Erving Goffman – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 30 Apr 2025 21:35:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Anatomia del potere nel teatro di Pasolini https://www.carmillaonline.com/2022/06/26/lanatomia-del-potere-nel-teatro-di-pasolini/ Sun, 26 Jun 2022 21:00:27 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=72726 di Paolo Lago

Georgios Katsantonis, Anatomia del potere. Orgia, Porcile, Calderón. Pasolini drammaturgo vs Pasolini filosofo, Metauro, Pesaro, 2021, pp. 298, euro 22,00.

La dimensione del corpo è indubbiamente fondamentale nell’intera opera di Pasolini: nella poesia, in cui spesso ad essere rappresentato è lo stesso corpo del poeta, rivestito della sua dimensione fisica più autentica, senza filtri estetici; nella narrativa, da Ragazzi di vita, in cui la stessa città di Roma sembra trasformarsi in corpo che cresce e soffre insieme ai corpi dei ragazzi sottoproletari, fino a Petrolio, in cui il [...]]]> di Paolo Lago

Georgios Katsantonis, Anatomia del potere. Orgia, Porcile, Calderón. Pasolini drammaturgo vs Pasolini filosofo, Metauro, Pesaro, 2021, pp. 298, euro 22,00.

La dimensione del corpo è indubbiamente fondamentale nell’intera opera di Pasolini: nella poesia, in cui spesso ad essere rappresentato è lo stesso corpo del poeta, rivestito della sua dimensione fisica più autentica, senza filtri estetici; nella narrativa, da Ragazzi di vita, in cui la stessa città di Roma sembra trasformarsi in corpo che cresce e soffre insieme ai corpi dei ragazzi sottoproletari, fino a Petrolio, in cui il corpo emerge nei suoi aspetti più strettamente legati ad un eros annientatore; nel cinema, in cui ad essere rappresentati sono i corpi di sottoproletari votati al sacrificio, come Accattone, Ettore o Mamma Roma, o quelli di personaggi inseriti in un «carnevale di stili e di sessi», come ha scritto Barthelemy Amengual a proposito di Medea. Sicuramente, anche nel teatro pasoliniano il corpo riveste un ruolo di primo piano, basti ricordare questi versi di Calderón: «Tu sei qui perché hai un corpo. / Senza corpo non ci sarebbe vergogna, sofferenza e morte, / e quindi non ci sarebbe espiazione». Adesso, ad analizzare la ‘funzione-corpo’ nel teatro di Pasolini, interviene un ricco e ben documentato saggio di Georgios Katsantonis, oggetto del quale non è tanto «definire la centralità del corpo» nel teatro dell’autore, quanto invece «capire come essa si esprima e quali segni emetta».

Il saggio si concentra su tre tragedie di Pasolini: Orgia, Porcile e Calderón. Come specifica l’autore, «l’analisi condotta indaga i seguenti snodi tematico-testuali: 1) il corpo in preda al desiderio sadomasochistico (Orgia), 2) il corpo con la sua viscerale motivazione erotica che sconfina nella zooerastia (Porcile), 3) il corpo imprigionato tra scissione e visionarietà (Calderón)». Le tre opere selezionate «illustrano un tentativo di lettura del potere nelle sue varie declinazioni simboliche», con lo scopo «di far risaltare la concezione filosofica e l’impegno politico che si nascondono dietro le drammaturgie pasoliniane». Viene quindi attuata una vera e propria «anatomia del potere» nelle tre opere teatrali di Pasolini dimostrando come, in esse, sia lo stesso potere a manovrare i corpi degli individui: un potere, come quello della società dei consumi del neocapitalismo, che assume connotazioni simboliche che lo avvicinano a quello attuato da dittature sanguinarie come il fascismo e il nazismo.

L’analisi di Katsantonis parte da Orgia, un’opera teatrale composta (come le altre) nel 1966, l’unica allestita da Pasolini stesso. I due protagonisti, l’Uomo e la Donna, marito e moglie, sono chiusi nella loro camera borghese e praticano esperienze sadomasochiste «per scoprire una nuova libertà all’interno della prigionia sociale». Entrambi sono desiderosi della morte e si uccidono, «trascinati nella confusione tra vittima e carnefice dalle loro pulsioni oscure e violente». L’autore prende in esame Orgia mediante un’ottica comparata, a partire da una lettura della Philosophie dans le boudoir di Sade. Questo rapporto erotico basato sul sadomasochismo, sullo scambio di ruoli fra vittima e carnefice, assume le connotazioni metaforiche di una riflessione critica sulla società e sul potere. Il corpo appare schiavo delle dinamiche imposte da quest’ultimo, all’interno di un feticismo che diviene anche e soprattutto feticismo delle merci. Gli oggetti dell’adorazione feticistica – che rappresentano le merci nella società consumistica – sono diventati le catene che schiavizzano i corpi dei personaggi, nello stesso modo in cui l’adorazione della merce schiavizza i corpi degli individui all’interno della società neocapitalistica. Se l’Uomo appare totalmente schiavizzato nel corpo da questo rapporto feticistico dominato dal potere, la Donna assume diverse connotazioni di resistenza a quello stesso potere. Infatti, come nota lo studioso, spesso, «le donne nell’opera di Pasolini rappresentano l’elemento di rottura e di resistenza alla corruzione e all’ideologia dominante della società. Hanno un ruolo socio-politico eversivo che definisce una figura frequente nel cinema e nel teatro pasoliniano: quello della vittima del Potere, in cui si crea anche una sorta di parallelismo tra il “diverso” e la donna». Possiamo ricordare Anna Magnani-Mamma Roma, figura materna e prostituta (le prostitute, infatti, secondo Sade – e non da ultimo anche secondo Pasolini – come scrive l’autore, «sono le uniche donne degne di rispetto e le più sagge»), oppure Medea, interpretata da Maria Callas, vera e propria rappresentante del sacro nella società desacralizzata della Grecia in cui regna Creonte e nella quale viene condotta da Giasone, una società che rappresenta la razionalità della moderna borghesia; oppure, ancora, Silvana Mangano-Lucia in Teorema (1968) o, nello stesso film, Emilia, interpretata da Laura Betti, l’unica che, toccata dalla sacralità dell’Ospite, si distacca da una società borghese per fare ritorno agli spazi di un’Italia paleoindustriale e contadina che sta scomparendo. Se il sesso, in Orgia come in Teorema, è un sostituto del sacro, una espressione vitale e innocente (come nella Trilogia della vita), l’eros imposto dal potere, come in Salò, è invece una violenza effettuata sui corpi degli individui, come l’obbligo del godimento all’interno della società dei consumi.

Il secondo capitolo prende in esame Porcile, un’altra pièce teatrale pasoliniana abbozzata nel 1966 e riscritta tra la fine del 1967 e l’inizio del 1968, attraverso un’analisi comparata che include anche il film omonimo del 1969. Julian, il giovane figlio di un ricco industriale della Germania del 1967, non è né ubbidiente né disubbidiente nei confronti dell’autorità paterna e perciò, secondo lo studioso, presenta un carattere spiccato di alterità. Quest’ultima si configura come un’assenza di identità sociale: Julian rifiuta qualsiasi aspetto della sua vita borghese, incluso l’amore della giovane Ida, per ritirarsi a compiere infinitamente il suo unico atto d’amore, l’accoppiamento con i maiali. Se in tale atto è da intravedere appunto una marginalità sociale del personaggio all’interno della quale appare evidente la sua omosessualità, esso presuppone comunque anche una qualche forma di protesta, che emerge soprattutto durante il dialogo con Spinoza nel porcile (scena che sarà poi eliminata nella versione cinematografica). Secondo il filosofo, Julian una decisione, invece, la ha già presa da tempo, cioè quella di sparire, di rifiutare di sottoporsi al rutilante gioco spettacolare del potere che celebra i suoi fasti in una vera e propria catena di montaggio linguistica, in cui le battute si susseguono le une alle altre intervallate da espressioni come «urrà» o «trallallà», scegliendo la dimensione dell’afasia, definita dallo studioso come un vero e proprio spazio eterotopico. Nel frattempo, il Potere si ricicla, rinasce dalle sue ceneri: gli industriali della Germania del 1967 non sono altro che ex criminali nazisti votati alla civiltà dei nuovi consumi «nell’inferno del totalitarismo tecnocratico in cui si neutralizzano le diversità, falsamente accettate dal Potere mediante un’accorta politica di tolleranza fittizia». Julian, come il giovane cannibale che, nella versione cinematografica, viene condannato a essere sbranato dai cani, subisce un vero e proprio sparagmos, uno smembramento, «requisito necessario per la costruzione di una nuova immagine che sfugge ad ogni tentativo di contenimento entro sistemi organici».

La lente dello studioso, analizzando Porcile, si focalizza anche sulla presenza degli animali, nella fattispecie dei maiali. Questi ultimi assumono una doppia valenza: animali veri, come quelli che sono nel porcile, ma anche animali metaforici, «i padri capitalisti e borghesi, nel metaforico porcile della Germania neocapitalista». Se gli animali veri si situano al di là del male e del bene, su quelli metaforici ricadono invece gravi colpe. Inoltre, «l’animale in Porcile è il luogo in cui svelare i meccanismi su cui poggia la società capitalistica»: da questa stessa società, gli animali sono stati appiattiti nella funzione di materia prima dell’industria di macellazione di massa. In un mondo in cui il Potere si riveste cupamente di connotazioni totalitarie, in una orrenda continuità fra industrializzazione degli anni Sessanta e crimini nazisti, gli animali appaiono come le vittime innocenti imprigionate per essere spedite ai macelli, veri e propri nuovi lager contemporanei. L’autore ricorda in modo appropriato una lettera che Pasolini scrisse ad Anna Magnani, pubblicata su «Tempo» nel 1969, in cui il poeta paragona i vagoni fermi ai confini, pieni di animali destinati al macello, a quelli che trasportavano gli esseri umani verso i lager nazisti. Se nelle parole di Pasolini non emerge una vera e propria etica animalista, si può pensare a una volontà dello scrittore di «fare un ritratto dei totalitarismi soprattutto sulla base dell’equazione uomini-animali al macello». Del resto, si potrebbe ricordare anche un altro esempio, non riportato dallo studioso, in cui Pasolini riflette, mosso da una vera e propria pietas, sul destino degli animali destinati al macello. In Storia burina (1956-1965), un racconto che l’autore rielabora utilizzando la tecnica del non finito, poi incluso in Alì dagli occhi azzurri, spicca la descrizione delle vacche destinate al macello: «Venerdì, fiesta dell’Ammazzatore. Passano, passano, vacche magre, trasparenti, passano vacche secche come alici, passano in fila, trasparenti come l’osso, buone buone, con la morte negli occhi, come ubriachi che tornano la mattina accecati dal sole, bianche come uccelli della neve, e con le croste dello sterco sulle ossa che bucano la pelle tirata come la seta, passano masticando, masticando come per fare le indifferenti, ma sapendo bene quello che le aspetta, passano, passano come ombre cinesi bianche, come grandi pipistrelli bianchi che hanno preso la strada dell’inferno, mentre il sole non passa mai, nero come un toro sopra il monte di Testaccio».

Il saggio di Katsantonis, per mezzo delle sue originali e innovative intuizioni, fa venire delle idee: sicuramente un solido punto di forza per un lavoro critico. Allora, dalle suggestioni legate al confronto fra porcile e campi di concentramento, fra industria della carne e crimini nazisti, potrebbe venire in mente un paragone fra Porcile e Okja (2017), del regista sudcoreano Bong Joon-ho. In quest’ultimo film, i luoghi in cui viene imprigionato Okja, il «supermaiale» sottratto alla sua padroncina negli spazi incontaminati della Corea del Sud e condotto negli Stati Uniti, sono rappresentati come veri e propri nuovi campi di concentramento, circondati da filo spinato, in cui migliaia di «supermaiali» vengono portati alla morte. Anche Bong Joon-ho attua una riflessione sulle dinamiche di potere nella società tecnocratica: quello che decide di uccidere Okja è infatti il Potere delle multinazionali contemporanee, che agiscono nei tessuti più profondi della società per mezzo della digitalizzazione diffusa, capillarmente inserita nelle vite degli individui per mezzo di PC portatili, smartphone e tablet (oggetti assai presenti nelle immagini del film).

Nel capitolo finale del suo saggio, lo studioso affronta la tragedia pasoliniana Calderón ponendola a confronto non solo con La vita è sogno di Pedro Calderón de la Barca, a cui lo stesso Pasolini si ispira, ma anche con Un sogno di Strindberg, un autore molto amato e frequentato dallo scrittore bolognese, fino al postumo Petrolio. Secondo Katsantonis, Pasolini, Calderón de la Barca e Strindberg, «si servono del sogno partendo da prospettive diverse e sono legati tra loro da un elemento strutturale: la simbologia carceraria del sogno». Nel dramma pasoliniano, ambientato nella Spagna franchista, Rosaura si risveglia dal metaforico sogno calderoniano aristocratica, sottoproletaria e piccolo-borghese. Se il sogno appare come una via di fuga dalle maglie del Potere, su di esso si esercita un controllo ‘carcerario’ attuato dallo stesso Potere: Rosaura si trasforma in un corpo marionetta di cui il Potere, rappresentato dalla figura di Basilio, il re padre padrone, regge i fili addirittura pilotandone i sogni. Il saggista si serve delle teorie di Goffman per analizzare le dinamiche messe in opera dalle stesse strutture di potere. Gli spazi in cui Rosaura si risveglia assomigliano alle istituzioni totali analizzate dallo studioso (i manicomi, le prigioni) e lo stesso personaggio assume le connotazioni di un internato. Come osserva Katsantonis, «in Calderón Pasolini mette in luce la sopravvivenza del sistema concentrazionario nelle società contemporanee; il grado zero della libertà individuale a causa dell’estensione del controllo capillare delle masse e della loro omologazione». D’altronde, il medesimo sistema concentrazionario si è messo in moto in occasione della recente pandemia da Covid 19, la quale ha messo in luce «il furore autodistruttivo del capitalismo, che non si ferma neppure di fronte alla prospettiva della vita abolita».

Un’immagine emblematica del potere che controlla gli individui, secondo lo studioso, è quella della marionetta. L’uomo è una marionetta (basti pensare a Che cosa sono le nuvole?), i cui fili sono tenuti da un Potere oscuro ed imperscrutabile che immerge gli individui negli inferni del cieco sviluppo, portato avanti ad ogni costo, deturpando la natura e gli scorci paesaggistici. All’interno di questo sistema di potere – osserva lo studioso – le stesse forze rivoluzionarie sono l’espressione di un illuminismo borghese che obbedisce agli schemi della dialettica servo-padrone. In questa dinamica rientrerebbe anche «l’avversione nutrita da Pasolini per il movimento studentesco» durante gli scontri del Sessantotto, tema, comunque, molto complesso, che meriterebbe ulteriori spunti di riflessioni. A mio avviso, infatti, Pasolini non aveva nessuna avversione per il movimento studentesco, anzi: l’intera poesia Il PCI ai giovani!!!, in cui il poeta prendeva posizione a favore dei poliziotti, andrebbe letta in una chiave ironica e autoironica, come scrisse lo stesso Pasolini. Si tratta di un pezzo di ars retorica, un testo provocatorio, che va letto al di là del suo significato letterale tanto che Pasolini, in una «Lettera al Presidente del Consiglio» uscita su «Tempo» nel settembre del 1968, definiva la Resistenza e il Movimento Studentesco come «le due uniche esperienze democratico-rivoluzionarie del popolo italiano».

In definitiva, il saggio di Georgios Katsantonis risulta estremamente interessante perché srotola un tema, come quello delle dinamiche del potere nell’opera pasoliniana, anche oggi molto attuale, in un’epoca in cui lo stesso Potere cerca di controllare in tutti i modi la vita degli individui, anche in forma invisibile e spettrale per mezzo della diffusa digitalizzazione di massa. Ha inoltre il pregio di affrontare tre opere fondamentali del teatro pasoliniano in modo nuovo ed inedito, portando esempi, confronti, analisi comparate che mai erano state affrontate in precedenza e offrendo, come già notato, lo spunto per nuove analisi e riflessioni. Che non dovrebbero mai venire a mancare riguardo a una figura complessa e fondamentale come quella di Pasolini, a maggior ragione oggi che ricorrono i cento anni dalla nascita. Ricorrenza che però non dovrebbe soltanto comparire nelle sembianze di un salottiero ircocervo di accademiche celebrazioni fini a se stesse, ma dovrebbe rappresentare l’occasione per dare nuova vitalità a espressioni artistiche, teoriche e letterarie che provengano da una cultura dal basso e militante.

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Il corpo mediatico e la sua finta rivoluzione https://www.carmillaonline.com/2022/04/04/il-corpo-mediatico-e-la-sua-finta-rivoluzione/ Mon, 04 Apr 2022 21:00:54 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=71277 di Iuri Lombardi

Le vie per leggere la storia di un paese – in affanno o meno, in un periodo di crisi o in un tempo di egemonia- sono diverse a cominciare dai dettagli e proprio nei dettagli, lo sappiamo bene, si nasconde il diavolo. La lettura può quindi essere eseguita analizzando i fenomeni letterari, musicali, le arti visive e la produzione iconografica in genere, l’evoluzione della grafica e del fumetto- ad esempio facendo una collezione di pacchetti di sigarette o di figurine- infine passando in rassegna la comunicazione pubblicitaria che porta in [...]]]> di Iuri Lombardi

Le vie per leggere la storia di un paese – in affanno o meno, in un periodo di crisi o in un tempo di egemonia- sono diverse a cominciare dai dettagli e proprio nei dettagli, lo sappiamo bene, si nasconde il diavolo. La lettura può quindi essere eseguita analizzando i fenomeni letterari, musicali, le arti visive e la produzione iconografica in genere, l’evoluzione della grafica e del fumetto- ad esempio facendo una collezione di pacchetti di sigarette o di figurine- infine passando in rassegna la comunicazione pubblicitaria che porta in sé un messaggio di natura antropocentrica. Tuttavia, i dettagli, gli aspetti minuti soggetti d’analisi sopra elencati (possono essere molteplici, chi c’era negli anni ottanta del secolo scorso si ricorderà delle copertine dei quaderni a uso scolastico che ritraevano o calciatori delle squadre di serie A o molto belli – più femminili- le illustrazioni di Holly Hobbie) oggi si sono smarriti nella memoria o comunque pare non abbiano più il giusto smalto che seduce l’osservatore più attento. Allora eravamo nel cuore dell’età capitalista, nella stagione della famosa Milano da bere, nella corsa che il consumismo dell’età industriale imponeva al nostro ritmo quotidiano. Oggi che siamo nell’era post-industriale, nel tempo post-capitalista, dove le certezze si sono sgretolate come rena di fiume, quelli che potevano essere dettagli sono diventati attori sociali sempre più in auge e il corpo, la persona in carne ed ossa, una maschera inconsapevole del ruolo che recita.

Ora volendo riassumere la storia del corpo e del suo protagonismo, del rapporto che lega l’antico legame tra spirito e carne, ci viene spontaneo suddividere la sua biografica, la sua antropocentrica evoluzione in almeno tre grandi quanto inscindibili stagioni: la prima dal tempo in cui l’uomo è apparso sulla terra sino all’età medievale, la seconda dal Rinascimento sino alla fine del novecento e l’ultima l’età post-industriale. Questo perché il corpo non solo è stato soggetto di una mutazione di genere o biologica ma anche il mezzo di espressione più efficace per recitare – come direbbe Goffman- nella società e in relazione al nostro prossimo. In altre parole, sul corpo si può leggere la storia dell’uomo e della civiltà, come se esso fosse un libro da consultare periodicamente, un diario biologico e sociale dove si memorizzano i vari passaggi di tempo, le evoluzioni e le involuzioni, lo zigzag curioso di una civiltà e del suo cammino. Possiamo dunque affermare che il corpo è una delle memorie dell’uomo e che per e in vari episodi sia stato il protagonista. Un protagonista importante dove, attorno al suo impiego in un lasso temporale assai lungo che dall’età preistorica passando dall’antica sino giù al Medioevo, l’uomo intorno al corpo vi ha costruito una civiltà, vi ha intessuto un corpo sociale.

Se nell’età antica infatti il corpo era un elemento di lotta, legato all’uso frenetico della sopravvivenza e della caccia, un feticcio ingombrante ma vissuto in modo inconsapevole e felice, condiviso nel collettivo per soddisfare l’istinto della procreazione ma anche del piacere, in un tempo assai successivo, nella stagione ellenica o antica, esso fu oggetto di trasmissione tragica e nel gioco fittizio tra sogno e realtà – è sufficiente pensare al grande teatro greco-romano- archetipo della scoperta del piacere. Con il corpo si giocava, si faceva teatro, si riempiva lo spazio delle storie cantate, lontano da un Dio – per fortuna- sconosciuto come il solo e unico, si articolavano intrecci declamando versi epici. Esso diventa epica, si fa teatro, diventa il protagonista gioioso più prossimo alla vita e con esso si costruisce il tessuto sociale, si dipana la storia, attorno ad esso, procreando, si sviluppa la prima forma di famiglia nucleare. Una famiglia fondata sulla presenza del corpo, dell’involucro umano che ospitava in esso il pneuma ossia l’anima, e legittimata dall’empatia reciproca.

Purtroppo riassumendo non mi è possibile dilungarmi molto su questo aspetto e il discorso della famiglia va affrontato come capitolo a parte; a prescindere dal corpo oggetto del mio interesse.
Tuttavia, qui l’aspetto interessante è senza dubbio il rapporto tra carne e spirito e di come dal pneuma ci fosse la possibilità di un corpo che non c’è a prescindere ma che fosse tangibile proprio perché determinato dallo spirito. Dunque il corpo nasce dall’anima del suo essere. Senza anima, senza respiro non può esserci il corpo. È quindi grazie allo spirito che anima che l’involucro – quel concentrato di carne e ossa – lotta, vive, caccia prima e poi diventa contesa di piacere dopo, è grazie ancora al pneuma se il corpo diventa storia, intavola l’epica, instaura nell’uomo la poesia come stato di grazia e canto d’amore, diventa allegoria per la rappresentazione. Attraverso e con il corpo l’uomo instaura i primi elementi di una civiltà, diventa il tramite unico e indiscusso dell’insieme delle cose, in altre parole: costituisce la società. Attorno ad esso, attore indiscusso, anche la morte diventa qualcosa di gioioso. Morendo infatti si acquisisce il senso della vita passata, ci affidiamo all’eterno come possibilità di un protrarsi della vita mediante un significato profondo. L’anima che animava il corpo con tutte le sue funzioni, adesso nel sonno non solo dà significato alla vita ma da essa esala lasciando il corpo che deve essere custodito gelosamente. Ecco allora che attraverso la morte si ha l’esigenza di un luogo x, di una epochè (di una sorta di Ade), dove poter riposare in pace sigillati da un alone mistico. Quel corpo destinato all’amore, quel corpo parlante diventa spirito e di conseguenza protettore per coloro che ancora vivono.

Man mano però che la storia procede e con essa l’uomo acquista consapevolezza della propria capacità fisica, ecco allora che il corpo diventa sempre più un protagonista, sempre più un tramite di possibilità: quel libro imprescindibile sui cui segni vi è la memoria dei giorni e dei tanti presenti. Il corpo diventa una merce di scambio. Con il passaggio dal corpo del pneuma al corpo-merce si determina il cambio di rotta, si intavola il capitolo della storia moderna.

Il corpo adesso diventa solo un mezzo di lotta e la sua anima non più spirito ma un viluppo di sensazioni e di percezioni ancora una volta impossibile di scissione dalla carne. L’involucro, le ossa, la persona fisica viene quindi impiegata per una lotta non più gioiosa ma totalmente di guerra. Muta quindi anche il rapporto tra uomo e tempo, dove quest’ultimo assume sempre più un significato preciso. Nasce quindi la consapevolezza che non c’è corpo se non calato in un tempo e che la temporalità ha comunque una scadenza: è un progetto a termine. Il corpo viene impiegato tramite una compravendita subdola nel lavoro, nella società, nell’amore, nei momenti ricreativi, nei rapporti empatici, per il resto della vita. Ecco allora che nell’età industriale il corpo diventa un valore di scambio economico. L’operaio che presta il proprio servizio in una catena di montaggio, in una bottega, o in qualsiasi altro lavoro è soggetto a un mercato, a uno scambio pagato. Persino il mero esistere diventa merce. Una merce alla quale viene corrisposto un riscatto in denaro. Allo stesso modo viene pagato l’amore – e là dove non intercorre il denaro per onorare lo scambio l’investimento si ha attraverso forme di consumo – che adesso si conta a ore, in cui il corpo diventando merce è un mezzo di trasmissione di potere e di consumo. Attorno adesso si formulano e si concretizzano un insieme di realtà, a cominciare dall’humus sociale. A cominciare dalla famiglia che a differenza dell’antichità non è più legata al semplice stare insieme ma è finalizzata alla procreazione e quindi alla catena indissolubile della vita. La famiglia composta da un uomo e una donna diventa una eterotopìa mediante la quale si compie una volontà che prescinde il nostro volere. L’uomo, il maschio della casa, feconda la donna che genera a sua volta quella parte di lui destinata alla vita, ad essere merce di scambio e il suo potere – quello del maschio è nell’atto sessuale – si compie attraverso il coito e solo tramite l’unione della carne si può reggere un matrimonio (la sacra ruota vaticana infatti prevede la cancellazione del vincolo matrimoniale solo se l’atto non c’è mai stato, se la moglie non ha potuto adempiere all’atto procreativo o per rigetto o anche per impotenza del maschio) che a livello giurisdizionale, il celebre censimento, al figlio viene imposto – direi in termini illiberali- il cognome paterno, un maschio sull’uomo merce che riconosce la persona e la sua appartenenza e tramite il quale si trasmette il potere di una genia, di un passato di generazioni. La donna viene quindi esclusa da questa dinamica.

Tornando al corpo- dobbiamo sintetizzare essendo solo un sunto sull’argomento- una volta merce è quindi protagonista di uno scambio, di una contesa di consumo. Il corpo diventa la macchina di una serie di prestazioni, di servizi. Non più protagonista gioioso ma coprotagonista assieme ad altre merci. Viene contemplato per una logica di mercato, libero di scambiarsi, oggetto di compravendita, di reclusione qualora presentasse dei difetti. Nell’età industriale il corpo, essendo valore di scambio, deve essere perfetto, non può permettersi di presentare dei difetti. I’ capo rotto – come si direbbe nella Firenze di una volta- viene declassato, sminuito del suo potere e se in errore, soggetto di una anomalia, recluso, tolto dalla vita di scambio. Così ecco l’uso delle carceri, dei manicomi in un passato recente, del cottolengo. Un corpo che presenta un deficit deve essere escluso dalla vita perché non capace di essere impiegato, quindi insoddisfacente per produrre ed essere offerta di scambio. Diviene oggetto di offesa, vilipendio, punito poiché incapace di autenticare il rito della consumazione e del mercato. Un rito di fissazione che se per il cattolicesimo è il battesimo (sia per la chiesa di Roma sia per quella ortodossa) per l’ebraismo la circoncisione come per l’islamismo, per la società industriale sta nella selezione fisica – di quel corpo senza difetti- in un estetismo pret à porter.

La macchina corpo, il corpo merce ha bisogno per vivere in una logica di mercato di non essere difettato e qualora mostrasse la propria deficienza è oggetto di esclusione feroce non solo dal rito d’iniziazione ma per il resto del tempo e anche della morte stessa. Morte che nella stagione industriale diventa estinzione, una cosa inanimata leggera e priva di anima. La selezione fisica del corpo merce porta inevitabilmente all’estinzione e mai alla morte – intesa come passaggio ultraterreno. Questo aspetto è quindi riscontrabile anche nel linguaggio che si riferisce alla morte. Nel tempo industriale, nella stagione del corpo-merce, la persona diventa deceduta o semplicemente estinta. Ma le morti non sono tutte uguali e non si muore tutti allo stesso modo. Ci sono morti e morti, per cui il capo rotto, il corpo difettato non decede ma si estingue e la sua estinzione non fa notizia: non è mediatica.

Nel tempo dell’era post-industriale il corpo presenta delle caratteristiche simili all’età capitalistica ma con alcune differenze notevoli. Anzitutto, il corpo non è più oggetto di contesa, vale a dire merce, ma è un prodotto mediatico che poggia la sua essenza e il proprio ruolo esclusivamente sull’immagine. L’immagine si legittima attraverso la perfezione, perché anche in questo caso una figura difettata è scartabile a priori. Al contempo il suo battesimo, il rito di iniziazione, come nell’età industriale, sta nel consumo e solo in merito ad esso, solo che in questo caso il consumo è illusorio e non più materiale: è mediatico. Il corpo diventa protagonista di un gioco che si svolge a distanza tramite dispositivi elettronici e l’intero panorama civile nasce, si sviluppa e decede attraverso il web. Decede, non muore. La morte non può avvenire in un corpo mediatico, ma solo in un corpo umano, lontano da ogni logica di mercato. Così tutte le relazioni si consumano in un’illusione, a distanza, e persino l’aspetto sessuale trova una legittimazione tramite un dispositivo (sta diventando sempre più frequente l’uso della videocam anche per rapporti amorosi, in cui il soggetto si rapporta all’altro dietro cospicuo pagamento in una dimostrazione erotica). Allo stesso tempo il corpo mediatico, che possiamo definire a distanza, viene ad essere oggetto del rapportato, una sembianza con voce e anima e la parvenza di un cervello, persino in ambito lavorativo. Basti pesare all’uso dei call-center, della DAD, e a tutte quelle attività che si svolgono tramite un dispositivo. Nell’età post-industriale, nella stagione del corpo mediatico non vi è più la cognizione del tempo, in quanto il corpo non è più databile come nel caso precedente ma si relaziona a uno spazio più che a una questione temporale. Il corpo dei media non cade nel tempo, vive in un limbo che è lo spazio del web, degli imbonitori ombra, in una realtà che svela l’intero scibile ma nega l’approfondimento. In quest’era ogni cosa è di fatto svelata (dai libri alla musica, agli atti giuridici alla giustizia, alla scuola ecc..) ma non rivelata. All’uomo contemporaneo, al corpo del web la rivelazione è negata in quanto conoscenza del possibile (ancora compito dell’arte), mentre invece lo svelamento è qualcosa di tangibile e illusionistico al contempo. Insomma, si tratta di un gioco di prestigio legato all’attimo, all’effimero. Ma quest’attimo è il tempo del dramma, un’età che non conosce tempo e di esso non ne ha la cognizione, che si frammenta in uno spazio immaginario e in cui disintegrate sono ogni relazione fisica e morale. Con il corpo mediatico e il suo impiego muore anzi si estingue ogni empatia e la rete diventa un incrocio di ombre e di luci, un ordito a doppia cucitura di una tela priva di sfondo, di un palcoscenico privo di azione. Il dramma dunque è servito. Il corpo si è ridotto ad un uso individuale e non più collettivo; un’oasi nel deserto disertata dall’altro. L’uomo del web, post-industriale, è dunque l’uomo dell’estinzione civile, che non conosce ribellione, ma solo una reclusione eterna tramite un mezzo alieno. Anche l’estinzione, non più decesso come nell’età della merce o morte come tra gli antichi, è qualcosa di impalpabile: avviene e si constata non essendo più presente alle piattaforme del web. Il corpo intimidito così come si alimenta del nulla, dell’illusione così si estingue nello stesso identico modo. Ma lo scotto che deve pagare è assai salato, ma questo non gli è dato di saperlo.

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Un libro di denuncia e di battaglia contro il manicomio diffuso contemporaneo https://www.carmillaonline.com/2018/05/21/un-libro-di-denuncia-e-di-battaglia-contro-il-manicomio-diffuso-contemporaneo/ Sun, 20 May 2018 22:01:56 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=45554 di Gioacchino Toni

Piero Cipriano, Basaglia e le metamorfosi della psichiatria, Elèuthera, Milano, 2018, pp. 328, € 18,00

«E se credente ora / che tutto sia come prima / perché avete votato ancora / la sicurezza, la disciplina, / convinti di allontanare / la paura di cambiare / verremo ancora alle vostre porte / e grideremo ancora più forte / per quanto voi vi crediate assolti / siete per sempre coinvolti, / per quanto voi vi crediate assolti / siete per sempre coinvolti» (Fabrizio De André)

«Quando noi diciamo no al manicomio, diciamo [...]]]> di Gioacchino Toni

Piero Cipriano, Basaglia e le metamorfosi della psichiatria, Elèuthera, Milano, 2018, pp. 328, € 18,00

«E se credente ora / che tutto sia come prima / perché avete votato ancora / la sicurezza, la disciplina, / convinti di allontanare / la paura di cambiare / verremo ancora alle vostre porte / e grideremo ancora più forte / per quanto voi vi crediate assolti / siete per sempre coinvolti, / per quanto voi vi crediate assolti / siete per sempre coinvolti» (Fabrizio De André)

«Quando noi diciamo no al manicomio, diciamo no alla miseria del mondo» (Franco Basaglia)

Come fa notare Pier Aldo Rovatti nella prefazione, “libertà”, “rivoluzionario”, “radicale” e “iatrogeno” sono le parole chiave attorno alle quali ruota l’intero discorso portato avanti da Cipriano nel suo ultimo libro “di denuncia” e “di battaglia”, ricorrendo nuovamente alle parole di Rovatti.

Tanto per essere chiari sin dall’inizio: nel suo nuovo libro Cipriano non si limita, in odor di ricorrenze, a rendere il giusto merito a Franco Basaglia per quel che ha saputo fare ma intende anche denunciare quel che è successo dopo-Basaglia e, soprattutto, portare avanti una battaglia di libertà qui ed ora. Non è tipo da semplici e comode commemorazioni il nostro “psichiatra riluttante”.

Fatta questa premessa veniamo al libro, anzi, a dire il vero si tratta di due libri in uno. La prima parte del volume è dedicata a una breve storia della follia e dell’anti-follia, cioè di quella che da poco più di due secoli si chiama psichiatria. Si badi bene, precisa Cipriano sin da subito, riprendendo Basaglia, che quando si parla di storia della psichiatria si parla sostanzialmente di psichiatri, di diagnosi, di terapie e di repressione e non delle storie di chi l’ha subita. La seconda parte del volume concede invece la parola ad alcuni compagni di viaggio con cui costruire un immaginario e pratiche capaci di portare ad una “nuova 180”.

In apertura la ricostruzione della storia della follia e dell’anti-follia prende il via, come suggerito dalla Storia della follia scritta da Michel Foucault, da un editto francese del Seicento che prescrive l’ammasso presso il Grand Hôpital Géneral parigino di tutti i devianti: «Dai mentecatti ai libertini, alle donne di facili costumi, agli alcolizzati». Un secolo dopo Philippe Pinel «separa i fuori di testa dai fuori di legge». Da una parte i rei, dall’altra i folli. Chi deve scontare una pena da una parte, chi deve sostenere una cura dall’altra. Il carcere per gli uni, l’ospedale psichiatrico per gli altri. Poi si cimenteranno sui folli gli asportatori di brandelli di cervello, gli inoculatori di malaria e i dispensatori di scariche elettriche sino all’arrivo degli spacciatori di psicofarmaci e dei prestigiatori semantici: gli psichiatri. È lungo questo percorso che si arriva ad incastrare a vita una persona: attraverso una diagnosi e una molecola.

Eccoci allora a Basaglia, cioè a colui che negli anni Sessanta del Novecento trova la forza, il coraggio e l’umanità per fare quello che né i padri nobili della psichiatria psicodinamica (Freud, Joung, Adler e Janet), né i fenomenologi (Jaspers, Minkowski, Binswanger ecc.) hanno mai fatto: «mettere in discussione il mezzo con cui la psichiatria opera: il manicomio, ovvero la malattia istituzionale, la iatrogenesi di cui lo psichiatra è responsabile» (p. 20). Ed è proprio a Basaglia che è dedicato il secondo capitolo del libro, ossia a colui che può essere considerato sia politicamente che scientificamente un rivoluzionario. È grazie a persone come lui che viene messo in crisi il paradigma scientifico secondo cui il manicomio è terapeutico. In realtà la distruzione del manicomio è la condizione necessaria affinché si possano porre le basi per una psichiatria terapeutica e non repressiva.

Rispetto ad altre pratiche alternative, secondo Cipriano, l’originalità dell’esperienza goriziana consisterebbe nell’inversione di ruoli: «il vero direttore è diventato il malato». In una relazione del 1964 passata alla storia, così Basaglia stesso riassume le tappe della sua rivoluzione copernicana: 1. Introduzione dei farmaci, grazie ai quali è possibile eliminare le contenzioni; 2. Rieducazione umana del personale; 3. Riannodamento dei legami con l’esterno; 4. Abbattimento delle barriere fisiche: reti e grate; 5. Apertura delle porte; 6. Creazione di un ospedale diurno; 7. Organizzare la vita dell’ospedale secondo lo stile di una comunità terapeutica. Insomma una guerra aperta tra «il principio di libertà» e il «principio di autorità». In concreto, sottolinea Cipriano, nel settimo punto basagliano occorre leggere la necessità che la vita comunitaria diventi assembleare.

Ad inizio anni Sessanta escono diversi libri poi rivelatisi importanti punti di rifermento per il gruppo basagliano nella battaglia contro i manicomi: Storia della follia (1961) di Michel Foucault, Asylums (1961) di Erving Goffman, I dannati della terra (1961) di Frantz Fanon, Il mito della malattia mentale (1961) di Thomas Szasz; L’io diviso (1961) di Ronald Laing.
Con l’intento di far conoscere quanto si sta sperimentando a Gorizia, sul finire del decennio viene fatto uscire il libro corale L’istituzione negata. Rapporto da un ospedale psichiatrico (1968) nel quale Basaglia pubblica un contributo intitolato Le istituzioni della violenza in cui sostanzialmente muove una critica a trecentosessanta gradi nei confronti di tutte le istituzioni fondate sulla rigida distinzione di piani: famiglia, carcere, ospedale, università, fabbrica, scuola… Già in questo suo intervento, sostiene Cipriano, emerge

la figura dell’intellettuale non più universale – quello che restandosene fuori dal mondo non solo engagé, à la Sartre, non solo organico, à la Gramsci, ma l’intellettuale tecnico di un sapere pratico che si immerge nelle istituzioni per cambiarle, o per distruggerle: quello che Rovatti definisce intellettuale riluttante. Ecco, Basaglia e i goriziani sono stati gli antesignani di questo nuovo tipo di intellettuale calato nelle istituzioni (p. 62).

Il 13 maggio 1978 viene approvata la Legge 180. Quella che ancora oggi, tanto dai detrattori, quanto dagli entusiasti, viene indicata come una svolta radicale in senso libertario a proposito di sofferenza mentale, all’epoca viene percepita dal gruppo di Basaglia come un compromesso se non, in qualche modo, una sconfitta. In particolare a suscitare perplessità sono il Trattamento Sanitario Obbligatorio e l’apertura di piccoli reparti psichiatrici negli ospedali. È pur vero che quella Legge 180 (successivamente assorbita all’interno della Legge 833 istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale), o legge Basaglia (anche se nei fatti non è di certo sua la stesura), scrive Cipriano, forse rappresenta il massimo ammesso da quel contesto storico-culturale; una riforma più radicale avrebbe necessitato di una società più avanzata rispetto a quella dell’epoca.
Nel volume ci si sofferma anche su Le conferenze brasiliane da cui, secondo Cipriano, emerge quanto

Basaglia non sia stato rivoluzionario perché ha fatto la comunità terapeutica a Gorizia, che pure è stata una bomba che poi ha portato a Trieste e che gli altri goriziani esodati hanno portato in altri manicomi per deflagrarli, e neppure sia stato un rivoluzionario perché ha ispirato la scrittura della legge che li ha messi fuori legge, questi luoghi atavici, la sensazione è che davvero rivoluzionario Basaglia lo sia diventato da quel momento in poi. Come Che Guevara che cerca la Bolivia perché non si accontenta di ciò che ha fatto, come un Fanon che cerca la rivoluzione fuori dal manicomio, lui pure sembra cercare un terreno rivoluzionario e va in Brasile a coinvolgere i tecnici psi, e non solo, l’intero popolo brasiliano. (p. 82)

Basaglia, continua Cipriano, era un rivoluzionario anche sul piano politico «apolide e apartitco, probabilmente a suo modo anarchico. Inviso al PCI per la sua troppa carica libertaria […] Inviso all’Università, all’establishment, ai direttori di manicomio e ai manicomiali a cui toglie il potere dalle mani. Inviso per per la sua capacità pragmatica di portare fino in fondo questo suo impegno di uccidere il manicomio» (p. 85). Inviso pure, si badi bene, anche a tutti quegli “antipsichatri” che amavano scagliarsi contro il manicomio più a parole che con i fatti.
Anche sul farmaco la posizione di Basaglia è chiara. Non si tratta tanto di dirsi a sfavore di tutti i farmaci sempre e comunque; si tratta di vedere l’utilizzo che ne viene fatto e la finalità con cui li si somministra:

Noi dobbiamo dire che usiamo i farmaci, Ma cosa significa usarli? Normalizzare mentre stiamo facendo un discorso di liberazione? A me pare che dobbiamo riconoscere che la scoperta di alcune sostanze i grado di diminuire l’aggressività di una persona sia un fatto di lotta contro la natura, e questo discorso non mi scandalizza, perché questi prodotti offrono, ad alcune persone, una possibilità alternativa di esistenza, una contrattualità con l’altro, la possibilità di un rapporto. In realtà il farmaco ha una doppia faccia: terapeutica da un lato, e quindi strumento di liberazione, cronicizzante dall’altra, e quindi elemento di repressione. (Basaglia, Conferenze brasiliane – riportato a p. 86)

Nel terzo capitolo viene ricostruito il dopo Basaglia e qua Cipriano ripercorre lo sviluppo della cura mentale degli ultimi decenni riprendendo quanto approfondito nei suoi saggi precedenti: La fabbrica della cura mentale (2013), Il manicomio chimico (2015) e La società dei devianti (2016). Se aprire i manicomi e liberare i reclusi è stata una lunga e dura battaglia, molto più ardua pare la battaglia per aprire i “nuovi manicomi”:

Aprire il DSM, inteso come Manuale Diagnostico e Statistico, e liberare le persone dalle etichette diagnostiche e del farmaco che pressoché inevitabilmente consegue all’etichetta […] Le due cose, i due manicomi moderni, se così vogliamo definirli, etichette e farmaci, che ne creano uno davvero difficile da aggredire, sono a tal punto embricati che è, e sarà sempre più difficile, distinguere la follia dal suo doppio, il disturbo psichico essenziale dal suo doppio, da tutto ciò che sembra disagio psichico e invece è iatrogenia (p. 119).

Nel libro vengono dunque ricostruite le tappe che hanno portato alla deriva farmacologica della psichiatria ed il ruolo assunto dalla diagnosi, ormai piegata totalmente a una logica che considera malattia qualsiasi disagio psichico. Tutti noi possiamo divenire pazienti psichiatrici: basta manifestare uno stato emotivo forte per vedersi prescritto uno psicofarmaco che, non di rado, diviene responsabile di un nuovo disagio che a sua volta richiede nuovi psicofarmaci in una spirale totalmente illogica se non per le industrie farmaceutiche che si assicurano così un paziente-cliente per lungo tempo, se non a vita.

Il quarto capitolo è dedicato alla necessità di una nuova 180 e al panottico digitale che sembra ormai fare capolino. Sul finire del 2017 i senatori Nerina Dirindin e Luigi Manconi hanno presentato un disegno di legge dal titolo Disposizioni in materia di tutela della salute mentale volte all’attuazione e allo sviluppo dei principi di cui alla legge 13 maggio 1978, n. 180. Si tratta, sostiene Cipriano, di una sorta di 180 bis e se la 180 è derivata dalla battaglia di Basaglia, gli ispiratori di questa 180 bis si possono individuare in Franco Rotelli e Peppe Dell’Acqua. Tale proposta di legge intende intervenire su alcuni aspetti su cui la 180, in quanto legge quadro, non ha dato indicazioni attuative. Si tratta di una «legge-che-ribadisce», che intende far applicare una legge stesa sul finire degli anni ’70 e restata in parte inapplicata. Nel frattempo, però, l’istituzione manicomiale ha assunto nuove e molteplici forme che necessitano di essere messe in discussione.

Viviamo in una società caratterizzata da un nuovo panottico: il web in cui quotidianamente immettiamo informazioni su noi stessi, offriamo la nostra identità permettendo, se non chiedendo, ad altri di “tenerci d’occhio”, di “valutarci” e noi stessi finiamo a nostra volta, sentendoci gratificati da questo, per essere controllori e valutatori. Si tratta di un nuovo manicomio, un manicomio di tipo digitale che però si intreccia facilmente con quello concentrazionario, con quello chimico e quello diagnostico.

Un esempio del manicomio che ci aspetta Cipriano lo individua nell’inquietante progetto Proteus Digital Health a cui sta lavorando la Food and Drug Administration americana.

Il farmaco che deve essere immesso nel corpo di chi ne ha bisogno è l’antipsicotico ora più in auge, l’ultima molecola ritenuta antidoto alla psicosi: l’aripiprazolo commercializzato come Abilify. Tra i più costosi, si capisce. Proteus sarebbe in grado di inserire un sensore attaccato alla compressa, un sensore ingeribile quindi, che comunica con un altro sensore posto su un cerotto computerizzato indossato dal paziente o inserito sottopelle, di modo che il medico prescrittore dal suo tablet possa controllare l’intero percorso de farmaco, dall’ingestione all’assorbimento. Questo perché? Per contrastare la riluttanza delle persone con disturbo psichico ad assumere gli antipsicotici – scarsa compliance, viene definita – o l’assunzione a dosaggi inferiori alla prescrizione. Questo partendo dall’assunto – non provato – che non prendere antipsicotici inevitabilmente porti a ricadute (p. 166)

Per prospettare dove ci potrebbero portare sperimentazioni come Proteus, Cipriano prende spunto da un episodio della serie Balck Mirror intitolato Arkangel in cui si narra dell’impianto di un microchip nel cervello di una bambina in modo che la madre possa monitorarla costantemente intervenendo a distanza, attraverso un un tablet, per censurare agli occhi della figlia tutto ciò che potrebbe urtare la sua serenità. Così la figlia finisce per vivere in una sorta di realtà virtuale pilotata dal genitore attraverso il microchip Arkangel.

Arkangel è ciò che Protus potrebbe fare tra qualche anno. Un meccanismo per cui tutto accade per via digitale. Lo psichiatra fa la diagnosi. Prescrive. Il chip controlla. Il paziente non può più trasgredire. Questo è un mondo futuro, dove il cittadino modello è una sorta di androide, l’androide descritto immaginato narrato da Philip K. Dick, il cittadino modello dei regimi totalitari. Vivremo in una democrazia in ci tuttavia, come scrive Han, “la libertà sarà stata un episodio”. Una democrazia neoliberale sotto il segno del like. Si immagini un collegamento tra il sistema Proteus che monitora l’assunzione del farmaco e il profilo Facebook […] della persona stessa. Prendere il farmaco premiato dal like, non prenderlo sanzionato dal dislike. Essere puntuali nell’assunzione premiato da decine di love, o haha, o wow, disattendere l’assunzione sanzionato da sigh o peggio da grr […] sembra un po’ ridicolo a scriverlo, tutto ciò, eppure lo stiamo già facendo […] una semplificazione lessicale ed emotiva che rassomiglia alla neolingua immaginata da Orwell in 1984, la semplificata neolinuga […] funzionale a semplificare il pensiero (pp. 169-170)

Eccoci di fronte ad un immenso panottico che determina una sorveglianza reciproca. Occorre forse iniziare a pensare davvero a come uscire da questa manicomio diffuso entro cui ormai siamo tutti rinchiusi. E qua si entra nella seconda parte del volume. Una volta tratteggiata la storia della psichiatria, ora l’autore tenta di rispondere ad alcuni interrogativi:

ma chi sono, oggi, i nuovi operatori della salute mentale, gli intellettuali riluttanti, gli inventori di nuove pratiche di salute mentale? E che cosa pensano? Cosa ne pensano, soprattutto, di questa storia della psichiatria e cosa pensano del fatto che con gli studi e i diplomi e le patenti che hanno conseguito hanno scelto di calarsi, di sono calati, si stanno calando, stanno entrando in questa sotiria? Cosa pensano di fare? Come pensano di cambiarlo il corso di questa storia della psichiatria? (pp. 198-199)

Dunque il libro si apre alla coralità, la parola viene in qualche modo lasciata alle tante voci che possono contribuire alla messa in discussione delle vecchie e nuove forme manicomiali e ad un ripensamento delle modalità con cui affrontare la sofferenza mentale. Qua inizia un lungo viaggio in cui ci si imbatte in quelli che l’autore definisce rispettivamente gli “inventori”, gli “impazienti” e i “narratori”. A loro viene data la parola.

Tra coloro che cercano nuove strade per affrontare il disagio mentale, tra gli inventori di nuove pratiche di salute mentale, ci imbattiamo: in uno psicologo che allo studio preferisce l’orto ove lavora con migranti e disabili psichici; in una filosofa che ha operato in un day-hospital senza essere né medico né psicologo scoprendo che i tecnici, con le loro pratiche, si rivelano per lo più incapaci di relazionarsi con le persone; in un infermiere testardamente contrario alle fasce ed all’elettrochoc e in diversi altri operatori non convenzionali.

Poi, dopo gli inventori, la parola passa agli impazienti, agli esigenti, a quelli

dall’altra parte del muro di vetro che divide i sani di testa dai disturbati di testa, quelli che chiamano i pazienti, ma sono sempre meno pazienti, si sono fatti esigenti ed è giusto giustissimo che siano esigenti, c’è chi li chiama ancora utenti, ma non mi piace utente, malato mi piace ancora meno […] c’è chi li chiama ancora matti, chi folli, folle per esempio è bello, teste pieno di vento e di sogni, è un modo romantico ancora di raccontare la sragione, oppure chi li chiama semplicemente vittime della psichiatrica. E quanti di loro vogliono un soccorso. Un rapporto. E non gli piace di essere trattati così, oggettificati cosificati reificati, un numero, io sono una storia non un numero (p. 198)

Infine, nello spazio di mezzo, tra chi non è né malato né terapeuta, Cipriano ci porta tra narratori come Paolo Virzì, Nicola Lagioia, Silvano Agosti e Pierpaolo Capovilla, tra

quelli della società che suole dirsi civile, che sono capaci di pensare e di raccontare, con la propria arte, il mondo della follia e dell’anti-follia, quelli che sono artisti, sono narratori, sono registi, sono poeti, sono attori, sono musicisti, sono cantanti (p. 198)

Ed a proposito di narratori, il volume si conclude con un’intervista impossibile, con Basaglia che incontra Bolaño e con Cipriano che, di nascosto, prende nota.

Terminata la lettura di questo libro “di denuncia” e “di battaglia” ci rende conto come all’interno del manicomio diffuso contemporaneo si passi con estrema facilità dal ruolo di vittime a quello di carnefici.  Quella che continua a portare avanti testardamente Cipriano è una battaglia di libertà che ci tocca davvero tutti e tutte.


A proposito del libro Basaglia e le metamorfosi della psichiatria (2018) si veda su Carmilla: Il libro delle metamorfosi – Intervista a Piero Cipriano

 

 

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Nemico (e) immaginario. I mostri del neocapitalismo. I morti viventi tra consumismo e capro espiatorio https://www.carmillaonline.com/2016/09/06/nemico-immaginario-mostri-del-neocapitalismo-morti-viventi-consumismo-capro-espiatorio/ Tue, 06 Sep 2016 21:30:56 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=33033 di Gioacchino Toni

deadset334Martino Doni, Stefano Tomelleri, Zombi. I mostri del neocapitalismo, Edizioni Medusa edizioni, Milano, 2015, 84 pagine, € 10,00

«Il mito dello zombi è capace di raccogliere la natura parassitaria del neocapitalismo perché ne è in qualche modo l’espressione più elementare e nello stesso tempo più fedele: le caratteristiche essenziali degli zombi seguono parallelamente e nel contempo trasfigurano i dispositivi di produzione, sfruttamento, oppressione e rimozione che caratterizzano i legami sociali, culturali ed economici del nostro tempo» (p. 10).

Lo abbiamo visto sullo schermo, lo zombi è bulimico, non mangia per [...]]]> di Gioacchino Toni

deadset334Martino Doni, Stefano Tomelleri, Zombi. I mostri del neocapitalismo, Edizioni Medusa edizioni, Milano, 2015, 84 pagine, € 10,00

«Il mito dello zombi è capace di raccogliere la natura parassitaria del neocapitalismo perché ne è in qualche modo l’espressione più elementare e nello stesso tempo più fedele: le caratteristiche essenziali degli zombi seguono parallelamente e nel contempo trasfigurano i dispositivi di produzione, sfruttamento, oppressione e rimozione che caratterizzano i legami sociali, culturali ed economici del nostro tempo» (p. 10).

Lo abbiamo visto sullo schermo, lo zombi è bulimico, non mangia per nutrirsi ma per continuare a farlo così come, fuori dallo schermo, nella società contemporanea il consumo di merce è finalizzato alla reiterazione del consumo stesso. Altre caratteristiche che si ritrovano nei morti viventi sono la mancanza di sentimenti, l’apatia ed il riprodursi per contagio ma, soprattutto, lo zombi non è identificato come individuo: è massa indifferenziata proprio come sono percepiti i migranti che  sbarcano sulle coste europee o che vengono bloccati presso i nuovi e vecchi confini delle fortezze occidentali. Secondo René Girard (La violenza e il sacro) l’indifferenziazione è la «caratteristica principale del sacrificio, a cui è consegnato il capro espiatorio di una folla i cui componenti si sentono eguali e uniti contro il nemico comune» (p. 12).

Edward Said (Orientalismo), ad esempio, ha ben ricostruito come in occidente il mondo arabo sia da tempo percepito e raccontato come massa indifferenziata e di ciò troviamo conferma quotidianamente sui diversi media. In televisione alle vittime occidentali di una guerra, o di un cataclisma, viene concesso l’onore di essere ricordate come individui; quando i numeri lo consentono, i media elencano i nomi dei caduti e non mancano di ricostruirne le vite spezzate. Quando a morire sono barbari extraoccidentali i media si accontentano di generici riferimenti alla massa indistinta, si limitano a riportare, quando lo fanno, i freddi numeri dei defunti. Il fatto che i pervasivi media nostrani concedano lo status di “individuo” soltanto agli occidentali non manca di determinare importanti ricadute sulle modalità con cui si guardano gli altri.

Tornando al saggio di Doni e Tomelleri, con cui continuiamo la serie “Nemico (e) immaginario“, in esso si sottolinea come ci sia «un elemento sottaciuto da tutti, nel mito degli zombi, che va fatto emergere, a cui va data la giusta dimensione e attenzione; l’unico modo infatti per interrompere l’iperproduzione metastasica dell’oppressione è dar voce all’oppresso. Per questo lo zombi è sempre muto, anonimo, stupido, inascoltabile» (p. 12).

Anche la folla in trepidante attesa dell’apertura di un Apple Store per accaparrarsi l’ultima novità tecnologica lanciata su mercato (ammesso che sia la tecnologia ad interessare e non il mero status simbol offerto dal logo), che si presenta anonima, atomizzata ed “affamata di nuova merce”, può essere ricondotta, secondo i due studiosi, alla metafora degli zombi. «Il sospetto è che quella folla, sia alla caccia di qualcosa o di qualcuno che il mito nasconde e rende muto» (p. 12).

Il living dead è certamente un prodotto dell’industria culturale commerciale ma è anche metafora delle relazioni e dei processi sociali e l’analisi proposta dal saggio intende essere «uno studio di decifrazione dello zombi in quanto unità discorsiva carica di emozioni e di senso, consapevole o inconsapevole, voluta o non voluta, che si costruisce attivamente all’interno delle relazioni sociali, trasformandosi col tempo e nelle culture, per incarnare desideri e paure di un’epoca» (pp. 13-14).

Non è difficile, grazie anche ai suggerimenti espliciti contenuti in alcuni film, individuare analogie tra le orde di morti viventi che abitano gli schermi e le folle di consumatori che vagano nei megastore od anche, suggeriscono gli autori, con le moltitudini di minatori ricoperti dal fango fotografati da Sebastião Salgado. Doni e Tomelleri intendono indagare proprio questa somiglianza riscontrabile «tra i morti viventi dei film, fumetti e canzoni, e i soggetti peculiari del nostro attuale modo di produzione (che per comodità chiamiamo neocapitalismo, qualunque cosa significhi questa formula accomodante e di per sé abbastanza vacua), cioè noi, perché questa storia riguarda tutti noi, siamo tutti coinvolti nella trasformazione dell’essere umano in un morto che cammina» (p. 15).

L’attrazione contemporanea per gli zombie coincide con un’epoca in cui l’intera esistenza dell’essere umano è sempre più imbrigliata all’interno di meccanismi standardizzati ed alienanti, dunque il saggio indaga le forme simboliche prodotte da tale mutazione e tali forme simboliche sono in grado di riflettere quella massa senza vita all’interno della quale l’essere umano si sente fagocitato.

La storia dello zombi è lunga e variegata e fin dalla sua comparsa, comunque, questa figura ha a che fare con l’oppressione sociale; l’idea che qualche forma di potere possa sottrarre l’anima/il pensiero al popolo rendendolo schiavo ha attecchito facilmente tra la popolazione haitiana. Lo zombi può essere pensato come black hole capace di risucchiare «indistintamente le mistificazioni del progresso, per divenire infine lo specchio ustorio della libertà occidentale» (p. 19).

La figura dello zombi nasce in seno a quella cultura vudù che «forniva al proletariato haitiano l’opportunità di rileggere la propria vicenda in chiave postcoloniale, inoltre procurava i mezzi di elaborazione culturale della condizione oppressiva che stava vivendo: l’operaio subissato, abulico, alienato, dissanguato… è sotto l’effetto di una potente magia. È lo zombi» (p. 24). Nonostante l’origine haitiana, la figura dello zombi che si è imposta a livello universale negli ultimi decenni è decisamente riplasmata dall’uomo bianco; se la zombificazione nella tradizione haitiana deriva dalla magia nera, nella “versione internazionale” essa diviene una sorta di malattia contagiosa.

Dal libro The Magic Island (1929) di William Seabrok deriva una figura dello zombi interpretabile come espressione della nuova condizione di schiavitù in cui versa la popolazione haitiana: «gli zombi sono cadaveri ai lavori forzati, privi d’identità, di memoria, completamente alienati e asserviti, gli occhi sbarrati e lo sguardo assente» (p. 27). Nel libro di Seabrok si racconta anche di uno stregone che si fa assumere dalla “Haitian American Sugar Company” insieme ad un gruppo di braccianti-zombi sfruttati fino allo sfinimento. La leggenda vuole che questi lavoratori schiavizzati, una volta venuti a contatto con cibo salato, rompano l’incantesimo che li aveva zombificati e riattivando le coscienze decidano di sottrarsi allo sfruttamento e di far ritorno alle rispettive tombe. La credenza popolare vuole infatti che la ripresa di coscienza avvenga grazie all’assunzione di alimenti come la carne ed il sale, cioè cibi solitamente inaccessibili ai poveri. A proposito di questo racconto, Doni e Tomelleri evidenziano come la questione nodale sia contenuta proprio nelle premesse della vicenda: «lo zombi serve a far soldi. Lo zombi è il plusvalore che consente allo spregiudicato investitore di speculare sulla produzione. L’accumulazione primitiva del capitale non poteva avere un’immagine più calzante» (p. 27).

cover_zombi_medusaNel saggio ci si sofferma su una canzone del 1975 del musicista nigeriano Fela Kuti intitolata Zombie (come l’album che la contiene): i morti viventi sono i poliziotti ed i militari descritti come cadaveri privi di volontà che hanno subito un lavaggio del cervello finalizzato a fargli compiere crimini efferati. Si tratta di «terribili macchine di morte e di auto-immolazione: l’apoteosi del robot docile middle class intravisto da Mills nelle sue immaginazioni sociologiche. L’impiegato, il represso, l’emarginato, divenuto strumento cieco e sordo, che uccide, distrugge, reprime e muore senza pause, senza lavoro, senza senso (no break, no job, no sense). Apoteosi della banalità del male, della indisposizione al pensiero» (p. 38). E sappiamo come il sonno della ragione generi mostri.

Nella canzone Coffin for Head of State, Fela Kuti se la prende invece con le religioni (cristiana ed islamica), definite “organizzazioni mangiasoldi” che portano stordimento nelle coscienze africane. Nel pezzo il coro ripete insistentemente quel waka waka, che compare anche in un canto camerunese di fine anni ’40, portato nel 2010 alla ribalta internazionale in una versione pop dalla cantante colombiana Shakira come inno dei Mondiali di cacio sudafricani. La versione-tormentone che ha spopolato a livello globale, rivolgendosi ad un pubblico abituato a consumare senza farsi troppe domande, ha perso per strada la complessità originaria. «Gli zombi, che siamo tutti noi quando restiamo incantati dalle sirene dello show, non hanno dubbi, sono fruitori e merce al tempo stesso del nonsense» (p. 43).

Dunque, sostengono gli autori, una musica di denuncia e rivendicazione in grado di incidere a livello sociale, nel giro di pochi decenni, perde le sue caratteristiche: «il linguaggio rimane diretto, ma i livelli si sono parificati, gli attivisti e i militanti sono diventati puri consumatori, non vi è più consapevolezza di quello che un tempo si chiamava il “messaggio”. Nel mondo globalizzato, in preda a scosse da assestamento finanziario post Lehman Brothers, il “messaggio” fa parte del pacchetto, e quindi è del tutto ininfluente. La cultura, per farla breve, è stata zombificata» (p. 44).

Il potere ha fatto proprie le forme della contestazione rendendole obsolete, banali e ridicole. Lo stesso accade per il conflitto che, soprattutto grazie alla televisione, è stato trasformato in una messa in scena “evasiva”, d’intrattenimento tra uno spot e l’altro, non di rado con la complicità, spesso involontaria, di chi, forse cresciuto a dosi massicce di rappresentazioni televisive, si è prestato, credendosi protagonista, a fare da comparsa in uno spettacolo che lo ha fagocitato all’interno del processo di zombificazione. «L’opposizione è divenuta soltanto ridicola; la critica sociale è divenuta incomprensibile; il conflitto sociale è in continuazione procrastinato, sottaciuto, minimizzato. La politica si trasforma in farsa, il dibattito in idiozia mediatica, la dialettica in pernacchie e corna, i programmi e i decreti diventano barzellette ecc.» (p. 44). In scritti precedenti ci siamo soffermati sulla messa in finzione della realtà [su Carmilla] e sul depotenziamento del dissenso operato soprattutto dalla televisione [su Carmilla].

Questo processo di banalizzazione della vita, sostengono gli autori, è in corso da diverso tempo e non accenna ad esaurirsi, anzi pare trionfare incontrastato. «Le masse di morti viventi che assediano il centro commerciale nel film di Romero, sono le stesse che riempiono gli ipermercati di oggi […] È una sorta di processione ossessiva, una muta istituzione sociale che assume i tratti del rito religioso […] dove una massa indistinta di pellegrini si muove tra carrelli della spesa, navi da crociera, pacchetti vacanze, ristoranti a “tema”, dove ambienti, arredamento, personale e oggetti richiamano alla mente paesaggi naturali o futuristici, modi di vita di altre parti del mondo […] Una moltitudine si muove indifferenziata sotto i cori delle radio commerciali, che con i loro slogan scandiscono il ritmo della celebrazione, che si consuma nel gesto della mera presenza, indipendentemente dall’acquisto della merce o dalla loro convenienza utilitaristica. Perché merci diventano gli stessi partecipanti, contenitori di promozioni, occasioni, grandi affari, saldi, tessere magnetiche per l’accumulazione di punti, sanzione di una fedeltà che vincola all’eterna ripetizione di un desiderio di desiderio, di un consumo di consumo, in un eterno ritorno senza tregua» (pp. 45-46).

Come i fan delle popstar appaiono del tutto disinteressati al messaggio veicolato dalle canzoni (ammesso vi sia), allo stesso modo gli individui consumano quotidianamente merci del tutto privi di scrupoli critici: «l’assenza di riflessione è condizione indispensabile del neocapitalismo, la trasformazione in zombi è il prerequisito necessario per accedere alla macchina mitologica del consumo» (p. 46).

Dunque, si sostiene nel saggio, ciò che accomuna i consumatori e gli zombi pare essere la fame insaziabile, la bulimia cronica fine a se stessa; lo zombi morde senza mangiare e digerire, il consumatore acquista e spesso non “consuma” nemmeno la merce, la butta (e la ricompra). Il nutrimento coincide con lo scarto, come testimoniano le discariche sempre più debordandi. «Ma se il nutrimento coincide con lo scarto, esso non nutre più: ecco la fame infinita. Il consumatore zombi non smette di consumare, perché in realtà non consuma affatto. Quel che fa è trasformare in continuazione se stesso in oggetto di consumo, stordendo la propria facoltà critica e immaginativa e adempiendo a quei rituali di sottomissione che nei film sugli zombi caratterizzano tutte le creature morte: muoversi in massa, seguire un ritmo comune, indirizzarsi nella medesima direzione, sbranare senza tregua» (pp. 46-47).

Abbiamo visto come sia diffusa l’identificazione della figura dello zombi con quella del consumatore compulsivo ed a proposito di ciò, sostengono gli autori, il «coinvolgimento nella realtà sociale si è liquefatto: è rimasto soltanto il consumo come gesto meccanico che milioni di zombi compiono quotidianamente» (p. 53). L’identificazione del morto vivente con l’uomo medio massificato e consumista, però, sostengono Doni e Tomelleri, non può esaurire la questione dello zombi contemporaneo; esso non è soltanto un’immagine. «Se gli zombi rappresentano così bene le nostre paure e le nostre angosce collettive è perché sono una viva e potente riproposizione contemporanea di ciò che l’antropologo René Girard […] ha definito il meccanismo del capro espiatorio» (p. 57). Secondo Girad il capro espiatorio (o processo vittimario) indica una persecuzione collettiva (o con risonanze collettive).

I morti viventi ispirano il terrore per la disfatta della civiltà e del progresso, per il caos primordiale che si esprime con l’insorgere della persecuzione. La massa zombi dà immagine alla folla assetata di persecuzione e così come le folle accorrevano, tra Medioevo ed inizio della modernità, ad assistere allo spettacolo garantito dall’esecuzione delle streghe, della vittoria del bene sul male, altrettanto, suggerisce il saggio, il morto vivente sugli schermi richiama una moltitudine di spettatori desiderosi di assistere allo scontro finale tra vivi e non morti. «A richiamare una così numerosa massa di persone è sempre lo stesso Leitmotiv: il sacrificio. Il legame tra il mostro e il suo sacrificio è antico, e rimanda alla struttura stessa del meccanismo del capro espiatorio» (p. 59).

Indipendentemente dalle cause che portano alla comparsa degli zombi, il loro arrivo annuncia una modificazione della scena sociale e porta la distruzione della civiltà, il ritorno alla barbarie primordiale. «Gli zombi minacciano ciò che costituisce la conquista più alta e preziosa della civiltà occidentale: le buone maniere. Essi rappresentano il venir meno di ogni ritualizzazione e progressiva standardizzazione delle emozioni e dei comportamenti corporali […] Gli zombi mettono fine a ogni regola o codice di comportamento. Si assiste alla perdita di ogni differenza e di ogni ordine gerarchico […] Il senso della civilizzazione era quello di tenere a bada gli appetiti, certo, ma non per bon ton, bensì per tenere a bada ciò che gli appetiti a loro volta trattenevano a fatica: l’angoscia della morte. Il grande spettro della civiltà occidentale era addomesticato dalla cura per i particolari, dai rituali minuziosi, dalle sottili distinzioni tra caso e caso, dai distinguo e dai diversi riguardi dell’argomentazione, dal ben vestire e ben conservare. In questo contesto, spazzato via dalla società dei consumi del neocapitalismo, la morte era una specie di malattia da rimuovere, e la violenza era soltanto spettacolarizzazione mediatica. Ora gli zombi incarnano la morte in un modo singolare: sono vittime di altri zombi, che si trasformano in una folla di persecutori con un forte tratto vendicativo. Sono vittime di una morte violenta, e a loro volta, mimeticamente, fautori dello sterminio catastrofico della civiltà umana» (pp. 60-61).

Nei film di zombi viene esplicitata la crisi dell’ordine sociale determinato innanzitutto dalla crisi della gerarchia. Una moltitudine indifferenziata che si muove in maniera inconsapevole, priva di regole, rituali e codici compartimentali. La crisi sociale messa in scena tende ad essere spiegata attraverso cause morali e di tali cause sono accusati proprio gli zombi. Le loro colpe consistono nel trasgredire all’origine culturale ed al modello gerarchico. Si tratta di una moltitudine aperta, priva di responsabilità e di individualità, questi living dead non si curano del loro aspetto e delle conseguenze delle loro azioni, si muovono in maniera omologata, non aspirano all’autorealizzazione e, quel che è peggio, sono contagiosi. Gli zombi sono da eliminare, dicevamo, solo liberandosi di questi esseri mostruosi si può sperare in una rinascita della civiltà.

Lo sterminio appare pertanto come l’unica soluzione, tanto che nell’immaginario proposto dai videogiochi gli zombi sono da intendersi come surrogati di vite umane, in tal modo si giustifica la violenza dispiegata nei loro confronti. Gli spettatori provano piacere nell’assistere all’eliminazione degli zombi sullo schermo e ciò fa dei morti viventi il capro espiatorio: un colpevole consustanziale alla sua colpa. La colpa diviene un attributo ontologico, «è un anatema, nel senso neotestamentario, cioè una maledizione del capro espiatorio: si riscontra di riflesso nell’indifferenza o nella curiosità distratta che suscita il diverso […] lo stigmatizzato, che è abbandonato, ghettizzato, marginalizzato e infine escluso dalla vita sociale delle persone dette normali» (p. 65). Con il temine “stigmatizzato” Erving Goffman (Stigma. L’identità negata) indica colui che è talmente destinato alla propria vittimizzazione da finire col scimmiottare i “normali” finendo, tragicamente, per rafforzare in essi il desiderio di escluderlo dalla comunità se non di eliminarlo definitivamente. Proprio come avviene agli zombi che pur sembrando viventi non sono che la parodia di ciò che erano prima di morire.

La deformità fisica del corpo decomposto del living dead segnala la sua mostruosità morale, i morti viventi, continuano gli autori, «diventano il simbolo di una cultura che si racconta senza fondamento, posta in fragile equilibrio sull’orlo del proprio collasso, come se tute le interpretazioni fossero equivalenti e possibili. In questo modo la rappresentazione persecutoria è completa e il processo vittimario si può realizzare nella sua finzione artistica: nonostante tutto, gli uomini devono sopravvivere, mentre gli zombi, proprio per le loro colpe incancellabili, meritano di essere sterminati» (pp. 67-68).

- The Walking Dead _ Season 6, Episode 7 - Photo Credit: Gene Page/AMCSecondo Doni e Tomelleri l’elemento centrale della figura dello zombi è dato dal fatto che esso è un mito ma, sottolineano i due, non si deve dimenticare che gli zombi esistono. «Il mito serve non tanto per nascondere, ma per mitigare e giustificare la loro realtà, serve per trasformare le vittime reali in personaggi di finzione, di cui magari si dice anche “è tutto vero”, ma senza crederci troppo; serve per non rovinarci l’appetito o la digestione durante i telegiornali, serve per non turbare il sonno, per farci alzare sufficientemente bendisposti la mattina: il mito trasforma la vittima in mostro che è lecito e divertente abbattere, il mito maschera l’ipocrisia e la vigliaccheria nella pruderie del politicamente corretto e nel buonismo della domenica mattina. Gli zombi sono coloro che, nella loro difformità relativa, sono trasformati in deformi assoluti da un modo di produzione che ha perso ogni traccia di anima, che predica l’egualitarismo estremo e fa erigere mura difensive e inneggia guerre preventive per accaparrarsi fonti energetiche. Gli zombi sono uomini, donne e bambini massacrati per mare e per terra, ogni giorno, con spietata e immonda regolarità, nel torpore delle estati occidentali. Gli zombi sono tutti coloro che non sono “noi”, soggetto collettivo medio aggrappato a quel po’ di benessere che il neocapitalismo concede a chi ha la ventura di nascere in un paese con un prodotto interno lordo decente. Noi guardiamo loro e vediamo degli zombi: vediamo cioè tutto ciò che noi non vorremmo mai essere. Questa è la vera proiezione. Lo zombi è il non-me, così come il morto è il non-me del sopravvissuto, generatore del senso del potere. La nostra piccola sicurezza quotidiana è garantita dal mito che non muore mai: quello della vittima che è sempre pronta a farsi uccidere, infinitamente, tanto è già morta» (pp. 70-71).

Il mito dello zombi è dunque affrontato in questo libro al fine di decostruire il racconto di una società occidentale globalizzata che sente di vivere sull’orlo del precipizio, «giustificando così le proprie debolezze e la propria volontà di potenza e di domino sul mondo» (p. 81). La percezione della crisi e dell’incertezza nel mondo occidentale induce alla ricerca del “nemico”, del capro espiatorio, della vittima.

Però, si sostiene nel saggio, la forza di cui dispone il capitalismo può divenire la sua debolezza. «La capacità di trasformare ogni critica, anche la più radicale, in un nuovo prodotto commerciale, un libro di successo, un film, uno slogan, un marchio è la sua invulnerabilità ma anche la sua stessa fine. La volontà di dominio è tale che non rimane più nulla da dominare. Il neocapitalismo non può che divorare se stesso, in un’estrema, disperata autofagocitazione» (p. 83).

Ecco allora che alla ricerca di un colpevole su cui sfogarsi, l’immaginario occidentale lo trova nel mito degli zombi. «Il fatto stesso che identifichiamo lo zombi con il consumatore del centro commerciale, cioè con qualunque clone di noi stessi, è un’ulteriore conferma del meccanismo vittimario. La persecuzione collettiva si compie nella sua totale assenza di sensi di colpa, quando il persecutore si traveste da vittima. Ecco che il capitalismo diventa vittima di se stesso, e di fronte al proprio dominio totalizzante, si racconta sull’orlo del collasso, in una condizione catastrofica, quasi dovesse chiedere aiuto per risorgere. Intanto, le vittime del capitalismo proliferano, i persecutori, ignari, continuano indisturbati la propria opera di sterminio» (p. 84).

Ed a proposito di vittime del capitalismo, il saggio si conclude ricordando che tra il 2000 ed il 2013 sono circa 8000 gli esseri umani morti tentando di raggiungere il Canale di Sicilia. Nel solo 2014 hanno perso la vita circa 3500 individui nel Mar Mediterraneo e nei primi mesi del 2015 i migranti morti o dispersi nel Mediterraneo ammontano ad almeno 2800. Il massacro continua. I dati sarebbero tragicamente aggiornabili fino ai nostri giorni. Si tratta di morti che si perdono in mare come nel processo di banalizzazione televisiva in cui, come scrive Carmine Castoro, la complessità del reale tende ad essere ridotta a «statistiche di morte, citazioni di somme di danaro investito o meno dallo Stato, resoconti spicci di inviati-attacchini col microfono in mano e inquadrature di file di bare in bella mostra col solito piagnisteo di politici e opinionisti di sottofondo. Qui c’è tutta la potenza di fuoco, la retrattilità elastica di poderose liberalizzazioni nelle parole e nelle immagini, ma coagulate e assoggettate in chiacchiere, flash passeggeri, scalette di notiziari, prosopopee accademiche e telecompassioni da “pomeriggio in famiglia”. Il Tele-Capitalismo è davvero tutto qua, in questa santabarbara di ipocrisie e preconcetti che hanno però il sentore della libertà, l’eco lontana del pluralismo e della polifonia di voci “libere”» (Clinica della TV, p. 49) [su Carmilla].

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