esilio – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 17 Aug 2025 20:00:38 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 “Straniero, è finalmente giunto il momento di incontrarci da stranieri nella stessa epoca?” https://www.carmillaonline.com/2018/07/30/straniero-e-finalmente-giunto-il-momento-di-incontrarci-da-stranieri-nella-stessa-epoca/ Mon, 30 Jul 2018 20:01:24 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=47576 di Giacomo Marchetti

Quella che segue è un’intervista a Silvia Moresi, traduttrice e curatrice di Undici pianeti, scritto da Mahmud Darwish, uno dei più importanti poeti del Novecento, nel 1992. Un lavoro, forse, tra i più completi del poeta palestinese, legato a una data chiave per la storia araba e mondiale, il 1492 anno della scoperta dell’America e della definitiva espulsione di musulmani ed ebrei dall’Andalusia, pubblicato quest’anno da Jouvence.

L’ultimo componimento di “Undici Pianeti”, “Un cavallo per lo straniero (a un poeta iracheno)” è per certi versi una poesia profetica, perché [...]]]> di Giacomo Marchetti

Quella che segue è un’intervista a Silvia Moresi, traduttrice e curatrice di Undici pianeti, scritto da Mahmud Darwish, uno dei più importanti poeti del Novecento, nel 1992.
Un lavoro, forse, tra i più completi del poeta palestinese, legato a una data chiave per la storia araba e mondiale, il 1492 anno della scoperta dell’America e della definitiva espulsione di musulmani ed ebrei dall’Andalusia, pubblicato quest’anno da Jouvence.

L’ultimo componimento di “Undici Pianeti”, “Un cavallo per lo straniero (a un poeta iracheno)” è per certi versi una poesia profetica, perché parlando della “prima guerra del Golfo”, tratta di una delle tappe più significative della fine del mondo bipolare e dell’avvio di tendenza alla guerra che tutt’ora continua permane. La poesia sembra “annunciare” ciò che sarà una sequenza di fatti tragici che continuerà, dopo questa prima tappa, con l’aggressione e l’invasione a guida nord-americana dell’Iraq nel 2003 e più recentemente con il periodo di massima estensione dell’ISIS (o Daesh).

La guerra, così come l’esilio, e il rapporto con un passato che accompagna costantemente il flusso storico sono fortemente presenti qui come in tutta la raccolta, e nell’intera opera.
C’è un verso che colpisce particolarmente tra gli altri: Amico mio siamo mai riusciti a distinguere tra vista e visione? In cui è rinchiuso il significato della poesia, o meglio di questa “alterazione percettiva” che è connaturata all’utopia poetica, e che sembra stagliarsi sopra le disgrazie belliche. Puoi parlarci di come “questa” sindrome caratterizza l’opera di Darwish, e si ritrovi in Undici Pianeti?

Non è un caso che Un cavallo per lo straniero (a un poeta iracheno) sia il componimento che chiude l’opera; era il 1992 quando Darwish compose Undici Pianeti, e l’Iraq, appena devastato dalla prima guerra del Golfo, rappresentava il nuovo collasso della Storia araba, iniziato in Andalusia, ma soprattutto l’ennesimo e ultimo cimitero dell’umano.
L’intera raccolta è caratterizzata da un flusso storico circolare, tragedie e devastazioni si ripetono in spazi e tempi lontani, ma i protagonisti cambiano, le vittime diventano aggressori e viceversa, sono la distruzione e la morte ad essere identiche sempre e ovunque. È in questo senso, forse, che quest’opera di Darwish può dirsi profetica e ammonitrice. Il poeta palestinese è riuscito a fare in modo che, ad esempio, leggendo dell’esilio di Arabi ed Ebrei dall’Andalusia, o del genocidio dei nativi americani, ritrovassimo tracce di una tragedia, quella palestinese, avvenuta quasi cinquecento anni più tardi, e che, leggendo “dell’Iraq assassinato”, ci venissero in mente tutte le altre guerre e brutalità che in questi anni si sono succedute e moltiplicate, e alle quali Darwish, morto nel 2008, non ha nemmeno assistito. Il poeta palestinese racconta così non una tragedia specifica, ma la tragedia umana che sembra non aver fine, e in cui tutti siamo coinvolti. Come spezzare il cerchio di questa lunga sequenza di morte? È qui che entra in scena la poesia, un luogo utopico. Darwish sapeva bene che la poesia non è in grado cambiare il mondo, ma credeva che, forse, raccontando le cose semplici, i sentimenti, e rivolgendosi all’identità umana e non a quella nazionale e ideologica, la poesia potesse avvicinare le persone, svuotando di significato una parola come “straniero”, concetto purtroppo molto attuale nell’Italia di oggi.
La poesia di Darwish è “casa” e “patria” per milioni di esuli palestinesi, è tomba per milioni di vittime, è lapide che racconta di queste vittime dimenticate dalla Storia, è rifugio dalle violenze e dalla disumanizzazione. La poesia non è una pavida fuga dal mondo, ma il luogo nel quale ristabilire le priorità, io stessa, di frequente, mi trovo a dover chiedere asilo alla poesia quando sento che la realtà, inevitabilmente, sta corrodendo la mia umanità.

La battaglia contro l’oblio è uno delle finalità poetiche di Mahmud Darwish, come di tutto il Movimento di Liberazione Palestinese, un antidoto a ciò che un giorno disse Golda Meyer a proposito della Catastrofe palestinese (Nabka) del 1948: «i vecchi moriranno, i giovani dimenticheranno». Darwish non si presta a nessuna operazione di “invenzione della tradizione”, ma rivisita il passato, intreccia le storie gemellari di più popoli, con la consapevolezza che la narrazione è l’antidoto alla rimozione per esempio della questione del “diritto al ritorno profughi”, questione per cui tra l’altro romperà con l’OLP in seguito ai contenuti degli Accordi di Oslo che escludevano questa storica rivendicazione.
In ultima sera di questa terra, l’Andalusia è più una metafora a cui potrebbero adattarsi vari contesti, quasi la condizione umana stessa, e sembra essere la prima e propria vera “cesura” della storia araba, l’inizio di un ciclo verso cui indirizzare la propria attenzione. Come interpreti i versi finali del componimento: Dov’era l’Andalusia? Qui o lì… Sulla terra… o in una poesia? Che apre la raccolta e contribuiscono a dare la cifra di tutti gli altri componimenti.

La geografia e la Storia del popolo palestinese sono state distrutte, materialmente dalla rampante colonizzazione israeliana, che prosegue ancora oggi con la costruzione di nuovi insediamenti, ma anche dalla retorica del movimento sionista che, attraverso un sistema ben progettato di narrazione distorta, negazione e interdizione della realtà, ha tentato di rendere “invisibili” i palestinesi, degli “assenti”, dei fantasmi. La Storia la scrivono i vincitori, la letteratura, invece, è spesso il “megafono” delle vittime e degli sconfitti. Tutta l’opera di Mahmud Darwish, e in particolare Undici Pianeti, rappresenta, assieme al resto della letteratura palestinese, una “resistenza culturale”, la resistenza di cui questo popolo ha più bisogno per non soccombere ad un tragico “memoricidio”. Soprattutto in Una pietra cananea nel Mar Morto e in Sceglieremo Sofocle, Darwish scava nel passato del popolo palestinese per riappropriarsene, e riporta alla luce quei “nomi” che furono cancellati attraverso il processo di riebraizzazione della terra. La realtà fu resa irriconoscibile per i palestinesi che diventarono così, per un fantasioso capovolgimento della realtà, una comunità che “non era più al suo posto”.
La Palestina era già stata “scritta” prima del sionismo, così affermava il grande poeta palestinese; Israele, da settant’anni, porta avanti un violento progetto di “sovrascrittura”, ma la Palestina è sempre lì con le sue pietre, i suoi ulivi e le sue storie, basta scavare un po’, gli scrittori e i poeti palestinesi la riporteranno sempre alla luce.
Darwish non risparmiò mai critiche alla dirigenza dell’OLP, soprattutto dopo la beffa degli Accordi di Oslo, e non credo che oggi sarebbe più clemente, anzi. In una situazione di totale smarrimento politico e offuscamento di obiettivi, come quella che si vive oggi in Palestina, poter ascoltare ancora la voce e il pensiero di un intellettuale come Darwish sarebbe stato essenziale; ma la sua morte è stata un’enorme perdita per il mondo intero, popolato ultimamente da troppi ciarlatani.
I versi di Ultima sera su questa terra che tu citi, si riferiscono, invece, a mio parere, a quell’eden perduto che fu l’Andalusia, ma anche la Palestina prima del sionismo, cioè il luogo della coesistenza pacifica tra Arabi ed Ebrei, che oggi, purtroppo, sembra non essere mai esistito nel mondo reale, ma solo in qualche poesia.

La cacciata di Arabi ed Ebrei dalla penisola iberica è una tragedia che accomuna il destino di due popoli di un luogo in cui, come nella Palestina Storica, la convivenza era uno stato di fatto e non un anelito, e di cui la Storia non può essere cancellata: non ero un narcisista, ma difendevo la mia immagine nello specchio è uno dei versi d’apertura di Un giorno siederò sul marciapiede. La matrice comune della Storia è difesa e rivendicata come un terreno di conflitto rispetto ad una ricostruzione che vuole “eliminare” la presenza d’altro, legittimando la propria politica di potenza. Ma oltre il fare riemergere la storia è nell’“erranza”, il perdersi nell’altro sembra esserci che sembra celarsi la possibilità di trovarsi: Camminavo verso il me stesso racchiuso negli altri, ed eccomi qui, smarrisco me stesso e gli altri, scrive in Chi sono io… Dopo la notte della straniera. Questa è la fonte di una identità in divenire in dialettica con l’altro che sembra essere l’unica soluzione per l’umanità sofferente, non solo per il popolo palestinese. Puoi parlare di come questa identità non statica e ripiegata su sé stessa viene sviluppata nel corso della raccolta?

Sul finire del 1800, l’identità palestinese si stava formando mescolando le sue diverse appartenenze: araba, ebraica, islamica, cristiana, ottomana, familiare, tribale etc. L’arrivo del sionismo bloccò questo naturale processo, negando l’esistenza della Palestina e del suo popolo, che fu poi frammentato dopo la nascita dello Stato di Israele.
Mahmud Darwish sapeva bene che sulla sua terra erano passate innumerevoli culture, e rivendicava il diritto di potersi identificare con tutte le voci risuonate in Palestina; ma l’altro, il sionismo, Israele, condannano ancora oggi i palestinesi ad essere degli “stranieri”, rivendicando il “monopolio dell’autenticità”, e proclamandosi come unici e legittimi “padroni” di quella terra.
Al contrario, in tutta la raccolta, Mahmud Darwish, scavando nella memoria del suo popolo, non ha alcun timore di “incontrare” tracce dell’altro: Adesso io ti vedo nel passato così come sei arrivato, sei tu a non vedermi, scriverà in Una pietra cananea nel Mar Morto.
Il punto focale di Undici Pianeti, infatti, è proprio l’importanza di sapersi percepire sempre come “stranieri”, una facoltà capace di creare identità in divenire, fluide ed accoglienti, opposte alle identità statiche e separatiste degli Stati etnici, come Israele: Straniero, è finalmente giunto il momento di incontrarci da stranieri nella stessa epoca? (Penultimo discorso del «pellerossa» all’uomo bianco).
La lotta del popolo palestinese per riconquistare la “patria”, per riaffermare la propria esistenza nella Storia, non ha creato di riflesso, come spesso accade, una identità chiusa e immobile, e questo risulta evidente in letteratura, dove alcuni scrittori arrivano molto vicini al concetto di post-nazionale.
Nel verso che tu citi c’è la parola “specchio”, una parola presente in quasi tutti i componimenti, e che si lega alla questione identitaria. L’atto di specchiarsi e riconoscersi nell’altro può essere spesso un atto positivo, ma, in Undici Pianeti, diventa il modo per appropriarsi dell’identità altrui, e poi negarla. Il sionismo (come molti movimenti coloniali), infatti, ha tentato, e tenta ancora oggi, attraverso l’istruzione, di proporre una improbabile continuità storica tra il popolo israeliano e quella terra, e lo fa “rubando” parti di cultura palestinese: Storia, tradizioni, gastronomia, abbigliamento. Se pur di recente immigrazione dall’Europa o dall’America, l’israeliano deve apparire come un nativo di quella terra per potersi sostituire al “palestinese reale” e farlo così “scomparire”.

L’Olocausto dei Nativi Americani coincide con la “scoperta dell’America”, che è uno dei temi portanti della Raccolta, il componimento di Darwish del ’92 prende spunto anche da questo. In particolare in Penultimo discorso del “Pellerossa” all’uomo bianco, il poeta riprende e reinterpreta una famosa lettera che “Seattle”, capo della Nazione Duwamish, aveva scritto e inviato al presidente americano Franklin Pierce nel 1854. Questa missiva è una messa a nudo della concezione che della Terra avevano (ed hanno) le elités nord-americane ed un atto di denuncia di ciò che sarà l’”ecocidio”, e che il poeta fa arrivare fino ad oggi in un continuum di un progresso regressivo e distopico dove: dai nostri cimiteri aprirete strade che portano ai satelliti. Come fa dialogare queste tragedie e resistenze gemellari Darwish?

Penultimo discorso del «pellerossa» all’uomo bianco è il componimento in cui, a mio parere, sono forse più evidenti i rimandi alla colonizzazione palestinese e alla retorica sionista, ma i versi raccontano anche benissimo il genocidio dei nativi americani. Questa perfetta sovrapposizione di mondi è frutto sicuramente, e in buona parte, della eccezionalità di Darwish come poeta, che riesce a narrare più storie contemporaneamente, ma anche della corrispondenza delle pratiche coloniali nel tempo e nello spazio. Sfruttamento brutale del territorio, distruzione nel mondo precedente, disumanizzazione e conseguente sterminio dei nativi, che, nel migliore dei casi, vengono ridotti a manodopera, sono i punti saldi di tutte le imprese di tipo coloniale.
Ritenere e descrivere gli altri come inferiori, ad uno stadio di sviluppo ancora infantile, e pensare alle società non industriali, ma più legate alla terra, come comunità da “civilizzare” o da far scomparire, è il leitmotiv di ogni movimento coloniale, e non solo di quello delle elités nord-americane, e penso, ad esempio, ai territori del Sud America o all’Algeria, per fare due esempi temporalmente e spazialmente distanti.
Darwish, con questi versi, sembra volerci dare un avvertimento, esattamente come fece Primo Levi: “Meditate che questo è stato”, ma purtroppo è ancora e ancora sarà, se non riuscirà a spezzare questo mortifero cerchio.

Un’ultima domanda, riguarda l’intreccio tra la storia personale, autobiografica, e la Storia in senso generale, in cui condizione individuale (quella del poeta), specifica (quella del popolo palestinese), e universale (quella dell’essere umano) si intrecciano, si sovrappongono e dialogano all’interno di due polarità: la guerra e l’amore sostanzialmente, in un linguaggio ricco di metafore, denso di simboli e di rimandi storici. Leggendo la tua traduzione uno riesce ad immaginare a stento lo sforzo intellettuale nel rendere intellegibile la poesia di Darwish, e la passione da “decifratore di sciarade” che serve. Quali difficoltà hai incontrato in questo lavoro di “scavo” per carpire il significato delle sue poesie e per renderlo al pubblico italiano?

Il lavoro di studio e, successivamente, di traduzione di questo testo è stato molto lungo, ogni volta che pensavo di aver terminato, mi rendevo conto che c’era ancora da “scavare”, c’erano nuovi racconti da portare alla luce. Darwish, in Undici Pianeti più che altrove, gioca con la lingua araba, e in una sola poesia, in un solo verso ma anche con una sola parola, riesce a far dialogare mondi, a metterli in connessione. La maggiore difficoltà è stata proprio la scelta delle parole, parole che riuscissero a raccontare di una storia, senza “nascondere” le altre storie.
Poter tradurre i versi di Mahmud Darwish è stato un onere, ma anche un grande onore, vista la grandezza di questo poeta. Io forse ho sentito maggiormente il “peso” di questo lavoro perché ritengo il pensiero di Darwish una parte importante della mia formazione culturale. La sua coerenza intellettuale e personale, così poco di moda oggi, è quella con cui io provo a confrontarmi, e i suoi versi sono la lente di ingrandimento con cui guardo il mondo. Anche per questo spero di aver fatto un buon lavoro.

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L’esilio in Siberia e le radici della rivoluzione (e della controrivoluzione) https://www.carmillaonline.com/2018/05/16/le-gelide-radici-della-rivoluzione-della-controrivoluzione/ Wed, 16 May 2018 21:00:29 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=42660 di Sandro Moiso

Daniel Beer, LA CASA DEI MORTI. La Siberia sotto gli zar, Mondadori editore, 2017, pp. 460, € 30,00

Le cifre sembrano incredibili, ma il territorio siberiano copre un’area di 14 milioni di km. quadrati, con una densità di 2 abitanti al kmq. La sola taiga copre 5 milioni di kmq, un’estensione prossima a quella del continente indiano, e possiede una ricchezza forestale maggiore di quella dell’Amazzonia, mentre è attraversata da 53mila fiumi. Una parte consistente del suo territorio è poi caratterizzato dal permafrost, un ghiaccio perenne che si estende in profondità nel terreno e che durante il [...]]]> di Sandro Moiso

Daniel Beer, LA CASA DEI MORTI. La Siberia sotto gli zar, Mondadori editore, 2017, pp. 460, € 30,00

Le cifre sembrano incredibili, ma il territorio siberiano copre un’area di 14 milioni di km. quadrati, con una densità di 2 abitanti al kmq. La sola taiga copre 5 milioni di kmq, un’estensione prossima a quella del continente indiano, e possiede una ricchezza forestale maggiore di quella dell’Amazzonia, mentre è attraversata da 53mila fiumi. Una parte consistente del suo territorio è poi caratterizzato dal permafrost, un ghiaccio perenne che si estende in profondità nel terreno e che durante il disgelo e nella stagione estiva tende a sciogliersi soltanto in superficie, dando vita ad immensi acquitrini.

Nella lingua mongola, “Siberia” significa “terra che dorme” anche se costituisce circa i due terzi della Russia attuale e nell’estremo oriente del suo territorio si raggiungono le temperature più basse registrabili sull’intero pianeta, ad esclusione delle regioni artiche. Si estende dai monti Urali fino alle rive dell’Oceano Pacifico e dalle catene dei monti Altaj fino alle rive del mare Artico ed è straordinariamente ricca di minerali, contenenti quasi tutti i metalli preziosi e comprende alcuni dei più grandi giacimenti di nichel, oro, piombo, carbone, molibdeno, diamanti, argento, zinco oltre ad alcuni dei più importanti giacimenti mondiali di petrolio e gas naturali.

Questi i dati odierni, mentre il testo di Daniel Beer, pubblicato da Mondadori, descrive la storia della sua progressiva conquista nel corso dei secoli e del suo sfruttamento da parte dell’impero zarista. Una storia che per molti versi sembra ripetere o, meglio, anticipare l’espansione statunitense verso Ovest tra la fine del Settecento e la seconda metà dell’Ottocento. Compresa la sottomissione forzata delle tribù preesistenti, appartenenti quasi sempre allo stesso ceppo originario delle popolazioni amerindie. Soltanto specularmente rovesciata verso oriente e su un territorio ancora più vasto.

Svoltasi sostanzialmente tra la fine del XVI secolo e il XVIII, l’espansione nell’oriente siberiano fu inizialmente trainata, ancora una volta come nel caso del West americano, sia dalla necessità di ampliamento territoriale che dall’abbondanza di animali dalla pelliccia pregiata: volpi, scoiattoli, ermellini, martore e, soprattutto, zibellini.

“Le pellicce che i promyšlennikki (commercianti privati di pellame – NdR) riportavano dalla Siberia, spuntavano prezzi astronomici in Russia e altrove. Bastava una sola pelliccia di volpe artica per acquistare una fattoria di buone dimensioni,completa di cavalli, bovini, pecore e pollame.
Nella loro avanzata verso est, i russi usarono un insieme di incentivi e violenza per esigere tributi dalle popolazioni indigene della Siberia. Chi collaborava con i promyšlennikki poteva contare su denaro e protezione, mentre chi non lo faceva, oppure era sospettato di nascondere la propria ricchezza, pagava un prezzo terribile: torture, prese di ostaggi e omicidi erano all’ordine del giorno, e interi villaggi vennero distrutti. Alcune tribù, come gli ostiachi, già abituati a pagare tributi ai precedenti governatori mongoli, cercarono un accordo con i russi che avanzavano, restando sconvolti dall’avidità dei nuovi padroni. Altri, come i buriati, opposero fin dall’inizio resistenza all’invasione. Le tribù della Siberia, tuttavia, anche quando si dimostrarono capaci di unirsi in una difesa coordinata delle loro terre, riuscirono a presentare solo una resistenza sporadica. Nessuna era in grado di opporsi alla potenza di fuoco delle forze russe, e decine di migliaia di loro morirono per le malattie portate dagli invasori.”1

L’attrattiva esercitata da quelle terre rimaneva però limitata, ad esempio rispetto a quelli dell’Ovest americano, a causa del clima e delle difficoltà oggettive opposte dal territorio ad un’autentica espansione di carattere agricolo. All’inizio del XIX secolo, infatti, la popolazione siberiana ammontava a non più di un milione di abitanti, quasi tutti concentrati nella Siberia occidentale e in città che spesso non superavano le dimensioni di un grande villaggio. Problema che per certi versi permane ancora oggi, considerato che il territorio siberiano è attualmente abitato da un quarto della popolazione russa complessiva.

Era stata forse questa difficoltà ad aprire le porte di quello che sarebbe successivamente diventato il cuore di tenebra dell’impero per gli stessi russi “bianchi”. Un’autentica prigione a cielo aperto, grazie all’istituzione dell’istituto dell’esilio.

“L’esilio era un atto di espulsione. Ioann Maksimovič, vescovo di Tobol’sk e della Siberia, dichiarò nel 1708: «Così come dobbiamo eliminare dal corpo gli agenti nocivi, in modo che il corpo non muoia, lo stesso deve avvenire nella comunità dei cittadini: tutto ciò che è sano e innocuo si può tollerare, ma ciò che è dannoso va tagliato via». Gli ideologi dell’impero tornarono più volte sull’immagine della Siberia come di un mondo oltre le frontiere immaginarie dello Stato nel quale il sovrano poteva eliminare le impurità per proteggere la salute del corpo pubblico e sociale. Con il passare del tempo, le metafore cambiarono, ma rimase la convinzione di fondo che la Siberia fosse il ricettacolo d’ogni male che affliggeva l’impero”.2

Inizialmente usato per malfattori, assassini e prostitute ben presto l’istituto dell’esilio fu applicato ai contadini rivoltosi, ai nobili attratti dal pensiero democratico dell’Illuminismo e, successivamente e spesso soltanto come alternativa alla pena di morte, per i congiurati decabristi, i ribelli e i rivoluzionari polacchi, gli esponenti dei movimenti populisti e terroristi anti-zaristi, gli anarchici e gli esponenti del socialismo o, meglio della nascente socialdemocrazia russa.

Nobili, contadini, operai, studenti, malavitosi, soldati (russi e stranieri prigionieri), prostitute, rivoluzionari, terroristi, uomini e donne, russi, polacchi ed esponenti delle varie nazionalità oppresse dall’impero iniziarono ad affollare una terra desolata, dalle distanze incommensurabili, in piccoli villaggi, sperdute cittadine, campi di lavoro o fattorie isolate. Da cui era difficile fuggire non tanto per la solerzia dei funzionari o delle guardie, spesso facili da corrompere o dallo scarso ossequio nei confronti del dovere e delle norme, ma proprio a causa delle distanze, del freddo, della diffidenza degli altri abitanti.

Un autentico inferno bianco di cui Beer, professore associato di Storia presso la Royal Holloway dell’Università di Londra, traccia le drammatiche vicende, delineando ritratti, vite, disavventure di un foltissimo stuolo di personaggi. Tracciando però anche un percorso cronologico lungo il quale si delinea una sorta di continuità ideale tra le storie e gli ideali dei deportati, democratici, ribelli, populisti e rivoluzionari socialisti che mostra come la continuità di scelte e di pensiero che caratterizzò l’azione sia dei riformatori democratici che dei rivoluzionari russi avesse nell’esilio siberiano le sue radici “storiche”.

Per ognuno di quegli esiliati le premesse potevano essere infatti diverse per tempo, classe sociale di appartenenza, lingua, nazionalità, credo politico o religioso, ma tutto finiva nel confluire in una pentola, in costante ebollizione, di odio e disprezzo nei confronti dello zarismo e delle sue istituzioni. Così, nonostante le morti, le rese o i pentimenti necessari alla sopravvivenza, la Siberia divenne davvero il luogo, oltre le frontiere immaginarie dell’impero, dove si andò formando la negazione politica e ideologica del corpo sociale edificato dagli czar e la reale coscienza della necessità del suo superamento.

Tutti i rivoluzionari russi, o almeno quelli sopravvissuti alle forche, passarono da lì. Tutti lasciarono un segno, una traccia. Fosse anche soltanto la guardia uccisa per poter fuggire o quelle intimorite dagli attentati in difesa delle condizioni di vita dei prigionieri, messi in atto soprattutto dopo la repressione dei moti rivoluzionari del 1905.3 Tutti impararono qualcosa ed ebbero modo di riflettere. Tutti insegnarono qualcosa ai nuovi venuti. Se non a parole, almeno con l’azione o il comportamento individuale.

La trasmissione della memoria storica e politica, imprescindibile per qualsiasi movimento rivoluzionario, si era fatta concreta. Si potrebbe dire che facesse parte dell’esperienza dell’esilio e dei lavori forzati. Le idee si erano trasmutate in carne e sangue dei deportati e le loro stesse vite finirono col diventare snodi di una rete infinita di comunicazione delle esperienze, concrete ed ideali allo stesso tempo.

Sarà per questo, forse, che l’istituzione successiva dei gulag, soprattutto a partire dal periodo staliniano, fu caratterizzata da quella che venne definita come “ingegneria delle anime”,4 cioè dall’azione costante e determinata tesa ad estirpare nell’esiliato/detenuto qualsiasi velleità critica o di costruzione di un consenso altro da quello stabilito dal regime. Il prigioniero doveva infatti perdere qualsiasi caratteristica individuale, qualunque capacità di pensiero autonomo, per concentrarsi esclusivamente sulla propria sopravvivenza e sulla propria colpa, così come dimostrano opere letterarie straordinarie come i Racconti della Kolyma di Varlan Salamov oppure Una giornata di Ivan Denisovič di Aleksandr Solženicyn o, ancora, molti romanzi di Victor Serge.

Così, al contrario di ciò che si potrebbe pensare, proprio per gli ideali di liberazione individuale e collettiva più alti che collegano, per linee apparentemente invisibili, gli esiliati della scuola di rivoluzione siberiana alle vittime della Siberia della controrivoluzione stalinista e successiva (basti dire che la Prigione centrale per i lavori forzati di Tobol’sk, costruita a metà Ottocento, è rimasta attiva come istituzione penale fino al 1989), la letteratura rimane uno strumento validissimo e indispensabile per ricostruire e comprendere l’immaginario politico e i fenomeni sociali di ogni società, passata o presente che sia. Come restano a dimostrare anche capolavori quali Memorie dalla casa dei morti di Fëdor Dostoevskij (cui si ispira il titolo del testo di Beer), Resurrezione di Lev Tolstoj o, ancora, la cronaca del viaggio in Siberia di Anton Čechov: L’isola di Sachalin.

Opere di cui l’autore inglese ha sicuramente tenuto conto nella stesura di un testo importante e leggibilissimo allo stesso tempo.


  1. D.Beer, LA CASA DEI MORTI. La Siberia sotto gli zar, pp.22-23  

  2. Beer, pag. 25  

  3. A tal proposito si veda: Jurij Trifonov, I riflessi del rogo. Vita e morte di un rivoluzionario sovietico, Mursia 1981  

  4. Si vedano in proposito, tra le tante opere sull’argomento: Frank Westerman, Ingegneri di anime, Feltrinelli 2006 e Oleg V.Chlevnjuk, Storia del Gulag. Dalla collettivizzazione al Grande terrore, Einaudi 2006  

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Fumenti *2 – storie disegnate (Esilio) https://www.carmillaonline.com/2016/11/29/fumenti-2-storie-disegnate/ Mon, 28 Nov 2016 23:01:16 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=34456 di Simone Scaffidi

lapprodoS. Tan, L’approdo, Tunué, 2016, pp. 124, € 24.90

Silenzio. Torna in Italia, riedito da Tunué, un classicone tra i cosiddetti silent book. Ovvero i libri senza parole. La prima volta che l’ho sfogliato, nell’edizione francese titolata Là où vont nos pères, stavo annegando nei discorsi vacui sulle migrazioni, il Mediterraneo, il Messico, l’Australia, e questo albo mi ha fatto tirare un sospiro di sollievo. Non servivano tante parole per descrivere l’umanità di un uomo che migra, bastava appunto un po’ di umanità, [...]]]> di Simone Scaffidi

lapprodoS. Tan, L’approdo, Tunué, 2016, pp. 124, € 24.90

Silenzio. Torna in Italia, riedito da Tunué, un classicone tra i cosiddetti silent book. Ovvero i libri senza parole. La prima volta che l’ho sfogliato, nell’edizione francese titolata Là où vont nos pères, stavo annegando nei discorsi vacui sulle migrazioni, il Mediterraneo, il Messico, l’Australia, e questo albo mi ha fatto tirare un sospiro di sollievo. Non servivano tante parole per descrivere l’umanità di un uomo che migra, bastava appunto un po’ di umanità, e la tecnica e il potere immaginifico di Shaun Tan raggiungevano un livello talmente alto da non poter essere messi in discussione. Mentre leggevo, ricordo bene, pensavo al film Nuovomondo di Emanuele Crialese. La potentissima scena finale, accompagnata dalla voce di Nina Simone che cantava Sinnerman, scorreva sotto i miei occhi. Una volta chiuso il libro mi son chiesto se Crialese, per dare respiro poetico al film, avesse preso ispirazione dall’opera di questo autore australiano. Oggi scopro che L’approdo e Nuovomondo sono usciti entrambi nel 2006 e che la mia ipotesi, già allora azzardata, non ha nessun fondamento. La seconda volta che ho letto L’approdo, un mesetto fa, sempre nell’edizione francese, la situazione non era cambiata, continuavo ad annegare nella vanità dei discorsi dominanti sulle migrazioni. Questa volta però, girata l’ultima pagina, ho ripensato alla sceneggiatura, alla pulizia del disegno, alla perfezione del protagonista, ai sorrisi e al lieto fine. C’è un ordine, una compostezza in questo albo che lascia sospesi in un mondo onirico. È il mondo dei sogni, fatto di dolcezza, comprensione e sicurezza. Un mondo che, a guardarlo davvero bene, ha poco a che spartire con le migrazioni. Eccetto l’incipit, il vano desiderio di scovare, al di là del mare, un ordine delle cose differente dove regnino serenità e giustizia. Il Nuovomondo di Crialese è invece sporco, ingiusto, concreto. Certo c’è un immaginario fantastico che lega le due opere, ma è utilizzato in maniera radicalmente opposta. Crialese racconta l’illusione, il duro scontro quotidiano con la realtà. Shaun Tan invece fa sognare i suoi lettori, li culla, senza spingersi nell’orrore della realtà.

allendeO. Bras, J. Gonzales, Maudit Allende!, Futuropolis, pp. 128, € 20.00

Memoria. Si parte dall’infanzia di tre uomini per arrivare ai giorni nostri. Chi sono oggi quei tre uomini? Uno è un esempio di lotta democratica, uno d’infamia e uno di consapevolezza. Il primo si chiama Salvador Allende ed è il primo presidente socialista eletto democraticamente in America Latina. Il secondo porta il nome di Augusto Pinochet, uno dei peggiori dittatori che abbia calpestato il suolo americano. Il terzo è Leo, un cileno che ha vissuto un’infanzia da esule al contrario, quando dopo l’elezione di Salvador Allende la sua famiglia decise di trasferirsi in Sud Africa. Olivier Bras, lo sceneggiatore di questa storia, è un giornalista francese che ha coperto le notizie sul Cile per Liberation e RTI e ha lavorato per Courrier international. Jorge Gonzales, l’autore argentino dello splendido Cara Patagonia, è invece uno dei migliori disegnatori in circolazione. Grazie alla capacità di Gonzales di dare vita ai significati con le sfumature, e a una narrazione che convince e non si perde mai nel dettaglismo fine a se stesso, i due autori riescono a restituire la consapevolezza di una frattura che la memoria condivisa non può sanare. Una frattura che ha radici nel passato che non passa. Il Cile è un paese spaccato. Non esiste pacificazione all’orrore. Margaret Thatcher incontra Augusto Pinochet e lo ringrazia per il suo appoggio nella Guerra delle Malvinas. Fidel Castro incontra Salvador Allende e gli regala parole di stima, complicità e allerta. Gli Stati Uniti di Nixon appoggiano il colpo di Stato di Pinochet. L’11 settembre 1973, l’aeronautica bombarda La Moneda. Allende, che non crede al martirio, si toglie la vita. E Leo? I genitori di Leo stanno con Pinochet. Leo deve capire. E come lui molti cileni. Questa storia serve anche a questo, a capirsi. A uccidere il padre. A uccidere il dittatore. La memoria del Cile non può essere una memoria condivisa, è troppo profondo il solco che separa l’oppressione dalla chimera della giustizia sociale. Bras e Gonzales raccontano la Storia, ma non dimenticano le storie e i conflitti sociali e individuali che genera un potere brutale e assassino. Raccontano la frattura. Quest’opera non è ancora disponibile in italiano, ma speriamo non si faccia attendere.

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S. Taun, L’approdo

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O. Bras, J. Gonzales, Maudit Allende

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“Serbatoio di immaginazione” e dinamiche del controllo: l’eterotopia della nave nella letteratura e nel cinema https://www.carmillaonline.com/2016/07/06/serbatoio-immaginazione-dinamiche-del-controllo-leterotopia-della-nave-nella-letteratura-nel-cinema/ Wed, 06 Jul 2016 21:30:58 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=31363 di Gioacchino Toni

nuovomondo13Paolo Lago, La nave lo spazio e l’altro. L’eterotopia della nave nella letteratura e nel cinema, Mimesis edizioni, Milano – Udine, 2016, 222 pagine, € 20,00

Nel saggio La nave lo spazio e l’altro, Paolo Lago, riprendendo il concetto di eterotopia sviluppato da Michel Foucault, analizza lo spazio della nave come “eterotopia per eccellenza” – luogo senza luogo, spazio in movimento diretto verso altri luoghi sconosciuti, scrigno di sogni – in svariati autori della letteratura e del cinema. Tale analisi conduce lo studioso ad individuare alcune grandi tipizzazioni: navi emigranti [...]]]> di Gioacchino Toni

nuovomondo13Paolo Lago, La nave lo spazio e l’altro. L’eterotopia della nave nella letteratura e nel cinema, Mimesis edizioni, Milano – Udine, 2016, 222 pagine, € 20,00

Nel saggio La nave lo spazio e l’altro, Paolo Lago, riprendendo il concetto di eterotopia sviluppato da Michel Foucault, analizza lo spazio della nave come “eterotopia per eccellenza” – luogo senza luogo, spazio in movimento diretto verso altri luoghi sconosciuti, scrigno di sogni – in svariati autori della letteratura e del cinema. Tale analisi conduce lo studioso ad individuare alcune grandi tipizzazioni: navi emigranti e dell’esilio; navi dell’avventura; navi “infernali”, mostruose e spettrali; navi della ricerca e dell’erranza; navi ferme e in disarmo. Il saggio, con un occhio di riguardo alle dinamiche sociali, ricostruisce dunque il mutevole funzionamento dello spazio eterotopico nelle diverse tipologie di imbarcazioni verificando come l’eterotopia-nave possa configurarsi come un “serbatoio di immaginazione” in grado di sfuggire alle dinamiche del controllo. La nave nella letteratura e nel cinema è pertanto analizzata dall’autore come spazio sociale così come spazi sociali risultano essere i luoghi che essa mette in comunicazione.

In apertura del volume viene ripreso il concetto di eterotopia sviluppato da Michel Foucault: se con il termine utopia si può indicare uno spazio privo di un luogo reale, con il termine eterotopia lo studioso francese indica invece un luogo reale ma separato dal contesto quotidiano in cui viviamo. Si possono avere, sempre secondo Foucault, “eterotopie di crisi” (luoghi riservati a chi è in uno stato di crisi rispetto alla società) ed “eterotopie di deviazione” (luoghi in cui vengono confinati individui con comportamenti devianti rispetto alle norme che regolano la società). Eterotopie sono anche i cimiteri, le biblioteche, i teatri, i cinema, i musei, i villaggi vacanze ed, in generale, quelli che l’antropologo Marc Augé ha definito “non luoghi”. Altre caratteristiche delle eterotopie individuate da Foucault sono il loro essere dotate di un sistema di chiusura/apertura che le rende isolate/penetrabili ed il fatto che esse istituiscono uno “spazio illusorio” che palesa come lo “spazio reale”, al di fuori di esse, sia ancora più illusorio. Da pare nostra abbiamo già avuto modo di affrontare il concetto di eterotopia sviluppato dalle produzioni audiovisive analizzando [su Carmilla] il saggio curato da Sara Martin, La costruzione dell’immaginario seriale contemporaneo. Eterotopie, personaggi, mondi (2014).

Dopo un prologo incentrato sull’Odissea come opera archetipale dedicata ai viaggi via mare, il primo capitolo del saggio si occupa delle “Navi emigranti e dell’esilio”. Le navi di tale tipologia declinano il loro “serbatoio di immaginazione”, nell’approssimarsi alla località d’approdo, come speranza o come angoscia. Lo spazio-nave è però, ricorda l’autore, anche lo spazio ove si prende coscienza della propria condizione di emigrante o di esule. Si tratta, pertanto, di uno spazio di fuga rispetto a ciò che si vuole/deve abbandonare ed al tempo stesso di un contenitore di sogni autonomo rispetto al “fuori”, privo tanto di un punto di partenza che di approdo.

A proposito delle navi emigranti e dell’esilio, lo studioso inizia con l’affrontare opere letterarie e cinematografiche incentrate sul momento dell’approdo alla meta, al “nuovo mondo”. Nel romanzo autobiografico Il primo Dio (pubblicato postumo nel 1978) di Emanuel Carnevali viene raccontata l’esperienza di emigrante dello scrittore e l’analisi dello studioso si concentra su come il microcosmo di immaginazione rappresentato dal transatlantico, si sfaldi improvvisamente alla vista della destinazione. «Si può quindi pensare che, in questo caso, un’eterotopia serva per raggiungere un’utopia; ma non appena quest’ultima viene raggiunta non è più tale, non è più quel paese perfetto e ideale che si credeva» (p. 33). Nell’autobiografia Son of Italy (1924) di Pascal D’Angelo, invece, la nave si mostra inquietante e mostruosa sin dalla partenza, lo scrittore ne parla come di una prigione terrificante. Quello spazio navigante che per Carnevali è un sogno, per D’Angelo è un incubo che sembra attenuarsi soltanto in vista dell’approdo, nel momento in cui ci si prepara ad abbandonare la nave. L’imbarcazione come microcosmo separato dalla terraferma la si ritrova anche in Sull’Oceano (1889) di Edmondo De Amicis, che descrive il transatlantico come frammento della terra natale diretto verso un nuovo mondo sconosciuto. Nel caso di Vita (2003) di Melania Mazzucco, l’imbarcazione, vista con gli occhi di una bambina, diviene spazio fantastico d’avventura ed immaginazione e, in questo caso, non vengono descritti i momenti dell’approdo finale. Tale microcosmo onirico galleggiante sembra vivere per se stesso, come uno spazio “altro” senza partenza né approdo, ove il tempo scorre circolare.

nuovomondo3Per quanto riguarda l’ambito cinematografico, Lago si sofferma su Nuovomondo (2006) di Emanuele Crialese, film che mette in scena una nave di emigranti siciliani diretti a New York. «I sogni degli immigrati, una volta che questi sono sbarcati e sottoposti al controllo e a una rigida selezione, vengono catturati e incasellati dalla “società disciplinare” che li vuole trasformare, reificandoli, in forza-lavoro produttiva all’interno della società industriale; le strutture di potere catturano l’immaginazione degli immigrati» (p. 38). Nel film, alla nave come “serbatoio di immaginazione”, si contrappone la terraferma come luogo di controllo e disciplinamento. Nell’opera di Crialese, sottolinea lo studioso, la nave si presenta come luogo misterioso che incute timore sin dal momento dell’imbarco ma, una volta salpata, man mano che si allontana dalla terra natia, conquista lo statuto di spazio autonomo, di “serbatoio di immaginazione” contenente i sogni e le speranze degli emigranti. In Terraferma (2011), successivo film di Crialese, viene affrontato lo sbarco dei migranti sulle coste italiane. All’arrivo i migranti vengono sottoposti ad un controllo disciplinare del tutto simile a quello a cui erano sottoposti i migranti italiani all’atto dello sbarco sulle coste statunitensi ad inizio Novecento. Viene mostrato anche l’incontro con “l’altro” in termini solidali tra pescatori ed alcuni clandestini ma, sottolinea Lago, per far ciò, è necessario contravvenire alle leggi. Nelle scene finali il “peschereccio solidale” viene mostrato allontanarsi dalla macchina disciplinare, «dal reticolo del controllo che si è stabilizzato fra le isole e le coste italiane e quelle africane [ed] il peschereccio, divenuto “serbatoio di immaginazione”, si dirige lontano dallo spazio del controllo riproducendo la possibilità del desiderio dei migranti di un altrove libero e liberato dalla dinamica della sorveglianza e della cattura» (p. 41).

Sempre all’interno del capitolo dedicato alle navi emigranti e dell’esilio, viene analizzato il romanzo Amerika (pubblicato postumo nel 1927) di Franz Kafka. In tale racconto la nave viene presentata come un ambiente labirintico e caotico che conduce ad un altro grande ambiente labirintico e caotico (New York). Si tratta di un “serbatoio di immaginazione” che offre agli ingenui occhi degli emigranti la visione di un mondo irreale, fantastico e caotico. «Lo spazio della nave, quindi, diviene quasi un’appendice eterotopica del luogo da cui parte e di quello in cui arriva, rispecchiandone le abitudini e le caratteristiche. Fra i due punti di convergenza c’è lo spazio del viaggio, della mescolanza, dell’immaginazione, della fantasia che si appropria utopisticamente del punto d’arrivo» (p. 43).

Una sezione del primo capitolo è dedicata anche alla figura dell’intellettuale che si trova a scrivere nel corso di un viaggio in mare che lo porta verso l’esilio. L’analisi inizia con l’esilio di Ovidio narrato nei Tristia (I sec. d.C.). In questo caso l’esiliato, salendo a bordo della nave, entra in un “altro” luogo ed in un “altro” tempo rispetto alla quotidianità. La scrittura del protagonista avviene dunque in un luogo di rottura assoluta col tempo quotidiano; a bordo, il tempo, è assorbito dallo spazio. L’imbarcazione può dirsi un ambiente liminale, una vera e propria prefigurazione delle sofferenze dell’esilio. «La nave, in questo caso, è perciò uno spazio che si dirige verso una condizione di morte; dalla civilizzata Roma, il centro del mondo, la nave sta portando Ovidio verso territori inospitali e ‘barbari’, abitati da gente selvaggia, rude, violenta e caratterizzati dal freddo e dall’oscurità» (pp. 49-50). Nel saggio viene fatto riferimento anche alla rilettura dell’esilio di Ovidio realizzata da Christoph Ransmayr nel suo Il mondo estremo (1988) ed al romanzo Le passioni dell’anima (2011) di Raffaele Simone, in cui si narra del burrascoso viaggio in mare di Cartesio e della sua permanenza nella fredda ed inospitale Stoccolma. Anche in questo caso la nave si configura come uno spazio liminale che prelude alla solitudine di quello che è vissuto dal Cartesio del romanzo come un esilio. Lago sottolinea come Cartesio, al pari di Ovidio, scriva durante una tempesta in mare, quasi si trattasse di un’anticipazione dello scrivere in terra straniera: «lo spazio della nave diviene un’anticipazione dell’eterocronia dell’esilio, della lontananza, della solitudine in terra straniera» (p. 52). Sia nel caso di Ovidio che di Cartesio, la scrittura in mare sembra generata dalla nave come “serbatoio di immaginazione” che, nell’avvicinarsi all’infausta destinazione, tende a trasformarsi essa stessa in luogo dell’esilio. Nei racconti si assiste ad una metamorfosi dell’eterotopia navigante che genera riflessioni sulla destinazione. «La spazialità della nave che trasporta letterati e intellettuali verso terre sconosciute è quindi essa stessa una creazione letteraria, ed è costruita dalla penna degli autori come una vera e propria anticipazione dell’ambiente che li attende lontano dalla loro patria e dalla sua rassicurante quotidianità» (p. 54).

nuovomondo06Il secondo capitolo del saggio è dedicato alle “Navi nel ‘tempo d’avventura’” e qui, lo studioso, analizza la configurazione dello spazio eterotopico della nave quando questa diviene cerniera narrativa tra avventure. Dopo aver passato in rassegna alcuni esempi tratti dall’antichità, dal romanzo greco – a partire dalle Avventure di Cherea e Calliroe (I sec. a.C. – I sec. d.C.) di Caritone – al Satyricon (I sec. d.C.) di Petronio, Lago si sofferma su Gargantua e Pantagruele (1532) di François Rabelais, romanzo ove la nave si caratterizza come spazio di libertà attraverso cui si possono raggiungere nuovi mondi. Lo studioso mette in luce come, nel caso di Rabelais, ci si trovi di fronte ad un passaggio epocale, dal mondo medioevale alla modernità rinascimentale, ed in linea con gli studi di M. Batchin, Lago sostiene che qui la nave non è una semplice cerniera narrativa fra un’avventura e l’altra, come avviene nel romanzo greco, ma «diventa essa stessa corpo; una nave molto più ‘umanizzata’ che, vero e proprio “serbatoio di immaginazione”, conduce i personaggi verso territori fantastici ai quattro angoli del globo, vettore di spostamento su una geografia nuova, antigerarchica, in cui sempre nuove espressioni culturali stanno progressivamente entrando in libera interazione fra di loro» (p. 72).

A questo punto nel saggio vengono analizzati diversi romanzi settecenteschi in cui i lunghi viaggi in mare conducono ad utopiche terre misteriose e la nave diviene spesso uno spazio liminale ove i personaggi si ritrovano improvvisamente in universi fantastici. In tali testi l’imbarcazione, oltre che luogo dell’avventura e dell’immaginazione, riveste spesso valenze economiche; l’avventura si incrocia al commercio, come avviene nei Viaggi di Gulliver (1726) di Jonathan Swift, ove la nave incarna tanto la fuga verso l’ignoto, verso l’utopia, quanto il mezzo di “sviluppo economico”. Nel romanzo di Swift la nave con cui, di volta in volta, il protagonista fa ritorno dalle sue avventure è anche “spazio del linguaggio”, del racconto. «Lo spazio per eccellenza del ritorno dall’ignoto, dall’avventura, dall’Utopia è la nave, ed è tale spazio che permette il dispiegarsi della scrittura; una scrittura che nell’ottica swiftiana vuole insegnare, rendere migliori gli uomini. La nave dovrebbe configurarsi come lo spazio di un arricchimento culturale tramite la libertà dell’immaginazione, non come il mezzo di un cieco sviluppo economico che non esita a colonizzare e conquistare le popolazioni in modo barbaro e crudele» (p. 77).

Nel romanzo Viaggi di Enrico Wanton ai regni delle scimmie e dei cinocefali (1749) di Zaccaria Seriman, si racconta di un viaggiatore che entra a far parte del microcosmo navigante con sete di conoscenza, pur spaventato dal doversi staccare dallo spazio-tempo quotidiano della terraferma. L’eterotopia si configura qua come spazio dello studio e della scrittura in vista degli incontri con nuove popolazioni; «la nave è veramente una finestra aperta sull’Altro, un ‘altro da sé’ da studiare in modo scientifico e razionale secondo un metodo che anticipa quello della moderna etnografia» (p. 79). Ai momenti di permanenza sulla terraferma spetta invece la fase empirica, il contatto con l’Altro in carne ed ossa.

Nel caso di Robinson Crusoe (1719) di Daniel Defoe, per tutta la prima parte del romanzo, la nave può essere interpretata come il mezzo con cui ci si allontana dalla tranquilla ed operosa vita borghese, dunque come “spazio sovversivo”, come eterotopia che proietta il protagonista verso un altrove che finirà con l’avere la forma di una nuova eterotopia: l’isola. La nave funziona anche come spazio di salvezza durante la permanenza obbligata sull’isola; dall’imbarcazione, restata praticamente intatta su una secca, il protagonista recupera alimenti ed utensili utili alla sopravvivenza. La nave, vista dall’isola-prigione, assume una forte carica immaginativa che la connota come spazio di libertà. Lago segnala, inoltre, come nel romanzo l’imbarcazione abbia anche «una spiccata valenza commerciale e mercantile, mentre lo stesso protagonista assume le caratteristiche del moderno homo economicus della società capitalistica e borghese» (pp. 82-83). Ed infatti, se nella prima parte del libro la nave è spazio di allontanamento dall’economia borghese, nella seconda parte il valore commerciale del viaggio e della stessa nave finisce con l’avere il sopravvento. L’economia riprende il sopravvento sull’avventura. In Robinson Crusoe «la nave appare sia come una via di fuga dal quieto mondo borghese della famiglia di Robinson, sia come uno strumento utilizzato da quella stessa società inglese per arricchirsi e poter mantenere quello status sociale di benessere. L’avventura e il commercio, nel romanzo di Defoe, appaiono quindi come le facce di una stessa medaglia: la nave, come una sorta di Giano bifronte, le incarna entrambe» (p. 84).

All’interno del secondo capitolo l’autore affronta anche Candido, o l’ottimismo (1759) di Voltaire concentrandosi sulla nave diretta a Buenos Aires che, secondo Lago, può essere identificata, oltre che come cesura narrativa che conduce i protagonisti verso nuove avventure, anche come spazio di riflessione e di preparazione degli stessi a fare ingresso in un nuovo mondo. La valenza commerciale della nave è presente anche in questo romanzo ma, secondo lo studioso, qua è connotata decisamente in maniera più negativa rispetto agli altri romanzi settecenteschi analizzati. «L’immagine della nave mercantile che salpa per l’Europa dopo aver derubato l’ingenuo Candido ha […] una forte connotazione simbolica poiché rappresenta il lato negativo di quello “sviluppo economico” che non esita a sfruttare, derubare e imbrogliare» (pp. 85-86).

nuovomondo02A proposito di navi e di avventura, l’autore non poteva che affrontare il mondo dei pirati a partire da un libro esemplare in tal senso come L’isola del tesoro (1883) di Robert Louis Stevenson, per poi trattare un curioso romanzo contemporaneo, La vera storia del pirata Long John Silver dello scrittore svedese Björn Larsson, che palesa una sorta di rapporto ipertestuale con l’opera di Stevenson. Uno spazio del capitolo è dedicato anche alla tipologia della “nave-carcere” attraverso l’analisi del romanzo Viaggio al termine della notte (1932) di LouisFerdinand Céline e del film Satyricon (1969) di Federico Fellini. Nel primo caso, afferma Lago, non abbiamo alcuna soglia tra la terraferma e la nave; il passaggio del protagonista «nell’eterotopia della nave avviene […] entro una dimensione onirica che ce la fa apparire in una veste nuova: se, precedentemente, i personaggi che si sono imbarcati hanno sempre guardato la nave dal di fuori, prima di salirvi, caricando questo sguardo di sognante immaginazione e fantastiche aspettative, oppure di ansie e pensieri angosciosi, adesso […] ci appare già vista dal di dentro» (p. 95). La nave del romanzo di Céline resta ancora un “serbatoio di immaginazione” seppur diretto verso un’utopia in negativo. Nel film di Fellini, invece, l’imbarcazione non pare avere a che fare con il “serbatoio di immaginazione”, essa si presenta piuttosto come luogo di viaggio infernale. Lago ricorda come in Fellini, la nave come “serbatoio di immaginazione” faccia invece palesemente la sua comparsa nel film E la nave va (1983); in questo caso l’imbarcazione può dirsi microcosmo simbolico della fantasmagoria del mondo dello spettacolo che non si ferma nemmeno di fronte al dramma dello scoppio della Grande guerra.
Il capitolo si chiude con l’analisi del romanzo Roderick Duddle (2014) di Michele Mari. In questo caso, l’eterotopia della nave si caratterizza come spazio del sogno, tanto che anche la (inevitabile) tempesta sembra configurasi come un sogno legato al desiderio d’avventura del protagonista.

Il terzo capitolo del saggio è dedicato alle “Navi della ricerca e dell’erranza”. In questo caso i testi presi in esame sono Le Argonautiche (III sec. a.C.) di Apollonio Rodio e Moby Dick (1851) di Hermann Melville. Si tratta di opere in cui i protagonisti solcano il mare alla ricerca di un “oggetto del desiderio” (il Vello d’oro e la balena bianca) ma che assumono connotazioni erratiche. «La ricerca si unisce perciò al nomadismo e all’erranza: la nave non è più uno spazio di congiungimento tra due sponde, ma un universo lanciato dietro una ricerca nomadica in territori sempre più lontani e sconosciuti» (p. 107).

Alle “Navi mostruose, ‘infernali’, perturbanti, spettrali” è, invece, dedicato il quarto capitolo del volume, ove vengono affrontati viaggi marittimi in cui il “serbatoio di immaginazione” diviene “serbatoio di incubo”. Eterotopie naviganti di tale specie le ritroviamo in Storia di Gordon Pym di Edgar Allan Poe – ove «lo spazio della nave non possiede più positive connotazioni avventurose o picaresche; il desiderio di scoperta e di avventura del protagonista si infrange contro il nulla dell’orrore» (p. 129) – e nel romanzo I pirati fantasma (1909) di William Hope Hodgson, ove la nave spettrale appare totalmente slegata dallo spazio-tempo tradizionale. All’interno di questo capitolo l’autore prende in esame anche il film The Fog (1980) di John Carpenter. In tal caso viene raccontata la storia di una nave spettrale popolata da fantasmi di lebbrosi (il rimando alla “nave dei folli” rinascimentale è evidente) che si presenta al cospetto di una cittadina americana per punire le colpe degli avi degli abitanti, rei di avere, un secolo prima, affondata la nave col suo carico di malati a bordo. La nave degli spettri appare davvero una nave proveniente da un mondo “altro” e tale “serbatoio di incubo”, come in molte opere di Carpenter, si presenta come minaccia della quieta, quanto cinica, società borghese.

A proposito di navi fantasma, non poteva mancare un riferimento al mito nordico dell’Olandese volante, vascello fantasma condannato a navigare in eterno, che ha ispirato parecchie trasposizioni nelle più diverse arti. Lago si sofferma in particolare sul romanzo La nave fantasma (1839) di Frederick Marryat e sull’opera L’Olandese Volante (1841) di Richard Wagner. Nel caso del romanzo lo studioso segnala come la nave spettrale appaia come un’eterotopia che non si limita ad istituire un “tempo altro”; in questo caso lo scorrere del tempo è annullato. La nave fantasma di Marryat è uno spazio senza tempo, è «lo spazio della leggenda, di un altrove in cui l’immaginazione e l’incubo si confondono; uno spazio senza tempo condannato in eterno a solcare il mare, luogo metaforico per eccellenza della libertà, dell’erranza nonché della perdita del sé» (pp. 137-138).

Lo spazio della nave ne Il compagno segreto (1910) di Joseph Conrad, è, invece, lo spazio del perturbate attraverso cui lo scrittore, secondo Lago, decostruisce lo spirito avventuriero e colonialista ottocentesco: «Conrad presenta una situazione assolutamente realistica e verosimile, lontano dai dettami della letteratura fantastica. Lo spazio della nave che fa la spola fra la ‘civilizzata’ e ‘razionale’ Inghilterra e l’universo ‘straniero’ delle colonie si riduce a un “battello di morti” minacciato dall’Inferno. Segno che forse – anche se il capitano riuscirà a condurre in salvo la nave – qualcosa sta cambiando: su quell’imperialismo marittimo di età vittoriana cominciano a formarsi delle crepe. L’avventura imperialista inizia inevitabilmente a decadere» (p. 144).

eterotopie-paolo_lago_coverIn alcune opere lo spazio della nave si presenta come vero e proprio inferno capace di trasformare gli stessi personaggi che lo abitano in esseri infernali. Le descrizioni ricorrono spesso ad una terminologia rimandante alla malattia ed al disfacimento fisico. Il negro del “Narciso” (1897) di Joseph Conrad è esemplare a tal proposito. Qui lo spazio della nave diviene lo spazio della malattia a cui si aggiunge una spaventosa tempesta e gli effetti della malattia sembrano placarsi soltanto all’arrivo della nave in Inghilterra, quando l’eterotopia si rompe al salire sulla nave delle persone della terraferma. Connotazioni infernali delle imbarcazioni si ritornavano anche in altri romanzi conradiani ed, in generale, secondo Lago, lo «spazio della nave che commercia con le colonie, in Conrad, è […] spesso segnato dalla malattia e dal disfacimento dei corpi dei membri dell’equipaggio. L’Imperialismo è ormai malato; lo spazio navigante che collega madrepatria e colonie si riduce ad un inferno di uomini malati e affaticati, paragonati a cadaveri o a maschere grottesche segnate dalla morte» (p. 153).

Seppure in maniera differente, anche Louis-Ferdinand Céline rappresenta la decadenza del colonialismo nel romanzo Viaggio al termine della notte (1932). Nuovamente lo spazio della nave che porta verso le colonie si presenta come “serbatoio d’incubo”, come spazio della malattia e del decadimento; le colonie divengono luoghi dannati che nulla hanno più a che fare con il sogno.
Invece, nel caso del romanzo La nave morta (1932) di B. Traven, la nave è sì spazio infernale ma, rispetto alla terraferma, ove non è possibile vivere senza un’identità attestata dai documenti, è pur sempre un inferno in cui, sottraendosi alla logica del controllo, il protagonista riesce a ritrovare una dimensione più autentica.

Uno spazio importante, all’interno di questo quarto capitolo, è dedicato alla nave del vampiro a cui hanno mirabilmente dato immagine Friedrich Wilhelm Murnau, nel film Nosferatu (1922) e, successivamente, Werner Herzog nel suo Nosferatu, Principe della Notte (1979). Nei due film Lago individua nella nave «il mezzo con il quale la forza infernale e irrazionale del vampiro giunge a minare il sicuro e razionale ordo borghese dell’Occidente; il suo è uno spazio spettrale che conduce, per mezzo di un ennesimo viaggio dell’incubo, il diverso ed il nomade verso i territori industrializzati del cuore dell’Europa. Il deserto, lo spazio liscio, la potenziale colonia lontana, adesso, attaccano l’Occidente colonizzatore per annientarlo» (pp. 165-166)

Nel quinto capitolo vengono passate in rassegna le “Navi ferme e in disarmo”. Nei romanzi di Álvaro Mutis, Ilona arriva con la pioggia (1988) e di Jean-Claude Izzo, Marinai perduti (1997), la terraferma finisce col contaminare la vita dei marinai a cui è momentaneamente preclusa la vita in alto mare, mentre nel romanzo L’isola del giorno prima (1994) di Umberto Eco e nel film I love Radio Rock (2009) di Richard Curtis la nave è ferma al largo, dunque mantiene una certa autonomia dalla terraferma.

Nel romanzo di Mutis lo spazio della nave, nel momento in cui si avvicina a terra, «viene gradatamente invaso da un altro spazio e un altro tempo gravidi di ripetitivi rituali, subalterni alle dinamiche della quotidianità e del controllo» (p. 171). Dunque, il contatto con la terraferma determina «il progressivo sfaldarsi dell’eterotopia navigante e l’oscurarsi graduale del “serbatoio di immaginazione” che essa era stata: la “polizia”, la struttura del controllo sale a bordo e comincia ad annichilire l’assolata bellezza dei corsari e le sue dinamiche di immaginazione e di libertà» (p. 172). Si palesa così una contrapposizione tra lo spazio navigante, spazio della libertà e dell’avventura, e lo spazio della terraferma, spazio razionale e della quotidianità. Nell’essere obbligatoriamente bloccata in porto, la nave del romanzo di Izzo è costretta a sottostare alle regole del controllo statale, dunque finisce per divenire «il nucleo irradiante dal quale si dipartono tante linee di fuga verso la città e il suo spazio. I marinai, una volta a terra, sono “perduti”, quasi snaturati, e danno inizio a una serie di intersezioni con la terraferma che li trasforma fin quasi a perdere coscienza di sé» (p. 178). Come in molti romanzi di Izzo, ancora una volta, è Marsiglia la vera protagonista del libro, tanto che, nel venire a contatto con la nave bloccata in porto, è come se la città la fagocitasse, la trasformasse in una sua appendice.

Secondo lo studioso la nave ferma del romanzo di Eco può essere, invece, considerata «un complesso “mondo possibile”, creato in tutto o in parte dalla fantasia e dalle ossessioni di Roberto (e, dietro di lui, dal narratore onnisciente): un altro “serbatoio di immaginazione” che, anche se non in movimento, anche se non congiunge paesi e continenti, riesce a creare infiniti mondi, sogni, pensieri di pensieri» (p. 171).
Il film I love Radio Rock di Curtis narra di una stazione radio pirata che, nel 1966, trasmette all’Inghilterra musica rock da una nave ancorata al largo, quando i canali radiofonici ufficiali si ostinano a non prenderla in considerazione. Si tratta di una nave bloccata al largo, che non viaggia più ma capace di far «viaggiare la parola e il linguaggio in una dinamica di contestazione allo spazio ‘quotidiano’ della terraferma. Dall’eterotopia della nave si dipartono voci, parole e musica che minano alle sue basi la stanca società e il suo linguaggio d’ordine, regolato da meccanismi disciplinari» (p. 182). Dunque, suggerisce Lago, ricorrendo alle parole di Foucault (Spazi altri), lo spazio della nave, in questo caso, può essere considerato «una specie di contestazione al contempo mitica e reale dello spazio in cui viviamo» (pp. 182-183). In tale film, continua Lago, la nave è «un’eterotopia della contestazione che si muove pur stando ferma, che possiede non il movimento (non a caso, quando proverà a muoversi si guasterà e colerà a picco) ma la velocità. Una velocità ‘nomadica’ che, dal mare aperto, dallo spazio liscio di un deserto marino, muove una pacifica e terribile guerra all’apparato statale immobile e sedentario» (p. 184).

croc_naufrIl volume La nave lo spazio e l’altro, si conclude con “Un epilogo postmoderno: la crociera”, in cui l’autore passa in rassegna la crociera, «vero e proprio “serbatoio di immaginazione” creato a tavolino, uno spazio postmoderno emblema dello sfarzo e del declino della società occidentale capitalistica» (p. 185) raccontata dal romanzo Una cosa divertente che non farò mai più (1997) di David Foster Wallace e dalle opere cinematografiche Un film parlato (2003) di Manoel De Oliveira e Film Socialisme (2010) di Jean-Luc Godard.

Il romanzo di Wallace presenta la crociera come microcosmo spettacolare, becero e meschino, della società capitalistica statunitense. Il film di De Oliveira ricorre alla nave come simbolo dell’intera società occidentale contemporanea, segnata dalla forza razionale della parola, che si trova improvvisamente ed inaspettatamente a fare i conti con il suo doppio oscuro ed irrazionale che la fa saltare in aria. «Il terrorismo e il suo orrore non è altro che una mannaia che il razionalismo capitalista si è autoimposto, una mannaia direttamente collegata a terribili errori compiuti nel passato da quello stesso razionalismo. La nave da crociera, quel “trionfo calvinista del capitale e dell’industria sulla primitiva forza corrosiva del mare”, secondo le parole di Wallace, simbolo della società occidentale, è adesso devastata dalla morte e dalla distruzione. Ancora una volta, in fondo a quel “serbatoio di immaginazione”, rimane soltanto l’orrore, stavolta non letterario, ma crudamente e terribilmente reale» (p. 193). Nel caso di Godard la nave è un «postmoderno scrigno del divertimento ostentato e del benessere occidentale, […] simbolo di una società, di un popolo, di un continente» (p. 193). Quella di Godard è una nave alla deriva, che si allontana dall’Africa, dimentica delle sue colpe coloniali. «Sembra che nella società contemporanea dominata dal Capitalismo maturo anche la stessa eterotopia della nave si infranga per lasciare spazio al nuovo mondo globalizzato e livellato, diretto verso un inesorabile declino» (p. 195).

Nell’individualismo più sfrenato a cui l’occidente capitalista ha condotto l’umanità sembra ormai tramontato anche l’invito all’arrangiarsi, al “si salvi chi può!”. La crociera postmoderna narrata da questi autori sembra piuttosto palesare l’impossibilità della salvezza. “Salvarsi non si può!”

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Tutte le immagini sono tratte dal film Nuovomondo (2006) di Emanuele Crialese tranne l’ultima che mostra il famoso naufragio del 2012, nei pressi dell’isola del Giglio, della medesima nave da crociera utilizzata nel Film Socialisme (2010) di Jean-Luc Godard.

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