno “ridotto le capacità degli esclusi di narrare e articolare le loro esperienze di ingiustizia”, Ruggiero conclude invitando tutti a contribuire a quel processo di riconoscimento degli esclusi come “soggetti meritevoli di stima, credibilità e soggettività”.


INTERVISTA

  • Il tuo ultimo saggio, Perché i potenti delinquono, edito da Feltrinelli, si occupa dei crimini dei potenti. Come definiresti, brevemente, i potenti di cui parli nel testo?

Nelle democrazie liberali si tende a parlare di libertà come se questa fosse sempre e comunque equivalente per tutti gli individui e tutte le categorie sociali mentre, in realtà, mi sembra si possa dire che esistono gradi differenti di libertà. I diversi individui hanno a disposizione una gamma di scelte variabile ed una relativa capacità di precisione nel prevedere l’esito di tali scelte, dunque una diversa possibilità di controllo sugli effetti. Il potente a cui mi riferisco è pertanto colui che ha una grande gamma di scelte e può prevederne con una certa precisione l’esito, spesso evitando di farle apparire come criminali.

 

  • Lo studio alla base di questo saggio deriva da una sorta di insoddisfazione per come la criminologia critica, o radicale, approccio a cui comunque ti rifai, affronta la questione del crimine dei potenti. L’analisi offerta dalla criminologia appare incapace di cogliere tutti gli aspetti ed i motivi del crimine da parte dei potenti, dunque la necessità di affiancarle suggerimenti derivati da altri ambiti culturali. Non è una novità questo tuo debordare i confini della disciplina criminologica. Si possono ricordare le tue analisi delle stampe di Giovan Battista Piranesi, le sue “prigioni della mente”, per spiegare l’essenza immateriale del carcere contemporaneo, oppure il tuo aver affrontato alcuni scritti di Daniel Defoe per ragionare sulla differenza tra “affari appropriati” e “affari non appropriati” e sulla “legittimità morale” degli affari o, ancora, in Crimini dell’immaginazione [recensione su Carmilla 1/22/2], hai affrontato la letteratura classica nella convinzione che la finzione possa essere più importante della sociologia nel ragionare su criminalità e controllo sociale. Tra i campi del sapere attraversati in questo saggio non manca, ancora una volta, la letteratura ed, in particolare, nell’ultimo capitolo, passi in rassegna la Comédie Humaine di Honoré de Balzac. Puoi ricostruire, in sintesi, le escursioni extra criminologia presenti in questo tuo volume appena uscito?

Ho scelto diversi campi del sapere che possono offrire spunti circa i motivi del commettere crimini da parte dei potenti. Nella criminologia la motivazione viene spesso ricercata nella convizione che in una società ultra-competitiva si è affermata l’idea che l’importnte è vincere indipendentemetne dal rispetto delle regole. Altri approcci suggeriscono che i potenti, al pari di tutti gli altri criminali, hanno una carenza di autocontrollo, oppure, le teorie dell’apprendimento insistono sulla necessità di imparare a commettere un crimine ed a convivere con la propria criminalità ricorrendo a giustificazioni. Tutto ciò è insufficiente a spiegare la questione del perché i potenti delinquono, dunque ho indagato altri ambiti del sapere.
Nell’ambito della teoria sociale ho rintracciato, ad esempio, l’idea dell’emulazione dei potenti. Più le loro gesta vengono esibite, più si prestano all’emulazione, tanto che sono portato ad affermare che più che all’occultamento ed alla coercizione, i potenti mirano all’emulazione. Altra idea importante riguarda la paura del futuro; l’accumulazione delle ricchezze risponderebbe al timore che prima o poi queste potrebbero essere contestate ed i privilegi ridotti. Ad esempio, i governanti che sono consapevoli di perdere le prossime elezioni si adoperano per assegnare tutti i luoghi di potere al proprio entourage al fine di limitare la futura perdita di potere.
Dalla filosofia del diritto parto dal dialogo tra Platone e Trasimaco per poi passare in rassegna i contributi di diversi pensatori, in particolare Hannah Arendt, giungendo alla conclusione che i potenti hanno la capacità da una parte di adottare le idee di Platone circa l’universalità delle leggi e dall’altra parte di rifarsi, in quanto potenti, a quanto esposto da Trasimaco utilizzando così, in entrambi i casi, la giurisprudenza a proprio favore. Spinoza, ad esempio, rintraccia i motivi della condotta criminale nell’imperfezione umana, una giustificazione a cui possono ricorrere molti corrotti, mentre Hobbes sostiene che qualsiasi episodio di criminalità dei potenti è accettabile in quanto evita dei mali peggiori, evita ad esempio una situazione di anomia in cui tutti sono nemici di tutti. Successivamente analizzo posizioni più critiche, come quelle di Montaigne, Vico e Pascal che suggeriscono come il male sia insito nel potere politico in forma di crimine e di violenza, mentre con Hume e Tocqueville si torna, per certi versi, al discorso che si faceva prima a proposito dell’emulazione, cioè che i comportamenti degli usurpatori generano ammirazione. I potenti che delinquono, pertanto, hanno dalla loro parte una serie di teorie che possono servire loro come giustificazione.
Anche dalla scienza economica si possono ricavare molti spunti interessanti per la nostra analisi. Innanzitutto il principio di utilità che richiede, nel voler proteggere un bene, di non spendere più del valore del bene stesso. Il ladro per praticare il principio di utilità deve dimostrare che ciò che ha rubato è ora più utile socialmente rispetto a quando quel bene apparteneva al proprietario precedente. Ad esempio, l’imprenditore che ruba soldi allo stato può rivendicare  il merito di investire quei soldi in maniera migliore creando occupazione. Inoltre, anche il costo dell’investigazione, della condanna e della punizione deve corrispondere al valore della persona che ne è oggetto: può risultare troppo costoso investigare, condannare e punire i potenti. Secondo tale logica, inoltre, il potente in carcere non può continuare a produrre valore per l’intera società a differenza di un povero disgraziato che, invece, può tranquillamente essere mantenuto in prigione perché tanto, al di fuori di essa, non produrrebbe nulla.
Soprattutto per quell’ambito grigio in cui si fatica a definire legittima od illegittima, legale o criminale una condotta di un potente, più che alle scienze che si vogliono precise occorre andare a cercare contributi altrove, come ad esempio nella letteratura. L’osservazione del rapporto tra gli eventi e le narrazioni può dare buoni spunti di analisi. Riprendendo Aristotele quando, nel suo confrontare lo storico ed il poeta, sostiene che mentre il primo racconta ciò che presumibilmente è successo, il secondo narra ciò che può accadere, mi sento di poter affermare che, per certi versi, se la storia ci trasmette degli eventi particolari, la narrativa può darci a vedere delle verità più generali. A tal proposito concludo il saggio analizzando alcuni lavori di Balzac ove emerge come il potere e la criminalità siano la medesima cosa e la figura più leggendaria che si trova in uno dei suoi romanzi è quella ispirata a Vidocq, un criminologo che è anche criminale.


Scritti di Vincenzo Ruggiero pubblicati su Carmilla:

Condannati alla normalità. I rifugiati politici italiani in Francia (pubblicato originariamente in lingua inglese su “Crime, Law and Social Change”, Vol. 19, N. 1, 1993 ed in lingua italiana su “vis-à-vis” N. 2, 1994)

Testi di Vincenzo Ruggiero recensiti su Carmilla:

Vincenzo Ruggiero, Il delitto, la legge, la pena. La contro-idea abolizionista, Edizioni Gruppo Abele, 2011

Vincenzo Ruggiero: Il sogno di Prometeo e l’ignobile carneficina. Un inno agli antieroi – V. Ruggiero, La violenza politica, Laterza, 2006

Vincenzo Ruggiero: devianza e letteratura 1/2 – V. Ruggiero, Crimini dell’immaginazione. Devianza e letteratura, Il Saggiatore, 2005

Vincenzo Ruggiero: devianza e letteratura 2/2 – V. Ruggiero, Crimini dell’immaginazione. Devianza e letteratura, Il Saggiatore, 2005

 

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