Eros Francescangeli – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 30 Apr 2025 21:35:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Un mondo meglio di così. La sinistra rivoluzionaria in Italia https://www.carmillaonline.com/2023/11/06/un-mondo-meglio-di-cosi-la-sinistra-rivoluzionaria-in-italia/ Sun, 05 Nov 2023 23:01:19 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79865 di Luca Cangianti

Eros Francescangeli, «Un mondo meglio di così». La sinistra rivoluzionaria in Italia (1943-1978), Viella, 2023, pp. 364, stampa € 32,00, ebook € 18,99.

«Il rossore del cielo da assaltare non era quello della tanto attesa alba. Era, in realtà, un tramonto.» Eros Francescangeli riassume in questo modo la storia della sinistra rivoluzionaria italiana, cioè di quell’insieme di organizzazioni che si prefissero di costruire «un mondo meglio di così», come cantava Vasco Rossi. Da un punto di vista sociologico si tratta di soggetti che praticarono autoriduzioni, obiezione coscienza, scontri con le forze dell’ordine, occupazioni di case, stabili e fabbriche. Da [...]]]> di Luca Cangianti

Eros Francescangeli, «Un mondo meglio di così». La sinistra rivoluzionaria in Italia (1943-1978), Viella, 2023, pp. 364, stampa € 32,00, ebook € 18,99.

«Il rossore del cielo da assaltare non era quello della tanto attesa alba. Era, in realtà, un tramonto.» Eros Francescangeli riassume in questo modo la storia della sinistra rivoluzionaria italiana, cioè di quell’insieme di organizzazioni che si prefissero di costruire «un mondo meglio di così», come cantava Vasco Rossi. Da un punto di vista sociologico si tratta di soggetti che praticarono autoriduzioni, obiezione coscienza, scontri con le forze dell’ordine, occupazioni di case, stabili e fabbriche. Da un punto di vista politico ritenevano necessario un rovesciamento istituzionale mediante l’esercizio della forza, piuttosto che tramite il gradualismo riformista.

«Un mondo meglio di così». La sinistra rivoluzionaria in Italia (1943-1978) circoscrive il perimetro di studio alle componenti specificamente “politiche”, non affrontando i movimenti e le strutture fluide (per esempio l’autonomia operaia), le formazioni militari della partigianeria dissidente (Bandiera rossa, Stella rossa) e le organizzazioni armate degli anni settanta (Brigate rosse, Prima linea ecc.). Il saggio contesta il paradigma della “sessantottogenesi”, quello che vedrebbe nascere la sinistra rivoluzionaria nel corso del biennio 1968-69. Francescangeli sostiene infatti che non vanno trascurati i presupposti, che hanno una storia antecedente di venticinque anni e che pur in forma molto minoritaria avevano strutturazione organizzativa. Il sessantotto fece uscire dall’isolamento la sinistra rivoluzionaria, ma non può esser concepito come il suo anno zero. Si spiega così l’attenta periodizzazione che suddivide gli anni che vanno dal 1943 al 1978 nella «la stagione del vetero-libertarismo e del dissenso eterodosso» (1943-1964) e quella «della contestazione e dell’insubordinazione diffuse» (1965-1978). La prima fase a sua volta è suddivisa negli anni dell’opposizione all’Unità nazionale (1943-1948), del terzocampismo e del filo-titoismo (1949-1955), della destalinizzazione (1956-1960), dell’incubazione dell’operaismo e del marxismo-leninismo (1961-1964). La seconda fase è suddivisa negli anni della politicizzazione terzomondista e della contestazione studentesca (1965-1968), della protesta operaia e della radicalizzazione dello scontro (1968-1974), del declino e della “violenza diffusa” (1975-1977), del terremoto politico-organizzativo, cioè del ritorno alla marginalità da parte della sinistra rivoluzionaria (1978).
Un altro grande pregio del libro, oltre alla sua scorrevolezza (per nulla scontata, visto la natura articolata del tema), è l’utilizzo di una mole impressionante di fonti: bibliografiche, emerografiche, documentarie e soprattutto “fiduciarie”. Si tratta, in quest’ultimo caso, di informatori infiltrati che ci restituiscono il profilo del soggetto analizzato da una prospettiva feconda e spiazzante: la rete dell’intelligence di stato si rivela sorprendentemente vasta, interna e spesso costituita da amici e conoscenti.

E veniamo ai protagonisti della narrazione. Si parte dagli anarchici, divisi negli anni ’40 tra individualisti e organizzatori, cioè disposti a intervenire sia nel Comitato di liberazione nazionale che nella Cgil. Secondo un rapporto del Pci raggiungono le 30 mila unità concentrandosi nelle città di Milano e Carrara. Negli anni ’50 alcuni settori si avvicinarono alla dissidenza comunista e attraverso varie metamorfosi contribuirono a fondare sia la filocinese Federazione marxista-leninista d’Italia (Fmldi) che Lotta comunista, un’organizzazione che fondeva «oggettivismo messianico e rivendicazionismo sindacale».

I militanti «internazionalisti» si riorganizzarono a partire dal 1942-43 cercando di mettere in pratica l’insegnamento di Amedeo Bordiga: «considerando fascismo e democrazia come due facce della medesima medaglia, giudicarono lo scontro allora in atto come riconducibile a un conflitto armato inter-imperialistico e, conseguentemente e a differenza delle altre aree della sinistra rivoluzionaria, si opposero alla lotta partigiana (e all’antifascismo) in nome dell’affratellamento dei proletari e della trasformazione della guerra in rivoluzione sociale.» Il Partito comunista internazionalista si divise presto in due organizzazioni omonime: una “attivista”, sostenitrice dell’intervento nelle lotte operaie, e l’altra “attesista” che «giudicando lontana una ripresa rivoluzionaria, riteneva una necessità prioritaria e inderogabile l’opera di ridefinizione della teoria marxista attraverso lo studio.»

Dal canto loro i trockisti presenti nel Psiup giudicarono la sua linea politica subalterna al Pci stalinista e nel 1947 condivisero con i riformisti di Saragat l’esperienza scissionista del Partito socialista dei lavoratori italiani (chiamati scherzosamente “piselli” dalla sigla Psli e in seguito denominatisi Partito socialdemocratico italiano). Quando divenne palese l’orientamento moderato e filo-atlantista di questa formazione i trockisti se ne separarono e inaugurarono una tattica di “entrismo”, principalmente nel Pci, parallelamente alla costituzione di un’organizzazione esterna: i Gruppi comunisti rivoluzionari (IV internazionale). L’arrivo del sessantotto disgregò velocemente tutta l’area: alcune componenti (per es. l’associazione Falcemartello di Aldo Brandirali) finirono per fondare l’organizzazione stalino-maoista Unione dei comunisti italiani (marxisti-leninisti), meglio nota con il nome del suo diffusissimo giornale “Servire il Popolo”; altre contribuirono alla nascita di Avanguardia operaia, un gruppo milanocentrico che fuse istanze maoiste, guevariste e operaiste in chiave antistalinista, arrivando a organizzare tra i 7 mila e i 12 mila militanti.

Alla base della diffusione del maoismo ci fu la rottura, consumatasi tra il 1960 e il 1964, tra Repubblica popolare cinese e Unione sovietica. Il contendere riguardava la “coesistenza pacifica” con il capitalismo e aveva come suo versante ideologico la difesa della figura di Stalin. Se all’inizio la simpatia verso la Cina attecchì principalmente nelle fila staliniste più ortodosse, con l’inizio della Rivoluzione culturale anche molti settori antiautoritari iniziarono ad apprezzare il maoismo. Le organizzazioni di stretta osservanza “emmelle” (marxiste-leniniste) ebbero un breve, ma intensissimo periodo di crescita, arrivando a contare molte migliaia di militanti e oltre un centinaio di sezioni. Ciò nonostante si caratterizzarono per una frammentazione dai tratti surreali: si arrivarono a censire fino a tre Partiti comunisti d’Italia (marxisti-leninisti)!

Il gruppo più influente e numeroso della sinistra rivoluzionaria italiana fu Lotta continua. Esso sorse alla fine degli anni sessanta dalla spaccatura del “movimento” sulla questione del rapporto tra avanguardia e massa. Nonostante la comune provenienza operaista, i “partitisti” di Potere operaio sostenevano il rifiuto del lavoro, declinato in termini di radicale conflittualità salariale, e la costruzione di un partito leninista che avrebbe dovuto guidare il proletariato all’insurrezione; di contro Lotta continua esaltava la spontaneità, l’autorganizzazione, la democrazia assembleare con l’obiettivo di sviluppare il contropotere operaio. Il successo di questa formazione (150 sedi, una forza militante di 10-15 mila unità che secondo i servizi segreti poteva arrivare a 50-60 mila considerando l’area simpatizzante) è attribuito da Francescangeli alla capacità di «adattarsi – ecletticamente, quanto populisticamente – ai temi “trainanti” di culture politiche differenti dalla propria matrice, ossia quella operaistica… il diritto alla casa, la ribellione al rincaro del costo della vita (da cui la pratica delle autoriduzioni e delle “appropriazioni”), il diritto alla salute (dalla nocività del lavoro alla salubrità del territorio), la condizione dei carcerati e dei soldati di leva, ma anche le questioni legate alla fruibilità dell’arte e della cultura».

Di matrice diversa, proveniente dal togliattismo di sinistra, è invece il gruppo del Manifesto, strutturatosi nel 1970 dopo la radiazione dal Pci e attestatosi su una sintesi «elitarioleaderistica» tra tradizione comunista, maoismo antistalinista e filosofia di Francoforte. Fusosi con il Partito di unità proletaria nel 1974, parteciperà con cartello elettorale di Democrazia proletaria alle elezioni amministrative del 1975. Infine, va annoverato il caso unico della trasformazione in organizzazione politica della stragrande maggioranza del movimento studentesco dell’Università Statale di Milano. L’esito di questa anomalia unitaria fu la nascita di un gruppo denominato genericamente Movimento studentesco (e poi Movimento lavoratori per il socialismo), sostenitore di una riedizione tardiva della strategia stalinista dei fronti popolari. Questa organizzazione «assumeva la minaccia fascista (e, più in generale, l’involuzione autoritaria dello Stato) come “pericolo principale” e […], conseguentemente, vedeva nelle forze della sinistra operaia tradizionale e finanche di quella “borghese-progressista” un alleato “naturale” e, viceversa, nelle componenti “estremiste” della sinistra rivoluzionaria – in particolare quelle giudicate (a torto o a ragione poco importa) trockiste, consiliariste, anarchiche o riconducibili alla sinistra comunista – un altrettanto “naturale” nemico da battere».

Alla fine di questa analisi approfondita, bilanciata, mai pedante, anzi godibile sia per lo storico di professione che per il lettore interessato, Eros Francescangeli mette il dito in una piaga etico-politica per niente estranea al discorso scientifico: «il fatto che coloro che si erano candidati a nuova leadership del proletariato italiano abbiano sottovalutato che per una parte degli attivisti il “ritorno al privato” o la “politica con altri mezzi” non avrebbe coinciso con l’avvio di una carriera professionale più o meno gratificante (giornalista, docente, studioso, funzionario, consulente) e/o con l’individuazione di altri percorsi emancipatori o di vita (il neofemminismo, l’eco-comunitarismo, le filosofie ‘altre’), ma avrebbe significato il ritorno alla desolazione della loro condizione di sfruttati o alienati, con scarse prospettive di miglioramento della propria qualità del vivere. Pur in mancanza di studi specifici, da una pur sommaria analisi delle fonti è possibile affermare che una parte di questi ultimi entrò nell’orbita della lotta armata e un’altra parte di costoro abbracciò le pratiche della consolazione autodissolutoria a suon di alcol ed eroina.»
Sono considerazioni che lo storico svolge riferendosi al personale dirigente di Lotta continua, quando fu chiaro che l’agognata rivoluzione non era più all’ordine del giorno. Tuttavia, la fecondità del ragionamento non va limitato a un singolo gruppo politico, ma generalizzato sociologicamente: anche le organizzazioni rivoluzionarie sono sottoposte agli influssi materiali che presiedono agli interessi specifici dei propri funzionari, alla riproduzione delle proprie strutture e dei propri redditi. Il materialismo storico, insomma, va applicato anche ai materialisti storici.

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“Armateci pure o uomini sanguinari che l’ora della riscossa è suonata anche per noi”. Gli Arditi del popolo: dalle trincee della Grande Guerra all’antifascismo armato https://www.carmillaonline.com/2016/06/28/armateci-pure-uomini-sanguinari-lora-della-riscossa-suonata-anche-gli-arditi-del-popolo-dalle-trincee-della-grande-guerra-allantifascismo-armato/ Tue, 28 Jun 2016 21:30:47 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=31439 di Armando Lancellotti

gli-arditi-del-popolo-milieuAndrea Staid, Gli Arditi del popolo. La prima lotta armata al fascismo 1921-22, Milieu edizioni, Milano, 2015, 128 pagine, € 11.90

L’editore Milieu nel 2015 ha ripubblicato un libro di Andrea Staid – uscito per la prima volta nel 2007 – che considera una pagina breve, ma non per questo secondaria, della storia italiana del primo Novecento: una pagina di opposizione armata a quello squadrismo fascista che, come un’onda in piena, a partire dall’autunno del 1920, investì prima le campagne padane e travolse poi l’intero paese, contribuendo in modo decisivo [...]]]> di Armando Lancellotti

gli-arditi-del-popolo-milieuAndrea Staid, Gli Arditi del popolo. La prima lotta armata al fascismo 1921-22, Milieu edizioni, Milano, 2015, 128 pagine, € 11.90

L’editore Milieu nel 2015 ha ripubblicato un libro di Andrea Staid – uscito per la prima volta nel 2007 – che considera una pagina breve, ma non per questo secondaria, della storia italiana del primo Novecento: una pagina di opposizione armata a quello squadrismo fascista che, come un’onda in piena, a partire dall’autunno del 1920, investì prima le campagne padane e travolse poi l’intero paese, contribuendo in modo decisivo a portare Mussolini alla guida del governo. Gli “autori” di questa pagina furono coloro che per primi – sostiene Staid – compresero «il male del fascismo, ovvero gli Arditi del popolo, gli anarchici, i socialisti e comunisti. A onor del vero solo la base di questi movimenti e non i vertici capirono quello che stava succedendo (area libertaria a parte). I leader di questi movimenti proletari non compresero nel 1921 l’importanza di resistere al neonato movimento fascista, non avevano capito l’importanza di costituire (per usare le parole di Errico Malatesta) un fronte unico proletario e antifascista». (p. 6)

E quello delle responsabilità dei partiti socialista e comunista, che anziché sposare l’iniziativa degli Arditi del popolo la abbandonarono a se stessa, è argomento centrale del saggio di Staid, il quale ritiene che «i partiti della sinistra ufficiale infatti non hanno voluto sostenere in nessun modo questo movimento, prendendo le distanze, in ogni occasione, da tutto ciò che rappresentava l’operato degli Arditi antifascisti. Lo stesso partito comunista, per bocca di Terracini, denuncerà gli Arditi del popolo senza mezzi termini di essere una manovra della borghesia». (p. 21)

Le ragioni dell’ostracismo socialista e comunista nei confronti degli Arditi del popolo sono da ricercare, scrive Staid, tanto nella strategia politica dei due principali partiti della sinistra italiana – uno, il PSI, propenso alla firma del “patto di pacificazione” proposto dal governo Bonomi e in generale ad una politica riformistica, l’altro, il PCI, mosso da una volontà di egemonia politica e partitica sul proletariato italiano – quanto nelle incomprensioni o incompatibilità ideologiche, in buona parte dovute – ci sembra – alla genesi e alla natura eccentriche degli stessi Arditi del popolo.

Questi ultimi infatti nascono nell’estate del 1921, per iniziativa dell’anarchico Argo Secondari, interventista e volontario nelle file degli Arditi, da una «scissione della sezione romana dell’Associazione Nazionale Arditi d’Italia (l’associazione che organizzava gli ex combattenti dei gruppi speciali d’assalto della Prima guerra mondiale) con l’intento di difendere le masse lavoratrici dalle azioni squadristiche dei fascisti». (p.12) Nelle settimane e nei mesi successivi «gli Arditi del popolo si diffondono rapidamente su quasi tutto il territorio nazionale. Vi aderiscono migliaia di giovani e di lavoratori di varia tendenza politica, che vedono nel movimento un efficace strumento di opposizione alla violenza delle camicie nere». Secondo la ricostruzione dell’autore, nel momento di massima diffusione e fortuna «l’organizzazione antifascista risultava strutturata, nell’estate del 1921, in almeno 144 sezioni che raggruppavano quasi 20 mila aderenti». (p.29) Ma alla fine dell’anno la situazione è già radicalmente cambiata: «Dall’ottobre-novembre del 1921, fino alla marcia su Roma, infatti l’associazione antifascista sopravvive precariamente e in semi-clandestinità, senza raggiungere l’ampiezza di consensi che l’aveva caratterizzata all’atto della sua nascita» (p. 12) e conservando una significativa consistenza solo in alcune città, come Parma, Ancona, Bari, Civitavecchia e Livorno, dove riuscì, «con risultati differenti, a opporsi all’offensiva finale fascista nei giorni dello sciopero generale “legalitario” dell’agosto 1922». (p.30)

Insomma, se gli Arditi del popolo sono consustanziali al più generale “arditismo” e al combattentismo italiani (e questa è la linea interpretativa scelta dallo stesso Staid, il quale non condivide la lettura di Giorgio Rochat, che invece tende ad allentare il legame tra l’arditismo antifascista e il sovversivismo degli ex combattenti, poi prevalentemente confluiti nelle file del fascismo stesso, e che ritiene che le origini degli Arditi del popolo siano da trovare nella storia e nelle tradizioni del movimento operaio); se sono un prodotto delle trincee della Grande Guerra e di fatto anche di quell’interventismo e di quel militarismo che si riflettono poi nell’organizzazione e nella disciplina prettamente militari degli Arditi antifascisti; allora si nutrono di un humus psicologico, culturale e politico che non era stato – prima e durante la guerra – quello dei socialisti neutralisti, né – successivamente – lo sarebbe stato dei comunisti italiani. Questo, da un lato, può aiutare parzialmente a capire, anche se non a giustificare, l’ostruzionismo socialista e comunista nei confronti dell’arditismo popolare e dall’altro – ed è forse l’aspetto più interessante delle vicende studiate da Staid – ci deve portare a riconsiderare con estrema attenzione storico-politica quella materia psicologica, sociale e politica, indeterminata e magmatica, che si forma nelle trincee, sotto il fuoco di bombe e granate, per fusione e liquefazione di una intera generazione di italiani e che si risolidifica in forme diverse, spesso divergenti ed anche antitetiche, come nel caso dell’arditismo popolare ed antifascista da un lato e, dall’altro, del più frequente arditismo combattentistico, evolutosi poi in fiumanesimo dannunziano, sansepolcrismo e squadrismo.

Se in generale la Grande Guerra è stata per milioni di popolani, operai e soprattutto contadini italiani una prima esperienza, anche politica, di massa, a maggior ragione questo vale per quelli, come coloro che poi sarebbero stati gli Arditi del popolo, che in trincea si costruiscono, o consolidano, una coscienza politica di classe, o almeno divengono consapevoli di quali siano i veri nemici contro cui combattere: lo Stato ed il potere borghesi; ovvero, ancor più semplicemente, per coloro che coltivano un rancore crescente contro i padroni che li hanno mandati a combattere e a morire.

E proprio negli anni del centenario della prima guerra mondiale e delle celebrazioni ufficiali retorico-nazionalistiche è ancor più importante – secondo l’autore del saggio – non dimenticare «gli ammutinati delle trincee della Grande Guerra che si ribellarono al fronte, disertando, sparando agli ufficiali, disobbedendo agli ordini dati dai loro carnefici. Sono storie di rifiuto individuale e collettivo, un’insubordinazione, una non-collaborazione contro l’esercito, dettata dall’orrore di una guerra-fabbrica di morte». (p. 8) [si veda a tal proposito il caso dell’ammutinamento della Brigata Catanzaro su Carmilla]
E come è necessario fare riemergere, dal generale e profondo oblio in cui sono stati relegati, gli ammutinati delle trincee, così occorre riconoscere l’importanza che meritano agli Arditi del popolo e alla loro opposizione armata allo squadrismo fascista, che non va confusa – sostiene Staid, sulla scorta delle argomentazioni di Eros Francescangeli – con l’antifascismo delle Brigate internazionali in Spagna o con quello della lotta partigiana, in quanto a «differenza della lotta di liberazione dal nazifascismo, l’opposizione allo squadrismo intentata dagli arditi del popolo venti anni prima non è iscrivibile nel contesto della contrapposizione tra democrazia e totalitarismo, ma si colloca interamente nello scontro sociale, prima che politico fra partiti, leghe, associazioni del movimento operaio da una parte e classe dominante dall’altra». (p. 24)

legaproletaria3_Tornando alla questione dei rapporti difficili tra i gruppi dirigenti dei più importanti partiti politici proletari dell’Italia degli anni Venti e gli Arditi del popolo, nonostante questi ultimi si sviluppino in stretta relazione con la Lega proletaria. Mutilati, Invalidi, Reduci, Genitori e Vedove dei Caduti in Guerra – cioè l’associazione dei reduci proletaria e socialista, trait d’union «tra fabbrica e trincea, tra combattentismo e movimento operaio» (p. 18) e che sorge in aperta polemica con l’Associazione Nazionale Combattenti, accusata di essere un’organizzazione borghese – Staid spiega come innanzi tutto il PSI boicotti gli Arditi popolari perché intenzionato a tentare la via politica del “patto di pacificazione” e della mediazione col nemico fascista, mentre il PCI definisca una posizione di chiusura verso gli Arditi del popolo «poiché, a detta del Comitato esecutivo, costituitisi su un obiettivo parziale e per giunta arretrato (la difesa proletaria), dunque, insufficientemente rivoluzionario. La difesa proletaria doveva realizzarsi esclusivamente all’interno di strutture controllate direttamente dal partito, e gli Arditi del popolo – definiti infondatamente “avventurieri“ e “nittiani“ – dovevano considerarsi alla stregua di potenziali avversari». (p. 32)

Sul piano teorico-programmatico, quindi, la principale critica comunista riguarda una presunta “immaturità” politica di un movimento nato come reazione difensiva all’attacco sferrato dalle squadre fasciste e che non colloca esplicitamente la propria azione in una prospettiva rivoluzionaria finalizzata alla dittatura del proletariato. Sul piano pratico-organizzativo, un comunicato dell’Esecutivo, pubblicato su Il Comunista il 14 luglio 1921, spiega che «L’inquadramento militare rivoluzionario del proletariato deve essere a base di partito, strettamente collegato alla rete degli organi politici di partito; e quindi i comunisti non possono né devono partecipare ad iniziative di tal natura provenienti da altri partiti o comunque sorte al di fuori del loro partito». (p. 33)

La linea della dirigenza comunista – espressa chiaramente da Ruggero Grieco, che vede negli Arditi del popolo uno strumento della borghesia e in particolare delle manovre antigiolittiane di Nitti – non cambia nonostante al suo interno si delineino posizioni diverse, come quella dell’Ordine nuovo di Antonio Gramsci, che continua a dare voce ai comunicati di Secondari e a diffondere notizie sugli Arditi del popolo e nonostante le parole di apprezzamento per il movimento di Argo Secondari espresse da Lenin sulla Pravda del 10 luglio 1921 o le critiche di settarismo rivolte ai compagni italiani da Bucharin, secondo il quale il PCI avrebbe dovuto entrare nel movimento degli Arditi del popolo, per imprimere in seguito ad esso una forma più marcatamente classista.

Se alle preclusioni socialiste e comuniste si aggiungono le iniziative prefettizie volute dal governo Bonomi e la politica “dei due pesi e delle due misure” di una Magistratura accondiscendente nei confronti di squadristi e ras e severa verso gli Arditi del popolo o altre organizzazioni di difesa proletaria, diviene semplice comprendere perché l’antifascismo armato del biennio 1921-’22 non abbia potuto incidere più di tanto, se non in alcune situazioni particolari.

Solo gli anarchici – afferma Staid – hanno sostenuto pienamente l’arditismo popolare, «sia l’Unione sindacale italiana che l’Unione anarchica italiana furono, per tutto il biennio 1921-‘22, sostanzialmente favorevoli alla struttura paramilitare di autodifesa popolare. […] Il contributo libertario alla lotta armata antifascista incontrò però ostacoli a causa della frammentarietà, della modesta consistenza numerica e della non omogeneità del movimento anarchico e anarcosindacalista». (p. 41)
Anche in questo caso però non mancano completamente perplessità o cautele, dovute innanzi tutto «alla diffidenza propria degli anarchici verso organizzazioni di stampo militare» (p. 41) e in secondo luogo all’assenza di un preciso progetto rivoluzionario libertario all’interno degli Arditi del popolo. Nonostante questo però l’Unione anarchica italiana, riunitasi nell’agosto del ’21 a Roma, decide di appoggiare gli Arditi, mantenendo la propria specificità politica e rispettando quella degli Arditi stessi ed esprimendo – come recita la dichiarazione del 14-15 agosto 1921 – «simpatia e riconoscenza per l’opera di difesa da essi compiuta a vantaggio delle libertà proletarie e popolari». (p. 42)

Il tal modo – secondo Staid – gli anarchici danno concreta esecuzione alla teoria del “fronte unico” antifascista, espressione con cui «intendevano un legame prettamente rivoluzionario, che sarebbe dovuto partire dal basso, a livello locale, fra individui anche appartenenti a partiti politici diversi, ma con un obiettivo minimo comune» (p. 43): vincere le resistenze dello Stato e organizzare la vita e la società su nuove basi.

Occorre ricordare però che se le dirigenze di PSI e PCI negano il loro aiuto agli Arditi del popolo, altrettanto non fanno tanti militanti socialisti e comunisti, che invece aderiscono al movimento e per esempio combattono e con successo sulle barricate di Parma, a cui il libro di Staid dedica il terzo capito e come dimostrano anche le testimonianze dirette dei protagonisti delle giornate dell’agosto 1922 a Parma, di cui l’autore riporta qualche stralcio nel capitolo quarto, raccolte nel 1982 dall’Istituto storico della Resistenza di Parma e dall’Archivio Nazionale Cinematografico della Resistenza e confluite nel documentario Le barricate di Parma, di Anna Paola Olivetti e Paola Zanetti (1983). Segue infine una sezione fotografica che dà un volto agli Arditi del popolo e una forma alle barricate di Parma e che arricchisce questo breve, ma interessante libro di Andrea Staid.

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Sta attraversando l’Italia il reading musicato “Arditi del popolo. Le voci dalle barricate” di Andrea Staid. Musiche di Jacopo Tarantino al clarinetto e Jacopo Raimondi al sound design

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