esoterismo – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 30 Apr 2025 21:35:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 La coscienza di Gustav (appunti meyrinkiani) 9 https://www.carmillaonline.com/2025/03/05/la-coscienza-di-gustav-appunti-meyrinkiani-9/ Wed, 05 Mar 2025 21:00:15 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=87097 di Franco Pezzini

(Per le parti precedenti, cfr. qui)

Nel buio della Notte di Valpurga (1917)

I primi due capitoli di La Notte di Valpurga ci hanno già mostrato alcuni aspetti d’interesse: in un clima crepuscolare ostaggio della guerra, visioni di miseria e contraccolpi dell’età feriscono la vita apparentemente regolata – o piuttosto asfittica – del medico di corte Flugbeil detto il Pinguino. Ombre di amori imputriditi, di malinconie fatte rancide e di fallimenti esistenziali: il modernismo incontra l’espressionismo tedesco in modo persino più riconoscibile dai frequentatori di quell’epopea cinematografica.

Il romanzo non è certo dei più simbolicamente ricchi di [...]]]> di Franco Pezzini

(Per le parti precedenti, cfr. qui)

Nel buio della Notte di Valpurga (1917)

I primi due capitoli di La Notte di Valpurga ci hanno già mostrato alcuni aspetti d’interesse: in un clima crepuscolare ostaggio della guerra, visioni di miseria e contraccolpi dell’età feriscono la vita apparentemente regolata – o piuttosto asfittica – del medico di corte Flugbeil detto il Pinguino. Ombre di amori imputriditi, di malinconie fatte rancide e di fallimenti esistenziali: il modernismo incontra l’espressionismo tedesco in modo persino più riconoscibile dai frequentatori di quell’epopea cinematografica.

Il romanzo non è certo dei più simbolicamente ricchi di Meyrink, gioca su effetti forti ed eccessi che potremmo definire pop: guardando le datazioni può essere stato composto in fretta. Eppure le stroncature risultano eccessive, emblematica quella di Gianfranco Franchi sul bel sito Mangialibri:

 

Romanzo zoppicante e debole, bene ideato ma mal narrato; e decisamente più confusionario e disordinato rispetto alle altre opere di Meyrink. Stavolta, onestamente, si può concordare con quanti legano la letteratura di Meyrink al ciarpame kitsch: l’artista austriaco, in questo caso, è indifendibile. Qui davvero si può parlare di letteratura gotica tout court; ma è un gotico soporifero e demodé. Davvero un libro irrilevante, se paragonato a Il Golem o al fascino dell’incompiuto La casa dell’Alchimista o al pur disorientante Il volto verde.

 

Si può non essere d’accordo, a fronte della forte suggestione d’atmosfera, dell’uso insistito del grottesco e del torbido che sconfina nell’onirico, della presenza di alcuni personaggi (Zrcaldo, Flugbeil…) ben tessuti. Rispetto al labirintico Volto verde è un libro più “facile” e compatto, e nell’ambito del gotico si può non disprezzare – suvvia – un certo taglio demodé. Soporifero probabilmente no, visto che il lettore è incuriosito da cosa potrà avvenire. Poi è chiaro, non si discute di grande letteratura – alla quale è ascrivibile probabilmente, della produzione di Meyrink, il solo Golem – ma di letteratura interessante, rilevante per l’immaginario e godibile nelle sue trovate. Per cui leggere La Notte di Valpurga, con i suoi limiti e i suoi eccessi, ha ancora senso. E se di ciarpame kitsch si può parlare, è nel segno di quella “Bottega delle Meraviglie” emblema della realtà visitata dal protagonista del Volto verde: una panoramica sulle cantine della Storia dove, sotto il livello dei pavimenti, si conservano oggetti desueti […] Rovine, reliquie, rarità, robaccia, luoghi inabitati e tesori nascosti che hanno – ci mostra Francesco Orlando – un loro senso letterario e un loro fascino.

Il terzo capitolo, La Torre della Fame, parte da un altro dei luoghi celebri del Hradscin di Praga, la Daliborka dalla fama sinistra. Lì vive come guardiano il veterano Vondrejc – intento ora a contare le esigue mance ricevute – con la moglie e il delicato (nonché, scopriremo, cardiopatico) figlio adottivo diciannovenne Ottokar allievo del Conservatorio. Il figlio scende verso il palazzo della contessa Zahradka, ma poi invece si dirige da Lisa la boema, che lì per lì non capisce che lui intenda farsi predire il futuro. Chiarito il suo desiderio, gli fa segnare dei tratti su una tavola di creta molle; poi Lisa conta i segni, numera e ordina i risultati secondo la “antica arte dei punti dei Boemi” appresa dai Saraceni.

La Boemia, recita Lisa secondo la formula, “è il focolare di ogni guerra” e menziona il nome di “Jan Zizka, Zizka il cieco, il nostro capo”. Più precisamente Jan Žižka (cioè “monocolo”, avendo perso un occhio) z Trocnova a Kalicha (c. 1360-1424) era stato un generale ceco tra i capi degli hussiti radicali, dalle innovative trovate belliche e dalla ferocia probabilmente enfatizzata dalla propaganda nemica. Incurante delle domande di chiarimenti del ragazzo, Lisa prosegue ricordando che la Moldava è piena di piccole sanguisughe perché in precedenza era rossa di sangue, e attendono che lo sia di nuovo. Poi però resta colpita dalle figure disegnate dal giovane: vuol divenire l’imperatore del mondo? E fa tutto “per quella là?”: Lisa lo pensava in amore con la cameriera Bozena – lui scuote il capo – ma da quella stia in guardia, è una succhiatrice di sangue. Come lui è della stirpe dei Borivoj, e si attraggono come il ferro e la calamita. Poi, cancellati i segni, sulla tavola, lo ammonisce a non essere lui il ferro con lei come magnete, altrimenti sarebbe perduto. Tra i Borivoij uxoricidi, incesti e fratricidi si sprecavano…

Ottokar vorrebbe ancora sapere qualcosa sulla profezia del “divenire imperatore” ma vengono interrotti dall’apparizione di un figuro grottesco con parrucca e favoriti posticci: le chiede se poco prima non si trovasse lì il medico di corte Flugbeil e Lisa lo caccia. Era Stefano Brabetz, spiega, un poliziotto privato che tenta di estorcere denaro in modi tanto goffi da non riuscirci mai. È della Praga bassa, dove tutti gli sono simili, forse per le esalazioni della terra: quando la gente si incontra, sogghigna maligna come a fingere di sapere chissà che degli altri. A Praga tutto sa di pazzia e di mistero: una pazzia diversa da quella pietrificata del Hradschin. Ora Brabetz sta appunto fiutando che qualcosa sta per accadere sul Hradschin…

Il ragazzo – che, Lisa conferma, è a sua volta pazzo, ma non c’è niente di male e in fondo per la follia di un sogno lei è stata amante del re di Serbia Milan Obrenowitsch (Milan IV Obrenović o Milan I di Serbia, 1854-1901, principe e poi re di Serbia, 1868-1889) – vorrebbe sapere cosa debba accadere. Ma lei gli chiede dove vada col violino: apprendiamo che andrà a suonare al palazzo della contessa Zahradka che è la sua madrina, e rendendosi conto che Lisa ha fretta di metterlo fuori, riparte.

Le campane della Cappella della Santa Casa gli paiono venire da dentro di lui: raggiunge Palazzo Reale e ha la visione di una processione guidata dal principe arcivescovo. Viene colto da vertigini di fronte alle sue fantasie di essere incoronato… poi, mentre cerca di arrivare in tempo dalla contessa, nota che il portone del palazzo Waldstein è aperto: occhieggia incuriosito e vede portar fuori il cavallo impagliato appartenuto ad Albrecht von Wallenstein (o appunto Waldstein, 1583-1634), uno dei protagonisti della guerra dei trent’anni – e destinato a fama postuma anche grazie alla trilogia Wallenstein di Friedrich Schiller (1796-1799).

Dall’immagine di quel cavallo, quasi versione deformata, rigida e grottesca del cavallino a dondolo dei bambini, era stato ossessionato, ma non era mai riuscito a decifrarne il presagio. Come un enorme giocattolo piombato ora nel tempo della terribile guerra dei demoni delle macchine contro l’uomo (torniamo alla costruzione di macchine poi arrugginite nel Volto verde e al tema della macchina in I quattro fratelli della luna). In qualche modo resta comunque turbato dalla battuta scherzosa un servo che lo invita a salire sulla groppa tarlata del cavallo… e vedremo nel prosieguo come proprio quel destriero Ottokar finirà col cavalcare.

All’inizio di primavera, la contessa è solita passare nel piccolo, cupo palazzo della sorella morta contessa Morzin, buio come ama lei, mentre il suo palazzo resta con le persiane chiuse. Il ragazzo entra nell’edificio circonfuso di storie di tesori e di spettri, e raggiunge la contessa nella scomodissima e buia stanza ricoperta di fodere – come per qualche vendita all’asta – dove attende il figlioccio povero. Unico oggetto a emergere (in parte) dalle fodere è il ritratto a grandezza naturale del defunto sposo della contessa, il maresciallo di corte Zahradka, leggendariamente (e ottusamente) crudele e duro con gli altri come con se stesso. Nemmeno i numerosi gatti del palazzo osano entrare nella stanza… La contessa verso Ottokar mostra atteggiamenti contraddittori, ma la tenerezza dura pochi secondi per essere sostituita da un freddo disprezzo forse retaggio delle antiche radici aristocratiche boeme: e più che i discorsi ciò riguarda i toni. Verso la musica che lui le offre, la vecchia mostra reazioni assenti o invece contraddittorie rispetto al tono della musica – come l’odio quando lui suonava bene, forse per una sorta di lesione dei privilegi di classe. Più che le persone, in questa storia, finiscono con il rilevare le radici, il DNA e la classe di appartenenza.

(Si presentano qui alcune belle illustrazioni a incisioni di Vladimir Zimakov, dall’edizione Vita Nova del romanzo, San Pietroburgo 2009.)

Le offre dunque una canzone popolare sentimentale (la prima a suo tempo suonatale, in occasione della cresima) e vive lui il trasporto estatico della musica vagheggiando un certo volto femminile – con il curioso effetto che al suo emergere reca stranamente alla musica ritmi di selvaggia crudeltà. E all’improvviso quella giovane appare dalla porta, come scaturita dal suo stesso essere: e Ottokar suona per lei, rapito. Fantastica di trovarsi con lei nel buio della cripta di San Giorgio, dove la luce di un cero illumina una scultura in marmo nero di una morta semidecomposta con un serpente sul petto, e risente le parole del monaco custode ai visitatori sull’artista: avendo ucciso per gelosia l’amante incinta era stato costretto a scolpirne il ritratto prima di finire sulla ruota… Ma ora la giovane sorridente si è posta vicina alla contessa, che la presenta come la nipote Polissena e le ingiunge di non disturbare. Ottokar, colpito, resta bloccato ma poi viene nuovamente interrotto da Polissena che ammette di aver pensato (anche lei!) alla cripta di San Giorgio. Ma la contessa ha notato con meraviglia il modo appassionato in cui Polissena ha pronunciato il nome di lui: e diviso tra le reazioni opposte delle due donne, il povero Ottokar tenta con il motivo di un organetto ambulante dalla strada – e nota che Polissena ha scappucciato l’orologio a pendolo e ha puntato le lancette ferme sulle otto. Un appuntamento, ovviamente, dato in modo che la vecchia non veda…

Poi la contessa loda la sua esibizione ma lo avvilisce offrendogli due banconote per comprarsi un paio di calzoni non così macchiati. Persa completamente lucidità, il giovane si trova in strada… e pensa all’appuntamento con Polissena. Ha anche l’idea di affogarsi per la vergogna nella Moldava, ma desiste devastato tra vergogna e strazio per la delusione, se lei venisse o invece mancasse all’appuntamento. Fissa la Daliborka, la torre nei cui tre piani (il più alto con i prigionieri nell’oscurità, il secondo per la morte per fame, il più basso coi corpi in decomposizione delle vittime) la gente impazziva, e che non è ancora sazia, come una fiera che si nutra di carne e sangue. Torna verso casa, la madre adottiva sospetta che a interessarlo non sia più Bozena.

Nella Daliborka una stanza è memore della prigionia della contessa Lambua, bisnonna della contessina Polissena e avvelenatrice del marito, morta pazza: aveva fatto in tempo a lacerarsi i polsi coi denti e dipingere col sangue il proprio ritratto sulla parete. Lì nella torre Ottokar attende terrorizzato l’ora dell’appuntamento: da qualche mese a Polissena pensa sempre, ma agitazione e dolore lo straziano. La loro storia pare una favola nera: si trovava per suonare per degli ospiti al palazzo Elsenwanger ed era stato rapito dal ritratto di una dama di età rococò dall’espressione crudele e sensuale, la contessa Lambua battezzata Polissena, e l’ambiente della Torre della Fame aveva contribuito a plasmare il suo mondo fantastico. Ma non immaginava che l’oggetto del suo sogno potesse esistere davvero, e un giorno nel Duomo l’aveva incontrata in carne e sangue della discendente omonima: si era gettato ai piedi di lei ed era nata una “passione selvaggia, innaturale […] come un turbine diabolico”, carica dei desideri di tutto un retaggio. Col risultato che la ragazza spensierata entrata nel Duomo ne era uscita mutata anche nell’anima nell’omonima antenata… incontrandosi proprio quando si desiderano più intensamente. Comunque lei appare all’appuntamento, e tutto quel che precedeva è inghiottito dall’oblio: le vesti di lei finiscono sparpagliate sulle sedie, lui sente “il calore della sua carne, il morso dei suoi denti sul collo, […] i suoi gemiti di voluttà” in un’estasi dei sensi di cui poi non ricorda nulla, come del fatto di aver suonato – ma si tratta di una musica venuta da lei, di voluttà, orrore e spavento (si può immaginare che le metafore usate per descrivere una consumazione sessuale risultino troppo retoriche e datate per un romanzo “elegante”, ma l’idea dell’autore è di insistere sul disturbato, sul patologico fino a sfumature grottesche). Mentre i pensieri di Polissena si trasmettono vivi al cervello di Ottokar come proiettandovi una storia evocata da una lapide della Piccola Cappella sul Hradscin. A proposito di un temerario, Borivoj Chlavec, che aveva mirato alla corona di Boemia ed era stato impalato: ma il palo si era spezzato e l’uomo, con il troncone ancora nel corpo, era riuscito a trascinarsi fin da un prete per ottenere una morte devota coi Sacramenti… Ormai Polissena se n’è andata, ma il sogno di Ottokar è di offrire all’amata, foss’anche centuplicando i tormenti dell’impalato, ciò che di più alto la volontà umana possa conquistare.

Intanto Flugbeil continua a essere di malumore per la visita a Lisa la boema e soprattutto per il riemergere del ricordo del suo antico amore per lei. Si debba attribuire all’aria languida del maggio o all’eccesso di spezie nei gulyas della trattoria “Zum Schnell” che rende difficile prendere sonno, resta irrequieto; e si spaventa quando, leggendo il giornale per pensare ad altro che alla giovane Lisa, prende a vedere sospetti spazi bianchi – li vede anche la cameriera, è l’opera della censura di guerra, ma il timore è che dagli spazi vuoti erutti il volto ghignante della Lisa di oggi… persino guardare nel telescopio gli richiama simili paure. Però continua a pensare all’attore Zrcadlo e insieme non è disponibile a tornare a cercarlo. In compenso viene a sapere che Elsenwanger da quella notte non riceve più nessuno e vive nel panico che il documento invisibile evocato dal sonnambulo alluda a una revoca postuma dell’eredità da parte del morto Bogumil – e nel completo clima di sragione collettiva il nobile di Schirnding gli dà ragione, meglio non guardare nel cassetto… Flugbeil resta perplesso.

Decide a un certo punto all’improvviso di cercare Zrcadlo al Rospo verde, dove il proprietario lascia un tavolo sempre libero per il Pinguino e i suoi amici – in realtà mai più presentatisi dall’inizio della guerra. Mentre beve, Flugbeil vede la propria immagine allo specchio ripetere capovolti i suoi gesti: ma per evitare riflessioni malinconiche sull’uomo come mera maschera passiva spegne la lampada vicina. Avvista così invece nello specchio scorci delle sale vicine, ricordando malinconico i propri amori con Lisa giovane su un certo divano – e nota a disagio come i ricordi emersi subito si dilatino, come a proposito del fazzoletto regalatole con le iniziali (L.K., Lisa Kossut), da lei morso per non gridare nell’amplesso… La vista grottesca di un gruppo di avventori gozzoviglianti lo spinge a recuperare episodi della giovinezza: ma all’improvviso in mezzo a loro appare Zrcadlo – non imbellettato, ha pelle gialla e la testa sembra di cera. Torniamo alla cera…

A uno dei gaudenti che vuole abbracciarlo, il sonnambulo saetta un’occhiataccia – poi Flugbeil crede di aver visto male nello specchio (come uno schermo cinematografico, per inciso), perché il volto di Zrcadlo sembra modellare all’improvviso l’orrenda maschera di un morto. Il gaudente, terrorizzato, cade al suolo con un rantolo, stecchito: e quando Flugbeil riaccende la luce si ritrova davanti il sonnambulo come una sorta di golem.

Cercando di restare freddo, Flugbeil gli chiede cosa cerchi e come si chiami, senza ricevere risposta; allora avvicina un fiammifero acceso alle pupille dell’altro, che non reagisce. Il polso ha un battito lentissimo, che accelera solo alla domanda del medico su chi sia lui; poi inala aria con veemenza e gli occhi sorridono innocentemente. Però non è tornato normale, e il segno intorno alle labbra e il viso del sonnambulo richiamano ora a Flugbeil il volto di lui stesso bambino. Poi l’attore pronuncia “Chi sono?”, con la voce che il vecchio medico aveva da piccolo e insieme, con uno strano duplice tono come a confonderle, con quella del presente: e inizia una sorta di responsorio delle due voci da quella stessa bocca, sul tema “Chi sono?” e sulla sordità al canto della propria anima. Flugbeil dimentica di trovarsi davanti a un incosciente, resta turbato alle accuse del lungo responsorio che in fondo riecheggia i suoi stessi turbamenti, la sua peccaminosa incapacità di gioire per una gioia che non conosca causa, la sterilità della sua senescenza – come se il suo Io l’avesse abbandonato per passare in un altro. Poi gli pare che l’attore sia libero di mente, ma ora è solo posseduto da un’altra entità, un uomo coi baffi che non a caso spiega come le persone incontrate per le strade non posseggano un Io, ma siano semplicemente invasate da fantasmi diversi – come il nostro Io tende a invadere altre persone. Zrcadlo – o come si possa definire la presenza – mostra anzi di conoscere i pensieri formulati da Flugbeil. L’Io passa attraverso gli uomini, non si esaurisce in corpo, sensi, pensiero di ciascuno. Comunque l’interlocutore spiega di essere un Manciù degli altipiani della Cina, non un morto ma un Vivente e residente in quell’Impero di Mezzo che è il centro dell’universo, dappertutto… Si accorge che Flugbeil diffida della sua ironia, ma spiega che la seriosità si addice ai vasi vuoti, mentre la “suprema sapienza va in veste di pazzia”. L’umiltà è un masochismo “ammantato d’ipocrita devozione”, un segno “meno” che unendosi con altri crea un vuoto pneumatico nel regno dell’invisibile. A quel punto è inevitabile che il vuoto chiami un segno “più”, sadistico, portatore di dolore e violenza. Ma, come il povero attore di cui si serve, ogni uomo è uno strumento, mentre l’Io non lo è e resta equidistante dai “meno” e dai “più”.

Il 30 aprile è la notte di Valpurga, ma esistono anche notti di Valpurga cosmiche, a grande distanza l’una dall’altra, e una sta arrivando: l’alto prende il posto del basso e viceversa, si susseguono avvenimenti quasi senza causa e no, non c’entrano la dimensione sessuale o le nozze di una ragazzetta borghese come nei romanzi… Se ai cani del Cacciatore Selvaggio verranno spezzate le catene, viene però spezzato anche l’obbligo del silenzio per il bene di quanti siano maturi per il “volo”. Esorta dunque colui che ha avuto la pretesa di occuparsi dei corpi di occuparsi un po’ delle anime – anche se in effetti non ha finora spiccato il volo sufficientemente in alto… coi suoi monconi di ali da pinguino. Che non significa fare qualcosa a tutti i costi, ecco il segno “più” diabolico che colora di sangue: si tratta di lasciare spazio all’Io.

Ma l’arrivo di una guardia che annuncia la chiusura del locale segna la fine della conversazione – e l’attore è silenziosamente uscito.

Merita ricordare che il romanzo, pubblicato nel 1917 a Lipsia in piena guerra, si colloca in un certo quadro di scossoni internazionali:

 

la rivoluzione bolscevica sta per trionfare in Russia, la civiltà cristiana cambiava corso, una nuova era si apriva nella storia del mondo. Ma il presentimento che ne aveva Meyrink aveva poco a che vedere con le contingenze politiche: questo veggente si interessava solo ai sommovimenti della storia invisibile, ove sono segnate le tappe della coscienza cosmica. […] Per questa risonanza storica [di capovolgimenti epocali], La Notte di Valpurga occupa un posto un po’ a parte nell’opera di Meyrink, che tratta piuttosto di esperienze individuali e di drammi personali, anche quando questi si inscrivono nel destino di una schiatta o di un ordine iniziatico occulto. Al contrario, possiamo dire che qui il dramma collettivo e i drammi personali si congiungono. Tutta una filosofia esoterica della storia emerge dalla lunga tirata che il sonnambulo Zrcadlo rivolge al medico della corte imperiale Flugbeil, che da un capo all’altro del romanzo svolge il ruolo di testimone, un testimone che porta il simbolico soprannome di Pinguino, l’uomo che ha dei monconi di ali. Questo passaggio è sicuramente uno dei più importanti dell’opera di Meyrink: ci fornisce il pensiero più avanzato, più condensato, più chiaro, anche, di un autore di cui non è sempre facile decantare agevolmente l’espressionismo non di rado ridondante e carico di simboli. Contrariamente agli altri romanzi di Meyrink d’altro canto, La Notte di Valpurga non si lascia ricollegare all’una o all’altra tradizione specifica, ma sembra semmai utilizzarle tutte. [Raymond Abellio, La Notte di Valpurga, in AA. VV., Meyrink scrittore e iniziato, cit.]

 

Le speculazioni di questo capitolo, peraltro, risultano in modo robusto e tuttavia creativo debitrici di dialoghi con Bô Yin Râ (il bavarese Joseph Anton Schneiderfranken, 1876-1943), scrittore, pittore ed esoterista e dei suoi scritti, particolarmente Das Licht vom Himavat (La Luce di Himavat, 1914) e Der Wille zur Freude (La volontà di gioia, 1917): nonostante il permesso esplicito di uso dei materiali, Bô Yin Râ chiederà poi a Meyrink di non ricorrervi ulteriormente, a fronte di un uso troppo libero e letterario-occultistico di riflessioni di tipo spirituale che aveva lasciato sconcertati alcuni suoi lettori. Il Nostro, correttamente, eviterà in seguito di farvi ricorso (e Bô Yin Râ stesso ne difenderà l’onestà): ma la posizione di Meyrink è esplicitamente quella dell’artista che non pretende un’autenticità puntuale e magari vissuta degli eventi narrati, e si riserva il diritto e la responsabilità di modifiche funzionali alla vicenda – tanto più in quanto genuinamente persuaso dell’esistenza di una realtà sottostante quella della comune esperienza e di cui avverte l’influenza anche quando scrive.

Ogni 16 maggio, in occasione della festa di san Giovanni di Nepomuk patrono della Boemia, al pianterreno di Palazzo Elsenwanger viene offerta una grande cena alla servitù cui presenzia il padrone: e dalle otto a mezzanotte ci si dà del tu mangiando assieme senza divisioni sociali. Se il padrone ha un figlio o in alternativa una figlia, la maggiore d’età, quelli lo sostituiscono. Ma dall’incontro con il sonnambulo il barone è rimasto scosso e ha chiesto alla nipote Polissena di prendere il suo posto: la riceve in biblioteca, tra libri che non ha mai letto, sferruzzando una calza gialla, e suggerisce che poi lei resti a dormire lì. Polissena in realtà non lo dice, ma ha già fatto sistemare un letto nella sala dei quadri: comunque lui si addormenta, e lei non ha voglia di svegliarlo per ricadere in qualche squallido discorso, d’altra parte si sente spossata. Ripensando all’infanzia, la avverte sconsolata e asfittica, soffocata dall’intollerabile senescenza dei due zii e dalle loro terribili maschere quando sonnecchiano, maschere cadaveriche di vecchiaia che paiono rifrangersi nelle azioni, negli ambienti, nei ritratti alle pareti e persino nelle strade, nelle case e negli alberi muschiati della città: a dominare la giovane è un odio contro tutto ciò che è morto e una sete di vita nascosta e pronta a prorompere. La situazione, dopo l’iniziale senso di novità, non è andata meglio con l’educazione al convento del Sacro Cuore, dove la parola “amore” viene costantemente, ossessivamente abbinata al sangue – nel Crocifisso, nelle immagini di martirio o di sofferenza come il cuore trafitto da sette spade, nella luce sanguigna dei lumicini… finché il sangue come simbolo di vita non si lega indissolubilmente al fervore della sua anima. Ciò che rende Polissena la più ardente tra le nobili educande del convento e le resta dentro – l’idea di amore, ma per il sangue e ad esso associata – laddove le materie studiate evaporano.

Alla fine della vita in collegio, il ritorno nella senescenza di casa sprofonda nuovamente Polissena in un passato tombale: ma il sangue come vita resta nel suo sentire e vi collega tutto quanto è giovane, vivo e l’attrae. L’apertura a Palazzo Elsenwanger della sala con il ritratto dell’antenata Polissena Lambua le offre la sconcertante sensazione che inquadri una creatura viva, il cui destino sia strettamente legato al suo. E da matrice destinata diviene una sorta di incarnazione delle sue stesse qualità manifeste come latenti… benché non conosca la fondamentale legge magica “Se due grandezze sono simili, esse sono una stessa cosa secondo simultaneità, anche se nella loro esistenza sono separate da spazio e tempo”.

Il quadro agisce dunque su di lei come poi su Ottokar, affascinato peraltro tramite la ragazza viva che conosce, mentre lei cresce a gradi con esso identificandovisi: ma l’immagine è carica della forza magica del sangue di lei, che chiama quello di Ottokar… e al loro incontro nel Duomo è inevitabile un fatale legame, perché ciò che è latente passa in atto. Il giorno dopo Polissena è andata a confessare la propria colpa, ricordando che al convento le avevano insegnato che sarebbe morta se l’avesse taciuta in confessione: ma decide di tacere sentendo che resterà viva – e ha ragione e torto insieme, perché l’Io vecchio cade morto ed è sostituito da un altro che corrisponde all’immagine dell’antenata. La Polissena morta della sala dei ritratti è ora viva, la viva è caduta morta ed entrambe sono innocenti, visto che una tace in confessione quanto l’altra ha commesso. E amore e sangue vanno a confondersi.

Spinta da un “desiderio dolce e voluttuoso” scambiato dai vecchi per brama di sapere, si aggira dunque sul Hradscin da un luogo di sangue e di martirio a un altro, assorbendone l’alito rosso di eccidi e torture, un’angoscia mutata in ardore.

Alle otto della sera della cena, la ragazza scende dunque nello spazio dedicato alla cena della servitù, viene accolta con baci affettuosi da un vecchio domestico e condotta a capotavola. Intorno, con Bozena che serve le pietanze, la vecchia cuoca degli Elsenwanger e altri servitori un po’ imbarazzati che Polissena cerca di mettere a proprio agio, ci sono alcuni dipendenti di altri aristocratici – in particolare il cocchiere russo Sergio e lo scudiero tartaro Molla Osman – che la fissano con aria tagliente. Ma alla fine, arrivati ai liquori, Polissena chiede notizie della comparsata dello strano sonnambulo: le risposte sono un po’ confuse, a un tratto il cocchiere russo chiede come si chiamasse e Polissena riporta il nome di Zrcadlo. A detta del tartaro, è “lo strumento di un ewli”, un fachiro mago che usa la bocca di un altro che si trovi in stato di morte, o dormiente o tramortito. Per quel tempo, l’ewli è come morto: e “Ciò vien chiamato aweysha” – che non ha niente a che vedere col Corano. Ma un defunto di forte volontà o con “ancora una missione da compiere sulla terra” può entrare in un essere vivente desto senza che se ne accorga, oltre che in corpi in stato di morte apparente come il sonnambulo Zrcadlo. Polissena chiede al tartaro perché un morto possa mai voler possedere un vivo, e lui offre una serie di possibili spiegazioni: per godere, per fare qualcosa in terra che non è riuscito a concludere, per provocare – se è crudele – un mare di sangue, e ciò spiegherebbe gli orrori della guerra (anche se il tartaro non spiega così la guerra in corso). Un’idea, un entusiasmo, sono infusi dall’aweysha… di cui esistono diverse specie, a partire da un semplice parlare. Certo vi è indenne chi creda solo in se stesso, sia sempre presente a sé e rifletta prima di agire… ma poi Molla Osman risulta elusivo. Polissena è irritata, non si tratta che di uno stalliere: “E che cosa mi direbbe qualora io gli domandassi, se anche dei ritratti possono fare aweysha?”, offesa nel proprio orgoglio di casta per non aver mai trovato tanto interessante il dialogo con qualcuno dei propri parenti. Vagheggia che, fosse in suo potere, gli farebbe tagliare la testa, ma la fantasia non la soddisfa: “Non poteva sentire delle crudeltà, se ad essa non si accoppiava anche l’amore o la sensualità”, ai quali il tartaro non offre appigli. Richard von Krafft-Ebing, morto nel 1902, avrebbe potuto riflettervi parecchio (anche se il dialogo con Meyrink sarebbe stato probabilmente piuttosto freddino).

Poi Polissena coglie un po’ di agitazione tra i servi, e le parole di un giovane boemo, “ciò che il proletariato, al massimo, può perdere, sono le sue catene”, “la proprietà è un furto”; ma poi spuntano anche il nome Jan Zizka, reazioni scettiche, “Basterà muovere un dito, a che ci sparino addosso. Mitragliatrici!”, risposte del cocchiere russo, e a un tratto il nome Ottokar Vondrejc. Si protende per sentire, ma smettono di parlare. Decide di ignorare il borbottio, ma Bozena – con cui Ottokar aveva avuto una relazione – è rimasta indifferente, dunque il discorso non tocca la sfera privata.

Rammenta allora di alcuni fermenti, brontolii di rivolta che non giungono al Hradscin e a lei non interessano. Ma quando fissa il russo avverte l’odio di lui, distoglie lo sguardo, e coglie come un brivido voluttuoso la prospettiva che possa scorrere del sangue. Un sangue che erompe dal suolo di Praga… e ora nel silenzioso duello mentale è il russo a mostrarsi vinto. Tra sé Polissena commenta gelida che ci vorrà ancora tempo prima che il loro proletariato possa spezzare le catene: e matura la certezza di sapere – lei e il suo ceppo – fare aweysha da secoli.

Conclusa la cena, la giovane non si sente di andare subito a dormire, si domanda se Ottokar dorma e per un attimo la prende il desiderio: poi però realizza che i propri sogni sono diversi, ben più selvaggi e ardenti di quelli del fragile giovane, e si chiede se davvero lo ami. E cosa accadrebbe se lo lasciasse… non riesce neppure a sentire dolore al pensiero che Ottokar, malato di cuore, possa persino essere morto. Come se lui avesse confidato quella situazione a un quadro – quello dell’antenata o uno degli innumerevoli altri che ora, passando, la sua candela illumina e che se fossero vivi le rimarrebbero estranei ma ora le paiono cadaveri…

Sente che dabbasso i domestici stanno congedandosi e spia dalla finestra a candela spenta. Il cocchiere russo attende qualcuno e poi viene raggiunto dal giovane lacchè boemo, lei sente solo la parola Daliborka. C’entra con Ottokar? Decide di seguirli o meglio precederli alla torre, anche per evitare di restare tutta la notte con quegli orribili ritratti. Scende, evita crocchi di persone, sale verso il castello; a un tratto le pare di cogliere il tabacco del russo, intravede un volto illuminato dalla luce di una sigaretta e corre oltre fino alla torre dove un gruppo di persone sta puntando. Raggiunta una finestra di casa del giovane, lo chiama piano. Si accorge che all’interno qualcuno sta pregando: è l’anziana madre adottiva di Ottokar – pensa Polissena, riconoscendola per la vecchia governante – che prega perché i peccati di Ottokar non siano imputabili a “colei, che io amo”, cara come una figlia (Polissena, evidentemente) e lui per quella passione non si macchi le mani di sangue assieme a coloro che meditano assassinii. La vecchia chiede nella preghiera di potersi caricare pesi e peccati del giovane o di lei oppure di far morire il giovane ancora innocente. A quel punto Polissena – o piuttosto l’immagine dell’antenata che la possiede e sta per essere scacciata dal suo cuore dall’effetto dativo di tanta bontà – non resiste più e fugge.

Nel piano di mezzo della Daliborka si è riunito tutto un gruppo di cospiratori, ma Polissena raggiunge il piano superiore e, distesa bocconi, spia. Sono soprattutto operai di officine e fabbriche di munizioni, al cui confronto Ottokar pare un bambino; in disparte c’è anche Zrcadlo, come addormentato. Ci sono il lacchè boemo e il russo, parlano di ribellarsi contro stato, chiesa, nobiltà e borghesia e di sterminare la nobiltà. A quel punto Ottokar si dichiara contrario, suscitando l’irritazione del russo e scaldando il dibattito. “[…] non è che un musicante!” lo difende un conciaiolo. Il russo, che cerca di tenere le redini e non crede all’attuazione delle teorie nichiliste, brandisce un opuscolo dell’anarco-comunista Pëtr Alekseevič Kropotkin (1842-1921) – in sé di famiglia aristocratica – che annuncia una rivoluzione universale contro chi aveva promesso con le industrie un’esistenza umana degna di tal nome e ha invece consegnato il popolo alla miseria, aveva promesso la pace e invece li ha trascinati in una guerra infinita… e contro uno stato che contrasta la liberazione del proletario. Mentre le classi dominanti giocano solo all’alternanza sui propri interessi: il lacchè boemo vede la soluzione nel massacrare ebrei e nobiltà, il russo fissa Zrcadlo (che però continua ad apparire assente) e propone di ribellarsi, ora che le truppe sono al fronte. Il conciaiolo obietta che con telegrafi e ferrovie i soldati piomberebbero loro addosso, il russo risponde che allora sapranno morire. Vagheggiano di predare i tesori di chiese e palazzi per sostenersi, e a un certo punto intervengono gli operai: discendenti di hussiti, vogliono sapere cosa dica Dio – Zrcadlo ne sarebbe la voce – e hanno abbastanza esplosivi da far saltare tutto il Hradscin.

Dall’apertura da cui occhieggia, l’agitatissima Polissena vede allora l’attore alzarsi, e comprende che il russo vuol fare aweysha con lui, per renderlo proprio ventriloquo. Lei si ribella a quell’idea: non ha capito molto dello scambio politico, sa solo che la plebe vuole rovesciare l’assetto sociale, per

 

la brama dello schiavo di divenire il signore: un pogrom sotto altra forma. Che tale non fosse stato l’originario intento dei creatori di simili teorie, di Kropotkin, di Michele Bakunin e dello stesso Tolstoi – che essa metteva nello stesso gruppo – non lo sapeva: quei nomi essa li aveva sempre odiati, dal più profondo dell’anima.

 

per cui la sua volontà cerca di impedire a Zrcaldo di fare da altoparlante al russo. Ovvio, un certo modo di dipingere i rivoluzionari popolari fa montare la bava alla bocca per la soddosfazione agli eredi del gruppo di Ur: ma in realtà Meyrink, che è un moderato e non banalizza i distinguo ideali, non vede in modo più positivo la feroce classista Polissena.

Però tra le due forze in contrasto per prendere il sopravvento sul sonnambulo e che lo fanno dapprima vacillare, è infine una terza a offrirgli voce. Non è cercando contraddittoriamente – annuncia – la voce di Dio altrove che in noi, senza fede nel fatto che Lui è dappertutto, o cercando il destino deciso da Dio con la pretesa di diventarne signori ma da semplici uomini, che possiamo cambiare le cose: occorre vedere il divino in noi stessi. La domanda non verte dunque sul perché Dio abbia fatto scoppiare la guerra, ma sul perché gli uomini – “voi stessi” – l’abbiano lasciata scoppiare. Dio non vi rivela il futuro, ma “perché non credete di essere Dio” e dunque senza comprendere che sono gli uomini a crearlo per la propria parte, e di lì si potrà prevedere il resto. Mentre restano schiavi di un destino che rotola come un masso caduto da una cima…

Ma solo ora si verifica la creazione dell’uomo dal soffio e dal fango, chi è testa ne diverrà la testa, chi è un essere debole e sensitivo ne formerà il mero sentimento. Persino nel chiedere, questa gente lo fa in modo asfittico, rivolgendosi a uno che chiamano Zrcadlo, specchio, invece che a Dio… ma viene interrotto dal lacchè boemo che domanda chi vincerà la guerra – forse i tedeschi? – e quale sarà la fine. Ormai il sonnambulo si sta afflosciando, risponde che il principio della fine sarà l’“incendio di Londra e la rivolta delle Indie”, e invano la gente gli si accalca addosso. Il losco cocchiere russo capisce a quel punto che, scatenato il fanatismo religioso, lui si trova tagliato fuori.

Intanto Polissena, abbacinata dalla lampada all’acetilene che illuminava il sonnambulo, vede il riflesso impresso sulla propria retina… e presto altre immagini prendono ad affiorarvi, “parti fantasmatici di una notte di Valpurga dell’anima”. Ma mentre le parole dell’attore risvegliano qualcosa in lei, al piano di sotto una vertigine fanatica travolge i presenti. E quando Polissena torna a guardare le appaiono figure spettrali, prima delle quali un doppio di Ottokar come un’ombra del passato con lo scettro in mano, quindi un uomo con la benda sull’occhio, cioè Jan Zizka l’hussita, e poi la stessa antenata Polissena Lambua impazzita in quella torre. E si mescolano invisibili ai rivoltosi… Il doppio di Ottokar si fonde con il giovane vivente, Zizka scompare in Zrcadlo, lo spettro della contessa stringe le mani al collo del russo che prende a respirare affannato. La ragazza allora comprende cosa le immagini suggeriscano e concentra la volontà su Zrcadlo pensando al concetto di aweysha – per cui il sonnambulo si rianima. Una lama d’ombra gli copre un occhio come una benda, e il cenciaiolo e poi tutti gli altri ravvisano in lui Jan Zizka come profetizzato (ricorda qualcuno) da Lisa la boema. Lo sentono borbottare e poi muovere la mano – Polissena, anzi, vede la scena – come quando Zizka fracassava il cranio dei monaci alla testa delle sue truppe con falci e mazze. Rivede anche mentalmente l’eccidio degli Adamiti nudi massacrati dagli hussiti, e il realizzarsi della maledizione dai primi scagliata, l’accecamento del suo unico occhio. “E poi… e poi la cosa più terribile: Zizka, morto di peste, eppure tuttora vivo!”, la cui pelle stesa su un tamburo mette in fuga gli avversari. Così “il cieco e lo spellato – spettro su di un cavallo decomposto – cavalca invisibile alla testa delle sue orde e le conduce di vittoria in vittoria”: e forse, sospetta orripilata Polissena, è proprio lui che ha penetrato il corpo dell’attore e dà ordini ai ribelli. Lei non capisce cosa dica, ma un fuoco selvaggio si è acceso negli occhi di quegli uomini. Intorno al collo del russo si vedono sempre le dita spettrali dell’antenata… Polissena pensa così di essersi liberata da quelle immagini dell’anima divenute spettri che ora compiono la propria opera – e spera a quel punto di poter possedere un proprio autonomo Io.

Intanto Ottokar ha alzato gli occhi al soffitto in direzione – non lo sa – dell’amata, ma la preghiera della vecchia sul preservarlo dal peccato è stata ascoltata (comprende Polissena) e così non sente la voce di Zizka. Ma Polissena coglie anche l’immensità dell’amore di lui, incarnato in quel doppio spettrale di Ottokar con scettro e corona: e capisce che l’amore che lei prova è solo un pallido riflesso di quello di lui. E le giungono come lontane le parole di Zrcadlo sull’antico splendore e la futura grandezza della Boemia, mentre Ottokar trema cereo come lottando per non cadere al suolo. Mentre la gente proclama che Jan Zizka sarà il loro capo, il sonnambulo addita Ottokar che perde i sensi. Polissena grida il nome di lui, ma a quel punto la sentono e guardano in alto, si ritrae e urta contro qualcuno nascosto nel buio, forse la persona incontrata sulla scalinata del palazzo reale, per cui fugge fuori nella nebbia.

(9-continua)

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La coscienza di Gustav (appunti meyrinkiani) 8 https://www.carmillaonline.com/2025/02/22/la-coscienza-di-gustav-appunti-meyrinkiani-8/ Sat, 22 Feb 2025 21:00:49 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=86852 di Franco Pezzini

(Per le parti precedenti, cfr. qui)

Rinascite e apocalissi (1916-17)

Il capitolo XIII inizia con Sephardi, Swammerdam e Pfeill che discutono di temi arcani a casa del primo. Eidotter è stato liberato ed è tornato al suo spaccio di alcolici, mentre Haberrisser dovrà affrontare il giorno seguente la dura prova della sepoltura di Eva. Swammerdam spiega però di non preoccuparsi che la strana serenità dell’ingegnere lo abbandoni: “Eidotter direbbe che i lumi in lui sono stati spostati”. Turbati dalla serenità di Swammerdam, gli amici ricordano le frasi che il calzolaio assassinato aveva detto prima di morire, prevedendo [...]]]> di Franco Pezzini

(Per le parti precedenti, cfr. qui)

Rinascite e apocalissi (1916-17)

Il capitolo XIII inizia con Sephardi, Swammerdam e Pfeill che discutono di temi arcani a casa del primo. Eidotter è stato liberato ed è tornato al suo spaccio di alcolici, mentre Haberrisser dovrà affrontare il giorno seguente la dura prova della sepoltura di Eva. Swammerdam spiega però di non preoccuparsi che la strana serenità dell’ingegnere lo abbandoni: “Eidotter direbbe che i lumi in lui sono stati spostati”. Turbati dalla serenità di Swammerdam, gli amici ricordano le frasi che il calzolaio assassinato aveva detto prima di morire, prevedendo la propria fine con gran lucidità: il mistico spiega che proprio il ricordo di tale verace estasi spirituale gli permette di rileggere quella notte in modo sereno. Del resto la vita dopo la morte spettante alle due vittime è una condizione, non un luogo, così come la vita sulla terra. Sephardi è chiamato nell’altra stanza da una telefonata, e il mistico continua a bassa voce, per il solo Pfeill: a suo dire in paradiso ci sarebbero solo le immagini di persone e cose amate, non quelle reali – ma sa che Sephardi aveva amato Eva e dunque non vuole strappargli l’illusione di un incontro con lei nell’aldilà. Il dottore rientra, e manifesta al mistico il suo stupore che riesca a “dominare il dolore attraverso la pura conoscenza”, mentre lui con argomentazioni filosofiche non ci riesce: Swammerdam ribatte che Sephardi parte dal pensiero, di cui in segreto diffidiamo, non dalla “Parola Interiore” – che pur avendogli parlato di rado ha illuminato la sua intera esistenza. In qualche volta gli ha offerto profezie: anzitutto, per suo

 

intervento una giovane coppia avrebbe avuto accesso a una via spirituale rimasta sepolta per millenni e destinata a rivelarsi a molti nel tempo a venire. È la via che dà alla vita il suo reale valore, e un senso all’esistenza. Questa promessa è divenuta l’essenza della mia vita.

 

Della seconda profezia preferisce non parlare, lo prenderebbero per matto, ma potrebbe riguardare Eva, mentre la terza non interesserebbe loro. Su queste tre nutre tale certezza da non essere in grado di dubitarne, pur non avendo mai goduto di visioni. Sente comunque la presenza di Qualcuno accanto a sé, “immenso e onnipotente”, non spera di vederlo ma spera in Lui. E aggiunge: “So che un futuro terribile, sconvolgente si sta avvicinando; prima arriverà una tempesta come non se ne sono mai viste”. Non gli importa se ne sarà coinvolto anche lui, ma è felice che quel tempo giunga. Gli amici rabbrividiscono. Non poteva sapere dove Eva fosse, ma solo che sarebbe venuta: e così sa che non è morta, “La mano di Lui la protegge”. Gli amici possono ribattere sconvolti che il feretro è già in chiesa e l’indomani verrà sepolta: ma se persino fosse sepolta mille volte, o se lui tenesse in mano il teschio di lei, sa che non è morta… Così, quando il mistico se ne va, Pfeill commenta che è matto.

Sfuggendo al poliziotto appostato in seguito agli ultimi fatti, Usibepu penetra in chiesa dal lucernario della sagrestia. In chiesa, Eva giace composta e coperta di rose bianche, attorniata da alti ceri. Usibepu si aggira colpito dalle statue, fino a fermarsi triste accanto alla defunta, stordito dalla sua bellezza, e le accarezza timidamente i capelli. Non capisce perché davanti a lui si fosse spaventata così tanto: le altre donne, nere o bianche, “che aveva desiderato erano sempre state orgogliose di appartenergli” e con nessuna aveva dovuto ricorrere alla magia Vidû – “Lei sola no!”. L’aveva cercata invano notte dopo notte, e prende a ricordare la lunga strada seguita fin lì dall’Africa, dove un commerciante inglese l’aveva attirato a Città del Capo promettendogli di farlo diventare re degli Zulù, poi la nave su cui era giunti ad Amsterdam, la troupe del circo dove era stato arruolato per sfruttarlo, “la città di pietra in cui il suo cuore si consumava di nostalgia; e nessuno che capisse la sua lingua”. Carezza un braccio di lei con espressione desolata, per amore di lei ha perso il suo dio: “Perché fosse sua aveva invocato il terribile Souquiant, l’idolo serpente dal volto umano, e così aveva messo in gioco e… perso il potere di camminare sulle pietre incandescenti”. Scacciato dal circo e senza un soldo, sul punto di essere rispedito in Africa, aveva vagato cercandola: e il dio serpente “gli era apparso un’unica volta in sogno, e con un ordine atroce: evocare Eva nella casa di un rivale. E soltanto ora riusciva a rivederla, in chiesa, morta”.

Non capisce peraltro il senso delle statue all’intorno, divinità bianche di cui ignora i nomi segreti per poterle invocare: ma devono anche loro saper fare risorgere i morti, altrimenti Zitter Arpád da chi ha ottenuto la capacità di conficcarsi i pugnali in gola? Non riesce a entrare in collegamento neppure con una Madonna nera, e si rannicchia ai piedi del catafalco intonando il canto funebre degli Zulù. Alla fine si alza e avvolge l’oggetto più prezioso che ha, una piccola collana fatta di vertebre di regine strangolate – un feticcio sacro portatore d’immortalità – attorno alle mani giunte della morta. Tanto, “Eva non poteva entrare nel cielo dei neri né lui nel paradiso dei bianchi!”. Ma poi avverte un rumore, un tremolare delle candele e si nasconde dietro la colonna.

Al posto del cero è ora apparso un trono di pietra, dove siede, di altezza sovrumana, un dio egizio con la corona piumata. Di fronte a lui un uomo con la testa di ibis, e ai lati della bara due figure con teste rispettivamente di sparviero e di sciacallo. “Lo zulù intuì che erano venuto a giudicare la morta”. Poi appare la dea della verità con un copricapo a forma di avvoltoio e prende il cuore della giovane ponendolo su una bilancia: le figure ai lati gestiscono la pesa, il cuore di Eva risulta pesare molto più della statuetta di bronzo sull’altro piatto, la figura con testa d’ibis scrive su una tavoletta di cera e il giudice dei morti stabilisce che “ha raggiunto la terra della verità e della discolpa”, per cui “Si desterà quale Dio vivente”. Poi le divinità scompaiono ed Eva scende dal feretro: i ceri si mutano in figure brune con fiamme alte sul capo, e richiudono la bara vuota.

L’inverno ha percorso l’Olanda, ma la primavera non giunge, come la terra non riuscisse a ridestarsi. In un clima sempre più angosciato, si blatera di fine del mondo. Hauberrisser si è trasferito in campagna in una casa isolata che forse era in origine una tomba megalitica, e che ha adocchiato al ritorno dal funerale di Eva. Il concetto di dolore dell’anima gli è divenuto incomprensibile e prova quasi orrore di sé.

Una sera, mentre medita sulla possibilità che l’umanità risorga dalle ceneri come una Fenice, pensa all’apparizione di Chidher Grün che ha detto di essere rimasto sulla terra per “dare”: lui, al contrario, si tiene gelosamente le proprie acquisizioni interiori, al punto che gli amici lo pensano lì intento a piangere. Esclude di tornare in città e mettersi a predicare, la gente non capirebbe: e decide di proseguire il manoscritto con gli insegnamenti e rimetterlo nella nicchia della propria precedente abitazione.

Lo indirizza dunque “Allo sconosciuto che verrà dopo di me!”. Mentre, dubitoso sullo sviluppo del testo, cerca la custodia fatta confezionare in argento per il medesimo, gli capita tra le mani il teschio di cartapesta comprato più di un anno prima alla “Bottega delle Meraviglie”: il mondo gli appare come un gran negozio pieno di cianfrusaglie. Persino di fronte al corpo di Eva gli era parso si trattasse di una statua di cera, una completa estranea. Ma il se stesso inginocchiato davanti al letto era solo un’ombra sorridente: gli stessi amici e le persone al funerale gli erano apparsi ombre, così come il carro, le corone, il cimitero… Da allora sa di aver superato la soglia della morte: resta sveglio vedendo il suo corpo dormire, ma se riprende a vedere coi suoi occhi tutto gli pare triste. Se poi torna a staccarsene, vive una situazione singolare:

 

Supponi di trovarti in un cinematografo – col cuore esultante per una gioia recentissima – e di vedere sullo schermo la tua immagine che passa di dolore in dolore e crolla al capezzale di una donna amata – e tu sai che non è morta bensì a casa ad aspettarti; supponi inoltre che quell’immagine, con la tua propria voce prodotta da un apparecchio sonoro, lanci grida disperate di dolore. Questo spettacolo ti coinvolgerebbe?

Certo, il paragone è debole; ti auguro di farne esperienza personalmente.

Sapresti allora, come lo so io, che esiste una possibilità di sfuggire alla morte.

 

Nuovo riferimento al cinema nell’opera di Meyrink, il passo la dice lunga sul gusto melodrammatico della produzione espressionista…

Se poi non può ancora vedere Eva, sa che non è morta e li separa un altro piccolo passo, una parete sottile. E ammonisce di guardarsi dagli insegnamenti degli spiritisti: “Per fortuna non sanno chi sono realmente quelli che accorrono ai loro richiami. Se lo sapessero ne proverebbero orrore”.

Per giungere dagli Invisibili, occorre diventare invisibile, e chi è partito cieco dalla terra non raggiunge l’aldilà ma vaga in una dimensione di sogno popolata da ombre. Immortale è solo chi si è risvegliato, “Sopra di lui non c’è nessun Dio”: per questo la loro via è detta pagana, e considera come una semplice condizione in cui trasformarsi quel Dio che i devoti adorano. Dunque le preghiere andrebbero rivolte al proprio Sé invisibile…

Scritto tutto quello, Hauberrisser si alza, ripone in fretta i fogli nella custodia, e nella luce dell’alba si avvia per portarli al vecchio alloggio – però poi decide di seppellirli lì intorno, sotto un melo in fiore. Solo allora corre verso la città, preso da una grave preoccupazione per i propri amici. L’aria è calda, calma e asciutta come prima di un temporale. Ma col far del giorno il cielo muta aspetto, le nubi si torcono come vermi giganteschi; “Incubi vorticanti con le punte verso l’alto, simili a immensi calici rovesciati, dondolavano appesi nel vuoto; volti di animali si avventavano l’uno contro l’altro”. Un lungo triangolo nero si leva veloce da sud e per alcuni minuti oscura la luce solare: sono cavallette giunte dall’Africa. La simbolica è quella dell’Apocalisse: le coppe al cap. 16, le cavallette al 9…

Durante il percorso non ha incontrato nessuno, ma alla curva gli appare l’enorme figura di un vecchio ebreo, dai contorni incerti e alla fine quasi trasparente; lo oltrepassa silenzioso e diventa un nugolo di formiche volanti, che può ricordare la forma di un uomo ma poi si dilegua all’orizzonte. È una manifestazione di Chidher Grün? Gli sembra strano.

Ma nel frattempo ha raggiunto il Wester Park e si dirige verso il Damrak in direzione di casa di Sephardi. Ma a causa della folla agitata deve imboccare la Jodenbuurt: e trova una sfilata rumorosa dell’Esercito della Salvezza, poi una quantità di fanatici flagellanti, sbavanti, convulsivi… Neanche i vicoli sono praticabili, e passando davanti alla “Bottega delle Meraviglie”, Hauberrisser trova che è stata rimossa l’insegna e alzata un’impalcatura per il trono del ciarlatano Zitter Arpád. Questi, in mantello d’ermellino e diadema aureolante, getta tra la folla in estasi monete di rame con la sua effigie e invita a gettare “le donnacce nel fuoco” e portare a lui “il loro oro peccaminoso”.

Infine Hauberrisser incontra Pfeill, e continuamente ostacolati dalla folla puntano verso casa di Swammerdam. Ora Pfeill non è più così estasiato dal cialtrone che si fingeva un conte polacco: “Un tipo orribile quello Zitter”, la polizia è impotente contro le sue malefatte, si spaccia per il profeta Elia e si fa adorare: ha portato cortigiane straniere al circo, e fatto aizzare tigri contro di loro, con “la follia del dittatore. Come Nerone…” (consideriamo che queste pagine vengono scritte parecchio prima dell’ascesa di Hitler). Ha sposato una donna e poi per depredarne le sostanze l’ha avvelenata, poi si è giocato i soldi di lei e in seguito ha fatto il medium con gran successo – si tratta in sostanza del solito Tiranno manipolatore d’anime che tante volte incontreremo nel cinema espressionista, e insieme di una Bestia da Apocalisse. Intanto il corteo di devoti eccitati rischia sempre di separare i due amici.

Sephardi però è partito, è “cambiato parecchio” trascorrendo molto tempo con Eidotter, e dice che finalmente ha una missione: in seguito a un’apparizione dell’uomo dal volto verde è andato a fondare uno stato sionista in Brasile, dove sono confluiti quasi tutti gli ebrei d’Olanda. (Va ricordato che alla fine del Golem Hillel partiva per la Palestina, verso Gad, ma il filantropo barone Hirsch vagheggiava a fine ottocento una grande emigrazione ebraica nelle Americhe, e il finanziamento di colonie agricole in Argentina, Brasile e Canada, saldando così il sogno della Terra Promessa con l’utopia rurale americana.) Come “unico popolo internazionale” gli ebrei “sono chiamati a creare una lingua che pian piano diventi il mezzo di comunicazione fra tutti i popoli della terra e in tal modo li avvicini”. Eidotter, quasi sempre in estasi, proclama profezie che si avverano regolarmente, di recente quella “di una terribile catastrofe sull’Europa che aprirà una nuova epoca”, felice di esserne travolto anche lui per poter “condurre nel Regno dell’Abbondanza i tanti che trapasseranno”. Un’idea non così assurda, in città si attende “il diluvio universale… L’umanità è impazzita… Le ferrovie sono interrotte da tempo”. Ma anche a Pfeill sono capitati fatti incredibili…

Quanto a Swammerdam, è in pena per loro, “crede che solo vicino a lui possiamo essere al sicuro”. Una delle tre profezie della sua Parola Interiore gli ha annunciato che lui sopravvivrà alla chiesa di San Nicola: probabilmente spera così di salvare anche loro dalla catastrofe. Ma a un tratto il clamore si fa assordante di voci che gridano al miracolo, “La nuova Gerusalemme è comparsa nel cielo!”, da un abbaino all’altro oltre i tetti, fino alla più remota periferia. Vengono separati e trascinati via dalla fiumana, mentre nell’aria continuano a vorticare “quelle strane figure di vapore azzuffandosi come giganteschi pesci alati”, ma tra le nubi a forma di montagne innevate ecco apparire “il miraggio di una città straniera del Sud”, e se ne vede persino la gente dal volto scuro. Il miraggio dura più di un’ora prima di impallidire: resta nel cielo per un po’ un sottile minareto che infine si dilegua.

Raggiungere casa di Swammerdam è impossibile, e Hauberrisser decide di tornare indietro, in un panorama silenzioso, secco e polveroso percorso da schiere di topi. Nell’aria senza vento che via via si oscura, i canali sono corsi da strisce infuocate, formano gorghi fangosi; ma a un tratto prendono a sorgere come spettri trombe d’aria, dirette verso la città. Madido di sudore, Hauberrisser rientra in casa, non tocca cibo e si getta sul letto.

E arriviamo all’Epilogo, con una notte che sembra non voler finire, il cielo nero anche all’alba, una striscia di luce sulfurea all’orizzonte, le torri lontane di Amsterdam fiocamente illuminate. Hauberrisser punta il binocolo in quella direzione. Lo scampanio ansioso da laggiù ammutolisce, un rombo attraversa l’aria e il pioppo più prossimo alla casa si piega scricchiolando fino a terra. il vento turbina a frustate, poi un’enorme nube di polvere inghiotte il paesaggio, le pale strappate dai mulini vorticano nell’aria: la tempesta geme sulla landa fino a formare un urlo ininterrotto, sempre più violenta. Travi, macerie, muri volano come proiettili davanti alla finestra: e Hauberrisser sta già credendo che l’uragano passi con l’oscurità – il cielo si è fatto grigio argento – quando dal pioppo abbattuto e ormai senza fronde prende a staccarsi persino la corteccia. E lontano, verso Amsterdam, prendono a spezzarsi e cadere prima le alte ciminiere a sud-ovest del porto, poi i campanili. Il vento trascina in volo persino lapidi e croci del cimitero; le travi del solaio gemono, ed è impossibile anche solo abbassare la maniglia della porta della stanza per evitare che la corrente riduca la casa in macerie. Si salva solo perché protetta dalla collina e le stanze sono divise da porte chiuse. Attorno la tempesta soffia via l’acqua dai canali e la sparge nell’aria. Se, come mi faceva notare un’amica, Usibepu è idealmente imparentato con Calibano, La tempesta è qui alla fine e non all’inizio dell’opera, con il ruolo di Prospero suddiviso tra Swammerdam e Hauberrisser. Per contro, una chiesa di San Nicola c’è anche nel Castello d’Otranto, pur non venendo distrutta dal crollo dell’edificio eponimo.

L’ingegnere fissa l’imposta coi chiodi, ma quando osa guardare in direzione di San Nicola dove devono trovarsi gli amici la vede ancora indenne su un’isola di macerie. Si chiede quante città d’Europa siano ancora in piedi, una “civiltà ormai fatiscente si è disfatta in macerie sparse ovunque”. E alla fine recupera abbastanza lucidità da poter capire, domandandosi se abbia dormito fino a quel momento. Inspiegabilmente il melo fiorito vicino a casa sua è ancora intatto: ai suoi piedi aveva sepolto il rotolo di fogli, si tratta forse di Chidher, “l’albero in eterno ‘verdeggiante’”. E un’aria di primavera aleggia sul mondo devastato… Sente la Fenice in sé pronta a spiegare le ali, ricorda quando ha baciato Eva ma ora non avverte più la morte ma un presentimento di vita futura indistruttibile. Ricorda la promessa di Chidher Grün di dare l’amore eterno anche a lui come a Eva…

Certo, molti sono periti nella catastrofe ma non riesce a provare dolore: risorgeranno a una forma diversa fino a raggiungere quella definitiva di “uomo risvegliato”. Anche la natura, come la Fenice, ringiovanisce ogni volta… e a un tratto, avvertendo un lieve respiro carezzargli il volto, si chiede se Eva non sia vicino a lui. “Quale cuore poteva battere così vicino al suo se non quello di lei?”. Mentre avverte nuovi sensi destarsi in sé, supplica sottovoce Eva per un segno, e con emozione immensa sente mormorarne la voce: “Che misero amore sarebbe mai questo se non potesse superare lo spazio e il tempo!” – ora lei attende il risveglio di lui… Tutto, attorno, gli sembra ingannevole e si chiede cosa accadrà al proprio risveglio spirituale.

Il tempo passa, i canali sono vuoti, l’aria è immobile. Ma con il binocolo, nota che in città infuriano ancora dei cicloni, e i due campanili di San Nicola vacillano, poi uno crolla e l’altro è proiettato in aria “vorticando come un razzo” per poi schiantarsi. Hauberrisser atterrito pensa ai propri amici, ma poi realizza che Chidher deve averli protetti. La campana della chiesa si frantuma in distanza, lo spostamento d’aria giunge fin lì (ovviamente la scena non va letta in termini naturalistici) e si ode nella stanza la voce di Chidher Grün. “Le mura di Gerico sono cadute […] Egli si è destato dal regno dei morti”. Poi silenzio, il pianto di un bambino e infine alle pareti disadorne della stanza – sorta di tomba per una morte simbolica – si sovrappongono come coesistendo in un’altra dimensione quelle di un tempio egizio con figure di divinità. I sensi si risvegliano potenziati:

 

A poco a poco capì di aver toccato quel traguardo che è lo scopo segreto di ogni esistenza umana: essere cittadino di due mondi.

Di nuovo il pianto di un bambino.

 

Eva non aveva detto di voler essere madre al suo ritorno? Trasalì per lo spavento.

La Dea Iside non teneva forse in braccio un bambino nudo e vivo?

Levò lo sguardo su di lei e la vide sorridere.

La Dea si mosse.

 

E mentre l’immagine del tempio si fa sempre più nitida, Hauberrisser riconosce Eva in Iside, è lei “madre del mondo” e gli appare nel suo sembiante terreno. Chiamando il nome dell’amata, nella stanza che torna a emergere la stringe a sé e le copre il viso di baci. Restano abbracciati davanti alla finestra guardando verso la città morta, e nella testa di Hauberrisser echeggia la voce di Chidher Grün, forse profetica della nascita di un figlio alla coppia ricongiunta: “Aiutate le generazioni future, come faccio io, a costruire un nuovo regno sulle rovine del vecchio, […] affinché giunga il momento in cui anch’io potrò sorridere”.

 

La camera e il tempio erano ormai ugualmente nitidi.

Come Giano bifronte, Hauberrisser poteva ora guardare contemporaneamente nel mondo dell’aldilà e in quello terreno, distinguendone ogni più piccolo dettaglio:

 

adesso era “di qua” e “di là”,

un uomo vivo.

 

Permettendo alla coscienza di raggiungere il punto d’illuminazione e cancellare i limiti, l’iniziato dovrebbe cioè operare il passaggio da dualità e separazione di opposte polarità a un’unità profonda, con il trionfo di “Nozze chimiche” tra Re e Regina. Questo finale, che riconduce idealmente al racconto coevo La visita di Johann Hermann Obereit nel Paese delle Succhiatempo e alla dignità di poter porre l’epitaffio “Vivo” sulla propria tomba, dice parecchio delle riflessioni che Meyrink sviluppa all’epoca.

Qualche appunto merita il tema del “verde”, di antica tradizione simbolica e alchemica in associazione con la figura misterica che conduce un gioco allegro nella pagine dell’opera. Il volto verde che qui vediamo figurare sul corpo di un uomo o invece di un serpente richiama anzitutto il Chidher (o Chadir, El-Chidr, Al Khadir, Al Khidr) della tradizione islamica, citato nel Corano (sura 18, 58-91).

 

Benché servitore di Dio, egli è protagonista di diversi misfatti, e quando Musa (Mosè) gliene chiede la ragione, Al Khidr gli risponde: “Tu non puoi insistere con me; quel che faccio, non è di testa mia. Dio mi ha dettato queste azioni biasimevoli per evitarne di peggiori”. Nell’enciclopedia dell’Islam (1913) vengono riportati altri dettagli quantomeno inquietanti: “È tuffandosi nella sorgente della vita che egli avrebbe acquisito il colore verde e di conseguenza il nome…”l

“Egli era seduto su di una pelliccia bianca e questa divenne verde”. La pelliccia è la Terra quando fa maturare i germi e diventa verde dopo esser stata disseccata. Secondo Umara è stato detto ad Al Khadir presso la sorgente di vita: “Tu sei Chadir e là dove i tuoi piedi la toccheranno la terra diverrà verde”. [Jean-Jacques Mathé, Il simbolismo ermetico, in AA. VV., Meyrink scrittore e iniziato, cit.]

 

Questo Chidher, chiamato anche Huzur nelle tradizioni esoteriche dell’Islam, è sempre stato assimilato all’Ermete Trismegisto egiziano. Nel romanzo di Meyrink, il parallelismo viene espressamente stabilito col profeta Elia e l’evangelista Giovanni, ed anche con l’immagine dell’“Ebreo errante”; ed il possessore della Faccia Verde viene così designato come “l’uomo archetipico”, o come il solo essere veramente vivente.

Come il profeta “verde” dell’Islam ha bevuto dell’acqua della vita e morirà solo al suono della tromba del Giudizio Universale, così il colore simbolico di San Giovanni è il verde e, secondo una tradizione, egli deve restar vivo sino al ritorno del Messia. Ma anche Elia può comparire in qualunque momento quale invitato alla sera del Seder e, come San Giovanni con la sua Apocalisse, viene ritenuto l’annunciatore di un grande Giudizio di Dio prima del regno del Messia.

Tuttavia, è particolarmente importante il fatto che Chidher sia sempre considerato come il compagno e lo ierofante di un atto di resurrezione mistica, mentre San Giovanni, autore del Vangelo esoterico [sic], svolge un ruolo corrispondente nelle tradizioni gnostiche; infine, la letteratura cabalistica della mistica ebraica fa differenza tra gli autori ai quali il profeta Elia sarebbe apparso e quelli i cui scritti si baserebbero sul solo intelletto umano.

Per ragioni di atmosfera poetica più che per il suo sapore esoterico, Meyrink ha aggiunto a questo personaggio di Chidher-Elia-San Giovanni quello dell’Ebreo errante. Le descrizioni talvolta dettagliate dell’apparenza esteriore dell’Ebreo errante lo hanno aiutato non soltanto a fornire un’immagine precisa del possessore della Faccia Verde sin dalla sua prima apparizione, ma gli hanno anche conferito la possibilità di distinguerne convenientemente gli aspetti positivi e negativi: l’aspetto positivo risalta quando la Faccia Verde si presenta, come nella rappresentazione classica dell’Ebreo errante, con una banda nera sulla fronte sotto cui si cela, secondo Meyrink, il segno della vita. Nell’aspetto negativo, il volto è velato e la fronte si rischiara della luce di una croce verde. L’attrazione poetica del personaggio dell’Ebreo errante è stata così forte per Meyrink che egli in origine voleva intitolare il suo romanzo L’Ebreo errante.

La Faccia Verde del primo uomo immortale, cui Meyrink aggiunge anche alcuni tratti del culto del serpente Vidu degli Zulù, le concezioni di un circolo di mistici cristiani, un simbolismo cosmico della natura e le tradizioni egizie, svolge in effetti un ruolo essenziale nel romanzo, perché come in tutti i romanzi di Meyrink non è l’evento esteriore ad esser descritto, bensì l’evoluzione interiore dell’eroe, e questo con un rigore idealistico caratteristico di Meyrink in particolare e dell’espressionismo tedesco in generale. Uno dei personaggi espone la sua dottrina: dobbiamo porre il pensiero al di sopra della vita; l’evoluzione intellettuale dell’eroe principale sin dalla prima intuizione e dalla prima percezione e fino a compimento della propria realizzazione mistica costituisce l’idea direttrice. [Joseph Strelka, “La faccia verde”, cit.]

 

[…] in ogni opera, Gustav Meyrink identifica un essere vivente con un personaggio che ha cessato di esistere, che è vissuto in un tempo passato e tutte queste vite, per quanto un po’ diverse l’una dall’altra, formano un’entità spirituale appartenente ad un essere unico, che ci si rivela sotto molteplici sfaccettature.

Ed infatti, il cosmo non è forse formato, in un preciso istante, di presente, passato e avvenire? In questo rigido blocco, l’avvenire è costituito di elementi già vissuti. [Jean-Pierre Bayard, Aspetti del pensiero iniziatico di Gustav Meyrink, in AA. VV., Meyrink scrittore e iniziato, cit.]

 

Fuori da mille equivoci, l’esoterismo del Volto verde sta in questo, e non assomiglia in nulla ai corti orizzonti di piccoli razzisti in cerca di potere magico-politico, ma guarda a un’esperienza di crescita interiore. Mistica cristiana, ebraica, islamica; yoga; sapienza egizia, africana – il risultato è una grande avventura esistenziale sincretista, aperta a varie “sofie” e con un inatteso rispetto – inatteso data l’epoca e il contesto – di mondi e profili altri come quello di Usibepu.

Per Pfeill il Volto verde è uno spartiacque della coscienza umana, e la stessa esperienza interiore viene condivisa da quanti siano maturi per riceverla; per Sephardi non è importante che si tratti di un essere e una forma di comunicazione provenienti dall’esterno o invece di qualcosa di totalmente interiore, per la difficoltà di discernere tra pensiero e comunicazione. Ma è con il povero Eidotter che si capisce meglio come il Volto verde – Elia –permetta di conoscere il più alto grado di iniziazione e una vera modificazione della personalità. Negli ultimi capitoli, poi, diverse prospettive illuminano spiegazioni ai processi evolutivi in scena, con una spiegazione quasi junghiana sul risveglio e la realizzazione dell’Io invisibile e una prospettiva profetica di apocalisse e rinnovamento. Il numero e la densità delle metafore e delle espressioni immaginose, ma soprattutto la loro profondità, offrono a questo romanzo una connotazione molto particolare. Fondamentale è l’accettazione della legge della mortalità, e merita su tema citare le parole di Marcel Béalu:

 

Che l’accettazione sia puntellata o no dalla credenza in una problematica vita eterna, è proprio a questa sola speranza terrestre che alla fine si accosta Meyrink. […] Certo, vi è confusione, farragine, ebollizione verbale in questi libri, il cui intreccio tende talvolta al melodramma. Spesso ci troviamo più vicini all’autore de L’Ebreo errante [inteso qui come feuilleton di Eugène Sue] che a Kafka (che pure ne subì, a quanto si dice, l’influenza). Questo genere di letteratura non è certo adatto ai raffinati. Non sono tanto le qualità dello scrittore […] che ammiro in Meyrink, bensì la gravità, la serietà delle preoccupazioni, l’essenza del pensiero. Se non siamo sicuri di trovarci di fronte a uno “scrittore” così come lo intende la crema intellettuale di questo paese, siamo certi di essere alla presenza di un uomo che possiede un’“anima”, il che è mille volte più raro. Intendo con “uomo che possiede un’anima” chi non ha vergogna di provare sentimenti comuni a tutti gli esseri e conserva uno spirito inquieto per i propri destini ultraterreni, non limitato alla preoccupazione di farsi valere o di assicurarsi una reputazione nel Landornau letterario dell’epoca. Di quest’anima, che raggiunge qui facilmente il patetismo, conserverò soprattutto il bagliore di speranza che compare nell’ultima pagina de La Faccia verde, dopo che gli amanti si sono ritrovati e vi è stata la promessa della futura nascita del figlio […]. [Marcel Béalu, L’angelo è apparso in un calore insopportabile, in AA. VV., Meyrink scrittore e iniziato, cit.]

 

Il nodo rilevato da Béalu è particolarmente evidente in un romanzo piuttosto ostico come Il volto verde, letterariamente più povero del Golem e di altri dell’autore a dispetto della lussureggiante ricchezza simbolica, mitica e mistica. Che pure ha i suoi pregi narrativi: l’Amsterdam postbellica richiama in modo suggestivo la Germania dell’espressionismo, e la catastrofe finale che la colpisce – con quella che è stata talora giudicata una soluzione narrativa eccessiva e non felice – mostra non solo una potenza visionaria, ma un nesso suggestivo con tutta un lunga storia del linguaggio fantastico (i crolli del castello d’Otranto, del palazzo Metzengerstein e di casa Usher, quello del castello Dracula previsto nella prima versione del romanzo di Stoker…).

Del resto a scenari apocalittici Meyrink torna molto presto, con un romanzo letterariamente più godibile e di grande potenza visionaria dell’anno successivo, La notte di Valpurga (Walpurgisnacht. Phantastischer Roman) apparso per i tipi Kurt Wolff Verlag, 1917. Praga, 1885 (la Triplice Alleanza tra Germania, Austria-Ungheria e Regno d’Italia è stata siglata da tre anni): in un clima sovreccitato e decadente che suggerisce l’incombere della fine dell’impero asburgico, la notte fatale in cui “si scatenano le forze dell’‘altra sponda’” (come presentava il romanzo la vecchia edizione La Bussola) diventa metafora espressionista di una crisi epocale, apocalittica ma anche propriamente sociale. Già le scene iniziali potrebbero, per giochi d’ombra e di livide luci, per personaggi dal gesticolare grottesco e dagli occhi caricati col trucco a enfatizzare una teatralità isterica e burattinesca, arrivare direttamente da un film d’epoca.

Tutto inizia con un cane – Brock – che abbaia nella notte e un gruppo di vecchi riuniti attorno a un mazzo di carte da whist. Ci sono il barone Costantino Elsenwanger, la contessa Zahradka, l’allampanato medico di corte Taddeo Flugbeil detto il Pinguino dagli studenti dello Hradscin, e ipotizzano che l’abbaiare del cane annunci l’arrivo del Consigliere Gaspare di Schirnding molto occupato a giocare di giorno con i bambini dell’istituto Khoteke – o meglio con le bambine, osserva Flugbeil; “con la gioventù, e basta” ribatte severa la contessa. In effetti il Consigliere arriva, ma il cane continua ad abbaiare. Il gruppo va a cena, commentando con stupefazione che il Consigliere sia sceso in città, varcando il ponte – e se fosse crollato (come nel Golem)? – in toni sovraeccitati che ben rendono un certo clima onirico ed espressionista: il Hradscin, la Città Alta attorno al Castello, è vista come qualcosa di totalmente diverso, letteralmente un’altra città, rispetto a Praga (intesa come Città Bassa). Mentre è quasi surrealistica la confusione della contessa tra le dita dei guanti troppo lunghi della cameriera Bozena – a piedi nudi, secondo il costume dei domestici dei palazzi patrizi di Praga – guanti che dunque pendono nel brodo, e le salsicce della medesima zuppa. In città non scendono mai, come la contessa ancora stizzita che i suoi antenati vi fossero stati giustiziati durante la Guerra dei trent’anni, o molto di rado come il barone, discesovi l’ultima volta un ventennio prima. Ma ormai i prussiani, spiega il Pinguino, da tre anni sono loro alleati contro i russi, la situazione è cambiata…

Terminano cena e si apprestano ad affrontare la solita partita a whist, quando il cane in giardino riprende a ululare. Il Pinguino allora prende a occhieggiare dalla porta sulla veranda e vede un uomo camminare rigido sul cornicione del muro di cinta del parco. All’improvviso la figura sparisce, precipitando tra la vegetazione, e la situazione – sarà un assassino? – scatena il panico: ma il Pinguino mantiene sangue freddo diramando ordini ai domestici, e alla fine lo sventurato ritrovato i piedi del muro viene trasportato privo di sensi nella sala dei ritratti. Lì, tra immagini più o meno inquietanti di antenati nelle tele, la contessa annuncia lugubre che Flugbeil non potrà più salvarlo – come quello con un pugnale nel cuore, e al medico di corte occorre un attimo per ricostruire che lei pensa al figlio trovato pugnalato tanto tempo prima (episodio che non troverà sviluppi diretti). L’infortunato presenta labbra illividite e guance imbellettate in rosso vivo, tali da far pensare a una figura di cera (di nuovo): e la cameriera riconosce in lui Zrcadlo, “lo Specchio”, che vive presso Lisa la boema, in passato “una famosa etera” (spiega il medico) ormai anziana. Vive nella Totenstrasse, la via delle ragazze perdute, e la contessa ordina di chiamarla. Poco a poco l’uomo riprende i sensi e si alza: secondo il Pinguino, si tratta di un caso di sonnambulismo scatenato dal plenilunio. Prova dunque a parlargli: Zrcadlo si sente abbastanza bene da tornare a casa?

Il sonnambulo non risponde, volge lentamente il capo e lo fissa, mentre il Pinguino si chiede dove mai l’abbia visto. È alto, magro, di pelle scura, con capelli lunghi e grigi, il viso lungo e glabro… non proprio il Cesare del Gabinetto del dottor Caligari (1920, solo tre anni dopo, difficile non pensare a un nesso), ma ci andiamo vicini. Ha guance imbellettate e un mantello di velluto nero, e fa pensare non tanto a un uomo vivo ma alla sensibilizzazione di un’immagine onirica, o a una mummia di faraone travestita da commediante. A detta della contessa, considerando le pupille tanto contratte, il tipo è morto – ed esorta sarcastica il barone Costantino e il consigliere bloccati sulla soglia a venire avanti, “non morde”. Ma udendo il nome Costantino, il sonnambulo è scosso da un tremito e il volto – come per effetto di ossa molli e plastiche – si rimodella via via assumendo i tratti familiari del barone, e cancellando quelli precedenti fino a sembrare un uomo completamente diverso. Come (torniamo al tema espressionista del Wachsfigurenkabinett) fosse rimodellato nella cera. A quel punto si alza e prende a camminare attorno al tavolo, interpellando poi il barone terrorizzato con i toni e la voce del defunto fratello Bogumil – noto peraltro anche al resto dei presenti. A quel punto, come un mimo, Zrcadlo smuove oggetti immaginari per la stanza in modo tanto preciso che gli altri credono di percepirli (fischietta e offre becchime a un uccello invisibile, attinge a una tabacchiera che non c’è, mostra di scrivere una lettera e la depone in un cassetto nascosto – stavolta reale, e ignoto al barone – nella parete, che poi richiude…

Ma dalla porta Bozena, allontanata con il resto della servitù, chiede se possano entrare e introduce una figura femminile alta e snella dall’abito di buon taglio ridotto a uno straccio: appunto Lisa la boema. Settantenne, ma un tempo bella e per nulla imbarazzata, fissa i tre uomini che l’hanno ben conosciuta in gioventù e non la contessa, chiedendo educata il motivo della convocazione. La contessa intuisce i motivi di imbarazzo dei tre amici e, ancora colpita dagli eventi di poco prima indica Zrcadlo: chi è e cosa vuole, è forse malato? Interviene anche il medico, pensa sia un sonnambulo e le chiede di riportarlo a casa con l’aiuto dei domestici. Lisa risponde che sa soltanto che si chiama Zrcadlo e sembra faccia l’attore, gira la notte per osterie a rappresentare qualcosa per la gente. Ma non è chiaro se abbia coscienza di sé, e lei non ficca il naso nella vita degli inquilini. Poi lo richiama con garbo e le prende per mano conducendolo abulico verso la porta: la somiglianza con il defunto barone Bugumil è sparita, sembra tornata una normale coscienza di veglia eppure il tipo non nota i presenti, quasi fosse ipnotizzato. Il medico comprende trattarsi di un essere che può assumere di volta in volta forme del tutto diverse, una sorta di cadavere non decomposto e in balia di influenze invisibili, che si chiama ed è autenticamente uno “specchio”. Poi, fuori dalla stanza avvicina Lisa: andrà a trovarla l’indomani, intende capire qualcosa di più di Zrcadlo. Quindi con gli altri, tutti turbati, riprende a giocare a whist.

Taddeo Flugbeil, celibe impenitente detto il Pinguino, è l’ultimo della sua dinastia di medici di corte: e la sua vita regolatissima è scossa dalle emozioni della serata e dai ricordi giovanili in cui Lisa la boema, al tempo giovane e bellissima, ha avuto parte rilevante. Col risultato di alzarsi troppo presto: ma come ogni anno sarebbe il momento di recarsi in carrozza a Karlsbad (oggi Karlovy Vary) per le cure termali. Di solito parte il primo giugno, ora è il primo maggio e dunque è tempo per prepararsi: il viaggio a piccole tappe, con lo sfiancato cavallo Carletto, può durare settimane. Stavolta Flugbeil non si è curato di staccare dal calendario il foglietto del giorno precedente, 30 aprile, con la dicitura “Notte di Valpurga”: va invece a recuperare l’enorme diario su cui i maschi di famiglia a partire dal suo bisnonno sono usi scrivere, per cercare nelle pagine della propria gioventù il nome di Zrcadlo. Ha iniziato a annotarvi fatti quotidiani tutti i giorni a partire dal suo venticinquesimo anno, e i passi sulla vita amorosa – in realtà pochini – sono cifrati. Ma nulla emerge, e in compenso gli resta un senso di disagio, di fronte alla monotonia grigia della propria esistenza, della cui regolarità altre volte era andato fiero. Ora l’evento della sera precedente ha smosso fastidiosamente qualcosa in lui: come Pernath e Hauberrisser, insomma, un altro uomo in crisi, alle prese con il senso dell’esistenza.

Da un terrazzo dei suoi alloggiamenti a Palazzo Reale prende a scrutare Praga con il suo potente cannocchiale, cercando qualche immagine di buon auspicio: e all’improvviso salta indietro perché si è trovato davanti il volto sogghignante di Lisa la boema, quasi l’avesse visto e riconosciuto. Dopo un attimo di forte impressione, torna a guardare ma gli pare che tutte le persone occhieggiate – tutte estranee – mostrino caratteri di strana agitazione, che gli arriva addosso. Sembra si sia formato un assembramento di popolo… Allora cambia obiettivo e si trova davanti una finestra di soffitta, dove una madre consunta con un bimbo scheletrico gli pone davanti le conseguenze della guerra. Mutando ancora direzione, verso quel che pare l’ingresso posteriore di un teatro, nota il trasporto di un quadro enorme con Dio Padre benedicente.

Rientrato, viene avvisato che il cocchiere Venceslao è pronto e sale in carrozza; ma un tratto ricorda che intendeva recarsi da Lisa la boema. Fatta fermare la carrozza tra le beffe dei ragazzini che a suo beneficio mimano dei pinguini, comunica la cocchiere la deviazione: però no, non verso Totenstrasse – lo corregge il brav’uomo imbarazzato – ma nella zona Nuovo Mondo dove Lisa si è trasferita, una delle vie attorno all’Hirschgraben, con sette casette separate e un muro circolare fitto di disegni sconci. Per non attirare l’attenzione, la carrozza si ferma parecchio prima della casa, e nell’aria primaverile profumata di fiori il vecchio medico sente di aver tradito la propria anima. Le casette sono segnate dall’abbandono e dall’impoverimento legato alla guerra: e giunto all’ultima da cui si alza un filo di fumo, trova infine Lisa alle prese con una zuppa di pane, che gli dà il benvenuto in una stanza lurida e caotica che funge insieme da cucina, soggiorno e camera da letto. Lei lo accoglie cordiale terminando di mangiare ed esprimendo il piacere di vederlo, ma a un tratto abbandona la lingua forbita e passa confidenzialmente al dialetto praghese. Commenta che Flugbeil è rimasto un bel tipo e un vero accidente, sprofonda nei ricordi e raccoglie un ritratto – un dagherrotipo con l’immagine di lui, regalatole più di quarant’anni prima – che copre di baci, e condisce con un balletto. Paralizzato, il vecchio medico osserva tra sé che si tratta di una sorta di danza macabra: e, mentre passato e presente si compenetrano confusamente in lui, si chiede se non sia tornato giovane o invece non lo sia stato mai, e la fanciulla davanti non si sia trasformata una larva raccapricciante… può essere davvero la stessa persona che lui aveva amato? Ma dopo il momento euforico Lisa torna lucida e singhiozzando nasconde il viso tra le mani, così lui torna a perdere la padronanza di sé. Le chiede con gentilezza se le cose vadano così male e se lui non possa aiutarla, ma lei scuote il capo cercando di soffocare i singhiozzi; allora il medico, vincendo il disgusto per quei capelli luridi, le carezza timidamente il capo, cercando di spiegare che è la guerra, porta a tutti la fame… e si sente in imbarazzo, perché il suo tenore di vita non è invece compromesso. Certo, realizza, Lisa non è più un grado di guadagnare… Ma alla sua promessa di aiuto, lei grata gli bacia silenziosamente la mano e rifiuta il denaro, lasciandolo perplesso: è felice che l’antico amante non abbia orrore di lei, trova spaventoso ricordare il passato. Poi gli spiega che vedendolo entrare le è parso che lui fosse ancora giovane e l’amasse – e le succede spesso, e anche quando va in giro dimentica di essere diventata vecchia. Ma poi i ragazzi la deridono… lui la invita a non curarsene, ma Lisa spiega che l’aspetto terribile è dato dallo svegliarsi ogni volta come da un bel sogno. Non riesce neppure più a riordinare la casa, nulla può essere più come un tempo. Gli altri non possono capire… e lì, in quella melma, un giorno forse potrà dimenticare. Quando a Zrcadlo, vorrebbe avere la forza di cacciarlo via.

Flugbeil spiega di esserne interessato in quanto medico, e le chiede cosa sia: lei ribatte che a volte pensa sia il diavolo, salvo poi correggersi con un riso isterico, il diavolo non esiste e quell’uomo è un pazzo o un attore o entrambe le cose. Comunque non è mai in sé, neanche quando gira le bettole; ed è stato lei a truccarlo, per farlo riconoscere quale attore ed evitargli la galera. Il medico riflette tra sé che non può essere il suo amante, e si domanda se lei non viva dei guadagni di lui: la pietà scompare e lo riprende il disgusto. Tanto più che Lisa si è fatta arcigna: lui si congeda, e lei lo saluta acida non chiamandolo Taddeo col suo nome, ma Pinguino.

(8-continua)

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La coscienza di Gustav (appunti meyrinkiani) 7 https://www.carmillaonline.com/2025/01/25/la-coscienza-di-gustav-appunti-meyrinkiani-7/ Sat, 25 Jan 2025 21:00:54 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=86372 di Franco Pezzini

(Per le parti precedenti, cfr. qui)

Dov’è Eva? (1916)

Il cap. VII del Volto verde (che merita sgranare con una certa puntualità per decostruire i soliti giudizi grossi e strumentali sull’autore) vede Hauberrisser raggiungere l’amico barone che si stupisce del suo viso assorto. Apprende però che è arrivato – presentandosi come mandato da lui – anche l’imbroglione sedicente conte polacco Ciechonski, risultato molto simpatico a Pfeill. Lo trovano intento a corteggiare una vecchia dama, e il barone conduce Hauberrisser in una camera dedicata al relax e rivestita di sughero. La difficoltà principale nel riassumere questa storia sta [...]]]> di Franco Pezzini

(Per le parti precedenti, cfr. qui)

Dov’è Eva? (1916)

Il cap. VII del Volto verde (che merita sgranare con una certa puntualità per decostruire i soliti giudizi grossi e strumentali sull’autore) vede Hauberrisser raggiungere l’amico barone che si stupisce del suo viso assorto. Apprende però che è arrivato – presentandosi come mandato da lui – anche l’imbroglione sedicente conte polacco Ciechonski, risultato molto simpatico a Pfeill. Lo trovano intento a corteggiare una vecchia dama, e il barone conduce Hauberrisser in una camera dedicata al relax e rivestita di sughero. La difficoltà principale nel riassumere questa storia sta nella quantità di densi dialoghi sui temi alla base del romanzo.

Così, dopo un po’ di scherzi lievi, Pfeill chiede all’amico se non senta

 

che c’è qualcosa nell’aria, qualcosa che forse non è mai stato così forte da quando la terra esiste […] è un compito ingrato profetizzare una fine del mondo, è stata annunciata troppo spesso nel corso dei secoli perché la cosa possa avere ancora una qualche credibilità.

Eppure penso che questa volta la ragione stia dalla parte di chi crede di percepire l’imminenza di un simile evento. Non deve essere necessariamente la distruzione della terra: anche il declino di una vecchia visione del mondo è una fine del mondo.

 

Che si tratti di catastrofi naturali, di epidemie spirituali o d’altro, il quadro sembra questo.

 

Finora gli uomini si sono scannati in nome di certi sospetti esseri invisibili che per precauzione non si chiamano spiriti, bensì “ideali”. Credo che a questo punto sia giunta finalmente l’ora della guerra contro questi esseri invisibili – e non vorrei mancare. Da anni vengo addestrato a essere un combattente in senso spirituale, lo so bene, ma non mi è mai stato chiaro come ora il fatto che si prepara una grande battaglia contro questi spettri maledetti. […] Il contrario di quel che fa la grande massa è già di per sé la cosa giusta.

 

Teorizza perciò uno Stato ideale senza necessità di organizzazioni e di doverlo imporre ad altri. D’altra parte, i “pensieri si propagano anche se non li si esprime. Forse soprattutto se non li si esprime”, dunque è certo che il suo Stato conquisterà il mondo. Anche perché al contrario “certe parole d’ordine […] trasmettono malattie ben più gravi [di virus e batteri], per esempio: odio razziale e odio di classe”, e dunque richiederebbero una sterilizzazione. Ovviamente qui a parlare è un personaggio, non l’autore in quanto tale, però il contesto del romanzo e il suo modo di narrare sembrano richiamare posizioni di Meyrink. Contraddizioni comprese, perché i suoi accesi racconti contro le gerarchie militari, i suoi attacchi alla borghesia e a fasce sociali più alte e moralmente decadute o contro certo populismo, l’intransigenza critica delle sue riflessioni non vanno troppo lontani dall’odio di classe. Se sull’odio razziale non sussistono dubbi interpretativi (con buona pace dei tentativi dei razzisti evoliani di annettersi Meyrink), è probabile che odio di classe qui vada inteso semplicemente come un rifiuto del marxismo: a dispetto delle sue bordate e, come si è detto, con qualche contraddizione nel rapporto con la borghesia, Meyrink resta politicamente un moderato. Quanto al nazionalismo,

 

sembra essere una necessità per la maggior parte delle persone, lo riconosco, ma è giunta l’ora che si formi finalmente uno “Stato” in cui i cittadini non siano tenuti insieme dai confini e da una lingua comune, bensì dal modo di pensare, e dove possano vivere come vogliano.

 

Badiamo che simili affermazioni nel contesto della Prima guerra mondiale, sotto il fuoco di attacchi a Meyrink da parte dell’ultradestra nazionalista, sono molto più forti di quanto sembri a noi: in passato e in altri contesti ha potuto essere più tranchant, ma qui rischia l’incriminazione per scarso patriottismo e dunque usa una formula più “morbida” (“sembra essere una necessità per la maggior parte delle persone, lo riconosco, ma”…).

Il cambiamento radicale anche di una persona sola, argomenta il barone, basterebbe: “la sua opera non può morire – che il mondo ne venga a conoscenza o meno. Costui apre nella realtà una breccia destinata a non richiudersi mai più, non importa se gli altri se ne accorgono subito o dopo un milione di anni”. E l’opposizione del singolo Meyrink al nazionalismo prenazista acquista dunque un valore concreto.

Le grandi catastrofi non sono tanto la causa dei mutamenti di pensiero, quanto un presagio, “il mondo in cui viviamo è un mondo di effetti. Il regno delle vere cause è occulto; se riusciremo a spingerci fin là, potremo fare miracoli”. Tra questo sarebbe eminente il saper diventare realmente padroni dei propri pensieri: e a quel punto l’ingegnere riesce a buttargli lì la domanda se abbia qualche “segnale per affermare che siamo di fronte a una… chiamiamola svolta”. Il barone ammette che sì, ma “(p)iù che altro è una sensazione”. C’entra l’incontro casuale con una certa signorina van Druysen, che gli presenterà tra poco, e il racconto da lei offerto: una “pietra miliare” dello sviluppo interiore si rivela “nella coscienza di tutti coloro che sono maturi per viverla con una uguale esperienza interiore […], la visione di un volto verde”. Che, come detto, questo romanzo flirti con l’esoterismo (e ben più che Il golem), non toglie che occorra riflettere su quale sia l’esoterismo in questione. A partire dall’ottica visionaria, mitica e onirica con cui è giocato il motivo del Volto verde: e il prosieguo della storia permetterà di uscire dal generico.

A quel punto l’ingegnere, stravolto dalla sorpresa, afferra il braccio dell’amico e racconta eccitato cos’abbia vissuto. Molto colpiti, iniziano a parlare fitto e non si accorgono dell’arrivo degli ospiti – in particolare Eva van Druysen e il dottor Sephardi, presto coinvolti nel racconto. Sulla propria esperienza alla “Bottega delle Meraviglie”, Hauberrisser lascia al barone il compito di sintetizzare ed Eva aggiunge solo qualcosa sulla visita a Swammerdam: nessuno dei due è in imbarazzo, ma entrambi faticano a parlare. Il fatto è che c’è stato un inatteso colpo di fulmine: di Hauberrisser che pure di donne ne ha amate tante, e ora travolto da “un sentimento di comunione così sincero e intimo da far impallidire quanto fino ad allora aveva chiamato passione”. Ma anche della giovane, e la reciprocità non sfugge all’occhio acuto di Pfeill. Che coglie anche una sofferenza negli occhi di Sephardi (scopriremo solo più avanti che si era innamorato di Eva, ma già ora possiamo sospettarlo). Quando però paragona la piccola comunità di mistici del calzolaio veggente a un gruppo di sventurati pellegrini ingannati da un miraggio e condotti a morire di sete nel deserto, Eva ribatte che ciò non vale per Swammerdam, “destinato a trovare anche le cose più elevate che sta cercando”. L’ebreo ortodosso Sephardi resta scettico.

Dibattono un po’ sul tema dei messaggi “sovrannaturali”, e Hauberrisser chiede conto della definizione di “uomo primordiale” usata per la fantomatica figura dal volto verde che entra ed esce dalle loro giornate. Preferisce “credere che sia la medesima creatura entrata nelle nostre vite” con un caleidoscopio di manifestazioni, ed Eva si dice d’accordo. Sephardi ipotizza che si tratti di una forza spirituale – forse un essere con una autonomia identitaria – fiorito in epoca remota e che ora voglia ridestarsi, manifestandosi a pochi eletti. Del resto se un uomo diventa immortale, “continua a esistere quale pensiero eterno” in grado di accedere in modo diverso alla mente altrui. Se poi lui, come ebreo, accoglie una religione della debolezza che si basa sull’attesa del Messia, esiste anche una strada della forza – l’importante è che, per coerenza, il debole non scelga la forza o viceversa.

L’ingegnere lo interpella allora sul tema del dominio dei propri pensieri – che non è il semplice autocontrollo, e Sephardi ribatte atterrito che si tratta di “un antichissimo sistema pagano per giungere al vero superomismo”, il cosiddetto “ponte della vita”. Però sia chiaro, non c’entra con Nietzsche: è penetrato in Europa dall’Oriente, e pochi lo conoscono. È bastato a far perdere il senno a chi mirava a quel tipo di magia, “soprattutto inglesi e americani” con ciarlatani che si spacciano per iniziati e schiere di pellegrini in India e Tibet, senza sapere “che lì il segreto si è spento da tempo”. Legittimo domandarsi se Meyrink non stia facendo qui il contropelo al Fa’ quel che vuoi di Crowley, molto attivo nel traghettare a ovest – tra brividi e critiche degli occultisti occidentali, che non amano simili ibridazioni contrarie a una tradizione – una serie di spunti esoterici dall’Oriente.

Sephardi prosegue: questi appassionati di scarsa preparazione confondono con altre tradizioni che portano quel nome, ma i testi antichi sull’argomento restano privi di chiavi interpretative. Del resto un “ponte della vita” è esistito anche nella cultura ebraica, con tracce indietro fino all’XI secolo e un suo antenato, Salomon Gebirol Sephardi, ne ha parlato nei propri scritti finendo ucciso da un arabo. In Oriente una piccola comunità erede di emigrati europei discepoli di antichi Rosacroce, i Paradâ, “coloro che hanno toccato l’altra riva”, custodirebbero ancora il segreto… Beninteso, sarebbe una fortuna per il mondo intero se qualcuno giungesse all’altro capo del “ponte della vita”. Da solo, un uomo non può riuscirci, ha bisogno di una compagna e qui sta il senso più profondo del matrimonio, “che l’umanità ha smarrito da millenni”. Poi si avvicina alla finestra per nascondere il viso e prosegue: “Se un giorno le mie misere conoscenze in questo campo potessero tornare utili a voi due, disponete pure di me liberamente”.

Eva resta colpita. Anche ammettendo che i sintomi di un suo innamoramento per l’ingegnere siano così evidenti, cosa ha spinto Sephardi a un’uscita tanto poco discreta da gaffeur? Tradisce l’eroismo di chi l’ha amata in silenzio? O piuttosto c’entra il discorso sul “ponte della vita” e un improvviso – come diceva Swammerdam – partire al galoppo del destino? in fondo Eva, seguendo il consiglio del mistico, aveva parlato con Dio… a quel punto, cogliendo l’imbarazzo di Hauberrisser, lo tranquillizza: non deve provare disagio, si tratta di parole di un amico e nessuno può sapere ciò che la sorte riserva. L’indomani tornerà ad Anversa e per un po’ non si vedranno. Si congeda affettuosamente anche da Sephardi.

Intanto il barone nota casualmente sul giornale una notizia di cronaca nera, su un assassinio consumatosi nello Zee Dyk. Legge così i punti principali ai presenti: Swammerdam che trova il corpo della piccola Katje, il calzolaio scomparso con la grossa somma che aveva ricevuto, i primi sospetti su un commesso poi rilasciato, il costituirsi dell’assassino – che ha probabilmente ucciso anche il calzolaio. Il cui corpo, buttato probabilmente nel fango del canale, non è stato ritrovato. La confusa testimonianza dell’assassino che avrebbe sottratto il denaro permette di parlare di omicidio a scopo di rapina. Perché a uccidere non sarebbe stato “Quell’orribile negro” (qui in apparenza gli stereotipi si sprecano, ma ci saranno sorprese) come ritiene Eva, bensì “un vecchio ebreo russo di none Eidotter, che gestisce uno spaccio di liquori nello stesso edificio” – quello cioè con il nome rituale di “Simone il crocifero”. La ragazza, che l’ha conosciuto, non crede alla sua colpevolezza, neppure in stato di incoscienza. Circa l’improbabile confessione di lui, Sephardi ipotizza che l’adozione di un nome sacrificale come quello del crocifero, per la forza stessa insita in esso, abbia indotto un soggetto isterico a immolarsi per qualcun altro; mentre per lo stesso motivo la bambina è stata probabilmente uccisa da Klinkherbogk in un attacco di follia religiosa, a imitazione del sacrificio di Isacco, dopo essersi dato da solo, imprudentemente, il nome “Abram”.

Alla fine Eva esce di lì con Hauberrisser: lui domanda se non potrebbe andare qualche volta a trovarla ad Anversa, lei preferisce uno scambio di lettere: “Ho pensato sovente che ci deve essere qualcosa di innaturale nel fatto che un uomo si leghi a una donna. Ho come l’impressione che le ali gli si spezzino”. Lui ribatte che la barriera tra loro è il risultato delle inavvedute parole di Sephardi, dovranno sforzarsi di abbatterla. Ma lei vagheggia un’unione speciale, ben più intensa di un matrimonio “ridotto a un’odiosa istituzione che sottrae all’amore la sua bellezza e costringe l’uomo e la donna a un degradante opportunismo”. A un tratto Eva si stringe a lui, sussurrandogli che lo desidera “come la morte. Sarò la tua amante, lo so, ma quel che la gente chiama matrimonio ci sarà risparmiato”. Lui, stordito dalla gioia, coglie a malapena le parole, ma poi un alito di gelo li avvolge entrambi, come portati via alla gioia eterna dall’angelo della morte. Si riprende poco a poco, mentre una carrozza porta via lei e lui si scopre straziato dall’angoscia di non rivederla mai più.

Accertato che la zia beghina non voglia incontrarla – ha mal di testa, poverina, dopo gli ultimi traumatici fatti… – Eva si appresta a partire per il Belgio. Come trovare l’accesso a quel sentiero regale per la donna citato da Sephardi? Non vuole ridursi a donare all’amato solo la propria bellezza… e farebbe per lui qualunque sacrificio, pur di puntare al di là di quegli orizzonti umani che restano davvero troppo poco. Prega intensamente che qualcuno da oltre il fiume della morte le appaia per indicarle la strada. E dal cielo squarciato ha una visione, una tavola di vegliardi come in attesa: il “loro superiore aveva i lineamenti di una razza straniera, e un segno luminoso fra le sopracciglia; dalle sue tempie partivano due raggi abbaglianti come le corna di Mosè”, ma lei non riesce a formular loro la propria richiesta e lo squarcio nel cielo si sta ormai richiudendo, lei cerca di trattenere l’uomo con il segno fiammeggiante… però all’improvviso vede “una figura su un cavallo bianco sfrecciare al galoppo dalla terra al cielo, e riconobbe Swammerdam”, che smonta, impreca contro il vegliardo, lo afferra e gli indica Eva. La scena le ricorda le parole evangeliche sul fatto che il Regno dei Cieli vada conquistato con la forza. A quel punto lei ordina – come aveva sollecitato il mistico – di essere innalzata

 

verso la meta più sublime che una donna possa attingere – senza pietà, sordo alle sue preghiere se le avesse formulate per debolezza, sempre avanti, più veloce del tempo – attraverso gioie e felicità, senza concederle tregua, senza un attimo di respiro, costasse anche mille volte la vita.

 

(Nel contesto d’epoca può non colpirci un certo angelicato ministero della figura femminile.) Eva capisce di dover morire di fronte alla luce abbagliante del segno sulla fronte dell’uomo che le brucia la mente, ma continuerà a vivere perché ne ha visto il volto. Sente le catene della schiavitù spezzarsi in lei, mentre le sue labbra mormorano lo stesso ordine… Quando recupera il senso della realtà, sa che non tornerà ad Anversa: tutto le sembra piccolo di fronte all’indicibile beatitudine del prossimo futuro, e sta per giungere “l’ora che le donerà la vista – seppur tardi e a prezzo di terribili sofferenze”. Guardandosi allo specchio, i tratti del volto le risultano estranei: non riesce neppure a scrivere una lettera al proprio amato.

Ma avendo accettato di lasciarsi spingere dal Maestro del Destino verso lo scopo più elevato possibile, per poter offrire all’amato un rapporto speciale e non un matrimonio borghese, Eva scatena un meccanismo psichico di recettività, di lasciarsi agire: e in primo momento di questa mistica passività beneficia una forza oscura. Infatti come dal fondo dell’orecchio le perviene un sussurro, che poi diventa una lingua selvaggia e straniera. Deve obbedire a un ordine estraneo, ostile, ed esce; giunta alla piazza della Borsa di Amsterdam è trascinata bruscamente a destra. Sospetta di essere diretta a farsi uccidere ma non vi si oppone – tutto è un passo ulteriore verso la meta. Cammina fino a imbattersi nella casa sghemba – alla Caligari – in cui è stato assassinato il calzolaio. E sul parapetto alla confluenza dei due canali siede l’uomo la cui forza demoniaca l’ha attirata lì: è il terribile Usibepu, e lei atterrita che non riesce a chiamare aiuto, vede se stessa fermarglisi davanti. Lui dorme a palpebre aperte con le pupille rivolte in su, lei – inerte – ne teme il risveglio e subisce la “magica coercizione” del “selvaggio sangue africano” di cui aveva sentito parlare (torniamo a stereotipi razzisti diffusi in tutto l’Occidente):

 

L’abisso in apparenza insormontabile che separava il terrore dall’ebbrezza dei sensi era in realtà solo una sottile parete trasparente, infranta la quale l’animo di una donna si trasformava senza scampo in terreno di istinti bestiali.

 

Come una sonnambula, non vede vie di scampo: lui la afferra e le tappa la bocca, Eva si aggrappa alla striscia di cuoio rosso scuro che lui porta al collo… riesce a chiedere aiuto, Usibepu la trascina nell’ombra della chiesa di San Nicola, ma due marinai cileni li seguono, uno riesce a ferire il nero che però gli sfonda la testa. Messo KO l’altro, Usibepu bracca Eva nel giardinetto della chiesa, lei si nasconde e vorrebbe uccidersi per non cadere nelle sue mani. Poi però si accorge che la propria immagine riflessa è apparsa in mezzo al giardino, Usibepu le parla terrorizzato… quindi ricade nel precedente stato di incoscienza. La forza a cui ha scelto di affidarsi la indirizza verso la salvezza. Eva si arrischia ad abbandonare il nascondiglio e giungono voci dal vicolo: lei grida, gli inseguitori di Usibepu si lanciano su di lui che però riesce a farsi strada e arrampicarsi sul tetto della chiesa (inevitabile pensare alla fuga dell’evaso, impazzito Knock nel Nosferatu, 1922). Eva perde conoscenza e ne perdiamo le tracce: e questa sua scomparsa resterà circonfusa di mistero iniziatico.

Intanto Hauberrisser si intrattiene con Sephardi e il barone: continua a pensare a Eva, ma ad Amsterdam – a parte la compagnia dei due cari amici – si sente solo. Medita dunque di trasferirsi ad Anversa, dove potrebbe incontrare Eva almeno casualmente, ma è angosciato dal cattivo presagio gravante sul loro congedo. Quando poi scopre che è partita dall’albergo ma le valigie non sono state ritirate, si agita e prende a cercarla disperatamente, nella notte, fino allo Zee Dyk – ma lì Swammerdam gli spiega che non è tornata da loro. Comunque lo tranquillizza sul fatto che Eva sia viva, “Perché altrimenti la vedrei”: ma sì, è capitato qualcosa di grosso, la tiene in suo potere “uno di fronte al quale noi due non siamo nulla”. Eva si è incamminata su una strada simile a quella percorsa da Klinkherbogk, per cui lui pure aveva pregato tanto, però le preghiere risvegliano “con violenza forze in noi sopite”. E il senso di quanto accade nella sfera esteriore è di spingere avanti: poi tutto avviene “nel momento giusto e nel modo migliore” – così, non si preoccupi, sarà per Eva.

 

Il difficile sta nell’invocare lo spirito che deve guidare il nostro destino; Egli ascolta solo la voce di chi è maturo, ma il grido deve nascere dall’amore, e per amore di un altro, altrimenti non facciamo che risvegliare in noi le forze delle tenebre.

Gli ebrei della cabbala dicono: “Le creature del buio regno di Ob raccolgono le preghiere che non hanno ali”, e con ciò intendono non i demoni che sono fuori di noi, perché da questi ci difende la muraglia del nostro corpo, ma certi magici veleni dentro di noi che, risvegliati, scindono il nostro Io.

 

Alla preoccupazione di Hauberrisser che Eva sia andata incontro a una triste sorte come quella del calzolaio, il mistico lo rassicura: se l’ha consigliata a una certa ricerca interiore, era perché in quel momento era vicino Colui di fronte al quale loro non sono nulla. Invita piuttosto l’ingegnere a rivolgersi ai marinai della taverna con un’offerta in denaro, perché la trovino. Nel locale giace il corpo del marinaio cileno ucciso da Usibepu, ma il taverniere ne copre la responsabilità.

Eva viene cercata da tutto il quartiere, e la cameriera Antje è molto commossa per Hauberrisser. Alla fine Swammerdam lo esorta ad andare a dormire: provvederà lui a denunciare la scomparsa alla polizia. Il mistico gli racconta un episodio della propria giovinezza: turbato e deluso, considerava il destino un carnefice spietato. Poi aveva visto un purosangue che stavano allenando: continuava a correre in tondo sotto le frustate per non accettare di saltare un ostacolo che lo avrebbe portato a far chiudere la prova – e Swammerdam aveva capito di assomigliargli… Fino a quel punto aveva visto le sventure come punizione, ora la durezza della sorte aveva acquistato un nuovo significato. L’unico consiglio che arriva a dargli è di cercare

 

quella magica forza che in avvenire sarà in grado di evitare altre disgrazie alla sua fidanzata. Altrimenti potrebbe accaderle di trovarla per poi perderla di nuovo, come gli uomini sulla terra si incontrano per poi venire separati dalla morte.

Lei deve ritrovarla non come si trova un oggetto perduto, bensì in un modo nuovo e duplice. […] Non ha detto lei stesso che Eva aveva paura del matrimonio? Proprio per preservarvi da questo il destino vi ha uniti così all’improvviso, e subito dopo vi ha separati. In una qualunque altra epoca che non fosse quella attuale, in cui quasi l’intera umanità si trova di fronte a un terribile vuoto, quel che le è accaduto avrebbe potuto essere solo una smorfia della vita, ma oggi questo mi sembra da escludere.

 

Quanto al misterioso manoscritto pervenuto all’ingegnere, lasciando che gli eventi esteriori seguano il loro corso, è sensato cercare in quelle pagine ciò che è giusto per lui. Ora è nel punto giusto per poterlo fare, “(p)erchè ora agisce per amore, e può impossessarsi senza pericolo delle forze terribili che altrimenti la porterebbero inesorabilmente alla follia”.

Chiaramente Meyrink presenta Swammerdam con simpatia e rispetto: un mistico dal profilo ben più sofferto e in fondo umano dello splendido ma distante Hillel del Golem. E con altrettanta chiarezza il filo importante del Volto verde rappresentato dal mondo di Swammerdam è quello della mistica cristiana di Jacob Böhme (1575-1624) e di altri testimoni avanzati sulla linea tedesca già di Meister Eckhart, passata a innervare il pensiero rosicruciano ma più in generale il pensiero mistico romantico. Quindi la spendita per questa parte fondamentale della categoria dell’esoterico, non impropria per il romanzo in termini assoluti, richiede almeno di essere meglio chiarita.

Tanto più ricordando il rapporto complesso dell’autore con gli esoteristi dell’epoca. In alcuni abbozzi di Il volto verde figurava una figura di ciarlatano poi in gran parte eliminata nella versione definitiva, e modellato su Rudolf Steiner. Se questi in una conferenza a Monaco rende omaggio ai pensieri di Meyrink sulla mistica, Gustav non è altrettanto amichevole nei suoi confronti, stroncando la teosofia come religiosità di gente incolta. Non parliamo poi degli spiritisti, ai quali riserverà nel Volto verde parole durissime.

Va detto che la critica al sistema di Steiner è in parte parallela a quella nei confronti di Mann. Così come in tema di esoterismo Meyrink non si riconosce seguace di una peculiare tendenza, ciò vale anche per il fronte della letteratura. Ma fa parte del carattere di Meyrink una conflittualità ispida, con giudizi tranciati in modo tale da suggerire una certa incomprensione della letteratura del suo tempo (impressione in realtà non fondata, a giudicare dalla sua corrispondenza, in particolare con l’editore Kurt Wolff). Diciamo che, a proposito di Meyrink, qualunque semplificazione classificatoria – a partire da quella di chi cerca di annetterselo – è destinata a scontrarsi con un impianto di pensiero liberissimo, molto originale e ben poco schematizzabile.

Intanto Sephardi si è recato dallo psichiatra legale Debrouwer – considerato da tutti un superficiale – per sapere qualcosa di più sul caso del vecchio correligionario Lazarus Eidotter e intercedere per lui. Sospetta sia un chassidim cabbalista e la sua sorte gli sta a cuore. Anche l’ottuso Debrouwer esclude che il vecchio abbia ucciso (è stato il calzolaio a uccidere la nipote, prima di essere assassinato da qualcun altro e gettato dalla finestra); ma Eidotter conosce troppo bene i fatti e descrive l’uccisione del calzolaio nel dettaglio come avrebbe potuto fare il vero assassino. Oltretutto, alla notizia del delitto, il vecchio è stato ritrovato privo di sensi, “Fingeva, naturalmente”: e se pretende di aver ucciso anche la piccola è solo “per confondere la polizia”. Insomma, un complotto: ecco di nuovo il Meyrink che non ha fiducia nella giustizia dei tribunali, nelle valutazioni di medici spocchiosi e in generale in un sistema. Dal canto suo, Sephardi si rende conto che la sua prima idea di un condizionamento di Eidotter a causa del nome rituale “Simone il crocifero” non regge: vagheggia ora un caso di chiaroveggenza inconscia.

Comunque lo psichiatra concede a Sephardi con sussiegosa benevolenza di parlare al vecchio ebreo russo. Lo trova in condizioni mentali confuse, ripete le parole che lui dice e pare privo di emozioni, benché i tratti rivelino straordinaria forza spirituale. Continua a ripetere di essere colpevole e di aver ucciso per sottrarre i soldi: ma quando Sephardi gli spiega che non avrebbe potuto arrampicarsi sulla catena (come sostiene) per giungere alla stanza del calzolaio, riflette e constata – senza sollievo – che ha senso. La prospettiva che possa essere giustiziato non lo turba, nella vita gli sono “capitate cose più terribili”. Ma curiosamente, a uno stato come privo di vita, il vecchio alterna momenti di profonda comprensione. Sephardi cerca di farlo parlare della famiglia.

 

Si ricordò che fra i chassidim circolava una leggenda secondo la quale, nella comunità, alcuni davano l’impressione di essere folli ma non lo erano affatto: di tanto in tanto, deposto il proprio Io, essi provavano gioie e dolori altrui come se ne fossero toccati in prima persona. L’aveva sempre considerata una favola:

 

sarebbe quello il primo caso che gli tocca vedere. Chiede invano se altre volte abbia creduto di aver commesso qualcosa perpetrato invece da altri. Però qualche giorno prima si comportava diversamente, incalza Sephardi, parlava di cabbala: e a quel punto il vecchio commenta che sì, l’ha studiata a lungo, anche il Talmud babilonese e quello gerosolimitano. Ma, sostiene, ciò che la cabbala dice di Dio è falso, “Nella vita è tutto diverso”. Visto poi che in Vaticano ha dovuto tradurre il Talmud, i greci ortodossi di Odessa credevano fosse “una spia in contatto con i goyim romani”: e a un certo punto, guarda caso, un incendio aveva devastato casa sua. Senza però che ci fossero vittime, grazie al profeta Elia, che più tardi è venuto a sedersi alla loro tavola dopo la festa dei tabernacoli – ma la moglie sosteneva si chiamasse piuttosto Chidher Grün – e a quel nome, dopo i dialoghi con Pfeill, Sephardi sobbalza.

Comunque, continua Eidotter, nella sua comunità dicevano che lui era pazzo, senza sapere che Elia gli “insegnava la doppia legge tramandata da Mosè a Giosuè”. Poi moglie e bambini gli erano stati orribilmente uccisi in un pogrom… Lui narra sorridendo senza emozioni, pare cosciente ma ormai senza dolore: quindi – prosegue – non era più riuscito a studiare la cabbala, “perché i lumi dei makifim erano stati spostati”. Sephardi con delicatezza domanda se intenda che il dolore gli abbia ottenebrato la mente, ma lui spiega che no, è stato come aver bevuto quel filtro degli egizi che porta l’oblio. “Come sarei potuto sopravvivere altrimenti? Per lungo tempo non seppi chi ero”, e al ritorno della memoria gli manca quanto occorre per piangere e parecchio di quanto occorre per pensare. Sa che è accaduto qualcosa che dovrebbe farlo soffrire, ma non prova nulla perché il cuore è salito alla testa, mentre il pensiero è sceso al cuore – quanto all’attività del suo negozio, non serve gran cervello e il suo corpo procede in automatico… Ecco spiegato qualcosa della sua stramba confessione.

Certo con le proprie forze nessuno è in grado di far qualcosa di simile, occorre si muova “uno dell’altro mondo” per spostare i lumi – nel suo caso il profeta Elia. Prima che entrasse nella stanza l’aveva riconosciuto, e il suo arrivo era stato normalissimo come l’ingresso di qualunque altro ebreo – e si rende conto che “non era trascorsa neppure una notte della mia vita in cui non lo avessi visto in sogno”. Tornando poi indietro con la memoria a cercare il loro primo incontro, gli era passata davanti la sua intera giovinezza e poi una vita precedente e così via: e l’aspetto di Elia era sempre lo stesso, di un ospite straniero seduto alla sua tavola, e a un certo punto ha scambiato di posto i due candelieri sul tavolo – cioè li ha spostati in lui. Ma sua moglie sosteneva che l’ospite in persona avesse detto di chiamarsi Chidher Grün…

Elia è rimasto sempre con lui, anche se non può vederlo: e Sephardi capisce che tra sé e il vecchio c’è “un abisso spirituale che non si poteva colmare”. Lui che viveva nel lusso, in solitudine e studio, si è forse perso le cose più importanti. Ha creduto di attendere la venuta di Elia, e leggendo ha capito “che per risvegliare la vita interiore era necessario desiderarla”: ma ora che ha davanti uno che ha appagato il proprio desiderio spirituale, si scopre a dire che non vorrebbe essere al suo posto. Il movimento spirituale non è quello che lui credeva. Quando però spiega a Eidotter che non sarà difficile convincere lo psichiatra che la sua confessione non c’entra col delitto, il vecchio gli chiede di promettergli che invece non dirà niente: non vuole che l’assassino sia arrestato, e detto fra loro è un nero. Sephardi chiede come lo sappia e lui spiega che quando rientra dagli incontri con Elia, ha la sensazione di esser stato parte di eventi nel frattempo avvenuti: se però vi ritorna con pensiero vede la verità. Stavolta, tornando mentalmente ad arrampicarsi per la catena, si è guardato… era un nero vestito di blu, con una cinghia di cuoio rosso attorno al collo. Ma ricorda a Sephardi di tacere, a causa di Elia non dev’essere versato sangue, e poi l’assassino è uno dei nostri, cioè un uomo di fede – selvaggia ma viva. E gli proibisce di parlare: “Se devo morire per lui, lei vorrebbe togliermi un simile dono?”. È evidente che il povero Eidotter ha conosciuto attraverso la frequentazione del misterioso visitatore il più alto grado di iniziazione: e Sephardi torna a casa sconvolto.

Questo dialogo bellissimo e il ruolo perplesso dell’occidentalizzato Sephardi aprono a un filone in qualche modo contiguo a quello menzionato della mistica cristiana. In questione è qui il pensiero di un certo mondo ebraico della diaspora, con tradizioni certamente peculiari tra Balcani, Polonia e Russia: si pensi alla mistica sincretista o non allineata di maestri più o meno eretici come Sabbatai Zevi, 1626-1676, Jacob Frank, 1726-1791 (protagonista del recente I libri di Jakub di Olga Tokarczuk, pubblicato in polacco nel 2014), e soprattutto Baʻal Shem Tov, 1698-1760, fondatore di quel chassidismo cui Eidotter sembra aderire. Dove di nuovo, pur dicendo qualcosa di un certo simbolismo un po’ criptico, la chiave dell’esoterismo tout court sembra impoverente e imprecisa. In questo romanzo c’è molta mistica, che va riconosciuta per tale: l’insistenza rozza sulla chiave esoterica – senz’altre specificazioni – sembra soprattutto frutto di accostamenti superficiali al testo e, a monte, dei soliti tentativi ideologici di annettere Meyrink all’orizzonte degli amanti dell’esoterismo eredi del Gruppo di Ur. Ma tra le riflessioni trombone, sussiegose ed equivoche connotanti un certo sottomondo esoterico di privilegiati lamentosi, tutelatissimi perché contigui a poteri sempre vivi, e la sofferta profondità esistenziale di grandi perdenti come Eidotter corre un enorme divario che va colto: un orizzonte febbricitante e vivido di sincretismi mistici cristiani ed ebraici nel calderone delle fedi tra Mitteleuropa e Oriente che parla di percorsi personali alla fede, di scelte esistenziali sofferte, di violenze patite da chi è (davvero) marginalizzato. Ovviamente la mistica cristiana di Swammerdam e la mistica ebraica di Eidotter non esauriscono il contenuto del Volto verde e il tema del suo esoterismo, ma certamente l’enfasi sul medesimo viene notevolmente ridotta.

Le settimane passano e di Eva non ci sono tracce. Invano il barone e Sephardi cercano di aiutare Hauberrisser nella ricerca, per cui viene offerta una lauta ricompensa. Si mobilitano anche pazzi con lettere anonime, veggenti più o meno improvvisati, in una corsa alla bassezza. Unico balsamo per l’ingegnere sono le visite quotidiane di Swammerdam, che un giorno non riesce più a trattenersi: “una schiera di pensieri estranei si sta avventando ostile su di lei per privarla della ragione” e a quel punto l’ingegnere si ritira in se stesso, facendo circolare la voce d’essere partito.

Cerca di costringersi a leggere il rotolo misterioso, ne accoglie il “tu” come rivolto a sé e si accorge che la voce sembra essere a tratti quella di Pfeill, o di Sephardi, o di Swammerdam, tutti animati dal medesimo spirito per aiutarlo a crescere. E questa del manoscritto è forse la voce più genuinamente esoterica del romanzo.

Vi si annuncia che è l’ultima ora sull’orologio del mondo. Dunque non si faccia sorprendere dal sonno, “restare svegli è tutto”: esiste un equinozio dello spirito, e “la legge interiore è identica a quella esterna, solo di un’ottava più alta”. Chi sogna cogliendo soltanto scorci ingannevoli non sono poeti e sognatori, ma i diligenti uomini del fare, che vivono il loro sogno indipendente dalla volontà. Certo esistono i grandi veggenti che sanno di sognare e si spingono “fino ai bastioni dietro cui si cela l’Io eternamente sveglio”, come Goethe, Schopenhauer e Kant, ma non possono espugnarne la fortezza né svegliare i dormienti. Mentre occorre raccogliere le forze e cercare di svegliarsi – permettendo di respingere i pensieri tormentosi. Trasmettendo al corpo questa veglia, i dolori cadranno di dosso come foglie morte: e le pratiche ascetiche delle diverse religioni mirano a questo, l’occulta dottrina della veglia come la scala celeste del Giacobbe che lotta con l’angelo. Il primo piolo si chiama genio: come andrebbero chiamati i livelli più alti?

Il primo ostacolo sarà costituito dal corpo, ma alla fine sarà debellato e l’universo si troverà ai piedi del vegliante. Non si faccia scoraggiare dal timore di non poter raggiungere la meta in questa vita: le nascite successive saranno sempre più avanzate. Vedrà immagini – persone morte, figure di luce – emanate dal suo corpo: e un giorno, se lo seppelliranno, nella bara non ci sarà alcun cadavere. E solo allora riuscirà a distinguere il reale dall’apparente, e capire se è l’essere più disgraziato o più fortunato della terra. Ma nessuno viene abbandonato dalle proprie guide.

Il manoscritto offre poi una serie di caveat sul tema delle apparizioni, per smascherare predatori d’anima e pensieri divenuti visibili, e non cadere in pii equivoci (una condanna nettissima dello spiritismo, le cui manifestazioni avevano peraltro recato a Meyrink penosi contraccolpi interiori). E prosegue con una catechesi sapienziale per cui non ci sarebbe un paradiso dei buoni e una punizione dei cattivi perché non ci sono Male e Bene ma Falso e Vero; vegliare non significherebbe pregare (come da lettura cristiana) ma risvegliare l’Io immortale; il corpo non andrebbe trascurato in quanto peccaminoso, ma far sì che sublimi in spirito; la solitudine andrebbe sperimentata dallo spirito per trasfigurare il corpo. Posizioni insomma vagamente superomistiche a base di “loro credono, noi sappiamo”, in fondo non particolarmente originali a inizio Novecento, e idealmente collocabili tra Nietzsche e le teo/antroposofie di successo. L’anima esoterica, o se si preferisce mitica, del Volto verde – come in fondo del Golem – sta qui, con le polemiche dell’autore verso devozionismi confessionistici e gnosi d’epoca: dove il sogno dell’immortalità depone i panni romantici del secolo prima per tentare nuove sintesi. E pazienza se il risultato, come spiegava il barone Pfeill, informerà solo lo “Stato” dell’autore attraverso un’opera narrativa.

Comunque il manoscritto invita chi legge a decidere in piena libertà la propria posizione. E una pagina successiva fa pensare che il destinatario abbia effettivamente abbracciato “la via pagana del dominio dei pensieri”: suo mentore sarà dunque qualcun altro che sulla terra resta invisibile, “infinitamente lontano […] e tuttavia vicinissimo”. Il loro simbolo è la Fenice emblema di eterna giovinezza: e i suoi primi passi comporteranno che si separi dal corpo – come le streghe che se ne disgiungono lasciando a casa il corpo rigido e privo di sensi per raggiungere (potremmo dire in astrale, Meyrink non usa questa definizione) il sabba. Ma a domare il corpo nell’immobilità non basta la volontà, occorre lo stato di veglia superiore che deve raggiungere da solo, passando per l’incontro con spettri terribili: però saranno solo pensieri in forma visibile, indicatori di uno stadio di sviluppo spirituale. A quel punto potrà o meno entrare nel regno della pace eterna, ma potrebbe anche conseguire poteri per ben amministrarli, l’umanità ne avrebbe bisogno. E potrebbe riceverli proprio il giorno del “grande equinozio”: “Uno di coloro che detengono le chiavi dei segreti della magia è rimasto sulla terra per cercare e radunare gli eletti”, identificato da alcuni come l’Ebreo errante, da altri Elia, per gli gnostici Giovanni Evangelista. Può manifestarsi in forme varie, figura e volto non sono che immagini, ma potrebbe apparirgli come un essere di colore verde, oppure “com’è realmente – un segno geometrico, un sigillo nel cielo che soltanto tu riesci a vedere”, e a quel punto sappia che sarà chiamato a compiere azioni miracolose. Il narratore delle pagine misteriose ricorda di averlo incontrato in forma umana e ha “potuto mettere la mano nel suo costato”: si chiamava Chidher Grün.

Siamo al cap. XII, quello che si rivelerà il più importante. È passato del tempo, ad Amsterdam il nome di Eva è dimenticato e la considerano morta, solo Hauberrisser pensa ancora a lei – spera ancora, sempre più, ma non osa parlarne, neppure a Swammerdam cui pure lascia intuire qualcosa. Terminata la lettura del manoscritto, ha anche eseguito l’esercizio di immobilità (lì descritto) con curiosità scettica e poi quotidianamente per diletto – e scopre via via che di quell’esercizio ha bisogno. Possiamo vedere in queste scene le pratiche a cui Meyrink per lunghi anni – e, per certi versi, per tutta la vita – si costringe, portatrici ora di alcuni problemi fisici che lui ammetterà onestamente, ora di benessere e di salute. Sia come sia, la dimensione dello yoga mostra nel Volto verde un rilievo autonomo, quasi come la Kabbalah nel Golem.

Certo, la perdita dell’amata porta ad Hauberrisser ancora crisi violente di dolore, e sceglie di non contrastarle con gli esercizi per non sottrarsi al bisogno di lei: ma un giorno che il dolore lo conduce quasi al suicidio, prova a costringersi a uno stato di veglia superiore. Inaspettatamente vi riesce subito, e gli giunge la certezza che Eva sia viva e non corra rischi, anzi lo stia pensando. Quella via tra il dolore e una pace che fa sbiadire il ricordo gli permette di sentire Eva vicina. Comprende così meglio i miracoli della vita interiore, e prende a interrogare quella fonte di verità. Per esempio la sensazione, a un certo punto, di aver dimenticato come dominare il moto dei pensieri corrisponde alla fase dell’incenerimento da cui la Fenice – il simbolo qui più importante dopo il Volto verde – risorge ringiovanita: effimero il metodo, importante la conoscenza sottostante. Migliora così costantemente nella pratica di controllo dei pensieri, che prima lo depredavano e ora lo arricchiscono: e trova queste sensazioni evocate nel manoscritto, in pagine incollate dall’umidità che finalmente il calore del sole ha separato.

 

Negli ultimi anni, prima e durante la guerra, spesso aveva letto o sentito parlare della cosiddetta mistica, raggruppando d’istinto sotto l’etichetta “oscuro” tutto ciò che la riguardava, poiché qualsiasi cosa venisse a sapere sull’argomento aveva sempre un’impronta di vaghezza, come le visioni dei fumatori d’oppio. Non si era sbagliato nel suo giudizio, poiché quanto comunemente si intendeva per mistica altro non era, in realtà, che un brancolare nella nebbia. Ora però si avvide che esisteva anche uno stato mistico autentico – difficile da scoprire e ancor più da raggiungere – il quale non solo teneva il passo con la realtà dell’esperienza quotidiana, ma la superava di gran lunga in vitalità.

In esso niente ricordava le estasi sospette dei “mistici”: nessun umile piagnisteo volto a un’egoistica “redenzione” che, per brillare, ha bisogno del sanguinoso sfondo di empi condannati a eterne pene infernali; grazie a esso anche la rumorosa sazietà di una moltitudine bovina, che solo perché digerisce ruttando crede di trovarsi sul terreno della realtà, era scomparsa come un sogno ripugnante.

 

Meyrink non le manda a dire, anche nell’ambito di quel mondo di spiritualismi – allineati o meno a tradizioni religiose o filosofiche consolidate – che pure ha imparato a conoscere bene. Va ribadito d’altronde che possono ben definirsi mistiche le correnti cristiana ed ebraica che in questa storia idealmente omaggia.

Alla scrivania, Hauberrisser sente che Eva gli è vicina anche se non riesce a vederla. Nei giorni precedenti ha “creduto di essere sulla via giusta per ricongiungersi a lei in una nuova forma spirituale”, però non vuol cadere nell’errore delle allucinazioni streghesche. Più cresce il potere di trasformare i desideri in immagini, più c’è il rischio di perdersi dietro a fantasmi. Tuttavia in qualche momento Eva gli è apparsa come in carne e ossa, e ha dovuto costringersi a evitare di riprodurre l’immagine. Però non riesce a decidersi di andare a letto: ci dev’essere un mezzo, medita, per richiamare Eva in forma viva e reale… Lancia dunque domande, liberando i propri pensieri, ma le idee che pervengono non lo convincono. E intuisce che non basti stimolare la coscienza, ma anche il corpo, dove giacciono sopiti i poteri magici: sono questi da risvegliare, per agire sul mondo materiale. Colto da un’ispirazione, si pone nella posizione delle statue degli dei egizi (già il narrante di Le piante del dottor Cinderella imitava la postura di una statuetta egizia) e costringe il corpo a una quiete assoluta: e poco dopo sente “scatenarsi dentro una tempesta di indicibile violenza”. Voci umane, versi animali e colpi di gong si scatenano in lui, ma anche all’esterno nella stanza esplode un putiferio e la pelle gli brucia, mentre continua a invocare Eva. Non presta ascolto alla flebile voce interiore che consiglia di non giocare con forze di cui ignora la potenza, e che non sa dominare – e neanche quando la voce si fa più forte, gridando di tornare indietro. Se lo scatenare di cieche forze degli inferi, ventila la voce, facesse arrivare lì Eva prima del compimento dell’evoluzione spirituale, ne causerebbe la morte portando a lui un intollerabile dolore… ma non l’ascolta e va avanti. Nonostante la motivazione razionale che se Eva avesse potuto si sarebbe fatta viva, ma continua egualmente a inviargli pensieri d’amore, il desiderio di lui è tale da privarlo della ragione.

All’improvviso il fragore cessa, la stanza s’illumina a giorno e come sorto dal pavimento un palo sormontato da una traversa – come una croce decapitata – raggiunge quasi il soffitto: ne pende la testa di un grande serpente dal verde brillante, la fronte avvolta da un cencio nero e l’aspetto simile a un volto umano mummificato – e ricorda il viso di Chidher Grün. Terrorizzato da quell’epifania, Hauberrisser si sente chiedere in tono sibilante “Che c-os-a vu-oi da me?”. Inevitabile ricordare il demone-cammello che nella scena dell’evocazione di Le Diable amoureux di Jacques Cazotte chiede al protagonista “Che vuoi?”: qui l’animale è diverso, ma sembra possibile un richiamo. Tanto più che l’albero con il serpente presenta un’allusione edenica, così come il nome di Eva: il Nehushtan, serpente sul bastone fatto innalzare in rame da Mosè nel deserto per curare gli Israeliti morsi dai serpenti – e quello terapeutico di Asclepio del mondo greco – si muta nell’iconografia tarda, specialmente ermetica, in un serpente sulla croce, come qui evocato in sincretismo con culti africani.

Paralizzato dall’orrore, sentendo la morte in agguato, Hauberrisser crede “di vedere un disgustoso ragno nero scivolare sulla superficie lucida del tavolo… poi il suo cuore gridò il nome di Eva”. Allora la stanza rimpiomba nell’oscurità, il Nostro raggiunge a tastoni la porta e accende la luce, la croce decapitata e il serpente sono scomparsi… cerca di tranquillizzarsi pensando a un attacco di febbre, ma senza successo, ed è angosciato che il suo esperimento magico abbia posto Eva in pericolo di vita. Cerca di tranquillizzarsi con l’idea che si sia trattato di un’illusione e quando va alla finestra si accorge di scrutare in distanza se Eva non stia arrivando. Nota però che nel punto del pavimento dove è sorta la croce decapitata con il serpente il legno delle assi è marcito; e a un tratto ode bussare al portone, colpi impazienti.

Apre, tirando la corda del saliscendi, non echeggiano rumori per le scale: ma poi si spalanca la porta e compare Usibepu, che, incosciente come un sonnambulo, sembra non vederlo e annusa in giro. Alla fine individua il punto del legno marcito e poi solleva il volto come guardando la croce decapitata della visione e lo stesso serpente (associabile, ricordiamo, a quello del suo culto africano). Sul volto del nero, che pare mormorare, si alternano emozioni, fino a un furore incontenibile: ma poi si accovaccia sul pavimento, impallidendo, con gli occhi rivoltati sotto le palpebre spalancate – e intanto anche l’ingegnere è colto da un’inspiegabile stanchezza. E solo dopo parecchie ore vede Usibepu alzarsi in trance e andarsene.

Hauberrisser sta per tornare indietro dal portone spalancato, quando all’improvviso dalla bruma compare Eva. Sconvolto dalla gioia, la stringe tra le braccia, pare esausta: la conduce a una poltrona e restano abbracciati a lungo, lui in ginocchio e lei intenta a baciarlo. Non è tempo di porle domande, le chiede di non lasciarlo mai più, e lei lo tranquillizza, resterà con lui “anche da morta” – e intanto le mani le sono diventate gelide. Non può più lasciarlo, “L’amore è più forte della morte”: gliel’ha detto lui (scopriremo tra poco di chi si tratti), lei era morta e lui l’ha rianimata e lo farà ancora. Per intere settimane è stata fuori di sé, “sospesa fra il cielo e la terra, aggrappata alla cinghia rossa che la morte porta al collo. Lui le ha strappato il collare! Da allora sono libera! Non sentivi che ti ero sempre accanto? […] Fammi… fammi essere tua! Quando ritornerò da te voglio essere madre”. Si stringono in un impeto d’amore, e quando lui la richiama Eva è morta.

Sconvolto, Hauberrisser vorrebbe uccidersi, ma gli appare Chidher Grün: “Vuoi forse andare nel regno dei morti per cercare i vivi?”. Sappia chi non imparerà a vedere sulla terra non imparerà neppure dall’altra parte… Pensa che Eva non possa resuscitare? “Lei è viva, sei tu che sei ancora morto”. Poi sposta i due lumi: come ora è certo che lui possa mettere la mano nel costato del visitatore, così è certo che si unirà materialmente con lei quando avrà raggiunto la nuova vita spirituale. Il protagonista ha invocato l’amore effimero – Chidher Grün passa il piede sulla traccia di marcio, che scompare – e lui gliel’ha portato: è rimasto sulla terra non per prendere ma per dare… “Nella bottega delle meraviglie del mondo hai desiderato nuovi occhi per vedere le cose della terra in una luce nuova, ricordi? Non ti dissi che prima di avere nuovi occhi avresti dovuto consumare di lacrime i vecchi?”: per questo gli ha fatto pervenire il diario di uno dei suoi discepoli…

 

Eva voleva l’amore eterno: e io gliel’ho dato… e per amor suo lo darò anche a te. L’amore effimero è un amore spettrale.

Quando sulla terra vedo germogliare un amore che va al di là di quello fra spettri, vi stendo sopra le mani come uno scudo di rami per proteggerlo dalla morte che è ghiotta di frutti, poiché io non sono solo il fantasma dal volto verde, io sono anche Chidher: l’albero eternamente verde.

 

La governante al mattino trova il corpo di Eva disteso sul letto e Hauberrisser in ginocchio accanto. Chiama subito Pfeill e Sephardi che lo credono svenuto ma arretrano “spaventati davanti all’espressione sorridente del suo volto e alla lucentezza dei suoi occhi”. Come per Eidotter, l’inversione delle luci l’ha condotto al dominio dei dolori psichici.

Prima di passare alla parte finale, è inevitabile tentare parallelismi tra Il volto verde e il precedente Il golem, letterariamente più solido (e anche più agevolmente avvicinabile per un lettore). Athanasius (“Immortale”) Pernath e Fortunat (“Fortunato”) Hauberrisser presentano punti di contatto in quanto antieroi modernisti, uomini in crisi nella risacca epocale che dovranno conoscere una spiazzante iniziazione per trovare un posto nel mondo. Mirjam ed Eva sono figure omologhe, donne amate e dolcissime di grande profondità interiore: di entrambe si teme siano rimaste vittime di violenza sessuale e verranno recuperate dal protagonista dopo un qualche tipo di morte (anche solo simbolica). Degli iniziatori Hillel e Swammerdam qualcosa si è detto, mentre Zwakh & Charousek e Pfeill & Sephardi strutturano costellazioni amicali che per l’uomo Meyrink hanno evidentemente un ruolo importante. In forme diverse Wassertrum e Usibepu risultano figure dell’Ombra in realtà temperata da scorci di umanità, laddove il pur colpevole Laponder e l’innocente Eidotter mettono alla prova le categorie di giustizia degli uomini. E ancora, con una marcata differenza simbolica, il golem e Chidher Grün ricoprono il ruolo del visitatore soprannaturale che traghetta a un qualche tipo di immortalità. In un caso e nell’altro, a partire dai quartieri ebraici (di Praga e di Amsterdam) che conservano tradizioni e memorie dei viandanti per antonomasia della cultura occidentale: non a caso in entrambi i testi emerge il mito dell’Ebreo errante, portatore di una qualche immortalità fino ai giorni escatologici del Giudizio. Il tutto espresso secondo gli stilemi di un espressionismo che offre maschere e topoi alle crisi del Novecento, ma suscettibile di parlare ancora al secolo successivo, di colpirci e di emozionarci coi suoi appelli a memoria e profezia.

(7-continua)

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La coscienza di Gustav (appunti meyrinkiani) 6 https://www.carmillaonline.com/2025/01/04/la-coscienza-di-gustav-appunti-meyrinkiani-6/ Sat, 04 Jan 2025 21:00:32 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=86017 di Franco Pezzini

(Per le parti precedenti, cfr. qui)

Pipistrelli, succhiatempo e volti verdi (1916)

Non esiste – spiega Meyrink – un unico modo per ricercare la conoscenza: e  tutta la vita non è altro che “domande formate” ogni volta diverse e risposte che ognuno comprende in modo differente, per poter seguire la strada del proprio cuore. A fronte di un alfabeto ebraico di sole consonanti, ognuno deve trovare le vocali segrete, che schiudono un senso destinato a lui solo – altrimenti la parola viva si sclerotizzerebbe in un dogma morto.

Nessuna sorpresa dunque se la produzione di Meyrink guarderà [...]]]> di Franco Pezzini

(Per le parti precedenti, cfr. qui)

Pipistrelli, succhiatempo e volti verdi (1916)

Non esiste – spiega Meyrink – un unico modo per ricercare la conoscenza: e  tutta la vita non è altro che “domande formate” ogni volta diverse e risposte che ognuno comprende in modo differente, per poter seguire la strada del proprio cuore. A fronte di un alfabeto ebraico di sole consonanti, ognuno deve trovare le vocali segrete, che schiudono un senso destinato a lui solo – altrimenti la parola viva si sclerotizzerebbe in un dogma morto.

Nessuna sorpresa dunque se la produzione di Meyrink guarderà ad agenzie sapienziali diverse e in modo molto libero: lo stesso sincretismo in fondo molto sfumato che nel Golem ammanta l’affannosa ricerca di un sé superiore, recupera con misura gli antichi spunti – tanto vivi a inizio Novecento in un intero orizzonte di riflessioni teo/antroposofiche – su una sophia perennis di universale verità al di là delle singole tradizioni religiose, e che pervaderà le opere successive. Grazie a una perizia narrativa non comune in questo genere di opere, e che riconduce a coerenza impianti simbolici estremamente variegati e senza cesure tra Occidente e Oriente, Meyrink si colloca così nella stessa tradizione dell’amico Kubin, su una lunga tradizione di poeti visionari (da Dante a Jakob Böhme, a William Blake, a Hoffmann…): e la sua scrittura offre una strana vita propria, un’esistenza vibrante a cose altrimenti morte e rigide – come il golem, in fondo.

Tale contenuto del suo primo grande lavoro finirà con il trovare seguito nella successiva produzione di racconti – in realtà sempre meno – e soprattutto di romanzi di Meyrink.

Per quanto riguarda i racconti, va ricordata la raccolta Pipistrelli, più precisamente Fledermäuse. Sieben Geschichten (Kurt Wolff, Lipsia 1916), che incontrerà l’attenzione di Jung e accorpa ad alcuni testi dal “Simplicissimus” altri nuovi. Dalla rivista viene in particolare La visita di Johann Hermann Obereit nel Paese delle Succhiatempo (J. H. Obereits Besuch bei den Zeit-Egeln, “Simplicissimus”, 47, 1916): vi scopriamo come i desideri vani degli uomini popolino la realtà di larve vampiresche, e solo chi riesca a estirparli conosce una rinascita spirituale e può porre l’epitaffio “Vivo” sulla propria tomba (come in effetti Meyrink farà).

Mentre, per i testi nuovi inseriti nella raccolta, la straniante novelette Meister Leonhard (Meister Leonhard), rielabora l’elemento autobiografico del difficile rapporto con la madre – descritta come oppressiva, agitata e superficiale, con “un irrequieto volo a zig zag da pipistrello” –, uccisa accidentalmente dal figlio, che lei ha interrotto mentre sta consumando un atto carnale con la serva Sabine poi risultata sua sorella. Da confidenza dolente gravida di colpa (lo scrittore non ha ucciso sua madre, ma forse qui spurga simili vaghe fantasie) e di rincrescimento (la mancanza di dialogo col padre, di cui pure intuisce il valore), il testo diventa così altro. La lotta contro l’insensatezza nel segno di quella sorta di svastica templare che è la croce di Satana – “quattro gambe umane in corsa, piegate ad angolo retto all’altezza delle ginocchia” – racconta dunque la storia tortuosa di un percorso verso una coscienza superiore, tra richiami ai Templari e al Bafometto, a un satanismo/luciferismo d’antan e a Meister Eckart.

Sempre nella raccolta, un’altra novelette nuova dai toni apocalittici congrui all’epoca, I quattro fratelli della luna (Die vier Mondbrüder: Eine Urkunde), ripropone in chiave onirica, tra incubo e grottesco, il tema della fine del genere umano, richiamando tra l’altro l’amicizia e la stima per Alfred Kubin di Meyrink – come peraltro qui si chiama il narrante stesso, cameriere personale del conte di Chazal, poi del magister Peter Wirtzigh. Interessante l’apparire nella storia, fitta di richiami alla luna e alle macchine, di una maschera espressionista alla Hoffmann poi presente anche in altre opere meyrinkiane, il cadaverico dottor Sacrobosco Haselmayer, ospite del conte il 21 luglio di ogni anno. La chiave allucinatoria dell’insieme fa esplodere ogni certezza identitaria sul narrante.

Per i romanzi, dello stesso anno di Pipistrelli è Il volto verde (Das grüne Gesicht. Ein Roman, Kurt Wolff, Lipsia 1916; attingo qui all’edizione Adelphi, 2012), che inizialmente avrebbe dovuto intitolarsi L’Ebreo errante. Un romanzo strano, chiaramente espressionistico che interesserà Jung; un romanzo molto più esoterico del Golem, anche se si tratta di intendersi sull’aggettivo. Di nuovo, troviamo una riflessione sull’interiorità e l’urgenza di recuperare un senso vero alla vita, quindi soprattutto filosofico e mistico in una Storia giunta alla crisi. Certo rispetto al romanzo precedente l’approccio per il lettore è meno agevole e fluido, come a forzarlo a uno sforzo di comprensione su una materia ostica. Anzi, la dimensione esoterica finisce col riguardare anzitutto la forma: in tutta la prima parte il lettore vaga alle prese con strani incontri, eventi bizzarri, maschere grottesche e veggenti più o meno improbabili. Poi lentamente i fili si stringono e la storia prende forma. Sembra esoterica anche la struttura, quattordici capitoli (sette e poi sette, numero simbolicamente rilevante per rosacroce e cabalisti, e divisi da una profonda cesura) con una visione finale.

 

Nel momento in cui, verso il 1915, Meyrink è alla ricerca di un nuovo orientamento, e si rivolge deliberatamente alle dottrine esoteriche orientali, è chiaro che gli elementi grotteschi debbono a poco a poco scomparire dalle sue opere letterarie.

Certo, nei suoi romanzi degli Anni Venti, Das grüne Gesicht e Walpurgisnacht, troviamo dei personaggi, dei motivi e persino una sorta di intermezzi grotteschi che ostacolano lo svolgersi dell’azione e irritano o divertono il lettore […] [Helga Abret-Brauner, Grottesco e fantastico nei racconti di Meyrink, in AA. VV., Meyrink scrittore e iniziato, Basaia, Roma 1983],

 

mentre nell’ultima parte della sua produzione il grottesco scomparirà.

Sul piano letterario Il volto verde è una creazione curiosa (viene persino da domandarsi se alcuni personaggi e magari episodi non siano recuperati dal primo impianto del Golem, con il proliferare di bozzetti poi stralciati per migliorare struttura e coesione), ma i bassifondi di Amsterdam – in particolare della zona ebraica – sono evocati in modo molto felice e i personaggi efficacemente descritti. L’azione non vi ha troppa importanza, ed è portata avanti non tanto da meccanismi di trama quanto dalle dinamiche tra personaggi.

 

Creando personaggi doppi e personaggi complementari, che spesso simboleggiano contemporaneamente il successo o la sconfitta, i diversi stadi sulla via dello sviluppo esoterico, crea un vasto scenario, colorito e plastico, in cui si stacca con tanto maggior chiarezza l’evoluzione dell’ “eroe” Fortunat Hauberrisser. [Joseph Strelka, “La faccia verde”, in AA. VV., Meyrink scrittore e iniziato, cit.]

 

E per seguire il filo dei simboli occorrerà sgranare episodio dopo episodio. Prepariamoci a un vagare febbrile, a tratti ciondolante.

Come detto, stavolta la storia si ambienta non a Prega ma ad Amsterdam, dove uno straniero visita in Jodenbreestraat – la “via larga ebraica” insediamento di molti transfughi ebrei dalla penisola iberica, e dove visse anche Spinoza – la “Bottega delle Meraviglie” di tal Chidher Grün. Un negozio pieno di oggetti bizzarri, sostanzialmente di accessori per prestidigitazione: teschi di cartapesta che sputano cartigli con profezie, cartoline erotiche, icone di suocere con labbra chiuse da lucchetti, manette, libri dei sogni egizi, scarafaggi finti, garanzie di qualche successo sociale come “‘il terrore dello scompartimento’ (un sistema infallibile per allacciare relazioni stabili durante i viaggi in treno, a uso dei commessi viaggiatori) consistente in zanne di lupo da fissarsi sotto i baffi”… e molto altro.

Nel locale, l’elegante viaggiatore austriaco nota un figuro dai tratti balcanici intento a leggere un giornale, ma anche una commessa propria connazionale, una graziosa signorina bionda. Questa riesce a vendergli il gioco di prestigio chiamato “I turaccioli volanti” e tenta di spiegargli il trucco, ma vengono interrotti dall’irrompere di “un gigantesco zulù dalla barba nera e crespa e le labbra tumide” con un chiassoso impermeabile a scacchi e una lancia in mano. Introdotto costui – che apprenderemo chiamarsi Usibepu, lavora al circo Carrè e al suo paese è uno stregone – e buttato fuori un tipo che lo segue lanciando sputi, la spiegazione sui turaccioli riprende, ma il visitatore dubita di riuscire a imparare e ripetere la manipolazione. Emerge invece che Usibepu conta di tornare in patria con una buona quantità di trucchi nuovi per far colpo sui compatrioti, e il figuro dall’aria balcanica – il signor Zitter Arpád di Bratislava – gli sta appunto insegnando una serie di giochi di prestigio alquanto macabri.

Insomma trucchi, e non solo:  in uno scaffale il visitatore nota una serie di volumi dal taglio dorato siglati da titoli come Storia della società corale accademica di Bonn e La cura delle emorroidi nell’antichità classica, ma che all’interno racchiudono la birichina “Biblioteca di Sodoma e Gomorra, Raccolta di scritti per scapoli impenitenti”. Mentre un vecchio ebreo in caffettano appare intento a scrivere nel retro, da un orologio a muro spunta al posto del cucù un busto femminile discinto che canta una canzonetta sconcia…

Stranito da quell’ Hellzapoppin’, lo straniero se ne andrebbe se non si sentisse oppresso da una tale astenia da piombare a sedere, meditando sull’insensatezza delle cose: ecco di nuovo come Pernath un antieroe modernista, con una dimensione interiore difficile, demotivato a vivere e un po’ depresso. Sospetta anzi che esista qualche patologia causata da “quel senso di morte che spira da tutte le cose create dall’uomo, siano esse belle o brutte”: il suo amico barone Pfeill sostiene che questo sia l’effetto tossico dei quadri appesi – ciò che spiegherebbe lo stato di sofferta tristezza tradito dalle immagini dei santi cristiani a fronte della serenità delle statue del Buddha. Lo straniero ha una posizione profondamente scettica verso le proposte di società e civiltà, e oltretutto nella “Bottega” il bisbiglio tra il figuro balcanico e Usibepu sta cullandolo facendolo assopire. Anche se poi si risveglia con “la sensazione di aver ricevuto una sconvolgente quantità di rivelazioni”, di cui trattiene come precipitato un’unica frase:

 

Raggiungere il sorriso eterno è più difficile che scovare fra le migliaia di tombe su questa terra il teschio portato sulle spalle in una precedente vita; l’uomo dovrà aver pianto tutte le sue vecchie lacrime prima di poter osservare il mondo con occhi nuovi, sorridendo.

 

Ancora nel sonno – ma convinto di essere sveglio – vagheggia così di costringere le cose a rivelargli il loro vero significato; ritiene di aver scoperto che “tutto si morde la coda, come dice il [suo] amico Pfeill” e in assenza di insegnamenti più saggi fantastica di ritirarsi nel deserto come il Battista a nutrirsi di cavallette e miele selvatico. Ma una voce (plausibilmente sempre nel sogno) lo irride: fa tante fantasie e poi è così scemo da pagare in argento uno stupido giochino come quello dei turaccioli? Non distingue una bottega delle meraviglie dal mondo reale e non intuisce “che nei libri della vita c’è qualcosa di diverso da ciò che è stampato sul dorso? Lei dovrebbe chiamarsi Grün, non io” (nel senso di Grün come “verde” ma anche come “ancora inesperto, immaturo”). A parlargli è il vecchio ebreo proprietario del negozio, con una benda nera sulla fronte, occhi profondissimi e un colore del volto tendente al verde oliva e con riflessi bronzei: “così doveva essere la pelle degli uomini preistorici, che si diceva avesse il colore dell’oro verde scuro”. E infatti gli confida di essere sulla terra dai giorni dell’apparire della luna: ha visto uomini che erano scimmie, e in fondo lo sono ancora e guardano in basso. Continuano a scoprire ulteriori dimensioni dell’infinitamente piccolo, ma così si può continuare indefinitamente senza risultati.

 

Io sono colui che affissa lo sguardo al basso e all’alto; il pianto l’ho scordato, ma non ho ancora imparato a sorridere. Il diluvio universale ha inumidito i miei piedi, ma non ho mai conosciuto nessuno che avesse motivo di sorridere; può anche darsi che non l’abbia notato, e che passandogli accanto abbia tirato dritto.

Ora è un mare di sangue a lambirmi i piedi, e proprio adesso dovrebbe presentarsi uno a cui è dato sorridere? Non credo proprio. È più probabile che dal fuoco sgorghi l’acqua.

 

Comunque quel volto gli toglie il respiro, e tornerà come un’ossessione lungo tutto il romanzo.

Lo straniero acquista ancora un teschio di cartapesta che sputa dalle mandibole rotolini di carta con profezie, e se lo fa spedire a casa, prima di uscire frastornato. Apprendiamo qui che si chiama Fortunat Hauberrisser ed è un ingegnere (Fortunat è il nome – purtroppo beffardo, a fronte della triste vicenda che lo attende – del figlio di Gustav).

Ripensiamo al discorso di questa sorta di Ebreo errante. Quando il romanzo appare l’Europa è in guerra, e lui ha raccontato “Ora è un mare di sangue a lambirmi i piedi”; ma nel secondo capitolo che adesso inizia veniamo informati che la guerra è finita “generando conflitti politici interni sempre più aspri”. In sostanza si tratta di un’ucronia, con un’ideale fenditura tra il conflitto reale che pesa sulla vicenda, cioè la Prima Guerra mondiale, e la pace virtuale di un affannato, immaginario dopoguerra, che comunque conduce lì stranieri di ogni nazionalità, per permetterne un insediamento duraturo o anche solo transitorio. L’esodo riguarda però più i benestanti, afflitti dalla pressione fiscale nei propri paesi, che gli strati poveri della popolazione: le entrate di uno spazzacamino o di un macellaio sono in questa situazione molto superiori allo stipendio di un professore universitario, portando gli intellettuali alla dispersione e riempiendo i vecchi alberghi olandesi in un clima di totale incertezza. Come vedremo, a dispetto delle sferzate ai borghesi preoccupati dal soldo, Meyrink talora vi si avvicina pericolosamente.

Nel caffè “De vergulde Turk”, labirintico e fumoso, una signora attende stizzita il barone Pfeill senza rendersi conto che è già arrivato in un altro angolo del locale, assieme all’amico ingegner Hauberrisser: la signora intende vendergli biglietti per una festa in maschera e il barone prende la faccenda – e l’agitazione di lei – con ironia lieve. No, gli bastano quattro biglietti, non cinque: e la dama (la classica professionista della carità ferma in superficie) se ne va innervosita.

Senza notare che è arrivata una bambina, nipote del calzolaio Klinkherbogk, portando una busta e avvertendo il barone che si è sbagliato e ha pagato mille fiorini invece di dieci: Pfeill le lascia benevolo la cifra in più e la congeda nella commozione del calzolaio. Non volendo toccare l’episodio per delicatezza, Hauberrisser gli chiede se conosca la leggenda dell’Ebreo errante, il leggendario calzolaio di Gerusalemme che avendo impedito il riposo a Gesù diretto al Golgota, si trova costretto a vagare fino al suo ritorno. Pfeill riferisce all’amico varie storie sul tema (compresa la tradizione che lo chiama Chidher, il Verde, guarda caso come il proprietario della “Bottega delle Meraviglie”), commentando la stranezza che subito prima gli fosse tornato alla memoria un certo ritratto visto a Leida molto tempo addietro. E descrive un volto di carnagione olivastra che l’ha perseguitato a lungo, persino nei sogni: un volto che ora inquieta l’amico perché pare descrivere proprio l’uomo dalla faccia verde incontrato. L’amico gli chiede cosa pensi degli ebrei, e il barone risponde che

 

“[…] Per lo più sono corvi senza penne […] Ma di tanto in tanto fra loro compaiono delle aquile, questo è certo. Per esempio Spinoza”.

“Dunque non sei antisemita”.

“Neanche per sogno. Se non altro perché non ho alcuna stima dei cristiani. […]”.

 

Gli ebrei esagerano troppo, i cristiani sono troppo superficiali – almeno secondo il barone. Lo scambio è particolarmente interessante a fronte delle accuse a Meyrink dei nazionalisti antisemiti.

Allontanatosi il barone, Hauberrisser tenta di darsi ragione delle strane coincidenze inanellatesi, ma la spiegazione telepatica non basta. Può trattarsi di coincidenze, e del resto, “se gli uomini che si somigliano avessero anche un destino simile?”, legato a forma del corpo e lineamenti del viso, come la vita pare confermargli. Anche l’astrologia non basta a spiegare, deve trattarsi di ben altri “pianeti che circolano nel sangue, intorno al cuore”… ma solo ora Hauberrisser nota un certo tipo vestito di bianco, con panama e monocolo. E riconosce il “professor” Zitter Arpád della “Bottega delle Meraviglie”, ora senza baffi e con capelli diversamente acconciati per chissà quali loschi traffici. Hauberrisser finge dunque di non averlo riconosciuto, neanche quando il tipo gli si presenta improbabilmente come un conte polacco, simula antichi rapporti con la famiglia di lui e racconta una serie di clamorose panzane – alle quali l’ingegnere non abbocca, mostrando scarso interesse. Poi il tipo affetta disprezzo verso gruppi di ebrei chassidim, inizia a pontificare sull’esplosione dell’isteria religiosa e di idee messianiche persino in Africa, dove sarebbe comparso un “Elia nero” operatore di miracoli… e a Mosca ha conosciuto anche un capo zulù che opera la magia grazie a un feticcio. Ora ha saputo che si trova in Olanda e lavora in un circo… ma l’ingegnere lo molla e se ne va.

In realtà Hauberrisser è stato preso da una violenta agitazione. Camminando, si imbatte nel circo cui è aggregato Usibepu (ovviamente è lui il presunto operatore di magie del conte polacco), ma rinuncia a fermarvisi.

 

C’era nell’aria qualcosa di imponderabile, di informe, che sferzava i suoi nervi – quella stessa ansia enigmatica e velenosa che in alcuni momenti, ancor prima di partire per l’Olanda, lo aveva oppresso con forza tale da spingerlo suo malgrado ad accarezzare il pensiero del suicidio [come Pernath, ricordiamo].

Quale poteva essere l’origine di questa ricaduta?

 

E finisce con l’associarla all’inquietudine dei fanatici religiosi, per avendo motivazioni diverse. L’aveva avvertita già molto prima della guerra, ma era riuscito a reprimerla con lavoro e svaghi. Più tardi l’aveva interpretata come un presentimento del sanguinoso conflitto. Ma ora torna quasi come disperazione – e un po’ tutti gli parlano di simili emozioni. Abbastanza impressionante leggere oggi queste pagine, in paesi psicologicamente depressi come il nostro e nel confronto tra demotivazione sociale e agenzie predatorie (di cui il trasformista cialtrone Arpád è una buona rilettura letteraria). Non è neppure troppo strano che al termine della guerra la pace interiore non sia affatto tornata.

 

La causa era molto più profonda.

Spettri – giganteschi, informi e riconoscibili solo dalle terrificanti devastazioni che producevano –, spettri evocati all’apposito tavolo da vecchi avidi e ambiziosi durante riunioni segrete, avevano fatto milioni di vittime acquietandosi poi per qualche tempo, almeno in apparenza. Ma ora il più terribile di tutti i fantasmi, da lungo ormai in attesa, risvegliato dai miasmi di una civiltà finta, in decomposizione, sollevava appieno il suo capo di Medusa dall’abisso, e scherniva l’umanità dicendole che era stata soltanto una ruota della tortura quella che essa aveva fatto girare – e avrebbe continuato a far girare per sempre, pur conoscendone le conseguenze – nella speranza illusoria di ottenere la libertà per le generazioni a venire.

 

Torniamo così idealmente all’immaginario del racconto Il gioco dei grilli e in realtà di parecchi testi anche non meyrinkiani sui presunti influssi occulti dietro la prima guerra mondiale. Ma idealmente si prepara anche il clima del successivo romanzo La notte di Valpurga.

Nelle ultime settimane Hauberrisser pareva aver superato il disgusto nei confronti della vita vagheggiandone una da eremita urbano, ma ora riaffiora il vecchio disagio. Le facce intorno non sono quelle di chi vuole divertirsi e rilassarsi, ma presentano solchi e rughe con segni di sradicamento, come i volti nelle raffigurazioni di sfrenate danze di appestati medioevali o stormi d’uccelli in preda al panico, in un abbrutimento eccitato e degradante. Mentre ruggiti e odori acri dal circo gli ricordano l’antica immagine di un’orsa incatenata in un serraglio ambulante, che ancora si pente di non aver riscattato. Forse a gridare vendetta fino al Giudizio Universale saranno gli spettri degli infiniti animali torturati dagli uomini. Ma in fondo, si domanda, lui ha mai compiuto un’azione di qualche rilevanza? Ha studiato e costruito macchine poi arrugginite (qui si può pensare al tema della macchina in I quattro fratelli della luna), dando il proprio contenuto alla generale inutilità…

È il tramonto, e l’ingegnere si fa condurre fuori Amsterdam con una vettura fin troppo lenta: arriva a vedere la campagna, i canali, mulini e pascoli, lasciando che l’inquietudine trascolori in malinconia. Mentre calano le ombre, ha la sensazione che la sua testa sia una prigione in cui è rinchiuso lui stesso: poi torna agli abitati, si fa lasciare dalla vettura e prosegue a piedi verso il suo appartamento, lungo canali maleodoranti fitti di chiatte immobili, tra gente che si raccoglie per la sera e porte che odorano di pesce e sudore, nell’opprimente desolazione dei porti olandesi (grande la suggestione pittorica di queste pagine). Per un attimo desidera di abbandonare quell’Amsterdam tanto cupa e triste per tornare a città più luminose a lui familiari, ma il senso tossico di decadenza e degrado di quelle soffoca la nostalgia.

Imbocca poi vie eleganti dove prostitute e protettori si sono ora insediati, e portieri in livrea al piano terra, mentre finestre aperte a rimorchiare clienti nei piani alti lasciano un sapore di squallore e di morte. Entra infine in un locale a metà tra il varietà volgare e il ristorante, popolato da canzonettisti e comici grotteschi e da un pubblico spiacevole. Trovando posto a un tavolo con quattro madame borghesi piuttosto stagionate: si sente additato dalla gente intorno e non capisce, tanto stordito dagli assurdi numeri dello spettacolo da ritrovarsi alla fine quasi solo nella sala. Dove fervono il traffico degli inservienti per cambiare l’aria nello spazio chiuso – con un enorme ventilatore e spruzzi di profumo – e i preparativi per l’arrivo di un altro pubblico molto più elegante, che ora riempie tutto il locale.

Hauberrisser si trova di nuovo al tavolo con quattro signore, ora un’anziana e tre giovani e belle russe. Intorno è il tipo di pubblico raffinato, né fatuo né profondo, che i filistei di ogni nazionalità invidiano e odiano: e a un tratto sul palco, illuminata da minuscole lampadine, appare la scritta “La Force d’Imagination!”. Uno spettacolo straniante non descritto, ma lasciato alluso, sconvolge il Nostro, che esce dal locale con un senso di orrore, “l’indistinta, soffocante paura dell’ignoto a lui da tempo familiare: l’improvvisa consapevolezza dell’inarrestabile degrado dell’umanità” (cosa ha fatto l’intrattenitore, davanti a tutti?). La scena che contrappone ai filistei un pubblico più raffinato e in fondo putrido può leggersi come sintomatica di un’avversione che conduce Meyrink più vicino allo spirito borghese da lui tanto sferzato, in una contraddizione almeno apparente ma comprensibile conoscendo la sua vita e i suoi tormenti interiori. Anche certi suoi commenti aciduli verso Thomas Mann, pure diviso tra arte e valori borghesi – e con cui dunque, in teoria, una maggiore sintonia sarebbe stata possibile – dà conto di contraddizioni mai composte, probabilmente per le amarezze di un’esistenza. Mentre – si è osservato – la visione apocalittica del Volto verde potrebbe in fondo proiettarsi nello scenario de La montagna incantata.

Ma quando il Nostro gira un angolo si trova davanti alla serranda abbassata della “Bottega delle Meraviglie”, in un edificio che pare un enorme teschio umano. Torna a casa domandandosi se la visione dell’uomo dal volto verde sia stata un sogno – tanto più che nel ricordo ricostruisce elementi paradossali, come il fatto che il vecchio ebreo sembrasse non posare i piedi per terra e risultare trasparente. Comincia a dubitare dei propri sensi, e vagheggia che nello spazio “ogni avvenimento che si sia verificato una volta esiste in eterno come immagine conservata nella luce”. Insomma ci sarebbe la possibilità di far rivivere il passato… e prende ad avere l’impressione che lo spettro del vecchio ebreo gli cammini accanto.

Raggiunge casa, dove è arrivato il pacchetto con il teschio di cartapesta e si corica, ma viene destato da un rumore che finisce con l’imputare a quel giochino nella scatola. Gli è caduto sul viso un rotolo “di carta fitto di caratteri sbiaditi”. Si riaddormenta, rivedendo in sogno le figure grottesche che ha incontrato negli ultimi giorni.

Intanto il barone va a visitare nella sua casa sontuosa l’amico ebreo dottor Sephardi (il cognome parlante richiama i sefarditi, gli ebrei della penisola iberica che, come Spinoza, avrebbero avuto un ruolo importante ad Amsterdam). Non lo vede da anni, e vorrebbe confrontare con lui alcuni ricordi sul quadro dell’Ebreo errante di cui ha parlato con Hauberrisser. Scopre allora che stranamente, dopo anni, Sephardi l’aveva cercato proprio quel giorno: e lo trova in compagnia della bellissima signorina Eva van Druysen, figlia di un amico del padre. Ancora più surrealmente, la signorina è giunta lì da Anversa per confrontarsi con Sephardi proprio sul dipinto in questione, presuntamente esposto a Leida nella collezione Oudheden: peccato che, andando sul posto, abbiano appreso che quel quadro non c’era mai stato… Perché le interessa tanto? Il fatto è che il defunto padre era ossessionato da un’apparizione che gli occupava la mente, era convinto che fosse “vicino il tempo in cui all’umanità sarebbero stati strappati gli ultimi punti d’appoggio, e una tempesta spirituale avrebbe spazzato via qualsiasi cosa che mano d’uomo avesse mai costruito”. Si salverà solo – diceva – chi avesse visto “dentro di sé il volto verde bronzeo del Precursore, dell’Uomo primordiale, di colui che mai assaporerà la morte”. Che non è uno spettro, ma anche se si presentasse così, in realtà è l’unico uomo sulla terra che non può essere definito tale. La sua benda nera in fronte nasconderebbe il simbolo della vita eterna, invece che mostrarlo come Caino: “Non posso dirti se sia Dio; non lo capiresti”. Passati gli anni, allo scoppiare della guerra la giovane aveva pensato che la tempesta spirituale evocata dal padre si riferisse a quell’evento: no, spiega Sephardi, la guerra ha solo diviso l’umanità in due fronti che non possono più capirsi, chi ha visto l’inferno e chi la riduce a inchiostro da stampa – e il dottore ammette di trovarsi tra questi ultimi. In effetti la giovane pensa che il padre si riferisse al non-poter-vivere-e-non-poter-morire che affligge ora il mondo (una suggestione, per inciso, che pare emergere in tutte le epoche di forte ridefinizione della realtà: si pensi solo alla Ballata del vecchio marinaio di Coleridge, 1798, con la sinistra partita a dadi tra Morte e Vita-in-Morte).

Parlando col dottore è dunque emerso il discorso del famoso ritratto che pare non esistere, a dispetto della memoria del barone – che per questo è venuto dal dottore, davvero gliel’aveva descritto anni prima? Veniva forse da un suo sogno? un tempo quell’immagine lo perseguitava… il dottore sospetta che il volto fosse emerso a Pfeill in stato ipnotico, a rivelargli quella “seconda vita, eterna” vissuta solo nel sonno profondo e dimenticata da svegli. La “rinascita” di cui parlano i mistici cristiani gli pare un risveglio dell’Io in un regno indipendente dai sensi esterni.

Si noti che il volto verde richiamato ossessivamente nel romanzo vi risulta un simbolo esoterico

 

straordinariamente diversificato: essa possiede un aspetto positivo ed un aspetto negativo che è esaminato, compreso e spiegato in modi estremamente differenti dai diversi personaggi del romanzo in funzione della loro origine e del loro grado di evoluzione interiore, senza che, tuttavia, tali spiegazioni si escludano l’una con l’altra. Piuttosto, a volte si completano, ed altre testimoniano anche della tendenza sincretica di un atteggiamento esoterico.

[…] la faccia non appare soltanto ad Hauberrisser. Essa agisce piuttosto come un campione di valore supremo, infallibile, la cui apparizione (e non-apparizione), mutevole per stile ed intensità, può fornire al lettore chiavi sicure sullo stato e la natura dello sviluppo interiore di tutti i personaggi. [Joseph Strelka, “La faccia verde”, cit.]

 

Classico del resto dell’esoterismo non è solo un atteggiamento di tipo sincretico ma un procedere per aggregazione astorica di dati, fattispecie “simili” eccetera. D’altronde occorrerebbe considerare l’ipotesi che l’accumulo di significati differenti del simbolo usato da Meyrink rispondesse anche a una logica narrativa, letteraria, di suggestione ricorrente e appunto ossessiva, ipnotica: l’enfasi sul romanzo esoterico qui non è senza basi, ma occorre non dimenticare che comunque si tratta di un romanzo.

A proposito di mistici cristiani, Sephardi annuncia che lui e la signorina quella sera andranno a una riunione di un gruppo confessionista, nello Zee Dyk (ora non più quartiere di malavita ma di tranquilli artigiani: c’è solo una bettola malfamata, la “Prins van Oranje”, e dovremo entrarvi). L’invito arriva da un vecchio eccentrico collezionista di farfalle, tale Jan Swammerdam, che crede di essere il re Salomone (il nome si ispira a quello di un famoso naturalista di Amsterdam). La zia della ragazza, signorina de Bourignon, dama di carità del convento delle beghine – l’ennesima beghina ridicola della produzione di Meyrink –, va da lui tutti i giorni. Pfeill si stupisce che Swammerdam sia ancora vivo, racconta di averlo frequentato da ragazzino quando catturava rettili, anfibi e insetti – guadagnandosi l’ingresso in una società entomologica – e il poverissimo Swammerdam era più abile di lui nella caccia. Il vecchio aveva la fissazione di poter catturare un certo tipo di scarabeo stercorario verde, e i ragazzini si divertivano a seminare falsi indizi con sterco di pecora: ma un giorno, il falso non aveva impedito che lui trovasse davvero l’insetto. La moglie morta gli era apparsa nel sonno assicurandogli che l’avrebbe trovato… e alla commozione di lui, i monelli si erano sentiti in colpa.

La scena successiva vede il dottor Sephardi ed Eva van Druysen raggiungere la “nuova Gerusalemme” dei devoti, dove la zia di lei li saluta come re Baldassarre ed Eva. Ci sono Jan Swammerdam (“re Salomone”) e la sorella (“Sulamith”), il vicino di casa Lazarus Eidotter (“Simone il crocifero”, un vecchio ebreo russo), la signorina Mary Faatz dell’Esercito della Salvezza (“Maria Maddalena”), un giovane commesso butterato della drogheria di sotto (“Ezechiele”) – mentre la zia si presenta come “Gabriella, la forma femminile dell’arcangelo Gabriele”. Relativizzando le amenità devote della consorella, Swammerdam racconta che in quella casa c’è un vero profeta, il calzolaio Anselm Klinkherbogk (detto a sua volta, scopriremo più tardi, “Abram”); rimarca che non sono spiritisti – le cui idee Meyrink disprezza –, ma assorbono la forza dei nomi spirituali che recano, e presentano (tutti, meno Lazarus Eidotter) sorta di stimmate che la signorina van Druysen richiama all’isteria, ma lui spiega come di tipo non patologico. Poi Swammerdam presenta il caso di Klinkherbogk, e come un evento mistico gli abbia donato la “Parola Interiore” (che palesa la verità in una lingua misteriosa): Sephardi è scettico su simili profezie del subconscio, ma poi ripensa alla storia dell’insetto verde e tace. Nel clima sovraeccitato emergono notizie e siparietti improbabili – Eidotter resuscitato da “Abram”, ma forse aveva solo perso i sensi; “Ezechiele” che cade in trance profetizzando per il Logos, ma in realtà sembrano crisi di abbrutimento per la vita che conduce… ed Eva si rende conto della fatica di un’anima nell’ambito di una classe sociale non privilegiata. Come osserva la zia, “Melchiorre” è il barone Pfeill che aveva mandato soldi tramite la nipotina del calzolaio, e il re dei Mori “Gaspare” (che si rivelerà Usibepu) non è lontano; ma la nipotina ora annuncia che devono andare di sopra, dove “il nonno sta vivendo la seconda nascita”.

Segue un dialogo mistico molto profondo di Eva con Swammerdam, che la invita a interpellare il proprio spirito, l’intervento altrui è fuorviante. La meta è vedere se stessi con gli occhi di Dio, liberi da logiche di prove e punizioni, in vista di un progetto di guarigione interiore. Ma per giungere più rapidamente alla grande meta, occorre ordinare alla propria più intima essenza di guidare senza soste per la via più breve. Eva chiede cosa succederebbe se lei volesse a un certo punto tornare indietro da quel percorso mistico, e lui la esorta a non far troppi giuramenti, a non prendersi troppi impegni solenni. Del resto i voti, spiega lui, possono essere stati presi in una vita precedente o persino nel sonno profondo. Ed Eva medita che “Ogni lamentela riguardo alla presunta ingiustizia del destino doveva ammutolire di fronte al pensiero che ciascuno percorreva soltanto la strada che si era scelto”.

Swammerdam la invita comunque a non preoccuparsi se non trovasse alcun senso nelle attività del loro gruppo: a volte un sentiero scende verso il basso ma è la via più breve per salire, a volte “la febbre della guarigione spirituale assume l’aspetto di una diabolica putrefazione”. E anche il mischione di Antico e Nuovo Testamento  dei loro nomi spirituali non è senza senso, in quanto cammino da Adamo a Cristo… Per capire queste scene, va detto che Meyrink considera il fanatismo religioso come parallelo al materialismo, e paragona le due posizioni a Scilla e Cariddi; ma mantiene la cifra della complessità lasciando il problematico, sensibile e profondo Swammerdam in compagnia di figuri ridicoli o tragici (come il veggente Klinkherbogk, un Laponder meno profondo e sopra le righe alla deriva di trance pericolose, dove Meyrink critica esperienze pneumatiche d’epoca). Nei fatti, i nomi spirituali proclamati con troppa disinvoltura dalla zia di Eva, finiranno con il rivelare una propria mistica fatalità… A quanto pare, per questo gruppo surreale Meyrink si ispira al circolo mistico di Darmstadt ispirato dall’opera del calzolaio Jacob Böhme (1575-1624) e del cantante lirico, direttore d’orchestra massone Johann Baptist Krebs (noto con gli pseudonimi Johann Baptist Kerning e JM Gneiding, 1774-1851), il cui esercizi di yoga praticati da Meyrink per anni gli avrebbero alla fine recato danni fisici.

Davanti alla porta della soffitta la caricaturale signorina de Bourignon si bea del sorgere nel padre “Adam” dell’uomo spirituale proprio in quel solstizio d’estate: il calzolaio ha infatti sentito piangere dentro di sé, sintomo di “seconda nascita”. Klinkherbogk siede al tavolo da lavoro, davanti alla boccia di vetro da artigiano, e le persone affluite – compresi Eva e Sephardi – lo osservano: il profeta fissa il globo di vetro, poi cita alcune parole bibliche dall’episodio di Sodoma e infine emette una profezia calamitosa, triste anche verso se stesso, prima di ricadere in estasi.

Intanto nella losca osteria “Prins van Oranje”, dove sta la sformata cameriera Antje, detta (in onta a ogni preoccupazione di body shaming) la “scrofa del porto”, cinque figuri si sono riuniti a un tavolo. C’è il padrone, ex-timoniere; lo zulù Usibepu; un agente di varietà “gobbo e con dita simili a zampe di ragno, lunghe e orribili”; il losco professor Zitter Arpád, con abiti adatti al locale; un “indiano” in smoking bianco, figlio di un proprietario terriero dalle colonie, che vive lì ed è sveglio solo di notte per giocare e bere, perdendo sempre di più. Fino a mezzanotte sono costretti dalle dinamiche tra loro a giocare onestamente (del resto l’“indiano” è troppo ingenuo per barare, e lo zulù conosce troppo poco i segreti della magia bianca), ma a quel punto l’attenzione cala e i due extraeuropei vengono rapidamente depredati.

Ma Arpád vuole soprattutto carpire a Usibepu il segreto della camminata sui carboni ardenti, oltre a guardare con interesse la notizia che il calzolaio Klinkherbogk si sia fatto cambiare all’osteria un biglietto da mille fiorini. Reso euforico dall’alcool, dalla cena e dalla presenza della cameriera, Usibepu rischia d’essere accoltellato dai marinai gelosi di Antje. Circa i carboni ardenti, sfidato dal professore, dà prova delle proprie capacità: scivola in una grottesca trance, si mette nudo a danzare, poi impallidisce e si piazza immobile sui tizzoni – da cui alla fine esce illeso.

A quel punto “Maria Maddalena” viene a convocare l’africano per la riunione del gruppo religioso dal calzolaio. Zitter Arpád allunga le orecchie (è il tipo dei mille fiorini) e cerca di porre domande a Usibepu, affettando conoscenze di cultura africana che tuttavia quello demolisce. Lui non è iniziato alla magia Obeah T’changa, spiega, ma è un grande stregone Vidû T’changa, “serpente verde velenoso Vidû”, che non è un serpente animale: “serpente verde degli spiriti con volto di uomo. Serpente Vidû è un Souquiant. Suo nome Zombi”. Zitter Arpád non capisce più niente e chiede lumi. Usibepu spiega:

 

Souquiant è un uomo che può cambiare pelle. Vive in eterno. Uno spirito. Invisibile. Può fare ogni magia. Zombi era il padre dei neri. Gli zulù suoi figli prediletti. Discesi dal suo lombo sinistro. […] Ogni re zulù conosce nome segreto di Zombi. Quando lo invoca Zombi appare come grande serpente velenoso Vidû con volto verde di uomo e sacro segno su fronte. Se zulù vede Zombi per la prima volta e Zombi ha faccia velata, allora zulù deve morire; ma se Zombi appare con segno su fronte coperto e volto verde scoperto, allora zulù vive ed è Vidû T’changa, grande stregone e signore del fuoco. Io, Usibepu, Vidû T’changa.

 

Ai fini del romanzo, non è così importante entrare nello specifico del discorso. Meyrink attinge ai dati antropologici delle ricerche d’epoca, e può non essere immediato riportare i dati a quanto troviamo oggi documentato (si pensi solo all’uso del termine Zombi, qui non un cadavere vivente come oggi di solito inteso). Più utile rifarsi a testi di riviste occultistiche d’epoca, come l’articolo Obeah Wanga, in “Light. Journal of Psychical, Occult and Mystical Research”, 9 novembre 1895: Obeah (“che uccide”, in sostanza uno stregone) indica pratiche magiche e religiose originarie dell’Africa centrale e occidentale, ricollegabili dunque ai sincretismi d’oltre Atlantico, e implicanti rapporti con tre tipi di entità, cioè revenant, zombi (intesi però spesso come spiriti), e Souquinant, spiriti separati dai corpi di appartenenza. L’Obeah vede in azione una sola persona, “mentre T’changa richiede i poteri uniti di un uomo e una donna, che agiscono in presenza di un Totem o Feticcio, nella forma di un Serpente Sacro” (ibidem). Quanto a Souquiant, sembra accedere alla costellazione onomastica di Soucouyant, Soucouyans, Soucriant, Sukuyâ eccetera, di assonanza francese e in uso specialmente nel folklore sincretico caraibico per un mutaforma. In sostanza Usibepu si sente offeso dall’essere etichettato come Obeah T’changa, stregone cattivo, mentre richiama i suoi poteri al più nobile Vidû, “attratto” nella simbolica del Volto verde.

Zitter Arpád non sa che farsi di quelle spiegazioni, ma si offre a “Maria Maddalena” come interprete con l’africano: lei però non è interessata, riesce a farsi capire egualmente da Usibepu e lo conduce all’alloggio del calzolaio. Questi ricade in stato di sonnambulismo: ed è in tale momento sospeso, quando Eva ha “l’impressione che un angelo sterminatore stesse emergendo tastoni dalla terra” che all’aprirsi lento della porta compare l’immagine del nero. Ma il calzolaio scatta in piedi rantolando che è lì di nuovo “il Terribile, con la maschera verde sul volto, colui che mi ha dato il nome di Abram e il libro da ingoiare” (si pensi al libro inghiottito in Apocalisse 10, 8-10) e ricade a sedere. Usibepu commenta allora che “Il Souquiant è dietro di lui” – poi il silenzio cala. Eva è terrorizzata, ha “la sensazione che un essere invisibile stesse attraversando la stanza con orrenda lentezza”. L’apparizione della gazza parlante Jakob non migliora la situazione… ma alla fine lasciano lì il calzolaio in trance con la nipotina addormentata, spingendo fuori anche Usibepu che ha adocchiato i soldi del veggente. Chiudono la porta a chiave.

Klinkherbogk sta sognando di traversare il deserto in groppa a un asino, con la piccola Katje (“Isacco”) al fianco e preceduto da un uomo dal volto velato. Nel sogno sacrifica la bambina come Abramo sta per fare con Isacco, e a quel punto l’uomo che li guidava svela il proprio volto: lo fa perché lui abbia la vita eterna, ma insieme cancella dalla propria fronte il simbolo della vita perché quella vista non consumi più la mente del calzolaio. “Poiché la mia fronte è la tua fronte e il mio volto è il tuo volto. In questo, sappilo, consiste la ‘seconda nascita’: tu sarai con me una cosa sola e riconoscerai che la tua guida verso l’albero della vita sei stato tu stesso”. Molti hanno visto il suo volto ma ignorano che quella sia la “seconda nascita”. Certo, la morte verrà a lui ancora una volta prima del passaggio della porta stretta, ma poi entrerà nel regno: e a quel punto “Abram” vede che il volto dell’interlocutore è di oro verde e riempie l’intero cielo (inevitabile ricordare, sia pure con diversi sottotesti simbolici, il finale de Il gioco dei grilli). Ma, allo sparire dell’uomo, lentamente torna in sé, trovandosi in mano la lesina insanguinata del suo lavoro, e nella penombra il corpo della nipotina che in stato sonnambulico ha ucciso con un colpo mortale. In preda all’angoscia vorrebbe farla finita e trova la porta chiusa dall’esterno; ma dalla catena che pende dalla parete esterna Usibepu, attratto dal denaro, si arrampica e balza nella stanza. Il veggente, alla deriva del ricordo del sogno, stende le braccia verso l’uomo che ha fatto irruzione: questo, terrorizzato, si avventa su di lui e gli spazza il collo. Poi si riempie le tasche dell’oro del calzolaio, e ne getta il corpo nel canale sottostante. L’immagine negativa del nero (ne ritroveremo un’eco ne La notte di Valpurga) risponde a stereotipi diffusi tra Otto e Novecento, da Poe a Verne a Stoker a tanti altri, e non stupisce – di certo non è in sé un marcatore ideologico che rimandi alle speculazioni razziali tanto care a certa destra italiota. D’altra parte, come vedremo, anche su Usibepu, Meyrink ci riserverà delle grosse sorprese.

Lontano dal teatro di tanta atrocità, Hauberrisser si sveglia, e scopre che il rotolo di carta cadutogli sul viso nella notte era stato lasciato in un ripiano sopra il letto da un precedente inquilino. Presenta un testo quasi illeggibile per inchiostro sbiadito e muffe da umido. Quel che resta pare tuttavia l’abbozzo di un lavoro letterario, senza nome né data: e sembra emergervi a un certo punto il nome fatale di Chidher Grün, per cui l’ingegnere resta terrorizzato. Diffidando di se stesso, dalla governante signora Ohms apprende che il precedente inquilino era un uomo molto ricco e strambo, poi la casa è rimasta vuota per parecchio tempo. Da quanto si legge nel manoscritto, la storia è quella di un uomo che lotta contro la sfortuna, pessimista come l’ingegnere: ma pur considerando una generale mancanza di progresso dell’umanità – che a grandi numeri gira in tondo – l’ignoto autore deve ammettere come alcuni individui abbiano invece saputo fare passi avanti. Purtroppo l’impossibilità di leggere lo scritto nella sua totalità rende impossibile capire come c’entri Chidher Grün: ma al pensiero di recarsi alla “Bottega” e interpellare il vecchio ebreo, Hauberrisser si domanda che colpa ne abbia costui, se il suo nome lo “perseguita come un coboldo”. Si chiede anzi se davvero gli importi della faccenda, e il disgusto della vita si riaffaccia in lui: così chiude a chiave il misterioso manoscritto, meno una pagina su cui legge il nome Chidher Grün, e che infila nel portafogli. Ma a quel punto arriva un telegramma dell’amico Pfeill che lo invita a un tè purtroppo fin troppo frequentato (e dove sospetta s’infilerà anche il finto conte polacco).

Da una carrozza si fa condurre nella Jodenbreetstraat, e insomma attraverso la Judenbuurt del ghetto – di cui viene offerta una vivida descrizione – giunge infine alla “Bottega delle Meraviglie”. Alla sua richiesta di parlare col principale, la commessa comunica che “il professore è partito ieri per un periodo di tempo indeterminato” ma Hauberrisser non stava chiedendole del ciarlatano balcanico: vorrebbe parlare qualche minuto con il vecchio signore ebreo dietro lo scrittoio. Lei ribatte che quella è una ditta cristiana, “gli ebrei non sono ammessi” e non ce n’era nessuno. Lui domanda allora chi sia il Chidher Grün citato nell’insegna, la ragazza ribatte allibita che il nome riportato è Zitter Arpád: e, uscito a controllare, Hauberrisser deve ammettere che è proprio così, la commessa ha ragione…

Confuso al punto da dimenticare lì il bastone da passeggio, l’ingegnere esce e si perde nei vicoli, tra edifici storti (pensiamo a quelle del Caligari), botteghe, cortili deserti dove “Tutto era come morto”. A un tratto si siede a riflettere domandandosi come sia possibile che lui, in fondo abbastanza giovane, ragioni come un vecchio. Fin oltre i trent’anni era stato schiavo delle passioni, ma forse la riflessività gli è cresciuta dentro in modo nascosto. Recupera dunque la pagina del manoscritto dal portafogli, e che trova singolare corrispondenza con le proprie meditazioni. La voce narrante considerava la propria ignoranza di essere stata padrona del proprio destino senza saperlo, per aver “sottovalutato la magica potenza dei pensieri”, considerando “l’azione un gigante e il pensiero una chimera. Ora, chi impara a muovere la luce può manovrare le ombre, e con loro il destino; chi cerca di ottenere ciò tramite le azioni è soltanto un’ombra che combatte inutilmente con le ombre”. Ma tutto questo viene generalmente poco capito: “È l’ambiguità della lingua che ci separa. […] noi osserviamo i precetti quando dovremmo infrangerli e li infrangiamo quando dovremmo osservarli”. Gli uomini troppo spesso sono “accecati da una falsa umiltà, che li fa indietreggiare terrorizzati e barcollanti come bambini dinanzi alla propria immagine riflessa, e temono di essere folli quando giunge l’ora… e il suo volto li guarda”.

Le frasi recano sollievo al Nostro. E in fondo, riflette, gli strani eventi legati al nome di Chidher Grün fanno di lui un fortunato. Pregusta le lettura del manoscritto ma ora deve correre al tè dell’amico. E succede qualcosa di curioso: non lontano dalla panchina gli appare, con la sua tuta, quel che risulterà l’apicultore del convento, “Lo sciame gli era scappato ma ora ha ripreso la regina”.

La storia proseguirà ancora a lungo, ma già è chiara sul piano stilistico l’enfasi espressionistica sul grottesco, i personaggi “caricati”, le visioni fantastiche, il tessuto di allegorie, metafore e simboli, con una serie di temi come la città mostruosa. Si è osservato come il primo capitolo, alla “Bottega delle Meraviglie”, costituisca in fondo una grande metafora del mondo, e i primi capitoli evocano il sapore di calamità che grava su tutto un orizzonte d’epoca.

L’ingegnere si avvia, giunge a una piazza e si fa condurre da un’auto a casa dell’amico. Tra le mille immagini sfreccianti lungo il percorso una sola gli resta fissa negli occhi, quella dello sciame recuperato attorno alla regina. Un simbolo: così in fondo, pensa, il suo corpo è uno sciame di cellule attorno a un nucleo nascosto. Se riuscirà a vedere sotto una luce nuova le cose rese mute dall’abitudine, si dice, il mondo risorgerà davanti ai suoi occhi.

(6-continua)

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La coscienza di Gustav (appunti meyrinkiani) 1 https://www.carmillaonline.com/2024/10/19/la-coscienza-di-gustav-appunti-meyrinkiani-1/ Sat, 19 Oct 2024 20:00:26 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=84933 di Franco Pezzini

Tra le spire dell’orchidea (racconti 1901-1904)  

Mentre scrivo, ho davanti una foto di Meyrink ormai anziano: il cranio lucido, gli occhi grandi, febbrili di visioni, i baffi curati nel viso ben sbarbato. Porta un cravattino a farfalla su una giacca di tessuto spesso. Un uomo della Mitteleuropa, un mistico dalla presenza carismatica, una persona perbene, dagli interessi certamente curiosi ma neppure troppo considerando l’epoca.

In Italia ha fatto il possibile per lottizzarlo l’estrema destra evoliana, con cui in realtà Gustav Meyrink ha ben poco a che vedere. Per lui l’esoterismo non è ricerca di poteri (interiori/psichici o [...]]]> di Franco Pezzini

Tra le spire dell’orchidea (racconti 1901-1904)  

Mentre scrivo, ho davanti una foto di Meyrink ormai anziano: il cranio lucido, gli occhi grandi, febbrili di visioni, i baffi curati nel viso ben sbarbato. Porta un cravattino a farfalla su una giacca di tessuto spesso. Un uomo della Mitteleuropa, un mistico dalla presenza carismatica, una persona perbene, dagli interessi certamente curiosi ma neppure troppo considerando l’epoca.

In Italia ha fatto il possibile per lottizzarlo l’estrema destra evoliana, con cui in realtà Gustav Meyrink ha ben poco a che vedere. Per lui l’esoterismo non è ricerca di poteri (interiori/psichici o esteriori/politici), che miri a influire sulla storia e sulla politica, come teorizzato loscamente dal nostrano Gruppo di Ur di Evola & soci, che a suo tempo propone Meyrink in traduzione italiana per la prima volta. Una di quelle scoperte che sarebbe stato meglio rimandare in attesa di promotori migliori: commovente il sussiego con cui in certe realtà si enfatizzi il tema della lotta (anche di Meyrink) contro i materialismi cattivi, da parte di persone e gruppi crociati dello spirito che però mirano a risultati di potere grettamente materiali e materialistici. Come peraltro i loro eredi ultradestri, tra lottizzazioni di spazi e giochi di poltrone, che con lo spirito c’azzeccano poco. Al contrario l’esoterismo, per Meyrink, è essenzialmente linguaggio congruo a una crescita interiore: niente insomma di facilmente arruolabile sotto i labari di una rivoluzione conservatrice che troppo spesso simpatizza proprio coi mondi poliziotteschi-militari da lui disprezzati con vigore.

Anzirazzista e anzi affascinato dalla cultura ebraica (cui pure non appartenne per lignaggio, come spesso si crederà in grazia del nome di sua madre, la bella attrice Maria Wilhelmina Adelaïde Meyer, destinata a divenire una delle interpreti tragiche favorite da Ludwig II di Baviera) in anni di antisemitismo acceso, nemico di ogni tentazione totalitaristica in un mondo germanico in cui incubava il totalitarismo di destra, antimilitarista in un momento in cui le sirene di nazionalismo aggressivo, militarismo e libido da uniforme connotano non solo l’estrema destra militante ma la borghesia industriale e finanziaria con cui essa flirta e la “pancia” popolare che vi garantisce assenso nella ricerca di capri espiatori delle proprie frustrazioni, Meyrink (1868-1932) va collocato nel suo tempo anzitutto per le forme (pre)espressioniste che offre alle narrazioni. Il grottesco, l’onirico, l’orrido sono chiavi di una sensibilità che troverà epifania collettiva nell’arte di Weimar, ma già in lui mostra i primi frutti.

Figlio illegittimo di un ministro del Württemberg, il barone Karl von Varnbüler und zu Hemmingen, e dunque cognominato Meyer come la giovane madre, Gustav nasce protestante nella cattolica Vienna – probabilmente perché la sorella maggiore, Dustmann-Meyer, nata nel 1841, era cantante presso il Vienna Court Opera fin dal 1857. Certo, la sorella si muove nel mondo scintillante dello spettacolo, ma la Vienna del tempo non si esaurisce in quella stereotipa dell’Opera e dei valzer di Capodanno, delle serate al Grinzing o delle fantasie alla Sissi – La giovane imperatrice: il paese, coinvolto in tensioni internazionali su vari fronti ma con un’identità sempre più divorata dal vicino tedesco, esperisce dimensioni di tristezza e inquietudine, soffocato com’è – come rilevano per esempio osservatori britannici – da una greve burocrazia, dall’ingombrante presenza dell’esercito e da un moralismo che trova ideale contrappunto nell’eros convulsivo di bordelli e parafilie. Quello in particolare repertoriato da Richard von Krafft-Ebing nel suo enorme affresco idealmente dalle stelle alle stalle dell’impero… Quanto tutto ciò influisca sulla produzione di colui che dopo Hoffmann e Paul Scheerbart resterà il terzo grande autore di romanzi fantastici di lingua tedesca possiamo solo immaginare, ma certo è un’eredità che arriverà in forma frenetica alle fantasie di Weimar.

Fino a tredici anni Gustav vive a Monaco, vi completa gli studi elementari, quindi passa per un paio d’anni ad Amburgo con la nonna materna e infine si trasferisce con la madre a Praga (1883), dove studia in una scuola commerciale, per poi iniziare a lavorare da impiegato in una ditta di esportazioni. È la città in cui vivrà vent’anni, fino al 1904 (ma non seguirà a San Pietroburgo la madre, peraltro indifferente a lui): la città a cui il suo nome rimarrà associato, di cui parlerà continuamente con pagine bellissime, e non è inopportuno ricordare che Kafka (del 1883, quindici anni in meno) nasce a Praga nello stesso anno in cui Gustav vi trasloca. Ma con Praga (e con la stessa Monaco) Meyrink intrattiene sentimenti di amore & odio ben più complessi di quanto suggerisca la facile cartolina da “Praga magica” che si troverà appioppato con la fama popolare sulla città rudolfina.

Nel 1889, assieme al nipote del poeta Christian Morgenstern tenta anche l’avventura nel campo finanziario diventando titolare del Primo ufficio del cambio cristiano Meyer und Morgenstern, una piccola banca aperta in Piazza San Venceslao nel 1889 con un capitale lasciatogli dal padre e svincolato alla maggiore età. Depresso, come vedremo, in questi anni tenta il suicidio. Nel 1892 si sposa una prima volta, con Hedwig Aloysia Certl, ma anche se il matrimonio sarà disastroso lei acconsentirà al divorzio solo nel 1905, quando poi lui si risposerà (in Inghilterra, per non creare scandali) con Philomena Bernt, figlia di un banchiere e cugina di Rilke. Dal 1895 prende a far parte dell’Associazione degli artisti visivi tedeschi in Boemia, assieme, tra gli altri, allo stesso Rilke, a Emil Orlik, Oskar Wiener e Hugo Steiner: su questa dimensione in lui della visione e dell’immagine dovremo tornare. E finalmente nel 1901, prende a scrivere e pubblica il suo primo racconto sulla rivista “Simplicissimus”.

Tra vita privata, frecciate narrative e attività finanziaria pesta qualche piede, guadagnandosi l’ostilità di burocrati di pochi scrupoli che gliela giurano; inizia a soffrire (1900) di diabete e tubercolosi al midollo spinale, e viene ricoverato in sanatorio per un periodo (1901). Nel 1902, attaccato su tutti i fronti – dal corpo al lavoro –, vittima di una campagna delatoria orchestrata a base di falsità, arriva a sfidare a duello l’intero corpo degli ufficiali di un reggimento praghese, ma deve chiudere la banca, i cui conti pure sarebbero a posto, e viene imputato ingiustamente per frode. Passerà due mesi e mezzo in prigione prima dell’assoluzione (dell’esperienza offre conto il suo romanzo più celebre, Il Golem, 1913-14), ma la carriera finanziaria è stroncata e tenterà invano di essere riabilitato. La salute sta cedendo, e si riprende con la pratica accanita dello yoga. Però – come dice il proverbio – quando si chiude una porta, si apre un portone, e proprio la scrittura ne sarà lo strumento. Nel 1903 esce la sua prima raccolta di racconti, Der heiße Soldat und andere Geschichten, con satire al vetriolo, tratte dai racconti pubblicati su rivista.

Fino al 1891, ammetterà lui stesso, è stato un uomo senza qualità con soltanto tre interessi nella vita, cioè donne, scacchi e canottaggio. L’esperienza negli affari non sembra offrirgli esistenzialmente nulla: e nonostante alcuni aspetti della sua vita giovanile facciano pensare a quella di un connazionale che nella Trieste asburgica cercherà soluzioni nella psicanalisi come poi Gustav nell’esoterismo, lo Zeno Cosini del quasi coetaneo Svevo (sei anni di più, nato nel dicembre 1861 e Gustav è del gennaio 1868), il tentato suicidio che per il cognato di Zeno termina goffamente in tragedia avrà esito diverso per Gustav. Afflitto da taedium vitae e da ripetuti fallimenti sentimentali, probabilmente oppresso dalla pessima avventura finanziaria, un giorno d’estate 1891, il Nostro banchiere ventiquattrenne è in piedi accanto al tavolo e sta per farsi saltare le cervella, quando all’improvviso un commesso di libreria gli fa scivolare sotto la porta un opuscoletto con il titolo L’Aldilà. Racconterà: “Presi il fascicolo e cominciai a sfogliarlo. Contenuto: spiritismo, occultismo, stregoneria” – tutti temi di cui ha sentito parlare. Jung non ha ancora elaborato la categoria della sincronicità, ma quella coincidenza fatale intriga il giovane che abbassa la pistola, la chiude nel cassetto e inizia a occuparsi di occulto. Cioè teosofia, Kabbalah, misticismi d’Oriente, la sofiologia di qualche successo nella Russia coeva… tutti temi che torneranno nei suoi romanzi.

Prende a sperimentare alcune droghe (in particolare l’hashish, le relative allucinazioni lo interesseranno molto) e a praticare appunto lo yoga; partecipa con Karl Weinfurter alla costituzione della Loggia Zum blau Stern (Allo stella blu) e aderisce a vari ordini esoterici. Ha qualche contatto con la teosofa e socialista Annie Besant (1847-1933), si interessa al lavoro di un esperto di tradizioni esoteriche, il viennese Fritz Eckstein (1861-1939), e intraprende gli studi mistici con l’occultista rosicruciano e medium Alois Mailänder (1843-1905), frequentando anche i giri spiritisti: per esempio, come Thomas Mann, partecipa agli incontri con il medium austriaco Willi Schneider, organizzati dal barone Albert von Schrenck-Notzing a Monaco – ecco di nuovo Zeno, con le sedute spiritiche tanto divertitamente descritte da Svevo… – ma come molti cultori di un esoterismo profondo resta deluso dalla superficialità e dalla poca affidabilità degli interlocutori attorno al tavolino, contribuendo anche a smascherare falsi medium. La sua è un’ansia genuina di sapere, che gli fa approfondire una serie di temi e tecniche, anche se i suoi esperimenti di occultismo e discipline mistiche proseguiranno – si è detto – a tentoni. Per mesi mangia solo legumi, assorbe due volte al giorno gomma arabica diluita nella minestra, dorme solo tre ore per notte e pratica pericolosi asana che gli fanno rischiare la morte per soffocamento. Tentato più volte di mollare, prosegue con cocciutaggine e ha anche esperienze di veggenza. Diventa così il Meyrink “ciarlatano mistico” di cui parlerà con divertita sufficienza Angelo Maria Ripellino, giudizio che però non gli rende giustizia: negli scritti di Meyrink, al di là del linguaggio esoterico, c’è molta più interiorità e profondità umana di quanto gli enfatizzatori del magico saranno pronti a riconoscergli. D’altronde, critico tagliente, Meyrink lo è pure sugli ambienti dell’esoterismo: non solo quelli di fanatici e truffatori, ma la teosofia – che considera religiosità di gente di scarsa cultura – e il pensiero di Rudolf Steiner (1861-1925), che pure mostra rispetto per lui, cui rivolgerà qualche frecciata.

È comunque l’occultismo che gli offrirà la fama come narratore, permettendo al dandy di mutare in asceta e scoprire una genuina, febbricitante dimensione visionaria della scrittura: e assume lo pseudonimo Meyrink. Ci si attenderebbe anzi che prendesse a scrivere subito di esoterismo: e invece il primo frutto di quella alchimia interiore sono racconti, talora angosciosi ma più spesso grotteschi, di critica sociale, precipitato delle sue delusioni e del suo disgusto. Diventa così una delle firme più apprezzate della rivista umoristica viennese “Der liebe Augustin” e soprattutto del “Simplicissimus” di Monaco, la più importante rivista satirica tedesca (con una lunga storia, fondata nel 1896, sospesa 1944-54 per poi trovare la fine nel 1967 – nel complesso relativamente moderata). E va detto che le sue relazioni con i circoli rosicruciani sembrano allentarsi fin dall’epoca dei primi testi editi sul “Simplicissimus”.

L’esperienza in carcere, ma forse più ancora l’esperienza umana del mondo triste da cui ha cercato di smarcarsi e le brutture ideologiche che ha visto suppurare offrono materia ai suoi racconti in tanti casi sferzanti. Obiettivi la Germania prussificata e un’Austria-Ungheria che ha perso la propria identità, e vivacchia all’ombra del potente vicino; una borghesia filistea e ottusa; il militarismo dilagante. L’atteggiamento nazionalistico della borghesia tedesca lo spinge dalla parte dei cechi, la cui critica letteraria non gli lesinerà tuttavia freddezze, accusandolo di falsificare la vita praghese – in effetti non gli interessa affatto descrivere storicamente le tensioni tra comunità tedesca e ceca. La sua è una Praga visionaria e fantastica.

Le sue prime storie sono racconti appunto apparsi sul Simplicissimus, e più tardi raccolti in quattro volumi: Der heiße Soldat und andere Geschichten (Monaco 1903, dieci racconti), Orchideen. Sonderbare Geschichten (Monaco 1904, diciannove racconti), Gustav Meyrinks Wachsfigurenkabinett. Sonderbare Geschichten (Monaco 1908, quindici racconti), Jörn Uhl und Hilligenlei (1908, dove parodizza opere dello scrittore razzista Gustav Frenssen, 1863-1945, poi accanito nazista). In seguito li riunirà, assieme ad altri lavori critici sulla borghesia tedesca, in Des deutschen Spiessers Wunderhorn (Monaco, 1913, tre voll., cinquantatré storie). Interessante notare come da racconti inizialmente semplici, basati su una pungente provocazione in cauda, Meyrink costruisca macchine narrative via via sempre più sofisticate.

Sappiamo che Gustav ama il mondo dei caffè, e Max Brod lo ricorderà come la figura centrale (assieme a Gustav Kauder) del gruppo al Caffè Continental, dove si gioca a scacchi e si discute di temi sociali e letterari. Il lavoro “praghese” di Meyrink si collega idealmente al gruppo neoromantico della Giovane Praga (Viktor Hadwiger, Paul Leppin, Richard Teschner, Oskar Wiener) con alcune tangenze stilistiche e ideali. Precede dunque quello dei due gruppi che Max Brod chiamerà il grande e il piccolo circolo di Praga (nati rispettivamente a partire dal 1883 o decisamente più giovani): nel primo figurano Kafka, Felix Weltsch, Oskar Baum, Ludwig Winder che pubblicano a partire dal 1904, nel secondo Franz Werfel, Willy Haas e iniziano a pubblicare quando Gustav ha ormai da tempo lasciato Praga. Da Paul Leppin sappiamo che Gustav, poco prima dello scandalo che lo travolge, esprime davanti agli amici l’intenzione di scrivere un libro. Lo guardano incuriositi.

Se i primi tentativi letterari noti dell’autore risalgono al 1897 (lo studio psicologico Tiefseefische, forse L’albergo delle tre colonne), il primo racconto edito è Il soldato bollente (Der heiße Soldat, “Simplicissimus”, 29, 1901), che sbeffeggia insieme medicina positivistica e mondo militare: in Indocina, in seguito al trattamento di un fachiro, un soldato boemo della Legione Straniera presenta – senza morire – una temperatura corporea così assurdamente alta da spingere i sacerdoti del tempio locale a cuocere il pollo su di lui, e i medici a prodursi in impagabili, spocchiose dichiarazioni.

Izzi Pizzi (Izzi Pizzi, “Simplicissimus”, 5, 1902) è il divertente racconto della tentata seduzione di una chansonette da parte di un perdigiorno. Decisamente più originale, grottesco e divertitamente paradossale, La morte viola (Der violette Tod, “Simplicissimus”, 8, 1902) vede dilagare nel mondo fino al remoto 1950 – anni in effetti di fantascienza scatenata – i paradossali effetti di una magia tibetana, scatenata per effetto dell’impresa di un ardimentoso inglese: al risuonare di una certa parola, non importa se pronunciata senza intenzione, la gente che ascolta si trasforma all’improvviso in forme geometriche solide di muco gelatinoso viola. Iniziamo a capire perché i contemporanei di Meyrink non lo vedano tanto come autore del fantastico, quanto del grottesco.

Tutt’altro è il clima di Terrore (Der Schrecken, “Simplicissimus”, 12, 1902 – lo stesso anno della detenzione per frode), che della claustrofobia del carcere esprime tutto l’orrore. Gran parte dei detenuti sono malati di scorbuto, uno reo di omicidio dovrà essere impiccato (la suggestione tornerà nel Golem) e in seguito al suo sconvolto accesso d’ira è stato legato con cinghie su una panca – “E gli hanno messo addosso un crocifisso!”. In quella situazione da incubo espressionista, il Terrore si presenta incarnato nella forma di una spettrale, gigantesca sanguisuga emersa da una cassapanca per succhiare sangue ai prigionieri, compreso il condannato. Che ha ormai messo distanza dal proprio crimine, non ucciderebbe più – o almeno non la vittima, forse invece il cappellano… salvo svegliarsi la notte e prendere a gridare. Mentre nel cielo, lettere uncinate di nubi in disfacimento sembrano esortare a non giudicare per non essere giudicati.

I toni sono molto vari. Alla satira “Si fa – si fa – principessa” (“Thut sich – macht sich – Prinzeß”, “Simplicissimus”, 18, 1902), con due borghesi in treno che mostrano la loro vuotezza e ipocrisia tra frasi senza senso, estasi culinarie e senso indebito di superiorità morale, segue per esempio lo straziante Tutta la vita è dolore ardente (Das ganze Sein ist flammend Leid, “Simplicissimus”, 24, 1902). Che parte di nuovo da un carcere dove Jürgen, un poveraccio detenuto per otto mesi prima d’essere assolto per mancanza di prove, avvia una triste vita come commerciante di uccellini – nel frattempo è diventato zoppo, gli è stato amputato un piede congelatosi dormendo su una panchina al parco. Ma uno studente ha dimenticato al suo negozio un libro recante una traduzione dall’indiano sul tema della vita come dolore ardente e la spinta alla purificazione: Jürgen pensa allora agli uccellini delle sue gabbie, ed è colto da un tale dolore da trovarsi le lacrime agli occhi. Quando una supponente dama arriva a consegnargli alcuni usignoli per farglieli accecare (“Sì, accecarli… estrargli gli occhi o bruciarli, non so come si faccia. Lei come commerciante di uccelli deve saperlo”), Jürgen non va a dormire e prende una decisione: porta le gabbie sulla Piazza del Mercato, libera i volatili, torna al negozio e si impicca.

Acido di Bock (Bocksäure, “Simplicissimus”, 32, 1902) narra di disinvolte e buffe gesta enologiche in un monastero di Malaga. Più interessante, Petrolio! Petrolio! (Petroleum, Petroleum, “Simplicissimus”, 35, 1902) si ambienta nel futurissimo 1951: Kunibald Jessegrim, uno scienziato deluso che più volte ha avuto la tentazione di farla finita, vuole punire le ottusità del mondo: per far ciò fa esplodere una dopo l’altra le pareti divisorie delle cavità sotterranee della Terra che (calcola) sono colme di petrolio. Arrivato all’ultima esplosione che farà tracimare tutto quelle immense quantità di petrolio nell’oceano, abbandona il Messico dove vive, per recarsi a New York. Agli americani la catastrofe ecologica (a suo modo di terribile bellezza) interessa molto per l’impatto sul prezzo del petrolio, mentre gli europei non sono turbati, presi come sono dal varare una serie di leggi demenziali, come l’“abolizione del nome proprio degli individui maschili […] che avrebbero dovuto stimolare l’amor patrio e rendere gli animi più atti a prestare il servizio militare”. Comunque Jessegrim calcola che in meno di trenta settimane, immaginando un identico flusso, tutti gli oceani della terra saranno coperti di petrolio e l’acqua non potrà più evaporare: e in quella situazione il vecchio ordine delle cose viene messo radicalmente in crisi. Si comincia a gridare “Basta con il militarismo che divora… divora… divora il nostro denaro! Costruite macchine, escogitate mezzi per salvare dal petrolio l’umanità disperata!” e si vagheggia di licenziare le truppe per riconvertire i soldati agli usi civili. Ma ciò che a questo punto preoccupa i governi di fronte alla catastrofe è cosa fare di tutti gli ufficiali…

Tra macabro e grottesco, Il cervello (Das Gehirn, “Simplicissimus”, 44, 1902) racconta la strana storia di un uomo che, in seguito a un trauma subito teme la vista di un cervello – al punto che muore per lo shock a trovarsene uno accidentalmente davanti. Il racconto è un’occasione per mettere nuovamente in luce la supponenza aggressiva dei medici e l’ottusità diffusa. Sempre in tema patologico, “Malato” (“Krank”, “Die Gesellschaft”, 1902) è il resoconto enfatizzato e concitato di un’attesa nella sala di ritrovo d’un sanatorio: in un’“atmosfera […] indicibilmente uggiosa e triste” che pare pronta per un’esplosione di rabbia, con “insulsi motti tedeschi a nere lettere lucide” a campeggiare intorno, di fronte a un ragazzino dall’aria stupida vestito dalla madre con pessimo gusto (impagabili le guarnizioni di pizzo bianco cucite sulle maniche di velluto) e che non riesce a sistemare dei pezzi di domino in una scatola, sempre troppi o troppo pochi rispetto alla medesima, il narrante si sente contagiato e depresso.

 

Presi a sognare tutte le tetre esperienze della mia vita: esse si guardavano l’una con l’altra con occhi neri da domino, quasi fossero alla ricerca di qualcosa d’indefinibile, ed io le volevo allineare in una bara verde… ma ogni volta erano o troppo numerose o troppo poche.

 

“Praga mente e russa come una venditrice ubriaca”: così La morte di Selchers Schmel (Der Tod des Selchers Schmel, “Die Zukunft”, 1903), storia di  Amadeus Veverka, promosso superieur inconnu nell’ordine occulto della Confraternita Ermetica di Luxor. Con le tecniche apprese beneficia di una serie di visioni, come questa:

 

Un corteo imprevedibile avanza ritmicamente a ritmo: la terra trema. Sono maiali – maiali! Maiali che camminano in posizione eretta! – Soprattutto i più nobili tra loro, i primi nel corso della trasmigrazione delle anime, che erano già i più coraggiosi sulla terra – e ora indossano berretti viola e nastri colorati, affinché tutti possano vedere in quale forma un giorno si reincarneranno.

 

Ma dal tipo di risveglio risulta che ha avuto un incubo…

Jörn Uhl (“Simplicissimus”, 2, 1903), come accennato, gioca con le storie di costume della Germania profonda dello scrittore Gustav Frenssen (1863-1945), poi ardente nazista, autore appunto del romanzo Jörn Uhl (1901).

La sfera nera (Die schwarze Kugel, “Simplicissimus”, 5, 1903) evoca il singolare caso per cui una tecnica dei Sikkim che permette di veder ricreati in un’ampolla i pensieri di un bramino – con paesaggi di indescrivibile bellezza –, ottiene risultati deludenti se a pensare è un occidentale, e addirittura apocalittici se è un militare tedesco. Compare una specie di buco nero destinato a inghiottire l’universo…

Ambientato a Praga, “Il preparato anatomico” (Das Präparat, “Simplicissimus”, 12, 1903) è invece un vero e proprio racconto dell’orrore pre-espressionista: due amici, Ottokar e Sinclair, intendono scoprire cosa sia stato di un terzo, Axel, il cui corpo sarebbe nelle mani di un losco anatomista persiano, il dottor Daraschekoh. Questo è stato allievo di tal Fabio Marini che potrebbe trovare ispirazione in Girolamo Segato (1792-1836), virtuoso dei corpi pietrificati: “con questi occhi a Firenze ho visto il cadavere di un bambino preparato da Marini”, e Segato ha lasciato proprio a Firenze una serie di reperti trattati. Il dubbio è che Axel, vendendo anticipatamente al persiano il proprio cadavere, fosse solo addormentato. Allontanato dunque dalla città Daraschekoh con un trucco, i due penetrano nella sua casa: troveranno qualcosa peggiore d’ogni loro fantasia nera. Per quanto l’orrore sia tanto e in alcune immagini paia prefigurare H.R. Giger, resta comunque uno scarto dalle disturbanti, insistite e morbose saghe di corpi di Hanns Heinz Ewers (1871-1943, cfr. qui e qui), ideale e più giovane contraltare di Meyrink.

L’acqua densa (Das dicke Wasser, “Simplicissimus”, 14, 1903) è una storia buffa nel mondo del canottaggio, da Meyrink frequentato appassionatamente; mentre Il dottor Lederer (Dr. Lederer, “Simplicissimus”, 24, 1903) è un apologo grottesco dai connotati fantastici. All’apparizione nel cielo di un disco luminoso con un’immagine – così pare – di camaleonte al centro, la signora Cinibulk incinta di otto mesi partorisce per lo spavento: ma il bambino è talmente orrendo che il marito, il consigliere civico Cinibulk cita in giudizio per adulterio con sua moglie un tal dottor Lederer – che in effetti sembra un camaleonte. Al processo l’avvocato di lui fa osservare che il bambino presenta sulle piante dei piedi delle macchie che possono essere ereditarie: chiede dunque di far controllare i piedi del padre e di Lederer. I piedi malformati di quest’ultimo sembrano zampe di camaleonte, e il difensore domanda in amicizia al medico legale se la malformazione potrebbe far desumere un’alienazione mentale. “Certo che potrei… posso far tutto, visto che una volta sono stato medico del reggimento; ma aspettiamo che rientri il consigliere civico”, che è andato a lavarsi i piedi prima di mostrarli. Insomma, questa del medico del reggimento è una nuova frecciata all’esercito.

E finalmente interviene l’ottico Cervenka: ammette che la colpa è dell’innovativo riflettore da lui inventato, con cui ha proiettato contro il cielo per esperimento una piccola immagine (non di un camaleonte, ma) proprio del singolare dottor Lederer fotografato ai bagni turchi. Ciò ha impressionato la signora che ha partorito un figlio con quei connotati. In compenso sotto le piante del consigliere civico ci sono macchie simili a quelle del figlio, ma si “doveva ancora cercare di vedere se per caso non andavano via lavandole”. L’imputato viene assolto per mancanza di prove. L’apologo presenta grottesche fantasie scientifiche, ed è inevitabile vedervi una sorta di anello di congiunzione tra il mondo delle lanterne magiche e quello del cinema espressionista. L’uomo bestiale di questa e altre fantasie è del tutto speculare alle bestie antropomorfizzate di vari racconti di Meyrink.

Si torna all’horror – quasi surrealista – con L’opale (Der Opal, “Simplicissimus”, 27, 1903), sulla pietra che la signorina Hunt porta al dito nell’ammirazione generale, ereditato dal padre e che avrebbe “in sé un che di mobile, d’irrequieto, come l’occhio di una persona”. A quel punto il signor Jennings legge una storia dagli appunti di viaggio in India del fratello. Meta, Mahawalipur, la favolosa città scavata nella roccia e segue una descrizione molto vivida del loro avvicinarsi e del luogo inquietante con statue riferite “a misteri di inaudita profondità di cui noi occidentali abbiamo appena un’idea”. L’atmosfera è impressionante, c’è anche la statua di Kala Bhairab, la dea del colera: escono nella notte, e a un tratto odono dal tempio un grido raccapricciante e ripetuto. Tornano all’interno, e trovano un fachiro con le collane degli adoratori di Durga in stato di estasi: ai suoi piedi sono i corpi decollati di due dei sepoys della loro spedizione. Il fachiro sfugge alla loro presa con forze inimmaginabili, e dietro l’altare trovano le teste mozze dei due sepoys. Qui al manoscritto manca un foglio, e Jennings completa a voce. L’espressione delle teste era indescrivibile, “sembrava la risata distorta di un pazzo” ma a impressionare erano soprattutto gli occhi: “quando li esaminammo, sembrò che fossero diventati dei veri opali”, e così verrà confermato dalle analisi chimiche.

 

“[…] In che modo i globi oculari potessero trasformarsi in opali, per me rimarrà sempre un mistero. Lo chiesi ad un bramino di grado elevato ed egli sostenne che ciò avviene tramite la cosiddetta Tantrika, una parola magica, e che il processo si compie con grande rapidità e, per precisione, partendo dal cervello: ma chi potrebbe crederci! Allora egli soggiunse che tutti gli opali indiani hanno la stessa origine e che portano sfortuna a chi li possiede, poiché sono offerte per la dea Dhurga, la distruttrice di ogni organismo vivente, e tali dovrebbero restare”.

 

Di nuovo, in sostanza, una mineralizzazione anatomica, cioè un nuovo balzo da un regno a un altro della Natura. Il racconto finisce con la signorina Hunt che chiede a Jennings di frantumare la pietra…

Blamol. Una storia di Natale (Blamol, “Simplicissimus”, 39, 1903), ambientato tra la vigilia e il giorno di Natale in fondo al mare, tra polpi, cavallucci marini e loschi granchi poliziotti, vede una pastiglia di Blamol, farmaco equivoco dal naufragio di una nave, finire ingoiata da una creatura marina: ma “Blamol è stato abbandonato da tempo, è un farmaco di ieri, oggi si usa generalmente il cloro idiotino (la medicina avanza inesorabilmente)”. E anche “La maledizione del rospo – La maledizione del rospo” (“Der Fluch der Kröte — Fluch der Kröte”, “Simplicissimus”, 47, 1903) è un apologo favolistico con animali, stavolta ambientato in India: un rospo riesce a danneggiare l’odiato millepiedi, che in seguito al suo messaggio fintamente cerimonioso, messo in confusione, non riesce più a ricordare in quale ordine muovere le zampe.

Ben più amaro, La regina dei Braghi (Die Königin unter den Breghen, “Simplicissimus”, 51, 1903) racconta del crollo del pragmatico e apparentemente inscalfibile dottor Jorre: forse in rapporto con la caduta di una vecchia rosa appassita accanto al suo letto – il filo consunto si è ormai spezzato – il sogno simbolista di una donna coronata che emerge gloriosa dalla palude gli annuncia che “Colei che una volta fu Regina del tuo cuore, ora è qui Regina dei Braghi!”. Ignora il significato della parola Braghi (Breghen, inventata dall’autore sulla base di bragós, fango/palude), ma la tristezza che gli evoca lo abbatte irreversibilmente. Il richiamo sghembo ed enigmatico a un antico amore rimosso in nome dell’efficienza borghese può abbattere l’uomo più solido… dove quella palude è già indicativa.

Il racconto dal curioso titolo Lacrime bolognesi (Bologneser Tränen, “Deutsche Arbeit”, 1903) – riferite a un tipo di gocce di vetro dalla punta filiforme – è una cupa, potente storia espressionista di dark lady e stregonerie. Il povero Tonio è impazzito, ma era stato un amico. Al tempo, tanto prima, la fatale creola Mercedes – ormai sparita, chissà che ne è stato – era l’amante di un giovane russo: il narrante e Tonio la conoscono a una festa al Club delle Orchidee, con mille fiori strani a velarla e come a “bisbigliarle all’orecchio nuovi ed inauditi peccati”. Queste orchidee espressioniste da fantasie Jugendstyl sono simili a serpenti, come una quasi senziente che poco dopo apparirà e sembra gioire della propria padrona: in Meyrink esiste tutta una botanica da incubo (vedremo presto il famoso Le piante del dottor Cinderella) ma è un tema simbolista diffuso quello della donna-pianta assassina, a invertire in chiave allarmante il mito di Dafne: si pensi solo alla mandragora dell’Alraune di Ewers (1911). D’altra parte Mercedes sarà l’allarmante antesignana di alcune donne fatali dei romanzi più maturi di Meyrink.

Poi un servitore di colore entra e offre delle “lacrime bolognesi”: Mercedes ne passa una al russo, che la trattiene tra le labbra e poi la ridà all’amante. Peccato che, il giorno dopo, il povero giovane finisca ammazzato dall’esplosione di una caldaia, che “lo ridusse in atomi”. Mercedes diventa allora amante – “un amore impetuoso, furioso” – del fratello di lui, Ivan: e a un tratto anche lui muore male, cadendo da una mongolfiera. Ma lei, apparsa in carrozza qualche settimana dopo, è imperturbabile come uno dei colossi di Memnone. Al ritorno del narrante da un viaggio, scopre che l’amante in carica di lei è ora Tonio, totalmente succube: ma un giorno lo trovano sconvolto, distrutto. Alcuni scritti trovati a casa di lei testimoniano che è una strega, e ha fatto morire i due giovani russi con le fatali “lacrime bolognesi”, tenute in bocca dalla futura vittima a stabilire un legame magico e spezzate in chiesa durante la messa… Gli amici tentano di suggerire a Tonio che forse Mercedes lo ama diversamente, ma quando riceve una lettera in cui lei gli chiede una “lacrima bolognese”, il giovane impazzisce.

Un cupo bozzetto espressionista è ancora quello di Sibili alle orecchie (Ohrensausen, Der heisse Soldat, cit., 1903), dove il pozzo chiuso da una botola di ferro, sottostante una certa casa di Praga in cui vive soltanto gente scontenta, è nottetempo ostello e ricetto per le larve della cupidigia attive di giorno nel mondo, e che là sotto, nel mezzo dello spazio, affilano gli artigli su un disco di pietra grigia rotante a folle velocità: “l’ha temprato il Male al fuoco dell’odio, millenni or sono, molto prima che Praga sorgesse”. Tappandosi le orecchie, “si potrà sentirla sibilare dentro di sé”.

Hony soit qui mal y pense (Hony soit qui mal y pense, “Simplicissimus”, 4, 1904) è un ilare bozzetto di costume ambientato alla festa del Capodanno 1929 con il conte Oskar Gulbransson e una serie di convitati orientali.

Nel divertente Ma… allora! (Das—allerdings, “Simplicissimus”, 33, 1904) alcuni spiritisti sottopongono al celebre filosofo svedese Arjuna Zizerlweis il caso di un medium che agirebbe su soggetti in modo tale da permettere una fotografia del loro futuro. Ma il filosofo smonta scetticamente sia il caso del soggetto sano che mostra segni apparsi due mesi dopo per il vaiolo (si tratterebbe, obietta, di pustole in germe riconosciute più acutamente dalla lastra), sia quello del giovane con una macchia nera in mezzo alla fronte come poi la avrà per il colpo di pistola con cui si suicida (ma è chiaro che ha tratto una suggestione dalla foto, probabilmente era una macchia banale). Zizerlweis si convincerà (“Hum, hum – ma allora, ma allora!”) solo con il caso di un commesso in un negozio di verdura la cui testa sparisce nella foto per lasciar posto a luci nella disposizione della Costellazione dell’Ariete – infatti entrerà militare in fanteria…

Di nuovo terribili orientali – quelli reinventati nel cinema espressionista con cerone e bistro sugli occhi – tornano in L’uomo sulla bottiglia (Der Mann auf der Flasche, “Simplicissimus”, 47, 1904): una festa mascherata è occasione per una lussureggiante parata di trovate oniriche, costumi fantastici, marionette sinistre. Come afferma un convitato vestito da Salamandra,

 

“Non credo che questo spettacolo voglia avere un senso vero e proprio. Solamente cose che non rappresentano nulla d’intellettuale sono in grado di trovare l’accesso segreto dell’anima […] E come vi sono individui che alla vista delle secrezioni acquose dei cadaveri dissanguati sono colti da un’ebbrezza erotica ed emettono fioche grida estatiche, egualmente esistono anche…”.

 

Quest’ultima frase sembra evocare fantasie alla Ewers. Ma sull’onda di un più classico gotico ottocentesco, lo spettacolo messo in scena dal principe Darasche-Koh – chiamato come l’anatomista crudele dell’altro racconto, potrebbe essere lo stesso personaggio o piuttosto una figura-funzione, che in effetti tornerà ancora – è in realtà finalizzato a punire atrocemente un tradimento della moglie con il conte de Faast. In modo diverso i due vengono soffocati (rileviamo il tema, dovremo tornarvi).

Stregoneria e satira si abbinano in Coagulo (Coagulum, “Die Zukunft”, 47, 1904), dove il vecchio Hamilkar Baldrian invoca il demone Astaroth, identifica un tesoro sepolto e traccia una mappa per ritrovarlo, ma muore; lo scrittore suo nipote avvia la ricerca, ma nella cassetta rinvenuta nella brughiera e portata trionfalmente fino all’ufficio municipale si trova solo una “molle massa elastica nero-giallastra, dalla superficie luccicante”. Le perizie non riescono a stabilire cosa sia, ma a quel punto la sostanza non ha valore economico; e il mistero resta, finché il nipote non riceva la rivelazione da uno spirito. “[…] si tratta della parola d’onore di un ufficiale, coagulata e fossilizzata” (ecco il senso del titolo Coagulo), di nuovo con una sferzata satirica non da poco.

Nel 1904 Gustav Meyrink si è trasferito a Vienna (iscrizione nel registro 1904 come suddito del regno di Baviera, certificato di residenza agosto 1905), dove è diventato caporedattore – maggio-novembre 1904 – della rivista umoristica “Der liebe Augustin”, che in realtà chiuderà molto presto, ma su cui pubblica alcuni racconti degni di nota.

Alchimia e critica sociale, conoscenza iniziatica e conoscenza di apparato si combinano per esempio in La goccia di verità (Der Wahrheitstropfen, “Der liebe Augustin”, 9, 1904), con la storia grottesca di una goccia d’un misterioso liquido che, collocata tra due punte d’argento a formare una sfera perfetta permetterebbe arcane visioni. Suggestiva l’intuizione del “sottile setaccio costituito da atomi roteanti e [del fatto che] se si fossero trovati i raggi giusti, niente avrebbe impedito di guardarvi attraverso”, precedente l’elaborazione compiuta del modello atomico di Rutheford. Ma alla fine il povero protagonista viene arrestato e “incarcerato sotto l’imputazione di matricidio plurimo” e lo strano fluido confiscato.

Il titolo Decadenza (Der Untergang, “Der liebe Augustin”, 12, 1904) evoca un tema all’epoca molto dibattuto: il termine usato nel titolo di questo racconto è Untergang e non Entartung, “Degenerazione” come nel celebre saggio di Max Nordau datato 1892-1893, ma ci si muove su provocazioni parzialmente simili. Il racconto è fortemente evocativo di un’epoca: ecco il povero, nervosissimo Chlodwig Dohna che vive ogni realtà dotata di limiti e confini – dal corpo umano agli oggetti – come soffocante, al punto da farsi saltare le cervella, quasi un caso da psicanalisi; ecco la località modaiola di cura come luogo d’incontro di personaggi peculiari – a Levico in Trentino, presso il lago di Caldonazzo, il protagonista conosce un bramino; ecco l’alta marea dell’irrazionale, una decadenza che Meyrink biasima e deride. Così ci vengono presentate le speculazioni del bramino su un futuro evento catastrofico in Asia per il 1914; la notizia che a Praga un reincarnato, Jan Doleschal, ne fosse informato tramite vie sottili; la surreale comunità di Doleschal e i discorsi estatici di lui. Il tutto in un’Europa che tra registrazioni di traumi e psicopatologie (eventualmente sessuali, come quelle repertoriate da Richard von Krafft-Ebing, morto nel 1902), stazioni termali e comunità d’illuminati (il Sanatorium del Monte Verità di Ascona, 1902) con transiti su e giù dall’Oriente, offre non poche suggestioni alle narrazioni meyrinkiane. A recare a Dohna un trauma fatale è una scioccante avventura nel tempio di vetro di quella setta, con il rischio di morire soffocato come il conte de Faast è morto soffocato nel vetro del racconto L’uomo sulla bottiglia. Qui – come in altre opere – Meyrink sviluppa la critica a un misticismo d’accatto: non vuole confondere la ricerca interiore seria con le ubbie estatiche al tempo tanto diffuse.

Nel frattempo ha pubblicato (a Monaco, come detto) la seconda raccolta Orchideen. Sonderbare Geschichten; la patologia al midollo spinale si aggrava e viene dichiarato incurabile, ma in un anno si riprende e attribuisce il successo alle pratiche yoga. Ma continua a scrivere.

In Chimera (Chimäre, Orchideen, 1904) la rivelazione a un viandante da parte di un vecchio circa un favoloso filone aurifero sotto la chiesa va a braccetto con la fallacia dell’idea – appunto la chimera –  che quell’oro possa trovare un utilizzo virtuoso in un mondo tanto avido. Sotto testo può esserci l’idea della tanto scarsa attenzione a lui e al suo lavoro nell’ottusa realtà del suo tempo.

Suggestione (Eine Suggestion, Orchideen, 1904) si presenta invece come stralci di diario, blocchetti di indicazioni datate, ma in ipotesi scritte in cifra. A scrivere sarebbe un pluriomicida (ha avvelenato due persone, uno zio e il signor Erben, con un tossico di cui si è sforzato di saper poco, la curarina, per evitare impatti sulla propria immaginazione), convinto che la coscienza esiste solo se ci si crede: ha fatto sparire le tracce, ma anche – vorrebbe – il senso di colpa… Alla data successiva, tre giorni dopo, ammette però di aver sognato i due morti dietro di sé e cerca di rimuoverli; alla data ancora successiva, sono otto notti che li sogna. Medita di andare a teatro, ma è in scena il Macbeth, non proprio la storia migliore in quel contesto… un paio di giorni più tardi mostra di valorizzare al contrario il consiglio di Paracelso: per sognare regolarmente, occorre scrivere un paio di volte i sogni. Dunque non lo farà più. Risolto quel problema, circa una settimana dopo viene spinto da un rumore a guardarsi indietro – da tempo ha la sensazione che qualcuno lo segua dal lato sinistro – e vede una delle sue vittime, certamente un precipitato dei sogni fatti e delle relative emozioni; ma un’altra settimana dopo le vede entrambe. E una decina di giorni dopo (1 novembre, la data pare significativa), avendo continuato a vedere il fantasma di Erben, prende ad arrovellarsi: le figure sono scissioni del suo Io – ma sarebbe orribile pensare di nutrirle con la propria vita – o esseri autonomi, autentici? E la stessa scrittura segreta a cui sta ricorrendo sembra dettargli i contenuti, per cui decide di ricopiare il manoscritto in chiaro…

Passano dieci giorni ed eccolo annotare: “Sono esseri reali. Mi hanno raccontato in sogno la loro agonia” e lo vogliono strangolare. Di più: ha controllato, i sintomi della curarina sono proprio quelli del sogno. “Dio mio, se mi avessi detto che si continua a vivere dopo la morte non avrei ucciso”. Due giorni dopo conclude di essere malato. Intende parlare col medico, e poi impedire che vada a raccontare qualcosa. Ma il giorno dopo il diario reca solo la data e puntini, a far sospettare una drastica interruzione dell’ossessione…

Di carattere completamente diverso, e la varietà è interessante anche se torniamo al Meyrink polemista nel segno del grottesco, G.M. (G. M., Orchideen, 1904) richiama le iniziali con cui l’avventuriero americano George Mackintosh, inventore di una macchina per fiutare rabdomanticamente (si dice) la presenza dell’oro, ritiene sufficiente farsi conoscere a Praga: arricchitosi in modo misterioso, acquista case nel centro città per farle abbattere in cerca d’oro. Ma gli antichi palazzi sono stati spianati, l’oro non si trova e appare sui giornali un messaggio dell’impagabile straniero: è costretto ad andarsene ma dona alla città un pallone aerostatico e il suo biglietto da visita. Si scopre che ha venduto segretamente tutte le aree edificabili, e compare nella vetrina di un fotografo la foto di Praga dall’alto, dove le aree degli edifici abbattuti formano megalomaniacalmente le iniziali del suo nome G M… Il racconto può richiamare quegli sventramenti immobiliari della città vecchia che avranno un rilevante peso ne Il Golem, ma a ben vedere la proiezione delle lettere sulla terra è speculare a quella pre-cinematografica dell’uomo-camaleonte di Il dottor Lederer.

(1-continua)

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Le due città (Victoriana 36/I) https://www.carmillaonline.com/2022/05/16/le-due-citta-victoriana-36-i/ Mon, 16 May 2022 20:35:49 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=71999 di Franco Pezzini

All’insegna del Gran Lunare

AA.VV., La Belle Époque dell’esoterismo. Maghi, stregoni e alchimisti nella Parigi fin de siècle, a cura di Vittorio Fincati, pp. 294, euro 24, Edizioni Studio Tesi, Roma 2018.

“[…] la mia università fu Piccadilly. È là che ho intrapreso lo studio della vasta scienza che mi occupa tuttora”.

“Di quale scienza si tratta?”

“La scienza della metropoli, la fisiologia di Londra. Sia in senso letterale, che metafisico, è il più grande soggetto che mente umana possa concepire. […] Vede, a volte mi sento disarmato al pensiero [...]]]> di Franco Pezzini

All’insegna del Gran Lunare

AA.VV., La Belle Époque dell’esoterismo. Maghi, stregoni e alchimisti nella Parigi fin de siècle, a cura di Vittorio Fincati, pp. 294, euro 24, Edizioni Studio Tesi, Roma 2018.

“[…] la mia università fu Piccadilly. È là che ho intrapreso lo studio della vasta scienza che mi occupa tuttora”.

“Di quale scienza si tratta?”

“La scienza della metropoli, la fisiologia di Londra. Sia in senso letterale, che metafisico, è il più grande soggetto che mente umana possa concepire. […] Vede, a volte mi sento disarmato al pensiero dell’immensità di Londra, della sua complessità. Con ragionevole sforzo si può capire Parigi, ma Londra no, Londra resterà sempre un mistero. A Parigi si può dire: qui abitano le attrici, qui i bohèmien, qui i falliti; ma a Londra è diverso. Lei può indicare una certa strada come la strada delle lavandaie, ma in quella stessa via, al secondo piano, un uomo sta studiando forse le radici del caldeo, e in soffitta, magari, un artista dimenticato si sta spegnendo lentamente”.

 

Così il flâneur Dyson spiega al più pragmatico amico Salisbury, nel racconto di Arthur Machen “The Inmost Light” (1894). E, forte delle sue esercitazioni di botanico da marciapiedi, parlando di complessità sa quel che dice: nel corso dell’Ottocento, Londra è cresciuta in modo vertiginoso, e alla fine dell’età vittoriana rappresenta un intero mondo. Già più o meno dal primo quarto del secolo è divenuta la città più grande del pianeta, il maggior porto del mondo e il cuore pulsante di finanza e commercio internazionale, connesso in vario modo a tutto il resto della Terra. Non è un caso che i movimenti dei lavoratori, protocomunisti e poi comunisti vi abbiano un importante luogo di confronto, che Marx vi si trasferisca (e vi muoia, nel 1883): Londra è davvero il luogo delle contraddizioni del Mondo Nuovo. Il numero di abitanti, da oltre 1 milione nel 1801 ha conosciuto un’impennata a 5,567 milioni nel 1891: entro il 1860 è divenuto maggiore di un quarto rispetto alla seconda città più popolosa del mondo, Pechino, di due terzi maggiore di Parigi e cinque volte di New York. Nel 1897, l’anno del Dracula che enfatizza l’opposizione tra la metropoli moderna e i remoti confini del mondo civilizzato, la popolazione della Greater London è valutata in 6,292 milioni di persone, sorta di immensa vetrina di pasticceria per il Grande Vampiro.

Che tutto ciò impatti anche a livello immaginale e che in questo coacervo delle più varie realtà trovino spazio dimensioni molto lontane, almeno apparentemente, da quelle della politica e dell’economia – per esempio l’esoterismo – non è strano: e anche da questo fronte, che influisce sulla stessa letteratura, tra sette rosicruciane, gruppi magici e conventicole spiritualiste la metropoli vittoriana è davvero la capitale del pianeta.

Sarebbe però sbagliato pensare che esperienze importanti non sorgano anche altrove: e lo studioso di esoterismo Vittorio Fincati ha proposto una bella raccolta incentrata sull’altra (per definizione) metropoli del Vecchio Mondo, la rivale storica di Londra, cioè la Ville Lumière, pure cresciuta immensamente nell’Ottocento. Le trasformazioni impresse durante il Secondo Impero con la grandiosa ristrutturazione condotta dal barone Haussmann, rappresentano una delle maggiori e più discusse rivoluzioni urbanistiche nella storia dell’umanità: e intanto, un po’ a ridosso del grande romanzo francese dell’Ottocento che a Parigi raccorda fili dal profondo della provincia, a somma glorificazione della borghesia, cresce come edera irrorata dal romanticismo la letteratura fantastica di Francia. Anche lì, più o meno condizionata da suggestioni esoteriche.

Certo, ascoltando le voci antologizzate da Fincati, talora molto “tecniche”, dobbiamo sforzarci di immaginare la parallela prassi, la vita, i dialoghi concreti degli autori: non è un limite del libro, semmai lo spunto per un altro che possa mappare i caffè dove mistici e stregoni s’incontrano confabulando tra loro o invece pontificando tra la gente, le biblioteche storiche come quella dell’Arsenal dove il mago inglese Mathers (1854-1918) traduce i grimori, le esposizioni d’arte in cui ciabatta, paludato da babilonese, il Sar Peladan (1858-1918) animatore di vari Salon rosacrociani/simbolisti, i salotti che vedono i discepoli di Allan Kardec, grande codificatore dello spiritismo (1804-1869) ricevere da tavolini a tre gambe sensazionali rivelazioni sull’aldilà, le trombe delle scale di vecchie case polverose (carte da parati ingiallite, muri umidi), con alloggi dove celebrati studiosi come il mago socialista Éliphas Lévi (Alphonse-Louis Constant, 1810-1875) o il prolifico Papus (Gérard Encausse, 1865-1916, più di centosessanta testi all’attivo) meditano sulle proprie carte…

Secondo Fincati sarebbe Parigi la vera “capitale delle scienze iniziatiche e magiche per un arco di tempo di parecchi decenni se non addirittura ininterrottamente per più di un secolo”: e attribuisce tout court il fenomeno alla rivoluzione francese, in grazia dell’enfasi sulla libertà che, ormai libera da roghi, avrebbe finito con l’abbracciare anche questo sottomondo. Va d’altronde ricordato che una tradizione dell’occulto e dell’esoterico nei palazzi parigini è ben solida fin dal medioevo tra Bafometti e alchimisti, si consolida nella città di Caterina de’ Medici e di un’aristocrazia che ancora nel Settecento sguazzerà tra rituali di ogni genere (con conseguenti grandi scandali, va detto, e processi epocali). È un esoterismo che muove all’ombra delle cattedrali e tra le pieghe nascoste del solidissimo cattolicesimo francese, ora in forme visionariamente misticheggianti che grondano simboli criptici (e nutriranno le speculazioni balliste dell’esothriller nostro contemporaneo: sono questi gli anni del discusso don Bérenger Saunière, 1852-1917, parroco di Rennes-le-Château nel Midi e amatissimo dai devoti del Codice di Dan Brown, un po’ meno dai superiori del reverendo che constatano un suo truffaldino e redditizio traffico di servizi liturgici), ora in chiave decisamente magica se non stregonesca. E mentre in Gran Bretagna le massonerie di frangia – come le logge principali coi loro riti razionalisti – possono operare con grande libertà, in Francia il frisson della segretezza è probabilmente un elemento che contribuisce a calafatare un certo tipo di occulto (fino a giustificare le bubbole di Léo Taxil sulla presenza compiaciuta del diavolo nel chiuso delle adunanze massoniche, 1891-1897). Gli immortali in carrozza del Settecento, prima o poi, a Parigi li troviamo tutti: Cagliostro, Saint-Germain, Mesmer… e a distanza di un paio di secoli non potrà che arrivarvi pure la contessa di Cagliostro combattuta da Arsène Lupin (1923-1924).

La rivoluzione può cercare di imporre la logica dei Lumi e gli altari della dea Ragione, ma da un lato accanto all’illuminismo non è affatto sparito l’illuminatismo, e dall’altro ristagnano aree ben più oscure: fili che correranno ben oltre gli anni della rivoluzione, tripudieranno di diableries romantiche anche attraverso i salotti letterari (emblematica la rilettura romantica un po’ forzata e forzosa del Cazotte del Diavolo in amore, giocosa fantasia rococò, come invece venata di mistero esoterico) e condurranno oltre la boa di fine Ottocento all’esoterismo francese tra le due guerre mondiali. Il lascito al fantastico francese – la cui stagione d’oro è proprio l’Ottocento – sarà immenso, con una ricaduta popolare attraverso la mitologia dei feuilleton e un livello alto nella grande letteratura e nell’arte visionaria dei Salon rosacroce.

A fini di riordino d’una materia tanto magmatica, Fincati propone, con ampia libertà dall’indicazione fin de siècle del sottotitolo (si sfora fino agli anni Cinquanta del Novecento), alcune tipologie di interlocutori, privilegiando nomi e testi meno ovvî. Attenzione, segue qualche spoiler.

Anzitutto troviamo quelli che chiama i Pontefici: il dotto occultista e poeta Stanislas de Guaita (1861-1897) con il pezzo La morte e i suoi arcani, vero e proprio Libro dei morti dell’esoterismo occidentale moderno, di grande fascino anche letterario, costituente il cap. 6 del II tomo di Le serpent del la Genèse, 1897, e che nella sua riflessione sulla fine dell’esistenza giunge a speculare sui riti curiosi praticati alla morte del papa, sul vampirismo e sull’elisir di vita; un Anonimo un po’ nel solco del Guaita, con Il demone del gioco, 1909, che invece punta a un tema più banalotto e modaiolo, il rapporto tra occulto e sale d’azzardo, dove impazzerebbero – attenti, signori – larve ed eggregore peculiari; un altro Anonimo identificato nell’esoterista e mistico Paul Sédir (1871-1926) o con maggiore fondamento nel maestro americano Paschal Beverly Randolph o qualche suo discepolo, a offrire ampi estratti di Venere magica, 1897, plausibilmente legato alla sezione parigina della Hermetic Brotherhood of Luxor. “La lussuria degli uomini d’oggi ha ipocritamente preso a prestito gli argomenti che stai per studiare per infiggere nei caratteri deboli lo spillone di Lilith”, ma chi cerca qui materia pruriginosa resterà deluso.

Una seconda sezione è quella degli Stregoni, dove proprio il sesso gioca un ruolo speciale. Qui i testi sono un po’ più tardi, del periodo di entusiasmo occultista tra le due guerre: probabilmente per evitare l’ovvio, cioè le precedenti storie sui bizzarri riti neognostici in odor di satanismo – più liturgici che magici, ma con tutte le ambiguità del caso – della bislacca saga mistica/blasfema di Eugène Vintras (1807-1875) e Joseph-Antoine Boullan (1824-1893) sullo sfondo delle opere di Huysmans, Là-bas (1891) in particolare. Che pure dicono qualcosa sull’euforia sessuale nel sottomondo esoterico francese tra i due secoli. Si inizia con un racconto di René Thimmy, Il maestro degli Efialti, 1934, sul curioso caso di donne, perlopiù giovani, che tra la folla in metropolitana sono state punte con un ago (il titolo originale è in effetti Les piqueurs du Métro): contro ogni apparenza, non si tratta di una delle fantasiose parafilie trattate con rigore da Krafft-Ebing, ma della sottrazione di piccole quantità di sangue femminile per produrre Efialti (in pratica Incubi), “creazioni larvali che emanano dal sangue umano dopo avervi assorbito una certa vita e che conducono nel mondo invisibile una effimera esistenza, in una forma che la volontà umana può modellare”. Ovviamente si cita anche Magia Sexualis di Randolph… Seguono Il potere della nudità di Jean Lignières, che comprende i capitoli VIII e IX di Les Messes Noires, la sexualité dans la Magie, 1928, dal contenuto trasparente pur nella vastità visionaria delle implicazioni; e Pratica dell’amore platonico di Maurice Meyer, estratto da Le Mystère de l’amour platonique, essai d’érotisme ésotérique, 1938, le cui strane speculazioni – persino in tema di abbigliamento, per cui la toga sarebbe “il più adeguato per l’erotismo iniziatico” – meritano la lettura.

Si passa poi agli Alchimisti. Qui il primo testo è la memoria Il Gran Lunare di Pierre Geyraud, tratto da Les Sociétés Secrètes de Paris, 1939: accantoniamo la tradizionale alchimia dei minerali e il vecchio Nicolas Flamel celebrato anche da Harry Potter, si torna alle suggestioni di Thimmy su un’alchimia del sangue per creare Efialti e alla magia sessuale della società luciferiana T.H.L. (Très Haute Lunaire), il cui papa nero è un alchimista. Sempre Geyraud è però autore di un articolo Alchimia – intesa in senso più tradizionale, estratto da L’Occultisme à Paris, 1953 – dove fornisce alcuni ritratti testimoniali di maestri della dottrina agli inizi del Novecento: in particolare il colto e modesto Eugène Canseliet (maestro di un altro grosso nome dell’ermetismo francese, Claude d’Ygé), lo sfuggente Jean-Julien Champagne (destinato – si sostiene – a morir male nel 1932 per aver tradito la setta luciferiana che aveva contributo a fondare, e dietro cui si celerebbe il misteriosissimo personaggio noto come Fulcanelli, autore di Il mistero delle cattedrali), e Rosny Aîné di cui riparleremo. Un terzo testo, di Magophon, alias l’erudito e dotto ellenista Pierre Dujols (1864-1926, un altro dei candidati all’identificazione con Fulcanelli), Hypotyposis. Alcune considerazioni sul “libro muto” dell’alchimia, 1914, affronta dottamente l’esame di un classico seicentesco, il Mutus Liber (1677), composto come “raccolta di immagini enigmatiche” (una ipotiposi, spiega Dujols, “è una spiegazione data sotto forma di figure astratte”).

Poi ecco gli Evocatori: del già citato Paul Sédir, Incantesimi, raccolta di brani tratti da Les Incantations – le logos humain, la voix de Brahma – les sons et la lumière astrale, comment on devient enchanteur, 1897, dal contenuto piuttosto tecnico sul Verbo magico, in particolare sul ruolo del suono; di Victor-Émile Michelet, I segreti delle pietre preziose, da L’Amour et la Magie, 1909, sulle qualità magiche di una serie di minerali; di Pierre Noël de la Houssaye, Una evocazione necromantica, suggestivo cap. 20 di L’Apparition d’Arsinoë, roman d’un Frère d’Héliopolis, 1948. Una canonica di provincia ospita il dialogo concitato con un domenicano di un fedele caduto in peccato di magia, evocando una donna bellissima da un remoto passato egizio, con tanto di manifestazioni d’un raccapricciante guardiano della soglia, amplesso con la fantasima e blasfemi richiami al Cantico dei cantici.

In ultimo i Narratori. Il fatto è che uno dei lasciti più importanti della cultura magica riguarda proprio la narrazione: non tanto nel senso di romanzi esoterici o narrazioni a chiave (che pure ci sono, ma meno di quanti vengano sussiegosamente considerati tali da pretesi beninformati), quanto per l’idea del potere evocativo della narrazione in sé. La letteratura, lo sappiamo, della magia è parente stretta (e talora i maghi vi si riferiscono per far capire meglio alcuni concetti, indipendentemente da una natura “cifrata” dei romanzi), ma Fincati attinge qui a testi che vedono un legame stricto sensu con l’occulto. Si parte da Rosny Aîné, all’anagrafe Joseph Henry Honoré Boex (1856-1940, un altro dei candidati all’identificazione con Fulcanelli), attivo nella Parigi letteraria accanto a Edmond de Goncourt: il racconto La giovane vampira, 1920, primo di questa sezione, è percorso da sottili sberleffi verso gli inglesi, compresa forse la prima moglie da cui l’autore divorzia. Segue La donna che morì due volte. Magia passionale, 1895, di Jules Lermina, scrittore popolare e militante socialista, autore anche de L’A.B.C. du libertaire, 1906: un racconto debitore in qualche misura del Casa Usher di Poe, e forse di Véra di Villiers de L’Isle-Adam, dove un’osmosi d’amore diventa base per una malsana reviviscenza. Poi, nuovamente del poeta, ed evocatore di entità, Pierre Noël de la Houssaye, ecco la lirica La ninfa al cervo, estratto da Le premier livre des odes pindariques, 1823.

 

Tra alcuni di questi contributi, qualche lettore potrebbe vedere un nesso sottile, sostanziato dai rapporti che alcuni autori ebbero con una fantomatica società magica parigina, la Très Haute Lunaire. Possiamo rassicurarlo che non è stato con questa idea che abbiamo messo assieme i saggi. Ma a esser maliziosi talvolta si indovina.

 

Si sta discretamente alludendo a qualche sottesa chiave – o clavicula – luciferiana? (un aggettivo che indica qualcosa di molto diverso, chiariamolo subito, da satanista.) Non sta al recensore azzardare ipotesi: il testo in esame resta ricco di dati poco noti e senz’altro di grande interesse – pur nell’ovvia soggettività del taglio, che privilegia alcuni autori ad altri – per una storia dell’esoterismo. Sull’ambiguità di un quadro che rimane in gran parte coperto, fitto di trasversalità contraddittorie e che nutre per li rami una realtà ideologica molto più vicina ai nostri giorni, non resta che prendere atto: tanto più considerando il grigiore sussiegoso e la spocchia cialtrona di vari paralleli nell’Italietta provinciale a tali fioriture in Inghilterra e Francia.

Ma dobbiamo tornare a Rosny Aîné…

(continua)

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Un divertissement (anti)complottista https://www.carmillaonline.com/2021/05/05/un-divertissement-anticomplottistico/ Wed, 05 May 2021 20:42:54 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=65964 di Sandro Moiso

Per chiunque non abbia voglia di affrontare la lettura di un volume di quasi 600 pagine su QAnon e gli altri vari complottismi made in Usa recentemente edito in Italia, val la pena di ricordare che nel 1995 uscì un “romanzetto” sospeso tra il licenzioso, l’irriverente, il goliardico, il politico e il fantastico che, con un numero decisamente inferiore di pagine, riusciva a far piazza pulita di qualsiasi ipotesi complottistica relegandola ai territori dello sghignazzo e della burla, i soli che possano essere “seriamente” dediti a tali interpretazioni della realtà.

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di Sandro Moiso

Per chiunque non abbia voglia di affrontare la lettura di un volume di quasi 600 pagine su QAnon e gli altri vari complottismi made in Usa recentemente edito in Italia, val la pena di ricordare che nel 1995 uscì un “romanzetto” sospeso tra il licenzioso, l’irriverente, il goliardico, il politico e il fantastico che, con un numero decisamente inferiore di pagine, riusciva a far piazza pulita di qualsiasi ipotesi complottistica relegandola ai territori dello sghignazzo e della burla, i soli che possano essere “seriamente” dediti a tali interpretazioni della realtà.

Il testo in questione è Pandemonium di Diego Gabutti, edito da Longanesi nella collana La Gaja scienza, da tempo dimenticato ma ancora facilmente reperibile nel mercato dei libri usati, e oggi, a detta dello stesso, neppure troppo amato dall’autore.
Eppure, come al solito, eppure…
Un testo che riesce a mettere insieme Aleister Crowley, la P2, i servizi segreti italiani “deviati”, Satana in persona (ma soltanto nei sogni dei personaggi principali), brigatisti pentiti, baroni siciliani cornuti, magia sexualis e ricerca dell’homunculus è ancora degno di un’occhiata, magari anche attenta.

Si era agli albori dell’uso delle reti, o rete qual dir si voglia, attraverso l’utilizzo di BBS (Bulletin Boatd System)1, in cui già l’autore individuava la sciagurata possibilità di produrre informazioni incontrollate e bufale a go-go (perché poi oggi si preferisca l’anglicizzante fake news all’italianissimo, e soprattutto evidentissimo nel significato, bufale, è una questione ancora tutta da chiarire).

Un autentico oceano in cui nuotano enormi cazzate mescolate a notizie vere, fasulle, presunte, controllate ed incontrollate (che, in fin dei conti possono reciprocamente rovesciarsi nelle une o nelle altre). Uno stagno per la pesca degli scemi (soggetti ideali sia come pescatori che come pesci), un mare in cui scatenare la fantasia degli agenti dei servizi per comunicare tra di loro oppure per creare eventi improbabili, ma parzialmente credibili oppure assolutamente incredibili, ma luccicanti come oro per i tordi di turno. Che spesso si accodano convinti di svolger un qualche ruolo significativo ai confini di un mondo sospeso in permanenza tra realtà, magia e politica: quello dell’eterno complotto.

Insomma il regno dell’impostura globalizzata in cui ogni impostore, cosciente o meno di esserlo, sogna e immagina di giocare un ruolo significativo nel gran ballo delle balle.
Una enorme commedia degli equivoci in cui, se non ci andassero di mezzo gli innocenti veri (nel caso di Pandemonium delle giovani prostitute uccise o, meglio, sacrificate, per fini oscuri e irrealizzabili, nella realtà le vittime di attentati e violenze indiscriminate giustificate spesso da visioni del mondo reazionarie e folli) ci sarebbe soltanto da sbellicarsi dalle risate (così come capita per gran parte delle lettura del libro).

Il big complotto in questo caso si vorrebbe cosmico, universale, capace di rifondare il mondo e sostituire il suo signore e creatore con un altro, magari dotato, quest’ultimo, di corna, zoccoli, attributi di ambigue dimensioni e demonietti irrispettosi e burloni di contorno. Esoterismo e magia si snodano tra la Sicilia, Milano e Torino. Città, quest’ultima, dove fino ad un decennio or sono era possibile trovare numerose librerie dedite esclusivamente all’argomento; tutte dai nomi improbabili e memori del mito della città magica per eccellenza al centro dei triangoli bianchi e neri (come la maglia della squadra foraggiata dalla ex-FIAT) che attraverserebbero ancora l’Europa tra Lione e Praga, l’est e l’ovest come un Treno ad Alta Velocità del potere e della Grande Bestia.

C’è da ridere, ma anche da piangere, come quasi sempre capita, nel pensare alla serietà con cui i media ufficiali, autentici produttori di fake news ad oltranza si dedicano oggi al disvelamento delle fake news non autorizzate dalle veline di Stato. Un’autentica caccia alle streghe messa in opera da stregoni che in questo modo rendono tutte le bufale degne di attenzione.

Così, dopo aver letto il romanzetto e riflettuto sull’oggi e le sue scie chimiche circondate da manovre per ridurre la popolazione bianca schiava di quelle di altri colori oppure sul negazionismo vero sprofondato in un uso fin troppo spregiudicato del termine per demonizzare qualsiasi avversario delle verità “di Stato”, sorge spontaneo un altro dubbio: il complottismo è davvero soltanto di destra? Oppure anche questa è soltanto un’altra fake news, sorta in un territorio in cui Giorgio Gaber (cos’è di destra, cos’è di sinistra) avrebbe sguazzato ridendo con Enzo Jannacci?

In un territorio dell’immaginario dove la cabala della finanza finge di saper quali sono le soluzioni migliori per il destino del mondo e la scienza si trasforma in esoterismo in nome del profitto; Il mattino dei maghi di Pauwels e Bergier (destra) si incrocia con i segreti cosmici di Peter Kolosimo (sinistra) e dove l’inossidabile Gianni Flamini (sinistra “democratica”), con i suoi eterni studi sull’abilità dei servizi “infedeli” di controllare quasi ogni evento della storia italiana recente, in particolare la lotta armata, e soprattutto senza mai prendere in considerazione il fatto che i servizi possano essere, in realtà, “fedelissimi” e proprio per questo motivo agiscano così come hanno fatto e continuano a fare, incrocia la penna in un duello infinito con i convinti assertori delle presenza dei Visitors (destra fantascientificamente “fessa”) nelle sfere del potere mondiale, non ci sarebbe forse soltanto da sbellicarsi dalle risate?

E invece no, poiché ancora troppo spesso coloro che si pensano investiti di un occulto dovere di informazione oltre che dotati di un’innata verbosità, ritengono necessario rendere tutto ciò noiosamente serio, quasi a voler rilanciare, più ancora che a soffocare, il discorso complottistico e la sua diffusione in rete e oltre, contribuendo così ulteriormente allo spostamento dell’attenzione dalla necessaria e radicale negazione della dominante narrazione tossica dell’esistente finalizzata alla difesa ad ogni costo (anche quello di cadere ripetutamente nel ridicolo, come accade in questi giorni di fallimenti presentati come trionfi della scienza e della politica) del modo di produzione attuale.

Allora meglio seguire le vicende di un romanzo che si snoda tra gli anni Venti e gli anni Novanta, tra orge nei cimiteri siciliani, esperimenti per la cattura dell’energia orgonica di reichiana memoria all’interno di bordelli più o meno di lusso, riti massonici celebrati da personaggi incappucciati ma privi di mutande, agenti segreti in combutta con brigatisti esoterici sulle cui tracce sono altri ex-prigionieri politici in cerca di vendetta, in una girandola narrativa in cui tutti coloro che risultano infoiati dal desiderio di potere politico, economico, magico e religioso vengono definitivamente messi alla berlina.
Poiché non potrà essere nient’altro che una risata a seppellirli tutti insieme e definitivamente.


  1. Si tratta di un sistema telematico che consentiva a computer remoti di accedere ad un elaboratore centrale per condividere o prelevare risorse. Il sistema era stato sviluppato negli anni settanta e ha costituito il fulcro delle prime comunicazioni telematiche amatoriali. Tra le novità consentite dai sistemi BBS, le principali furono la messaggistica e file sharing centralizzato  

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Sex and the Magic: la Grande Bestia colpisce ancora (IV) (Victoriana 28/7) https://www.carmillaonline.com/2020/08/29/sex-and-the-magic-la-grande-bestia-colpisce-ancora-iv-victoriana-28-7/ Sat, 29 Aug 2020 21:11:10 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=62505 di Franco Pezzini

Aleister racconta

Nel corso di una vita relativamente lunga (almeno se si considerano l’epoca tribolata da due guerre mondiali e i problemi di salute, settantadue anni), Aleister Crowley scrive continuamente. La sua produzione, che alla sblocco dei diritti con il settantesimo dalla morte dilaga ora anche più liberamente sui banconi delle librerie, svela una latitudine impressionante: a partire come ovvio da quella tecnico-occultistica, dove tra rivelazioni del Thelema, relativa esegesi, magistero magico (basti pensare a quell’immensa summa che è Magick, cioè Liber ABA o Book 4), testi rituali eccetera, ora [...]]]> di Franco Pezzini

Aleister racconta

Nel corso di una vita relativamente lunga (almeno se si considerano l’epoca tribolata da due guerre mondiali e i problemi di salute, settantadue anni), Aleister Crowley scrive continuamente. La sua produzione, che alla sblocco dei diritti con il settantesimo dalla morte dilaga ora anche più liberamente sui banconi delle librerie, svela una latitudine impressionante: a partire come ovvio da quella tecnico-occultistica, dove tra rivelazioni del Thelema, relativa esegesi, magistero magico (basti pensare a quell’immensa summa che è Magick, cioè Liber ABA o Book 4), testi rituali eccetera, ora in forma di volumi, ora di articoli, c’è di che riempire un’intera biblioteca.

Ma fin qui si tratta solo di una parte della sua opera, al di là della fitta rete di connessioni che collega tutto in un continuo dialogo: un’unica giostra dove l’ironia diventa strumento occulto e le più varie arti – compresa la pittura, di cui il Nostro a un certo punto si entusiasma – vengono riconosciute come magiche.

Pensiamo ai suoi scritti spesso pepati su temi filosofici, politici, o in senso lato culturali (eventualmente con tagli sfiziosi per farsi ospitare a pagamento su qualche testata), o alla sua straordinaria “autoagiografia” – come la definisce in sottotitolo – The Confessions of Aleister Crowley, 1929, da accostare con una certa prudenza ma di interesse enorme e grande divertimento. O all’amplissima produzione poetica, dove alterna testi molto belli ad altri in cui l’intento provocatorio – motivato all’interno di una riflessione fortemente polemica verso i valori tradizionali del mondo occidentale – rende la godibilità letteraria un po’ altalenante (ma simpatici sono i Songs For Italy, 1923, con una serie di frecciate al fascismo che l’ha cacciato da Cefalù). Pensiamo alle opere teatrali, sorta di interfaccia più libera alle pantomime dei rituali, o alle sue stesse traduzioni, dove una certa libertà autoriale/magisteriale è comunque ravvisabile: per esempio quella de I Ching (proposta in Italia da Tre Editori, 2018), evidenziante proprio la tensione a mescidare tradizioni assai distanti che tanto preoccupa colleghi esoteristi più legati alla loro “razzialità” (per esempio, abbiamo visto, Dion Fortune).

Nel panorama non poteva mancare la narrativa: e a parte alcuni romanzi più o meno noti al grosso pubblico, Crowley produce un’imponente messe di racconti che spiccano per qualità nell’orizzonte di una fiction breve primonovecentesca di lingua inglese dai contenuti fantastici, visionari o comunque eccentrici – e avvicinati per esempio dalla critica a quelli di un altro personaggio un po’ eccessivo di fine età vittoriana, il conte Eric Stenbock (1860-1895). Certo, non tutti i racconti crowleyani presentano lo stesso livello d’interesse e comunque non si tratta di grandi capolavori della letteratura. Una certa parte viene anzi varata a fini anzitutto alimentari, a fronte di una situazione economica che qualche lustro dopo condurrà il Nostro al fallimento sancito dal tribunale: l’eredità paterna fondata sulla birra (l’azienda familiare Crowley’s Alton Ales da cui il padre, pensionandosi, era passato all’attività di predicatore dei rigoristi Plymouth Brethren) è schiumata letteralmente via. Ma queste storie pensate per divertire e insieme formare alle idee thelemite (in qualche caso con riferimenti tecnici che sfuggono al lettore non preparato, ma sempre con lo strumento del paradosso e dell’ironia) sono nel complesso molto felici: e persino nei racconti minori, qualche guizzo del ruspante geniaccio dell’autore riesce qui e là a dardeggiare.

La spregiudicata capacità di cavalcare mode d’epoca – certe scene brillanti, un certo tipo di poliziesco – non ostacola note di genuina originalità: si pensi alle quattro serie (colte, spumeggianti, divertenti) incentrate su Simon “il semplice”, cioè il mistico, occultista e detective Simon Iff, creato alla fine del 1916. A metà gennaio 1917 Aleister ha già terminato di scrivere la prima serie di sei storie, The Scrutinies of Simon Iff, poi edita su The International tra settembre 1917 e febbraio 1918: per inciso sotto lo pseudonimo di Edward Kelly, come un tipaccio che ritiene di reincarnare, il losco medium del mago elisabettiano John Dee. Seguono Simon Iff in America (dodici storie, scritte tra dicembre 1917 e gennaio 1918), Simon Iff Abroad (tre storie, scritte probabilmente nel 1918) e Simon Iff, Psychoanalyst (due storie, scritte tra 1918 e 1919). Anche se è eccessivo proclamare – come fa lui annunciando la seconda serie – che si tratta dei polizieschi più sensazionali dopo quelli doyliani su Holmes, è vero che il taglio è innovativo: un mix tra i classici racconti polizieschi e i casi dei detective dell’occulto, con un occhio alla psicologia e un po’ di Thelema.

Come l’autore ricorda nella proprio “autoagiografia”, al di là di qualche differenza da una serie all’altra il sistema sottostante le avventure di Iff si basava

 

per la maggior parte su semplici principi meccanici. Potrei anche paragonarli a problemi di scacchi. Il metodo generale era pensare a una situazione la più inspiegabile possibile, quindi di chiudere tutte le fessure con lo stucco e, dopo essermi accertato che nessuna spiegazione fosse possibile, fare un ulteriore sforzo e trovarne una. Trovo difficile considerare questo genere di cose come seria letteratura, eppure l’istinto artistico in me è così inestirpabile che il Vecchio Adamo fa capolino abbastanza spesso da rimuovere queste storie dalla categoria dei jeux d’esprit.

 

Nel senso proprio di una verità umana che lui intende testimoniare (o almeno così dichiara, ma in questo caso è credibile, anche per il tipo di obiettivi polemici). Per inciso Simon Iff è lui, Aleister, in una versione “anziana” e saggia mixata (almeno nel romanzo Moonchild, scritto 1917 e pubblicato 1929, dove Iff torna) a qualcosa di Allan Bennett, suo istruttore magico ai tempi della Golden Dawn, poi monaco buddhista e figura fondamentale per l’ingresso del buddhismo in occidente: uno dei pochi amici per cui negli anni Crowley manterrà intatta un’affettuosa devozione, e di cui dovremo qui riparlare.

Ma le varie serie su Iff non esauriscono la produzione crowleyana di racconti brevi – come ricorda un volumetto uscito di recente nella deliziosa collana “La Biblioteca di Lovecraft” per i tipi delle salernitane Arcoiris, 2019: I Racconti della Bestia a cura di Jacopo Corazza e Gianluca Venditti è infatti una raccolta di dieci testi (tradotti da Luca Baldoni, introduzione di Steve Sylvester dei Death SS) tali da fornire un buon assaggio della novellistica del Nostro.

L’operazione è interessante, e per più motivi. A partire da uno contingente, cioè che si tratta della prima antologia italiana di racconti brevi di Crowley, otto inediti più due proposti con diversa traduzione sulla rivista Hypnos. A dar conto di varietà di registri – l’orrido e l’erotico, il fiabesco e il poliziesco brillante – che il lettore nostrano non collega automaticamente a un autore come il Nostro. E laddove si corteggia il fantastico – anche senza giungere al livello dei capolavori brevi di autori coevi come Machen – incontriamo comunque novelle affascinanti per la varietà e il carattere estremo degli spunti, il delirio onirico di certe suggestioni, il gusto dello strano su cui l’autore non risparmia nulla.

Il che traghetta immediatamente a un secondo motivo d’interesse, uno stile in genere non “alto” ma di qualche eleganza, e che risente naturalmente del contesto culturale del primo ventennio del Novecento: un mix di enfasi decadente e ironia lieve da buona società al caffè, conati simbolisti dove s’intravede il Crowley poeta e soluzioni popolari quasi alla Weird Tales, suggestioni estenuate e sfuggenti – anche a base di metafore in cui il lettore s’immerge e si attarda, con stranianti derive – ed eccessi a forti tinte. Spesso giocando con l’implicito, ora nel segno del gioco frizzante e ora di un’obliquità esoterica: da cui fantasie che sembrano imbizzarrirsi alla lettura, significati che si colgono come di sguincio sul lato dello sguardo, provocazioni talora francamente criptiche.

E un terzo motivo sta nel teatro che s’intravede dietro questi racconti, le dinamiche erotiche e le contrapposizioni, i profili di personaggi amici o nemici (come già nei racconti con Iff) e gli episodi autentici o presunti tali dalla vita dell’autore – che vi sgomita spudoratamente. Attenzione, nella disamina che segue qualche spoiler emergerà.

I primi racconti guardano come prevedibile al Crowley occultista. “La violinista” (“The Violinist”), scritto nel 1910 e pubblicato su The Equinox del settembre di quell’anno sotto lo pseudonimo di Francis Bendick, vede per esempio una protagonista modellata sulla seducente Leila Waddell, 1880-1932, violinista australiana ed ennesima partner magica della Bestia. Oggetto del racconto è il dividersi di lei tra due partner, un prosaico “ragazzo allegro” e un amante pneumatico richiamato per magia – con evocazione musicale su un pannello mosaicato enochiano –, dalle conseguenze inattese o forse non troppo. Non ci addentriamo in questa sede nel groviglio tecnico-occulto relativo al carattere N (altrove reso con diverso segno grafico) su cui si concentra la violinista, donde diverse possibili identità del lubrico spirito Remenu.

Anche più emblematico è “Al bivio” (“At the Fork of the Roads”), circa 1908 e pubblicato anonimo su The Equinox del marzo 1909, dove una tal Hypatia Gay, amante del poetastro/mago Will Bute, va a trovare il conte Swanoff, giovane poeta neofita della Fratellanza della Stella d’argento. I nomi possono non dirci nulla, ma Hypatia è in realtà Althea Gyles (1868-1949), illustratrice cara al poeta Yeats qui celato sotto la maschera di Will Bute: l’atteggiamento tiepido verso le abilità liriche di Crowley e lo scontro che li vede militare da parti opposte nella scissione della Golden Dawn conducono presto a un’ostilità personale. Mentre il conte Swanoff è naturalmente Aleister, il cui primo appartamento a Londra, 67-69 Chancery Lane, era stato affittato sotto lo pseudonimo di Conte Vladimir Svareff: anzi anche Swanoff – ci viene detto a un certo punto – è un mero pseudonimo per nascondere il lignaggio reale celtico del protagonista. Quanto alla Fratellanza della Stella d’argento si tratta trasparentemente dell’A∴A∴, organizzazione pensata da Crowley fin dal 1907, e la cui sigla è spesso resa come Astrum Argenteum.

Qui il racconto merita qualche cenno in più. Bute, cupamente geloso di Swanoff – come, sostiene Crowley, è Yeats di lui – ha mandato la sua aiutante in missione speciale in campo nemico: e il conte l’accoglie ammonendola a sfuggire i tentacoli del Polpo Nero che ha deciso di servire, e a non finire vittima dei vermi della Melma Ineffabile (notiamo come la fantasia dell’autore sia squisitamente evocativa). Sciocchino, gorgheggia lei, la prossima volta lo farà contento entrando con lui nel Tempio Bianco: però allontanandosi riesce a graffiargli la mano con una spilla, e porta trionfante quella goccia di sangue a Bute per i suoi sortilegi. In effetti l’indomani Swanoff si sveglia debolissimo e cereo, con le mani rugose: ma per fortuna arriva il suo maestro, che lo rimprovera di aver avuto a che fare con la Goetia – potremmo dire la magia di evocazione demoniaca. Swanoff assicura di no, e il maestro commenta che allora è la Goetia che ha avuto a che fare con lui. L’episodio di questo rimprovero – con tali parole – è autentico, e a muoverlo a Crowley era stato proprio il suo citato istruttore magico Allan Bennett: la dialettica tra i due è qui speculare a quella nel più tardo romanzo Moonchild tra il giovane Cyril Grey e l’anziano Iff, dove pure si cerca di impedire che i cattivi (tra i quali lo stesso Yeats) usino il sistema del graffio per sottrarre la stilla di sangue a fini occulti.

Il maestro predispone dunque il contrattacco. Anzitutto consegna al discepolo una pergamena magica da tenere sotto il cuscino, e lo istruisce a uccidere chi lo attaccherà: come in effetti farà in sogno una donna di pericolosa bellezza – ovviamente un succubo, che rivelerà caratteristiche spiacevoli – e per dieci notti Swanoff si affannerà a strozzarla. Passo successivo sarà il far infestare la casa di Hypatia – che ha tentato di tornare per procurarsi altro sangue – da migliaia di gatti, dandole qualcosa di cui occuparsi (si tratta di un sistema citato in più resoconti occultistici, e dunque almeno un topos di questo tipo di narrativa). Ma al terzo tentativo della pertinace fanciulla, Swanoff la chiude dentro il tempio: e lì si consuma una degna punizione per opera del dio celato dietro i sipari. A seguito della quale verrà ripudiata da Bute e finirà preda di un laido editore… Come riportato dalle note di The Equinox, “Questa storia è reale in ogni dettaglio. Data degli eventi 1899 E.V. maggio o giugno”: e la sintesi qui offerta non rende minimamente il carnevale di trovate. D’altra parte pareva importante soffermarvisi, sia perché appunto evidenzia i nessi con la vita dell’autore – per come almeno lui riteneva di viverla – e con altre sue opere chiave come Moonchild, sia perché si tratta del trasparente esempio di uno stile solenne e visionario giocata su mezzitoni d’ironia.

Assai più criptico è il racconto “Un ballo in maschera” (“A Masque”), mai pubblicato prima del 2010. In scena è una sorta di antiannunciazione nel segno del notturno e del lunare, e anzi di antinatività dove una misteriosa entità gobba – a metà tra l’incubo di Füssli e uno spirito astrale – si accoppia fatalmente con la splendida Margarita.

Ma, come detto, la raccolta guarda a registri piuttosto vari. “Il cacciatore di anime” (“The Soul-Hunter”) è sostanzialmente un horror, dai toni sfuggenti che fanno pensare a certe derive oniriche: scritto nel 1908 e pubblicato su The Equinox nel marzo 1910, narra i frustranti tentativi di un mad doctor di trovare l’anima in un paziente-vittima. Francamente più birichino, “La volpe” (“The Vixen”), edito su The Equinox del marzo 1911 di nuovo come Francis Bendick, è dedicato e nuovamente ispirato a Leila Waddell nella figura della protagonista Patricia Fleming, tra sadomaso, licantropia e naturalmente occultismo. Invece “La faccia” (“Face”), proposto per la prima volta sul Pearson’s Magazine nel settembre 1920, è un’originalissima vicenda poliziesca sulle conseguenze del rifiuto di uno spasimante cinese per motivi razziali: la citata formula del “chiudere tutte le fessure con lo stucco” alla base dei racconti di Simon Iff (che pure qui non c’è) vi sembra adottata in pieno.

“Illusion d’amoureux”, di nuovo edito a firma Francis Bendick su The Equinox del settembre 1909, coinvolge nel ruolo della protagonista la scrittrice Ada Leverson (1862-1933) che nel 1907 aveva avuto una relazione con l’autore. Qui la troviamo, coricata in una bara appesa come un’altalena, in attesa di essere visitata da “un dio imperscrutabile, sorridente, sempre sorridente di un sorriso che esprimeva una lussuria inimmaginabile e una crudeltà risolta – grazie a quale alchimia teurgica? – in una beatitudine fredda e pura” (e che lei, per non sbagliare, invoca quale “Abominazione suprema”). Sembra probabile che in fondo si tratti dell’ennesimo autoritratto di Crowley stesso.

Per certi versi ancora più spiazzante, a considerare l’idea che a torto o a ragione si ha spesso di Crowley, è “Il colore dei miei occhi” (“The Colour of My Eyes”), probabilmente scritto nella primavera 1918, una fiaba sapienziale delicata e ironica su Arte, Onnipotenza e Amore che fa pensare a un Wilde minore. Mentre “Il furto della signorina Horniman” (“Robbing Miss Horniman”), edito la prima volta su The International nell’aprile 1918, è un garbato racconto giallo dal doppio finale. Torniamo al criptico e al macabro con “Queste cose sono un’allegoria” (“Which Things are an Allegory”), edito soltanto postumo: un apologo strano, in qualche modo di critica sociale, al di là del linguaggio fiabescamente nero.

Naturalmente chi sia interessato a misurarsi con l’inglese elusivo, ironico e febbricitante dei racconti di Crowley può leggerli in lingua originale: il corpus dei testi narrativi brevi è infatti raccolto oggi in due volumi dalla splendida collana “Tales of Mystery and the Supernatural” per i tipi Wordsworth. Cioè The Simon Iff Stories & Other Works (2012), comprensivo delle quattro raccolte su Iff più gli otto racconti neopagani della raccolta Golden Twigs, ispirati al Ramo d’oro di Frazer (scritti 1916); e The Drug & Other Stories (2010), con ben quarantanove racconti – trenta dei quali pubblicati già dall’autore, gli altri inediti –, compresi quelli della presentata edizione italiana.

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Sex and the Magic: la Grande Bestia colpisce ancora (III) (Victoriana 28/6) https://www.carmillaonline.com/2020/08/15/sex-and-the-magic-la-grande-bestia-colpisce-ancora-iii-victoriana-28-6/ Sat, 15 Aug 2020 21:08:35 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=62212 di Franco Pezzini

Dion Fortune vs. Aleister Crowley

Partiamo da una foto. Circa 1905: la ragazza – forse quindicenne, espressione serissima – ha il viso un po’ tondeggiante, i capelli acconciati con una riga in mezzo, e veste alla maschietta con giacca scura, camicia, cravatta. Sta guardando dritta nella macchina fotografica, pare fissarci. In un’altra foto della stessa serie – pochi minuti prima, o dopo – è invece di tre quarti e vediamo meglio il naso dritto, lo sguardo intelligente e determinato. Anche se il padre si occupa di stabilimenti idroterapici, la matrice [...]]]> di Franco Pezzini

Dion Fortune vs. Aleister Crowley

Partiamo da una foto. Circa 1905: la ragazza – forse quindicenne, espressione serissima – ha il viso un po’ tondeggiante, i capelli acconciati con una riga in mezzo, e veste alla maschietta con giacca scura, camicia, cravatta. Sta guardando dritta nella macchina fotografica, pare fissarci. In un’altra foto della stessa serie – pochi minuti prima, o dopo – è invece di tre quarti e vediamo meglio il naso dritto, lo sguardo intelligente e determinato. Anche se il padre si occupa di stabilimenti idroterapici, la matrice familiare è l’alta borghesia dell’acciaio, produzione di armi a Sheffield: e il nonno ha creato un motto di famiglia, “Deo, non Fortuna”, per griffare il proprio successo sociale. Senza immaginare che la nipote, Violet Mary Firth – la ragazza delle foto, che in quel periodo vara due raccolte di poesie, Violets e More Violets, 1904 e 1906 – trasformerà quel motto nel proprio pseudonimo densamente simbolico, Dion Fortune (1890-1946). Passerà da psicanalista (a poco più di vent’anni una delle meglio pagate di Londra) a occultista, anzi una delle più grandi del XX secolo: e attraverso contatti con varie scuole – inizialmente la Società Teosofica, poi gli epigoni della Golden Dawn e il gruppo del Moriarty di cui si dirà – cercherà di sposare la tradizione ermetica alle moderne scienze umane (Freud e Adler da cui è iniziata la sua formazione, più avanti Jung) nell’esaltazione del principio femminile. Articolando il suo pensiero in una vastissima produzione di testi monografici e di articoli, ma anche in garbate opere narrative a tema occulto che le romane edizioni Venexia hanno preso sistematicamente a pubblicare.

Gli inizi delle avventure di Dion Fortune nei mondi sottili sono in realtà un po’ traumatici, segnati da un’aggressione psichica ai suoi danni (sull’interpretazione del concetto si lasciano liberi i lettori). A salvarla è un collega più anziano che prende a fungerle da mentore, Theodore William Carte Moriarty (1873-1923), il cui profilo lei dunque adotterà affettuosamente come modello per il dottore psichico protagonista della sua prima opera narrativa, una serie di racconti apparsi separatamente nel 1922 e più avanti raccolti nel volume The Secrets of Doctor Taverner, 1926 (I segreti di Taverner, dottore dell’occulto, Venexia 2003).

L’entusiasta Fortune, che alla morte di Moriarty non è riuscita a succedere alla guida del suo gruppo, sta organizzando a quel tempo una propria comunità, la Community – poi Fraternity, quindi Society – of the Inner Light fondata nel 1924, con un numero crescente di discepoli, e proprio a Pentecoste 1926 hanno un’importante esperienza estatica nella sede organizzata in un vecchio frutteto ai piedi del Tor, la collina di Glastonbury. Se le storie di Taverner sono precedenti, il conflitto magico con Moina Mathers, vedova del vecchio padre-padrone della Golden Dawn, deve contribuire al clima in cui la raccolta matura.

The Secrets of Doctor Taverner, che si iscrive nel filone al tempo di successo sui dottori dell’occulto, vede Taverner fronteggiare i più vari fenomeni paranormali, e rappresenta forse il frutto più immediatamente godibile della produzione dell’autrice per un pubblico odierno: ma in generale tutti i suoi romanzi restano piacevoli, e un garbato clima primonovecentesco molto british ammanta vivide storie di rinascita spirituale, virtuali controcanti narrativi alla sua ampia produzione saggistica (in questo caso, per esempio, l’opera può essere utilmente abbinata al godibilissimo – nel senso che si legge come un romanzo – manuale Psychic Self-Defense, 1930, più volte tradotto in Italia).

Il paragone con Crowley è inevitabile. Entrambi arrivano dai frantumi della Golden Dawn, entrambi sono occultisti e scrittori, entrambi spiccano tra le eccellenze magiche del Secolo Breve, lui come uomo – e, piaccia o non piaccia, è un mattatore assoluto – e lei come donna, forse con minore genialità e versatilità ma senz’altro con un enorme impatto. Anzi da un certo punto di vista può essere considerata la risposta femminile a Crowley o anche l’anti-Crowley, anche se il discrimine è nei fatti meno netto di quanto appaia a una prima occhiata.

Tra i due non corre un’ostilità personale evidente, ma il vecchio 666 non può piacerle. Per lei, parlando in senso generale, un “black occultist” è uno che fa dell’“occultismo un pretesto per i propri vizi”, “sostiene la visione pagana della vita [in realtà anche nel cristianesimo esoterico di Fortune aspetti pagani non mancano] e un ritorno al primitivo, e racconta a signore non sposate di età incerta che ciò di cui hanno bisogno è parte del suo magnetismo maschile” (dall’opera Sane Occultism, 1929). Sta ammiccando ad Aleister? Forse sì, anche se le interessa stigmatizzare il tipo di approccio più che il collega in questione.

E appunto tra le avventure di Taverner, una sembra richiamare Crowley. “La casa del potere” (“The Power House”) vede emergere dalla folla di Londra, tra auto e quartieri sordidi, un occultista losco, tale Josephus, che fa pensare all’uomo della folla di Poe.

 

Davanti a noi rumoreggiava la marea della Londra commerciale, dalla quale balzò fuori un altro relitto umano sospinto sulla nostra isola come da un flutto. La mia mente tornò immediatamente alle immagini di Riccardo III nei miei libri di scuola: lo stesso volto da furetto, ma intellettuale, la bassa statura e la schiena lievemente gobba che serviva a spingere in fuori il torace dalla struttura potente per quanto sgraziata. Il pallore della pelle rivelava la scarsa salute e la vita malsana, trascorsa nell’aria sporca e senza la luce del sole, prediletta dagli abitati di quella zona. Gli occhi erano rotondi e luminosi come lo sono gli occhi neri come bottoni. La bocca, ampia e dalle labbra sottili, sembrava crudele; la bocca di un uomo sensuale, ma freddo, che provava sensazioni e non emozioni.

Il suo viso attirò la mia attenzione anche in quello sguardo veloce, perché esprimeva potere, ma fu il suo comportamento nei minuti a seguire che si impresse con tutti i particolari nella mia mente, perché non appena alzò gli occhi su Taverner la sua espressione cambiò da quella di una taccola agile e sveglia a quella di un gatto in trappola. Emise un suono che assomigliò molto a un sibilo

 

e lanciandosi nel flusso del traffico viene urtato da un’auto. Niente di grave, ma mentre è privo di sensi (Fortune sta pensando al finto malessere in strada dell’Haddo di Maugham?) Taverner si china su di lui e occhieggia per un momento il contenuto del taccuino che quello tiene in tasca, defilandosi poi rapidamente con l’amico e biografo Rhodes. La descrizione calza su Crowley almeno in parte e la conferma giunta da cenni offerti da Taverner – “Si pensava che fosse in Tunisia; persino Parigi era diventata troppo pericolosa per lui, invece eccolo qui, di nuovo a Londra” – sembra adattarsi bene al mago giramondo che tra il 1923 e il 1929 sarà appunto in Tunisia, a Parigi e infine a Londra, ma già prima aveva viaggiato moltissimo.

Anche qui come in Maugham troviamo una donna plagiata – tale Mary McDermot – e un losco manipolatore: appunto quel Josephus che considera un santo o un adepto. Il tipo organizza corsi di sviluppo psichico dopo aver scalzato il precedente leader di un gruppo iniziatico, tale Coates (Mathers?), e si è creato una confortevole setta-harem. Non dimentichiamo che nel 1922 (quando i racconti di Taverner sono pubblicati separatamente) Crowley sta portando avanti la comune della cosiddetta Abbey of Thelema di Cefalù (1920-1923), in un clima sporchiccio di harem che ritroviamo nella comunità di Josephus, e nel 1926 (edizione della raccolta) ha già subito pesanti attacchi dai tabloid per i fatti consumati in tal sede.

Ora il marito di Mary vorrebbe strapparla di lì, dove lei “perderà la propria anima”: lo scopo del plagiatore “è il male”, e anzi una sorta di vampirismo per cui necessita di sempre nuove reclute, se no si indebolisce. Taverner, che ha collaborato in passato a dare una lezione a Josephus (“Non c’è mai stata una canaglia più infida e […] non è uno di poco peso”), si offre di aiutarlo; e il fedele Rhodes si infiltra nella conventicola del nemico. Notiamo che Josephus appare drappeggiato e con la testa bendata come Crowley in varie foto all’orientale; che anche Josephus è coltissimo e divertente; che anche lui, pur non essendo un grande mago (il giudizio è stroncante), “conosce molte cose sul lato occulto del sesso e delle droghe”. Comunque Taverner con Rhodes gioca un nuovo tiro a Josephus, mettendolo KO ed esorcizzando il potere che stagna nella casa; poi congeda Mary che, liberata, torna dal marito. Certo, davanti a un arcidetective psichico come Taverner non c’è storia, e l’unica vera difficoltà è quella di sciogliere il legame psichico della vittima: per quanto canaglia, Josephus non sembra un vilain troppo serio e tutto si consuma rapidamente. Di assai più ampio respiro e pericolosa complessità è invece la vicenda di un romanzo di qualche anno dopo, The Winged Bull, 1935 (Il Toro alato, appena edito da Venexia): e, per il profilo di un altro vilain decisamente più tosto da affrontare, l’autrice – ça va sans dire – torna a Crowley.

Sono passati nove anni dalla raccolta, e Fortune è alla sua terza opera narrativa, per non parlare di tutto il resto delle sue pubblicazioni: del 1935, per dire, è anche il suo fondamentale The Mystical Qabalah. L’autrice ha iniziato ad abbandonare i compiti comunitari (nel 1931 si è dimessa da responsabile della Fraternità) per lavorare maggiormente su se stessa e semmai diramare insegnamenti tramite opere narrative: una fase in cui, rispetto al passato, accentua l’attenzione al dato rituale rispetto ad altri della sua precedente riflessione. Come appunto constatiamo nel Toro alato.

La trama (attenzione, con spoiler). Dopo la fine della Grande guerra, l’ex-ufficiale trentaduenne Ted Murchison, tanto capace tra i ranghi, non è più riuscito a trovare una propria dimensione sociale, e vivacchia tollerato dal fratello ministro di culto e dall’arcigna cognata. Dove l’autrice, tra le pieghe di un romanzo non tecnicamente letterario (al di là dei sottotesti esoterici e di un certo garbo, siamo in piena narrativa popolare, romanticismo annesso) offre un quadro documentario molto interessante di un impero in crisi, tra disoccupazione e demotivazione diffusa, con il problema di reduci che non riescono a ritagliarsi spazio nella società civile.

La crisi è anche, robustamente, spirituale: l’anglicanesimo di stato, moraleggiante e arido, sembra non offrire più sollievo e senso. Così all’inizio del romanzo, al British Museum, Ted si trova a simpatizzare con un’immagine religiosa molto più antica e che, nei suoi rovesci di fortuna, gli pare più vicina del Dio di suo fratello: un Toro alato, entità divina dell’antica Mesopotamia, icona di quelle dimensioni alte degli antichi paganesimi che lo spingono a proclamare ad alta voce – da memorie dei suoi studi giovanili – l’antica invocazione del dio Pan. Col risultato di essere udito – e portato in salvo nella nebbia fitta dove s’era perso, immagine emblematica di una caligine anche interiore – da un vecchio conoscente di passaggio, uno dei suoi superiori nei giorni dell’esercito, il paterno e amatissimo Brangwyn: e questi, colpito dal contesto e ricordandolo come giovane di grandi doti, gli offre un lavoro tanto ben pagato da autonomizzarlo dagli orridi parenti. Nella sua dimora elegante nascosta tra i bassifondi di Bloomsbury, Brangwyn ha coltivato i propri studi di antiche religioni, psicologia ed esoterismo non solo sui libri, e Ted comprende solo poco per volta cosa il nuovo capo vagheggi per lui. Per inciso, il Toro alato (lamassu o shēdu) era in varie civiltà mesopotamiche uno spirito guardiano, mentre qui diventa una metafora per la sessualità sublimata attraverso la spiritualità.

Il fatto è che la sorellastra del capo, tanto più giovane di lui, Ursula (di cognome Brangwyn, a ricordare non casualmente l’eroina di David Herbert Lawrence, Ursula Brangwen), ha un grosso problema. Già “pitonessa di alto grado” per il fratello, ha partecipato a un rito esoterico da lui celebrato assieme al suo ex-segretario, tale Frank Fouldes: col risultato del saldarsi di una relazione sentimentale e magica tra i due giovani. Peccato che l’elegante, molle e ambiguo Fouldes – intellettuale e pacifista (orrore!), a pagar pegno a un certo patriottismo greve del tempo – sia caduto sotto l’influsso malefico di un mago nero, il mezzosangue Hugo Astley. Ovviamente Brangwyn ha provveduto ad allontanare il segretario ormai burattino dello stregone, ma l’instabile Ursula gli è rimasta magneticamente legata, scivolando in una penosa deriva nevrotica. Così Brangwyn ha arruolato Ted – goffo, rozzo, per nulla intellettuale – come nuovo segretario per fargli celebrare lo stesso rito con Ursula, e farla legare magicamente a un uomo di ben altra solidità e fiducia.

Ora, l’identificazione con Crowley del minaccioso Astley è stata talora contestata sostenendo che si tratta semplicemente di un mago nero come lui veniva gabellato in quegli anni dai tabloid: proprio nel 1935 gli strascichi del processo contro Nina Hamnett per il ritratto che aveva offerto di lui nel memoriale Laughing Torso (1932) l’avevano portato alla bancarotta; e del resto alla fine dell’anno prima era sempre plausibilmente Crowley il modello del lumachesco Mocata in The Devil Rides Out di Dennis Wheatley, 1934. Eppure vedremo che anche qui i cenni sono sufficientemente univoci da poter giustificare un’identificazione (almeno virtuale e “caricata” da romanzo), e la stessa assonanza Astley/Aleister sembra interessante. Pur non potendo escludere che, nella libertà della fiction, l’autrice vi mixi anche la fantasiosa trasfigurazione di un altro mago mulatto esperto in riti sessuali, Paschal Beverly Randolph (su cui cfr. qui).

La sofisticata Ursula e il rude soldato – entrambi dai caratteri difficili e orgogliosissimi – di primo acchito non sembrano fatti per intendersi, non si piacciono e paiono costituire veri e propri poli antitetici: ma quando Ted, che il principale/mentore sta formando a una consapevolezza del mito e del simbolo, celebra con la ragazza un primo rituale, ecco nascere un inizio di sinergia. La situazione resta però complicata, sia perché i vilain tentano in più occasioni di recuperare Ursula, e lei stessa è fortemente tentata di seguirli, sia perché le reazioni di lei e quelle di Ted sono ancora improntate immaturamente alla schermaglia, tra frasi infelici, giudizi superficiali, incomprensioni reciproche. Insomma la ragazza finisce col cedere alle lusinghe di Astley, che vuole coinvolgerla nella degradante Messa del Toro (Mass of the Bull, “quella che celebravano a Creta […] L’origine della leggenda del Minotauro”, in realtà un’invenzione dell’autrice che si ispira alle messe nere): ben diversa insomma dal rito del Toro alato dell’erudito Brangwyn, che mirerebbe a “Un’intensificazione della vita su tutti i livelli”.

Fingendo di fare il doppio gioco, Ted accetta dunque di partecipare al rito del mago cattivo, e si trova legato su una croce in termini assai più scomodi e pericolosi di quanto avesse creduto, col risultato però di comprendere meglio il senso salvifico di quel sacrificio nel cristianesimo. Si intuisce che il rito dovrebbe culminare in un atto sessuale su un sepolcro/altare tra Ursula e il viscido Fouldes: ma profittando di un momento di oscurità Ursula libera Ted, e i due si nascondono nelle stanzette sul retro della sala. Riusciranno a uscire dalla situazione di scacco – Fouldes fa il furbo e Ted gli rifila una saccagnata di botte, Astley incassa la sconfitta (in fondo per lui Ursula vale come qualunque altra donna) – e dopo qualche ulteriore strascico d’incomprensioni il lieto fine sarà coronato per Ursula e per il Toro alato Ted dall’amore, da una maturazione psicologica e da una crescita spirituale.

Rispetto al resto della fiction dell’autrice questo romanzo – in fondo uno dei primi – è stato talora giudicato il meno interessante, e comprensibilmente l’editore l’ha posposto ad altri più noti e riusciti: e tuttavia merita senz’altro la lettura, sia per la piacevolezza che per le tensioni sottostanti tradite.

Certo può essere letto da ottiche diverse. Per l’autrice si tratta della drammatizzazione narrativa di una serie di riflessioni in tema magico-erotico (il Toro alato presenta un corpo animale, immagine di grande forza anche sessuale, una nobile testa umana e ali simbolo di spiritualità): Ursula e Ted sbagliano continuamente, ma si danno da fare per sollevarsi – e salvarsi a vicenda – in vista di un’unione dove il sesso non è demonizzato e punta a dimensioni alte. Quindi molti aspetti culturalmente datati dei loro profili in progress, riscontrati con sconcerto da lettori moderni, vanno intesi come non definitivi, connotati d’immaturità destinati nel finale a un armonico superamento.

D’altra parte, un po’ come Margaret ne Il mago di Maugham, Ursula è al centro di una rete avviluppante di azioni di controllo e di vere e proprie sopraffazioni: comprese quelle a fin di bene del fratello che la coinvolge nei suoi esperimenti, e che manipola con gran disinvoltura anche il protagonista. A richiamare di nuovo, anche con un certo pragmatismo, situazioni che i personaggi sono chiamati a superare: del resto il personaggio di Murchison è basato su Tom Penry Evans, ex-marito di Fortune, che per Ursula guarda a se stessa. È insomma credibile che nelle schermaglie continue del romanzo precipitino anche echi di tensioni, difficoltà di Evans a fronte di dinamiche esoteriche esondanti nella vita privata, speranze di Dion non sempre decollate.

Però non tutto si esaurisce nei limiti di personaggi in progress, e ovviamente restano le vedute dell’autrice, assai più condizionata da valori, ideali e punti fermi del proprio mondo britannico di quanto lo sia lo spregiudicato, più “moderno” Crowley: si pensi qui a una certa retorica del guerriero, agli ambigui cenni su un’“hygienic living as the only basis for efficiency” che al tempo flirtano pericolosamente con tropi eugenetici e idee discriminatorie di ereditarietà, etnia e razza, o al vago razzismo di rendere lo spiacevole Astley “un mulatto robusto e butterato”. A richiamare una simbolica più ampia, secondo cui la Grande Loggia Bianca (la confraternita di esseri spirituali che la Teosofia e Fortune stessa considerano alla guida dell’evoluzione dell’umanità) darebbe a ciascuna razza la religione adatta ai suoi bisogni, le tradizioni sarebbero razziali (al di là di alcune dimensioni più ampie condivise tra occidente e oriente) e risulterebbe dannoso proporre a culture diverse i nostri insegnamenti esoterici, come per noi adottare i loro. In tutto ciò l’autrice è in netta opposizione ad Aleister, che invece fonde e trasfonde tutto. E che dunque può essere incarnato da questo sangue misto, immagine dei loschi, immorali giri cosmopoliti a cui Fortune con sincera preoccupazione vede l’occultismo sempre più saldamente associato. Di qui invece il suo “zelo nel promuovere un occultismo socialmente responsabile radicato in ruoli di genere ortodossi” (Andrew Radford).

D’altra parte, nei limiti di un’ispirazione narrativa, gli indizi per collegare Astley a Crowley sono abbastanza chiari per i lettori d’epoca. Come questi:

 

[Murchison] Aveva già letto di alcune scabrose rivelazioni su di lui [= Astley] in una delle riviste domenicali meno rispettabili. All’epoca non vi aveva prestato particolare attenzione, sebbene come storie di fantasia avessero il loro fascino; ma ora che si trovava dinanzi a quell’uomo in carne e ossa, cominciò a pensare che non fossero solo leggende metropolitane. [Inevitabile pensare ai racconti sui tabloid: cap. 8]

 

[Dopo aver parlato dell’uso del corpo femminile come altare durante le messe nere, sorte a cui finirebbe destinata Ursula, Brangwyn chiarifica:] “Be’, la moglie di Astley ora è in un manicomio”. [Si parla di Rose Kelly, prima moglie di Crowley, ricoverata nel 1911?: cap. 9]

 

Già una volta Brangwyn ha fatto sbatter Astley fuori dall’Inghilterra “mettendo di mezzo un agente di recupero crediti che riscuotesse in blocco i suoi debiti e continuasse a citarlo in giudizio” (cap. 9), e le disavventure di Crowley coi creditori hanno trovato consacrazione in tribunale. Ancora, Murchison trova ripugnante che Astley, buttato fuori con la forza da casa di Brangwyn, gli chieda scusa “per essere stato preso a calci su una scala” (cap. 16): un atteggiamento molto simile al disprezzo di Arthur ne Il mago di Maugham, quando picchiato Haddo e uditolo scusarsi, ne liquida la mancata difesa come vigliaccheria. Considerata la notorietà dell’abbinamento Haddo/Crowley, un nesso pare plausibile anche qui. Ancora, Astley parla di caffè parigini e venta spagnole, del Sudafrica e del voodoo, del Tibet e dei lama (cap. 16), con la competenza del giramondo, e di nuovo è inevitabile pensare alla Bestia. Ancora:

 

Astley si dedicava a studi misteriosi e conosceva cose del tutto ignote all’uomo moderno, come quelle accennate nelle annotazioni latine al libro di Gibbon Declino e caduta dell’impero romano; le stesse che, di fatto, avevano portato l’antica Roma alla rovina. Collaborava inoltre con una casa editrice che stampava i suoi libri a Costantinopoli e i cui distributori si trovavano a Bruxelles e Buenos Aires. Ursula aveva visto alcuni dei loro volumi, che erano illustrati, e sapeva perfettamente per quale ruolo fosse stata scelta. [Le disinvolte operazioni editoriali di Crowley sono all’epoca abbastanza note: cap. 18]

 

Ancora, a far pensare a Crowley è la descrizione della casa di Astley (cap. 23) più come quella di un maturo malvissuto, beone, fumatore e dagli affaticati movimenti – c’è anche una ninfetta di servizio –, che non come il covo di un grande mago nero. Certo, nella casa sarebbero morti almeno tre uomini (si può pensare a quelli che la voce pubblica addebitava alla Bestia: cap. 24) e Astley viene definito “un uomo pericoloso, crudele quanto il demonio” (cap. 25): ma in realtà la sua pericolosità sembra riguardare più la psiche dei plagiati che non le classiche azioni di violenza attribuite agli stregoni da tutta una vulgata narrativa e poi filmica (sacrifici umani eccetera). Anche per il diverso clima della narrazione – qui i buoni sono efficaci – la pur provata Ursula non appare mai psichicamente a pezzi quanto la tragica Margaret de Il mago: e la terribile Messa del Toro, col suo caprone zoccolante (una sorta di citazione vagamente allusiva a quello fatto accoppiare da Crowley con Leah Hirsig a Cefalù nell’estate 1921) mantiene i connotati un po’ grotteschi dell’orgetta in costume. Aggiungiamo il possibile nesso con altre opere celebranti Crowley come vilain (si pensi al sogno liberante di Ted di cavalcare un cavallo nero, cioè del colore dei capelli di Ursula, che sembra richiamare la simbolica del to ride nel romanzo di Wheatley). È chiaro d’altra parte che qui, in forma morbida, ritroviamo il classico plot con la Bella, la Bestia e il grande rituale: finalizzato ora non alla nascita di una prole magica ma di una più complessiva pienezza di vita.

Interessante è peraltro il dettaglio del rito blasfemo con Ted crocifisso. È vero che inizialmente Astley sostiene che quella sulla croce è “una posizione confortevole. Io per primo ho meditato su delle croci per ore” (cap. 23); mentre poi durante il rito proclamerà che “è tramite la vostra agonia che verrà emanato il potere necessario al nostro rito” (cap. 25). Ma si tratta di una prova, e non è detto che quell’agonia sia davvero funzionale alla morte per soffocamento di Ted, anche se potrebbe non escluderla. In effetti, crocifissioni rituali sono documentate con una certa frequenza nell’antropologia religiosa, e non è strano che il tema venga inserito qui (anche per motivi di drammatizzazione narrativa della comprensione della categoria-sacrificio da parte dell’eroe).

Ma a fronte di tutto ciò lo spiacevole mulatto non riesce a sembrarci davvero minaccioso, un po’ come il Crowley dell’epoca; e quando la storia si conclude con la liberazione dei buoni a patto del loro silenzio, ci viene detto che Astley “sapeva perdere con dignità” (cap. 25). Sembra quasi di vedervi un tocco d’ironia benevola verso il vecchio furfante: a dir forse qualcosa dei veri rapporti dell’autrice con l’ingombrante collega.

(Le precedenti puntate di Sex and the Magic sono quiquiquiqui e qui)

 

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Sex and the Magic: la Grande Bestia colpisce ancora (II) (Victoriana 28/5) https://www.carmillaonline.com/2020/06/20/sex-and-the-magic-la-grande-bestia-colpisce-ancora-ii-victoriana-28-5/ Sat, 20 Jun 2020 21:15:10 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=60888 di Franco Pezzini

Accadde a Lisbona

Rimase in bilico per qualche istante a fissare la voragine silenziosa, la balconata che oscillava sotto il suo peso, affascinata dalla visione del proprio corpo che franava nel vuoto insieme ai pioli di legno, in una danza leggera e scomposta in cui i riferimenti si perdono e senti soltanto il vento e il buio e la notte e ti senti libre…

Libre…

La balconata cedette. Pezzi di ringhiera precipitarono nel baratro, risucchiati dal vortice di scogli e di spuma.

Susanna si buttò indietro, urlando, poi [...]]]> di Franco Pezzini

Accadde a Lisbona

Rimase in bilico per qualche istante a fissare la voragine silenziosa, la balconata che oscillava sotto il suo peso, affascinata dalla visione del proprio corpo che franava nel vuoto insieme ai pioli di legno, in una danza leggera e scomposta in cui i riferimenti si perdono e senti soltanto il vento e il buio e la notte e ti senti libre…

Libre…

La balconata cedette. Pezzi di ringhiera precipitarono nel baratro, risucchiati dal vortice di scogli e di spuma.

Susanna si buttò indietro, urlando, poi sentì il fango e la sabbia sotto il suo corpo, e la terra che le entrava negli occhi e glieli faceva bruciare.

Doveva andarsene, scappare. Strisciò per qualche metro, in mezzo ai cespugli di erica, finché non fu di nuovo sul sentiero, fuori pericolo.

Fu in quel momento che la vide. Anzi, ci finì praticamente addosso, dolorante e infreddolita.

Era una grossa pietra con incise alcune parole in portoghese

NÃO POSSO VIVER SEM TI.

A OUTRA “BOCA DO INFIERNO” (SIC)

APANHAR-ME-Á NÃO SERÁ TÃO QUENTE COMO A TUA.

HISOS. TU LIYU.

Non conosceva il portoghese, ma i termini erano simili a quelli spagnoli. Tradusse mentalmente: “Non posso vivere senza di te. Mi avrà l’altra ‘Boca do Inferno’ che non potrà essere ardente come la tua. Hisos. Tu LiYu.”. Firmato Aleister Crowley.

 

Ciò accade, in un romanzo molto bello uscito nel 2011, Tutto quel nero di Cristiana Astori, all’(anti)eroina Susanna, in un certo punto sulla costa di Estoril presso Lisbona: una strada maledetta, su cui il 18 agosto 1970 si schiantava in auto la figura-chiave, la bellissima attrice Soledad Miranda. In auto su quella strada Soledad era già apparsa in un film leggendario che Susanna sta cercando: un filmato considerato frutto di mito cinefilo finché non emergerà sul serio (la letteratura gioca questi scherzi) grazie alla ricerca alla base di Tutto quel nero. Ma la storia incrocia a un certo punto, visionariamente, un’altra vicenda consumatasi a poca distanza dal luogo dell’impatto fatale, sulla stessa costa e praticamente sulla stessa strada, un punto impressionante della scogliera noto come Boca do Inferno: una cavità tra rocce scoscese dove il mare è sempre impetuoso e i corpi gettati scomparirebbero. È questo infatti il luogo del suicidio – o meglio del finto suicidio – di Aleister Crowley, ricordato dalla lapide che anche Susanna occhieggia.

Una beffa, certo, orchestrata dalla Bestia grazie al complice di eccezione Fernando Pessoa, e che però mixa vertiginosamente magia e sesso, sberleffo e letteratura, nel tessuto di una storia bellissima. Tale da ispirare almeno quattro romanzi (Alessandro Dell’Aira, O Mocho e o Mago, 1993, in Italia Il gufo e il mago. Pessoa e Crowley vis-à-vis, 2020; David Soares, A Conspiração dos Antepassados, 2007; Montserrat Rico Góngora, Pasajeros de la niebla, 2009; Francisco Salgueiro, O Anjo Que Queria Pecar, 2012); ma a darne oggi conto è una ricostruzione straordinaria a cura di Marco Pasi – probabilmente il massimo esperto scientifico della Bestia in Italia – nel volume intestato appunto a Fernando Pessoa e Aleister Crowley, La Bocca dell’Inferno, per i tipi di Federico Tozzi (Saluzzo, 2018). Cioè la prima raccolta organizzata, glossata e commentata in modo superbo dei documenti relativi alla vicenda, e che ci costringe a tornare indietro di parecchio tempo, rispetto alla scena con Susanna e al nostro precedente itinerario.

Nei primi decenni del Novecento, il Portogallo ha avuto vita turbolenta. Dopo la rivoluzione del 1910 che ha deposto l’ultimo re Manuele II si sono succeduti quarantacinque governi in gran parte controllati dall’esercito, fino al colpo di stato del 1926 che ha chiuso la prima repubblica, imponendo la dittatura militare del generale Carmona. A dare la spallata definitiva al governo repubblicano è stato il clamoroso scandalo del Banco de Portugal, 1925, orchestrato dal disinvolto affarista Artur Virgílio Alves dos Reis: la più clamorosa truffa mai perpetrata ai danni di una banca nazionale, e che ha impattato pesantemente sulle sorti del paese (la truffa, per intendersi, oggetto del grande sceneggiato nostrano Accadde a Lisbona del 1974, con Paolo Stoppa nei panni di Reis e un cast scintillante, diretto da Daniele D’Anza su sceneggiatura sua e di Luigi Lunari). Dunque tra vari balletti di cariche António de Oliveira Salazar è arrivato nel 1928 ai pieni poteri, riportando in pareggio il bilancio dello stato, inaugurando un regime all’insegna del motto “Deus, Pátria e Família” e fondando proprio nel 1930 l’União Nacional come braccio politico del governo. Ad avviare una politica di distensione ma insieme prudente distanza dai nazifascismi, considerati oltretutto impresentabilmente pagani.

Questa è la situazione in cui nel pomeriggio del 2 settembre 1930 il piroscafo britannico Alcantara attracca a Lisbona. A sbarcare è un Crowley cinquantacinquenne, un po’ appannato, con qualche acciacco e impoverito, sostenuto da discepoli a volte ingombranti o asfissianti, comunque segnato da una vita in cui non si è rifiutato nulla: ha alle spalle avventure infinite, come la fondazione nel 1904 della nuova religione di Thelema e l’esperienza 1920-23 della comunità magica a Cefalù chiusa per espulsione dall’Italietta fascista (cui dedica versi esilaranti). Al fianco ha l’ennesima amante, una bella diciannovenne dall’aria inquieta, la talentuosa artista Hanni Larissa Jaeger (per lui Anu o il Mostro, 1910-1933) dalla doppia cittadinanza tedesca e americana, perché la famiglia si è trasferita anni prima dalla Germania in California: l’ha incontrata solo poche settimane prima a Berlino dove lei, studentessa, organizzava una mostra all’accademia d’arte, ed è sbocciata una relazione rovente. Insomma, loro scendono sulla banchina e ad attenderli tra la calca, preavvertito con telegramma, è un omino miope coi baffi. Cioè il perplesso Pessoa (1888-1935), che quella visita – deve riflettere – se l’è un po’ andata a cercare.

Per capire di più apriamo il volume curato da Pasi. A un’introduzione a sua firma segue un ampio epistolario – più di centocinquanta pagine – di vari personaggi, tra i quali ovviamente i due protagonisti Pessoa e Crowley; più un mazzetto di articoli di giornale a documentazione del caso, che danno conto del suo impatto pubblico. Seguono: il testo di un romanzo poliziesco – una prima versione ancora schematica, ma tale da darci un’idea piuttosto precisa di dove si andasse a parare – maliziosamente scritto da Pessoa sulla sparizione di Crowley per assicurare ancora più pubblicità al caso (e per più agevole circolazione lo scrive in inglese, lingua che padroneggia perfettamente); un breve corpo di poesie legate a stretto filo alla vicenda; e infine una bella postfazione di Giuliano D’Amico (La vita come un’opera d’arte. Per una biografia letteraria di Aleister Crowley). Esaminiamo dunque i documenti di questa edizione ricchissima di note e bibliografia, forte di tutti i crismi del testo scientifico (evento non così frequente, in Italia, in volumi che toccano l’esoterismo novecentesco) ma godibilmente avvicinabile anche da un lettore non specialista.

Tutto inizia con una lettera di Pessoa (6 marzo 1917, quindi parecchio tempo prima) a tale Frank Hollings per ringraziare dell’invio di un “catalogo di libri sulle scienze occulte” e ordinare – lui che di soldi ne ha pochini in tasca – una copia del Book 777: un compendio di corrispondenze esoteriche curato appunto di Crowley ma anonimamente, e Pessoa ne ignora l’autore. Però l’ha ormai scoperto all’epoca della seconda lettera, dodici anni dopo (18 novembre 1929): e si rivolge stavolta alla Mandrake Press, la piccola casa editrice che sta varando una serie di opere di Crowley (tra cui il famoso Moonchild, edito appunto nel 1929), interessato ad acquistarne alcune. Pessoa, uomo di lettere imbevuto fino all’osso di esoterismo – pensiamo solo ai suoi esperimenti di scrittura automatica, alla mole di riferimenti esoterici nei testi noti e a tutti quelli nella massa di lavori interrotti oggi ancora in fase di studio – venera come martire l’ultimo gran maestro templare Jacques de Molay, vittima di Ignoranza, Fanatismo e Tirannia: dunque non può che essere intrigato da un uomo come Crowley, insieme occultista e poeta, profeta di un culto guardato con avversione da tutte le Chiese istituzionali (con la tara del caso, insomma, sulla fama dell’“uomo più malvagio del mondo”) e oltretutto vertice del templarismo esoterico dell’O.T.O., l’Ordo Templi Orientis. Inizia così uno scambio di lettere di natura commerciale e a un certo punto (4 dicembre 1929) il poeta chiede all’editore se può segnalare a Crowley un errore nell’oroscopo che lui si era confezionato. Il messaggio arriva a destinazione, e la Bestia risponde.

Lo stile è quello che ci si attende dalla solenne diplomatica epistolare dallo ierofante del culto di Thelema. In una lettera (11 dicembre 1929) che inizia ritualmente con “Care Frater, Fa’ ciò che vuoi sarà tutta la Legge” e termina con “Amore è la legge, amore sotto la volontà. Saluti fraterni, Το Μεγα Θηριον [appunto La Grande Bestia] 666”, Crowley spiega che sulla sua ora di nascita si è regolato un po’ a occhio in assenza di notizie davvero certe. Concede (bontà sua) che la supposizione di Pessoa è “abbastanza corretta”, del resto lui pratica poco l’astrologia; ma sarebbe lieto di ricevere “qualche informazione” d’oroscopo sulla sua “situazione attuale”.

Avviato così il contatto, Pessoa manda alla Bestia tre libretti di proprie poesie – alcune erotiche –  in inglese, suscitandone l’entusiasmo: Crowley è un poeta di qualche virtù, del resto riconosciute anche da critici di tutt’altro côté (come a suo tempo Chesterton, con minime riserve che avevano inaugurato un divertentissimo duello a distanza). Ma soprattutto – spiega la Bestia a Pessoa avvertendo della ricezione (22 dicembre 1929) – considera “l’arrivo delle sue poesie come un chiaro Messaggio, che sarei lieto di spiegarle di persona. Sarà a Lisbona nei prossimi tre mesi? Se così fosse mi piacerebbe farle visita”, con il giusto riserbo, e chiede di rispondergli a giro di posta.

Pessoa riceve però la lettera in ritardo, era fuori città, e gli scambi mostrano una serie di tergiversazioni interessanti. Ha bisogno di un preavviso – argomenta – perché potrebbe essere fuori Lisbona, preferirebbe vederlo a marzo e l’astrologia conferma che sarebbe un buon mese, potrebbe anzi andare lui stesso in Inghilterra anzi no, non ci riesce, appena può gli manderà l’oroscopo… eccetera. Si tratta di problemi reali, d’accordo; un po’ forse anche della resistenza di quest’omino metodico, a sua volta nella fase declinante della vita e ormai lontano dagli anni dell’attivismo intellettuale e di tante ambizioni, a lasciarsi sovvertire il trantran. Poeta immenso, caleidoscopicamente sfaccettato in una pletora di identità alternative sgomitanti come persone autentiche, e ormai ripiegato nel silenzio su un corpus di opere destinate a fama postuma, Pessoa è a sua volta un uomo appannato e dalla salute vulnerata: sbarca il lunario come collaboratore esterno di ditte commerciali e tiene a chiarire di essere “del tutto estraneo a ogni sorta di amicizia e a ogni tipo di intimità” (6 gennaio 1930). Forse anche per il contraccolpo dello stiracchiato rapporto con Ophelia Queiroz – Ofélia Queirós in grafia moderna –, che dopo una prima fase nel 1920 buferata dalla depressione, ha conosciuto un malinconico secondo tempo proprio tra settembre 1929 e gennaio 1930, a ridosso dei nostri fatti. I rapporti con Ophelia si ingarbugliano di nuovo, e la surreale presenza dell’eteronimo Álvaro de Campos come terzo incomodo – elementi di omosessualità? – contribuisce alla crisi.

Ma al di là del momento un po’ delicato sul piano personale, può esserci qualcosa di più specifico. Questo precisino che nelle lettere motiva minuziosamente ogni argomentazione, puntualizza ogni passaggio (come quando, 15 dicembre 1929, lui nazionalistissimo prega ironico la Mandrake “di chiedere al […] dattilografo di disannettere il Portogallo dalla Spagna”, dove l’intestazione della lettera precedente aveva collocato Lisbona) può essere anche un po’ preoccupato dell’incontenibile, ingestibile esuberanza del mago inglese che si autoinvita a Lisbona.

E che dal canto suo risponde ai tentennamenti. Direttamente o tramite il segretario Israel Regardie (1907-1985, altro personaggio di una certa nomea nella storia dell’esoterismo novecentesco, per aver poi pubblicato a proprio nome il materiale Golden Dawn coi suoi commenti, in flagrante violazione dei giuramenti di segretezza), Crowley si informa di una possibile venuta di Pessoa oltre Manica, spiega che sta manovrando per acquisire la piccola casa editrice Aquila Press (non ci riuscirà)… e a un certo punto annuncia con telegramma di essere “in arrivo su Alcantara prego incontrare” (28 agosto 1930). Plausibile che Pessoa vada ad accoglierlo (2 settembre), anche se tra bagagli e individuazione dell’albergo non c’è tempo per parlare. E così la Bestia invita il poeta (3 settembre) per l’indomani all’Hotel Paris di Estoril, nella pausa pranzo tra le ore votate al mare con Hanni. Ha molto da dirgli, spiega: “C’è in particolare il piano di mettere il Lavoro dell’Ordine [l’O.T.O.] su basi mondiali con una solida organizzazione”.

Non abbiamo una descrizione dell’incontro, ma possiamo immaginare Crowley tracimante che occupa tutto lo spazio possibile, Pessoa piccolo piccolo e un po’ interdetto, la bella Hanni – grande bellezza, fascino tormentato – che lo colpisce. Sul tavolo non c’è solo l’esoterismo: nei giorni successivi, grazie al poeta, Crowley conta di incontrare alcuni scacchisti portoghesi per qualche partita. Curiosissima è una lettera scritta direttamente da Hanni alla fine della settimana dopo (cioè domenica 14 settembre) lamentando che Pessoa non sia più venuto di persona e annunciando il loro arrivo a Lisbona per il giorno dopo: intendono incontrarlo. Perché è Hanni (Anu nella firma) a scrivere? Ovviamente funge da collaboratrice della Bestia, ma a Crowley non sfugge il maggiore appeal di una missiva dalla bella diciannovenne. Tanto più che tra l’incontro del 4 settembre e quello del 15 dev’essercene stato almeno un altro…

Peccato che in un messaggio successivo (17 settembre) Crowley spieghi – stavolta di persona – di essersi dovuto trasferire all’Hotel Miramar. “Ieri notte la signorina Jaeger ha avuto un violento attacco isterico, dando disturbo a tutto l’hotel”. La Bestia tende sempre a scaricare le motivazioni degli screzi sui furori delle partner (di volta in volta accusate di alcolismo, isterismo eccetera), ma sappiamo quanto sappia essere irritante: insomma non appare così strano che la passionale Hanni sia stata abbastanza accesa da ribaltare tutto. “È andata a Lisbona stamani, lasciando qui tutte le sue cose insieme a una nota in cui dice ‘torno presto’. / Ma se non tornasse presto, immagino che si dovrebbe chiedere alle autorità di fare delle ricerche”: e Crowley chiede a Pessoa di contattarlo, evidentemente si vedono. Però questa lettera è sincera o fa già parte del gioco sul presunto suicidio della Bestia abbandonata dall’amante, coi compari Aleister & Fernando che hanno preimpostato tutto nei giorni precedenti, compresa sfuriata di Hanni (simulata)? O il poeta viene incastrato solo ora nel gioco concordato da Aleister con Hanni? In realtà sembra che almeno il litigio sia stato autentico, Hanni furiosa ha chiesto l’aiuto del console americano per ripartire; poi con Aleister si sono rappacificati (il diario di lui tradisce in più punti un effettivo innamoramento), ma ormai la partenza della ragazza è decisa e concordano per raggiungersi in Germania. Proprio la non prevista sfuriata sembra insomma innescare il piano che Crowley concorda ora con Pessoa, avviando una delle beffe più celebri di tutta la storia moderna. Perché darsi tanta pena?

Il fatto è che Crowley ha bisogno di nuova visibilità, di pubblicità per rilanciare la sua immagine. Sa di non essere più l’uomo degli anni d’oro, si confronta con acciacchi e debitori incalzanti: la piccola Mandrake Press ha investito su di lui, ma non basta, e la beffa potrebbe riportarlo sulle pagine dei giornali con un prezioso ritorno di attenzioni sulla sua produzione editoriale. E anche pittorica, perché il mago ora sta puntando parecchio su quella vocazione scoperta da non troppi anni, e l’importante galleria di Karl Niederdorf di Berlino si prepara a un’esposizione dei suoi lavori. Poi certo la beffa soddisfa insieme il suo carattere birichino e la provocazione di paradosso e ironia insita nel suo magistero. E Pessoa? Offre volentieri una mano a un frater e l’idea della finzione, dello sberleffo è più che congeniale all’uomo che vive e gioca attraverso eteronimi: se poi è dubbio che i riflettori della stampa gli interessino in quanto tali – il suo ruolo in fondo resta marginale, da fiancheggiatore – la situazione potrebbe vedere anche per lui sviluppi editoriali interessanti.

Infatti è iniziata nel frattempo una buffa “commedia degli equivoci” (come la definisce opportunamente Pasi). In seguito ai dialoghi con la Bestia, Pessoa ha inviato alla Mandrake Press (12 settembre) una serie di proposte. Suggerendo testi portoghesi “insoliti e sconosciuti” da editare in inglese; caldeggiando di istituire una succursale dell’editore in Portogallo dove alcune lavorazioni sarebbero più economiche, e in cui plausibilmente si vede già coinvolto; ed evidenziando che si potrebbe sviluppare anche un catalogo in lingua lusitana. Per Pessoa è insomma implicito che i soldi dovrebbe metterceli la Mandrake. Ma è a questo punto che arriva (18 settembre) l’educata risposta del presidente della casa editrice, tale R. Thynne. Prendendo tempo sui titoli suggeriti, l’editore fraintende – o gioca a fraintendere – l’idea sulla succursale, prospettando allo (squattrinatissimo) poeta di assumere in loco il ruolo di rappresentante azionista come è Karl Germer in Germania, e grazie al quale la Mandrake può pubblicare in Inghilterra Alfred Adler e Alraune di Ewers. Per loro è implicito che a mettere i soldi sia Pessoa.

La commedia continua con Germer (1885-1962, altro nome notissimo dell’esoterismo novecentesco, che alla morte di Crowley diverrà capo dell’Ordo Templi Orientis) che invia a Pessoa copia del prospetto della “Aleister Crowley Ltd” (25 settembre), spaziando dagli scritti alla pittura agli sviluppi teatrali e cinematografici. Germer è un uomo d’affari, è stato anche editore, e (di nuovo) considera Pessoa interessabile come socio. Mentre il poeta, come già nei dialoghi con Crowley, prende a citare negli scambi un fantomatico finanziatore il cui nome resta sempre sconosciuto, e che vi torna di continuo come Convitato di pietra: molto promettente nell’ottica della Bestia e di Germer, molto sfuggente dal lato di Pessoa che sembra considerarlo non più di una mera ipotesi (o almeno così sosterrà l’anno dopo).

Intanto Crowley ha confezionato il farlocco messaggio di addio (quello evocato in Tutto quel nero e in effetti oggi presente in loco con una targa memoriale: “An[no] I4, ☉ in ♎ / Non posso vivere senza di te. L’altra ‘Boca do Infierno’ mi avrà. Non sarà mai ardente quanto la tua. / Hjsos. / Tu Li Yu”) e ne spedisce prontamente copia al poeta con istruzioni. La data espressa in termini astrologici indica a rigore il periodo di Sole in Bilancia dal 23 settembre al 23 ottobre: dal diario di Crowley sappiamo però che il messaggio viene scritto il 21 settembre – col Sole ancora in Vergine – e quindi lo sta postdatando. Da rilevare l’uso del termine Infierno e non Inferno come in portoghese, perché Crowley conosce meglio lo spagnolo; e il criptico “Hjsos”, “una misteriosa parola magica cifrata che solo lui e lei capivano” (così spiega, in terza persona, il biglietto di Crowley a Pessoa) è stato decifrato credibilmente come un acrostico per “Hanni Jaeger Save Our Souls”. Quanto a “Tu Li You”, presentato poi da Pessoa (su istruzione di Crowley) come nome di una precedente incarnazione cinese del suicida, rinvierebbe beffardo al saluto londinese d’epoca “Toodle-oo”. Ma a parte questi dati tecnici, il biglietto della Bestia a Pessoa ricorda tre punti sostanziali, cioè la convinzione che lo scoop sulla sua scomparsa porterà ottimi profitti (“£200 solo di diritti per l’America”), la proposta o piuttosto l’incitamento al poeta a scrivere una storia romanzata sulla scomparsa del mago, e il promemoria importante che la Boca do Inferno non restituisce i corpi lì inghiottiti dal mare. Ciò a giustificare la completa sparizione del suicida per amore…

“Lettera portasigarette identificati di Crowley ritrovati venticinque sera luogo costa detto Bocca Inferno polizia ancora indaga dubbio suicidio ma per ora niente certo scrivo”, così il telegramma (1 ottobre) di Pessoa a Germer. Ovviamente non seguiamo passo passo tutti gli scambi, e si rinvia all’intrigante documentazione, con gente preoccupata che contatta Pessoa alla notizia immediatamente dilagata, e lui che risponde solo dietro autorizzazione della polizia giudiziaria, raccontandone lo sconcerto. Mentre gli interessati vengono rassicurati per altra via dal “sig. Hyde”, cioè lo stesso Crowley.

Il portasigarette è un oggetto (all’epoca) abbastanza comune per un gentiluomo, e insieme piuttosto personale e connotante: ma va detto che ai cultori di polizieschi potrebbe suggerire qualcosa in più. Il 7 luglio (sempre 1930) è morto Sir Arthur Conan Doyle, e non sembra casuale che pochi mesi dopo Crowley pensi di lasciare alla Boca ciò che proprio il grande eroe doyliano aveva lasciato scomparendo a sua volta – solo in apparenza – in un altro abisso d’acque. Ne Il problema finale, 1893, Watson rinveniva infatti di fianco allo strapiombo della cascata di Reichenbach, a parte il bastone da montagna di Holmes (che alla Boca sarebbe stato proprio di troppo), il suo portasigarette d’argento con il messaggio virtualmente ultimo. Virtualmente: perché è vero che, scrivendo quel testo, Doyle aveva inteso far morire davvero Holmes, ma a distanza di anni si era risolto a farlo tornare, spiegando il tutto come una morte simulata. Ed è divertente che proprio quel Crowley che gli autori di apocrifi sherlockiani contrapporranno con una certa frequenza all’Arcidetective giochi a scomparire allo stesso modo.

Almeno per un po’ di tempo, cosa sia successo a Crowley non è affatto chiaro, il suicidio è una semplice possibilità: la polizia resta perplessa sull’assenza del corpo, alla Mandrake ricordano un po’ stizziti che Crowley è un burlone… Ma Pessoa, nel ruolo di massimo esperto portoghese di cose crowleyane e di interlocutore dello scomparso proprio nei giorni fatali – insomma il classico “Io lo conoscevo bene” in grado d’interpretare l’enigmatico biglietto ultimo –, si offre sornione al gioco, dicendo e non dicendo, ipotizzando e ammiccando, da consumato teatrante. Interrogato dalla polizia insieme all’amico giornalista Augusto Ferreira Gomes (1892-1953, pure interessato all’esoterismo, sodale di Pessoa fin dall’antica militanza nella rivista Orpheu, 1915, e ora divertito complice) che ha trovato casualmente portasigarette e messaggio, riesce a confondere ancora di più le idee degli inquirenti. Oltretutto Crowley sembrerebbe aver passato la frontiera la sera del 23, ma il controllo dei passaporti è così superficiale… E i giornali si lanciano sul caso a partire dal Diário de Notícias – secondo Pessoa, “il Times portoghese” – che ne parla fin dal 27 settembre, accendendo la miccia alla falsa notizia.

L’impatto del caso sulla stampa – prima in Portogallo, poi quella internazionale – è in effetti notevole, anche se non quanto Crowley sperava: in ogni caso la rassegna raccolta nel volume ci permette di condividere il divertimento dei due burloni. L’articolo “Uno strano caso” (appunto Diário de Notícias 27 settembre) spiega come il collega Ferreira Gomes in visita alla Boca il giorno prima avesse ritrovato il portasigarette col messaggio: Crowley diventa nell’articolo nientemeno che il “Capo del controspionaggio inglese in America durante la guerra”. “Uno strano caso” continua sulla stessa testata il giorno dopo con il resoconto della consegna dei reperti alla polizia, la strana notizia che Crowley avrebbe passato la frontiera ma senza la sua accompagnatrice, e il cenno sulla collaborazione di Pessoa alle prime indagini. Se questi due pezzi non appaiono firmati, il successivo “Il mistero della Boca do Inferno” (O “Notícias” Ilustrado 5 ottobre) lascia invece la parola a Ferreira Gomes che riprende diffusamente il tutto… Ma contemporaneo è un messaggio (5 ottobre) a Pessoa di Crowley: si trova con Hanni da Germer a Berlino, frequentano Aldous Huxley e il giornalista e scrittore J.W.N. Sullivan. Spiega allegro:

 

Non ho scritto prima. Gli eventi si sono succeduti così in fretta da farmi pensare che sarebbe cambiato tutto prima che lei ricevesse la mia lettera.

Ora che il mio corpo è stato ritrovato – non ho dettagli al riguardo – mi sento più tranquillo.

Devo dire che lei ha gestito la faccenda dannatamente bene! Il prossimo passo è – se avete qualche medium famoso lì a Lisbona – ricevere un messaggio dall’Illustre Estinto. Sto provando a far questo a Londra, a Berlino e negli Stati Uniti. Poi, al momento giusto, sveliamo ogni cosa. Da una parte faremo ridere tutti e poi daremo una bella spinta alla Ditta.

 

Quanto ad Hanni “mi chiede di mandarle i suoi saluti affettuosi”; ma in calce la Ragazza Scarlatta aggiunge di persona un curioso post scriptum che deve far arrossire Pessoa, “Penso che lei sia meraviglioso”. Una successiva lettera di Hanni a Pessoa (14 ottobre) risulta ancora più confusiva: simula ironicamente soddisfazione per la fine dello “spregevole furfante” la cui ultima lettera vorrebbe però portare sul cuore fino alla morte – notiamo lo sberleffo sul melodramma – e chiude maliziosamente “A sua disposizione per ogni servizio e conforto”. Dunque certo, ironia (che Pessoa finge di non rilevare nel messaggio 18 ottobre a Ferreira Gomes, però sta simulando nel solito gioco di disinformazioni incrociate nel caso che la posta – come saltuariamente avviene – passi al vaglio della polizia): ma perché il gioco di provocazione erotica al poeta da parte di Hanni? Probabilmente si tratta di un semplice scherzo privato, innescato da battute degli incontri di Lisbona, ma forse rafforzato – come vedremo – da qualche intrigante elemento aggiuntivo. Il gioco al romanzesco continua comunque in un ulteriore messaggio di Hanni (30 ottobre), dove finge d’ipotizzare che Aleister Crowley fosse in realtà due persone diverse, il gemello cattivo ucciso e il morigerato Edward Alexander (effettivo nome di battesimo di lui): “Ma allora… quale dei due ho amato?”. Un tema del doppio del tutto congruo al dialogo con il già indefinitamente multiplo Pessoa, i cui eteronimi mostrano vere e proprie personalità alternative.

Comunque il poeta si mostra efficientissimo. Si occupa di problemi burocratici ed economici del sodale Ferreira Gomes che sta per sposarsi a Parigi; fa pervenire ai vari interlocutori traduzione degli articoli portoghesi sul caso e notizie di quelli apparsi in Francia; spedisce un oracolo astrologico da lui approntato per prevedere gli sviluppi, nonché notizie generali, come sull’arrivo di investigatori inglesi a indagare. Anche se accenna soprattutto a uno, che si rivelerà il personaggio del suo romanzo in preparazione, un po’ nello stile (lettera a Germer 24 ottobre, ma il cenno torna anche altrove) dei polizieschi al tempo molto noti di Freeman Wills Crofts. In effetti il caso sta assumendo risvolti sempre più improbabili: come informa Regardie (17 ottobre, cfr. l’articolo sul caso dell’Oxford Mail, 15 ottobre), a detta di un medium e con ampio clamore giornalistico in Inghilterra, “666 sarebbe stato spinto giù da una scogliera in Spagna o in Italia da nemici appartenenti alla Chiesa Cattolica o alla Massoneria e il suo corpo non sarà mai ritrovato”. A sua volta Pessoa confida il fastidio che questa storia avrebbe dato a non meglio identificate “persone cattoliche” (sempre a Germer, 20 ottobre)… Dalla prima versione del suicidio d’amore la trama del romanzo apre ora all’idea dello scomodo Crowley assassinato da misteriosi nemici, della sua sostituzione sul treno verso la frontiera con un prestanome in modo tale da farlo credere vivo, e persino dell’uccisione di un taxista scomodo testimone. Ma il 27 ottobre da Londra Regardie ammette la difficoltà di tener desta l’attenzione sul caso, tanto più che ormai i giornali subodorano la messinscena; e il 18 novembre accenna che la Mandrake Press rischia di finire in liquidazione volontaria.

D’altra parte lo stesso Pessoa si è chiuso in questo periodo in un lungo silenzio che mette in fibrillazione gli interlocutori. Problemi di salute e non solo, spiegherà poi a Germer (3 dicembre), tuttavia non sterili perché ha avuto tempo di maturare un diverso sviluppo del romanzo. Crowley, incalzato dai nemici (sempre come Holmes dai sicari di Moriarty), non suicida né assassinato, avrebbe fatto fuggire Hanni per sottrarla al pericolo e inventato un arzigogolato sistema per allontanarsi, grazie a un proprio sosia e a un sosia (guarda caso) di Pessoa. Mentre lui col poeta resta visibile a testimoni in un certo caffè… “Naturalmente sarebbe un’ottima cosa se la riapparizione della figura centrale della storia non avvenisse prima dell’uscita del libro ma, come ho detto, la storia è stata concepita in modo tale da essere completa in se stessa e da potersi comunque adattare alla realtà”. Il romanzo, raccolto nel volume a cura di Pasi con tanto di varianti, figura infatti come narrato dal detective (con datatio “Barcellona, dicembre 1930”): e più che vicenda di eventi si allarga via via elusivamente quale vicenda di ipotesi, tra doppi in allegra circolazione e geniali strategie di confusione del lettore, con non rari ammiccamenti ai romanzi polizieschi. Vi compare naturalmente anche Pessoa, come personaggio interpellato dal detective, sostenendo a un certo punto che “Ci vuole un uomo forte per essere due uomini” e prendendo un po’ le misure a Crowley in quello che giustamente Pasi considera “il nucleo nascosto del romanzo”. In qualche misura rivelativo del pensiero di Pessoa sul mago.

A riscontro giunge a Pessoa una lettera scherzosa di Crowley e Hanni (14 dicembre), recante sia elementi per confondere le acque, sia qualche notizia concreta come il fallimento della Mandrake e la necessità di acquistare i volumi del loro magazzino: interessante è che la Bestia firmi come Benjamin Q. Knickerbocker, scelta di un nome non casuale. Richiama infatti il fantomatico storico olandese Diedrich Knickerbocker, presunto autore di A History of New-York from the Beginning of the World to the End of the Dutch Dynasty (1809): la sua misteriosa scomparsa da un albergo newyorkese, con tanto di Chi l’ha visto? sui giornali prima dell’uscita del volume, era stata in realtà funzionale a favorirne il lancio con un sistema di marketing virale. Il vero autore era Washington Irving alla sua prima prova di successo. Di nuovo dunque la storia di una sparizione farlocca, e di nuovo motivi di profitto editoriale…

Crowley scrive ancora più avanti, premendo per il romanzo e per un oroscopo di Pessoa (4 gennaio 1931) ma anche per il famoso finanziatore mai apparso (1 febbraio): e il poeta alla fine risponde (10 febbraio) accusando un proprio misterioso torpore interiore. Il romanzo non è più di attualità ma potrebbe venirne un buon testo, mentre sul finanziatore l’ipotesi gli pare tramontata e proverà senza troppe speranze con un’altra persona. Comunque (aggiunge, 13 febbraio) circola sui giornali la rivelazione del medium circa l’omicidio di Crowley da parte di un agente della Chiesa cattolica: e l’articolo non firmato del 16 dicembre sul Girasol “Aleister Crowley è stato assassinato?” è stato nei fatti scritto da Pessoa.

La risposta della Bestia (22 febbraio), è divertita. Ma a deliziare Hanni – che scrive la prima parte del messaggio – e il suo ingombrante partner è anche un altro motivo, la lettura del libro Ride the Nightmare di Ward Greene: Pessoa l’ha letto?

 

Offre una bella caricatura del mio grande Satana e un ritratto fedele di un uomo e sua moglie, persone che A[leister] C[rowley] conosce. Da allora ogni tanto lo chiamo “pasticcio d’agnello”.

 

Il cenno è gustoso e merita una parentesi. Ward Greene (1892-1956), scrittore, giornalista, drammaturgo, editore popolare, è forse oggi più noto per aver scritto la storia alla base del cartone animato Disney Lilli e il vagabondo; ma ha varato solo un altro romanzo (di buon successo, Cora Potts, 1929), quando pubblica il torbido Ride the Nightmare, 1930. Il protagonista è modellato sul profilo di un suo amico, William Seabrook (1884-1945), figura abbastanza inquietante di viaggiatore, scettico ma ossesso dall’occulto, cultore compulsivo di quello che oggi si chiama bondage nonché (almeno una volta) cannibale, noto tra l’altro per aver sdoganato nell’immaginario pop americano il tema dello zombie con i suoi racconti sul Vudù haitiano nel saggio The Magic Island (1929: generalmente si considera quale primo film sul tema quel White Zombie/L’isola degli zombies di Victor Halperin con Bela Lugosi, 1932, ispirato appunto al libro). Ride the Nightmare figura a volte con il titolo alternativo Life and Loves of a Modern Mister Bluebeard appioppatogli nel 1949, che già può dirla lunga sul tipo di protagonista: Jake Perry è un artista e non uno scrittore, ma il ritratto è quello spiccicato di Seabrook con il suo sadomaso, il bere, le insicurezze… e lui non se la prende. Più perplessa la critica: a detta del Saturday Review of Literature, “un libro come Ride the Nightmare potrebbe fare di più per riconciliare i lettori con la censura di cinquanta libri che la sostengono”.

Ciò detto, Seabrook è amico anche di Crowley, che in Ride the Nightmare compare come figura minore (ecco di cosa parla Hanni) con il nome di Bellerophon Cawdor. Sembra che Crowley e Seabrook si siano conosciuti a un pranzo presieduto dal giornalista Frank Harris (1855-1931, quello dello scandaloso e censuratissimo memoir My Life and Loves, edito tra il 1922 e il 1963): e nell’autunno 1919 la Bestia ha passato una settimana nella fattoria di Seabrook in Georgia indulgendo a riti sessuali con Katie, prima moglie del consenziente padrone di casa. Tra l’altro hanno condotto un bizzarro esperimento di comunicazione tra loro – a variazione del voto di silenzio del trappisti – usando soltanto la parola “wow”, episodio che ispirerà l’unica novella di Seabrook, dal titolo appunto “Wow” (1921, una fantasia su cosa accadrebbe ad abolire il linguaggio umano). Più tardi, in Witchcraft. Its Power in the World Today (1940), Seabrook parlerà della sua amicizia con Crowley, che l’ha colpito tanto da piacergli fin al primo incontro: e lo descrive come “uno strano tipo disturbante, dal pesante atteggiamento pontificale mischiato a una buona dose di humour furbo, scimmiesco e a volte malizioso”. Sembra probabile che il titolo Ride the Nightmare (romanzo, ricordiamolo, del 1930) possa ispirare quello di un altro romanzo apparso poco dopo, in cui proprio su Crowley è modellato il vilain, cioè The Devil Rides Out di Dennis Wheatley, 1934.

Ma torniamo alla corrispondenza con Pessoa, il cui entusiasmo per la faccenda della Boca do Inferno sembra evaporato e che torna dunque alla propria penombra. Nel paese dove Alves dos Reis sta scontando la sua truffa/beffa/finzione con vent’anni di galera (condannato nel 1930, riuscirà a uscire in effetti nel 1945), sul tema del fingere Pessoa sta continuando a riflettere. Come scrive in Autopsicografia, pubblicato 1º aprile 1931:

 

Il poeta è un fingitore.

Finge così completamente

Che arriva a fingere che è dolore

Il dolore che davvero sente.

 

Segue un lungo silenzio. Dopo l’estate Crowley da Berlino (18 settembre) chiede a Pessoa cosa sia accaduto, informandolo che il Mostro “è sparito – con sollievo di tutte le parti – 6 mesi fa”. Al di là di una certa instabilità di Hanni – dalla vita interiore effettivamente sofferta –, è un fatto che proprio quello sia un elemento caratteriale ricorrente delle donne al fianco di Aleister, causa (nel senso di occasione e prerequisito) ma poi anche conseguenza di rapporti con un partner devastante come lui. E a un certo punto la fuga diventa inevitabile.

Pessoa risponde scusandosi (5 ottobre), e spiega la propria inerzia con ragioni astrologiche: per il resto, i finanziatori si sono dissolti, la pubblicazione della sua traduzione in portoghese dell’Inno a Pan di Crowley sulla rivista Presença (un’altra delle varie questioni sul tavolo) è stata rimandata, si trova in rovinoso ritardo sia sull’oroscopo che sul romanzo… Ma la Bestia comprende che qualcosa si è ormai sfilacciato: scriverà ancora (29 novembre e – con lettera circolare – 21 marzo del successivo anno 1932), poi il contatto si interrompe. Anche Pessoa continuerà a distanza a cercare notizie della Bestia e comunque a ragionare – anche criticamente – sulle sue categorie esoteriche.

Ma, a proposito di poesie: oltre all’epistolario, alla rassegna stampa e alla prima versione del romanzo (che Crowley non vedrà mai), l’edizione a cura di Pasi riporta come detto anche alcune liriche con testo originale, cioè la bellissima L’ultimo sortilegio di Pessoa inviata a Crowley, appunto l’Inno a Pan volto da Pessoa in portoghese, e Canzone assurda di Ferreira Gomes dedicata alla Bestia. Però a precederle tutte figura un’altra poesia di Pessoa, che fa riflettere: perché Dà la sorpresa di essere (tale il titolo attribuitole) sembra parlare di Hanni. In termini affascinati, eleganti, ma insieme eroticamente espliciti, e rivelativi della profonda impressione suscitata da questa inquieta diciannovenne. Inizia:

 

Dà la sorpresa di essere

È alta, di un biondo scuro.

Fa bene anche solo pensar di

Vederne il corpo mezzo maturo.

 

Passa poi a decantarne i seni, la mano, il braccio, il fianco, e termina con la quartina:

 

Invoglia come una barca

Assomiglia a uno spicchio d’arancia.

Mio Dio, quand’è che m’imbarco?

Ah, fame! Quand’è che io mangio?

 

Stavolta l’ironia – come nelle lettere un po’ ammiccanti di Hanni – lascia spazio a qualcos’altro: e può persino sembrare strano che Pessoa se ne esca in commenti tanto espliciti sul fascino erotico della compagna del frater. È pur vero che la ragazza descritta non viene mai chiamata per nome. Però, noi sappiamo che durante il soggiorno a Lisbona Crowley ha organizzato il 9 settembre 1930 un rituale di iniziazione cui partecipa certamente Raul Leal, amico di Pessoa, ma anche ragionevolmente quest’ultimo: e Pessoa in seguito dichiarerà – guarda caso – di essere iniziato a un ordine templare (l’Ordo Templi Orientis?). La stessa ricezione dell’ultima lettera inviatagli da Crowley (21 marzo 1932), un messaggio circolare normalmente trasmesso a ogni cadenza equinoziale agli iniziati dell’A∴A∴ – un’altra delle organizzazioni esoteriche gestite dalla Bestia –, avallerebbe l’ipotesi di un’iniziazione (anche se in tal caso molte altre comunicazioni analoghe avrebbero dovuto far parte dell’epistolario: sono state distrutte?). Il fatto comunque che Dà la sorpresa di essere sia scritta il 10 settembre 1930, cioè il giorno dopo il rituale citato offre una luce particolare al collegamento con Hanni. Considerando le connotazioni magico-sessuali dei riti crowleyani e il ruolo che Hanni deve avervi svolto (non necessariamente estremo ma simbolicamente trasparente), possiamo capire meglio cosa Pessoa possa aver visto, forse sperimentato, e cosa si sia sentito autorizzato a sognare.

Poi, come la truffa/beffa di Alves dos Reis ha finito con l’avere ricadute devastanti di più ampio contesto (la fine della repubblica, l’ascesa della dittatura militare), anche il caso della Boca do Inferno ha proiettato ombre lunghe impreviste, tragiche. Aleister esprimeva preoccupazione per Hanni nel messaggio a Pessoa a inizio beffa (17 settembre 1930), poi fingeva d’essersi suicidato: ma pochi anni più tardi, nel marzo 1933, lei si ucciderà davvero, ventiduenne, con overdose di morfina nella propria camera all’Hotel Alhambra di Palma di Maiorca. Pessoa morirà altri due anni dopo, nel 1935, solo quarantasettenne, travolto dai soliti problemi al fegato. Un’ampia percentuale della sua opera resta incompiuta, come il romanzo atteso invano da Crowley.

Le precedenti puntate di Sex and the Magic sono qui, qui, qui e qui.

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