eresia – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 14 Dec 2025 21:00:52 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Emilio Quadrelli, un comunista eretico contro la guerra https://www.carmillaonline.com/2025/12/11/emilio-quadrelli-un-comunista-eretico-contro-la-guerra/ Thu, 11 Dec 2025 21:00:01 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91385 a cura di S.M.

Non vi può essere alcun dubbio che tutto il percorso intellettuale e politico di Emilio Quadrelli, scomparso nel 2024, si situi interamente nella scia dell’eresia. Un eresia non ricercata per necessità di colpire i lettori oppure, ancor peggio e come spesso capita, con l’intento di épater le bourgeois, sbalordire il borghese che si nasconde in fondo all’animo di tanti presunti compagni.

No, l’eresia di Emilio si è manifestata nella sua ricerca, costantemente rivolta ad individuare tutte le manifestazioni, talvolta contraddittorie e talaltra confuse, della soggettività di classe che, troppo spesso, l’ortodossia comunista e un determinismo spacciato [...]]]> a cura di S.M.

Non vi può essere alcun dubbio che tutto il percorso intellettuale e politico di Emilio Quadrelli, scomparso nel 2024, si situi interamente nella scia dell’eresia. Un eresia non ricercata per necessità di colpire i lettori oppure, ancor peggio e come spesso capita, con l’intento di épater le bourgeois, sbalordire il borghese che si nasconde in fondo all’animo di tanti presunti compagni.

No, l’eresia di Emilio si è manifestata nella sua ricerca, costantemente rivolta ad individuare tutte le manifestazioni, talvolta contraddittorie e talaltra confuse, della soggettività di classe che, troppo spesso, l’ortodossia comunista e un determinismo spacciato per radicalismo tendono ad offuscare o a rinnegare del tutto.

Un’eresia che si è manifestata in quasi tutti gli scritti del comunista genovese attraverso la riscoperta dei barbari, bianchi o di altra etnia, che insorgono contro l’esistente; dell’attenzione per quello che troppo spesso è definito, superficialmente e in maniera liquidatoria, come sottoproletariato; dei concetti di razza e genere come importanti fondamenta della rivolta contemporanea, fuori e dentro i confini di un impero occidentale in via di disgregazione; della guerra civile come parte integrante e ineludibile del percorso che guida sia gli stati in direzione di un conflitto allargato per il predominio del mercato mondiale sia la lotta dal basso indirizzata ad evitare la carneficina oppure a ribaltarla in processo rivoluzionario per molti versi inaspettato.

Ma, occorre qui aggiungere, Emilio oltre che eretico è stato indubbiamente un grande e significativo seguace del sincretismo in politica, non essendo interessato alla difesa della continuità di una particolare linea o corrente marxiana. Piuttosto, come di è già detto poc’anzi, è stato sempre interessato ad individuare nelle infinite correnti del pensiero e, soprattutto, dell’azione ispirati dall’utopia comunista, tutti gli elementi più utili per l’interpretazione e l’individuazione di quella soggettività di classe di cui è stato un costante osservatore, estimatore e promotore ovunque ciò fosse possibile. Dall’apprezzamento per «il bisogna sognare!» di Lenin al pensiero di Lukács; per certi aspetti dell’agire togliattiano e altri, teorici e ben diversi anche se mai apertamente dichiarati, di Bordiga; per l’azione militante di Lotta Continua oppure della concreta autonomia operaia di fabbrica e dei giovano barbari delle periferie torinesi e milanesi che negli anno Settanta diedero vita alle “ronde proletarie” fino a quella dei nuovi barbari delle banlieue parigine e marsigliesi o, ancora, del milieu genovese di cui fu grande conoscitore e amico rispettato.
E tutto questo soltanto per fare pochi e rapidi esempi.

Per approfondire lo studio del pensiero e la comprensione del contributo dato da Quadrelli al movimento antagonista contro la guerra e il capitale, giovedì 18 dicembre, a Bologna in via Zamboni 38, dalle 15 alle 19, si terrà un pomeriggio di studio dal titolo Emilio Quadrelli e la guerra, con il seguente programma:

ore 15

Apertura

Rosella Simone – “Emilio, il barbaro”

ore 15,30 -17

Atanasio Bugliari Goggia e Jack Orlando – “Il primeggiare del far morire dei nostri mondi all’epoca della crisi”

Marco Codebò – “Quale soggettività contro la guerra?”

Sandro Moiso – “Le eresie di Emilo Quadrelli”

Pausa caffé

ore 17,30 – 19

Dibattito

Apertura – Sandro Mezzadra

Chiusura – Bruno Turci

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E’ uno sporco lavoro /4: Il primo vertice antiterrorismo internazionale – Roma 1898 https://www.carmillaonline.com/2025/11/19/e-uno-sporco-lavoro-4-il-primo-vertice-antiterrorismo-della-storia-e-la-continuita-repressiva-dello-stato-italiano-e-dei-suoi-molteplici-governi/ Wed, 19 Nov 2025 21:00:14 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91213 di Sandro Moiso

Giulio Saletti (a cura di), I verbali segreti della conferenza antianarchica. Il primo vertice internazionale contro il terrorismo (Roma, 1898), Edizioni Malamente, Urbino 2025, pp. 450, 25 euro

A ben guardare, lo spettro che si aggira per l’Europa a partire dalla fine del XIX secolo più che quello del comunismo è quello dell’anarchismo. Soprattutto nelle redazioni dei giornali, nelle veline delle questure, nelle inchieste dei servizi “segreti”, nell’immaginario politico e securitario prodotto dalla borghesia e dai suoi servitori in divisa o con la penna in mano (ieri) oppure seduti davanti ad una tastiera (oggi), ma forse ancora [...]]]> di Sandro Moiso

Giulio Saletti (a cura di), I verbali segreti della conferenza antianarchica. Il primo vertice internazionale contro il terrorismo (Roma, 1898), Edizioni Malamente, Urbino 2025, pp. 450, 25 euro

A ben guardare, lo spettro che si aggira per l’Europa a partire dalla fine del XIX secolo più che quello del comunismo è quello dell’anarchismo. Soprattutto nelle redazioni dei giornali, nelle veline delle questure, nelle inchieste dei servizi “segreti”, nell’immaginario politico e securitario prodotto dalla borghesia e dai suoi servitori in divisa o con la penna in mano (ieri) oppure seduti davanti ad una tastiera (oggi), ma forse ancora per poco considerato lo sviluppo quasi autonomo dei social e dell’AI.

A confermarcelo, con dovizia di documenti e dettagli, è il corposo volume edito da Malamente e curato da Giulio Saletti, giornalista, cronista, ghostwriter e portavoce di cariche istituzionali. Un testo in cui, per la prima volta in Italia, vengono riportati integralmente i documenti prodotti a seguito della «Conferenza internazionale per la difesa sociale contro gli anarchici», tenutasi a Roma dal 24 novembre al 21 dicembre 1898 a seguito dell’assassinio dell’imperatrice Elisabetta d’Austria, avvenuto il 10 settembre di quello stesso anno a Ginevra.

Probabilmente, però, a preoccupare il governo italiano, promotore della conferenza, più che l’attentato alla principessa di Baviera “Sissi”, in seguito santificata e glorificata in una serie infinita di biografie romanzate, film e serie televisive, erano stati i moti e le insorgenze che da Bari a Foggia, dalla Puglia, dove sarebbe stato inviato il generale Pelloux che dopo la caduta del governo Rudinì nel giugno del 1898 fu incaricato dal re Umberto I di formare un gabinetto in cui assunse anche il dicastero dell’interno facendosi promotore della conferenza anti-anarchica, alla Sicilia e a Napoli, in occasione del 1° maggio 1898 avevano visto passare la popolazione meridionale dalla sollevazione alla rivolta. E poiché dappertutto le classi dominanti mostrarono di voler curare la fame con le fucilate, a partire dal 2 maggio la rivolta si era estesa alla Romagna, alle Marche, all’Emilia, alla Toscana e alle regioni industriali del nord1.

Proprio a Milano, dal 6 al 9 maggio, si ebbe la sollevazione più sanguinosa, durante la quale la classe operaia milanese fu presa a cannonate dal generale Bava Beccaris, dando vita ad un periodo di repressione che permise al governo di mettere fuori legge il Partito Socialista, costituitosi a Genova nel 1892, ma che allo stesso tempo diede inizio ad un nuovo periodo di attentati di cui la vittima più illustre sarebbe stato proprio il re d’Italia Umberto I, caduto sotto i colpi di pistola di Gaetano Bresci a Monza, il 20 luglio del 1900.

E’ in questo contesto, quindi, che va collocata una conferenza che avrebbe costituito il primo esempio di vertice antiterrorismo a livello europeo e che, anche se destinata a dare scarsi risultati immediati, avrebbe contribuito, come afferma il curatore, alla «conversione marcatamente politica dell’ordine pubblico in ordine “governativo o di maggioranza”, che è passaggio non trascurabile nel processo generale di State building e di organizzazione degli spazi di rappresentanza e partecipazione alla vita pubblica»2.

Un evento spesso trascurato dalla storiografia italiana, anche da quella che si è occupata del movimento operaio e delle sue lotte, ma che obbliga a riflettere su una serie di nodi ancora tutti da sciogliere nell’ambito della storiografia dei movimenti di classe e delle contromisure messe in atto nei loro confronti dallo Stato e dai suoi rappresentanti istituzionali e militari.

Uno dei motivi di tale trascuratezza, se non addirittura di disinteresse, nei confronti di un evento destinato a rifondare l’immaginario politico del ‘900, non solo italiano, va rintracciato, secondo Saletti, in una certa abitudine ad una «velata resistenza culturale a riconoscere ruolo e specificità dell’anarchismo nella genesi e nello sviluppo dei movimenti di massa e dell’antagonismo di classe tardo-ottocentesco»3, che ha fatto sì che gli studi sull’anarchismo scontino ancora una certa marginalità all’interno dello studio dei movimenti socialisti ed operai europei, nonostante la ripresa dell’interesse nei suoi confronti sviluppatosi nel corso degli ultimi decenni.

Una rimozione e sottovalutazione che se giustificata dal punto di vista “borghese” e istituzionale, non può esserlo altrettanto quando ad occuparsi della storia delle esperienze di lotta, insorgenza e organizzazione proletaria siano studiosi di formazione socialista o marxista. Eppure, eppure… proprio quest’ultima osservazione ci permette di sviluppare alcune considerazioni che, pur travalicando i limiti specifici dello studio di Saletti e dei documenti annessi, possono essere d’aiuto per una nuova storiografia dei movimenti di classe in tutte le loro manifestazioni.

Manifestazioni spesso disordinate, disorganizzate, violente, improvvisate ma sempre originate da un radicale rifiuto delle condizioni di esistenza proposte dal modo di produzione capitalistico, dalle sue leggi di mercato e dai suoi istituti proprietari e finanziari, contro cui le moltitudini dei diseredati sembrano battersi fin dall’avvento della società mercantile a cavallo tra XIII e XIV secolo, se non già da prima per il tramite delle prime eresie medievali.

Il termine eresia deve, però, essere inteso al di là dello specifico contesto religioso per trascendere, come suggeriva lo scomparso Emilio Quadrelli, l’intero pensiero politico, anche nelle sue manifestazioni classiste e antagoniste4. Considerato che, affinché possa esistere un’eresia, deve per forza sussistere anche un’ortodossia che possa essere trascesa e criticata.

In questo caso la netta separazione tra storia dell’anarchismo e del movimento operaio socialista risponde ad una necessità tutta di ordine ideologico, messa in campo sia da una che dall’altra parte fin dai tempi di Marx e Bakunin, che vede però, proprio nella componente marxista e socialista, una consistente resistenza ad accettare il movimento anarchico come parte integrante del movimento storico per il ribaltamento dell’ordine sociale dettato dagli interessi d’impresa e del capitale.

Per questo motivo si rende sempre più necessario, almeno dal punto di vista storiografico, il superamento di un’impasse che da troppo tempo limita e divide in comparti stagni la comprensione di movimenti che hanno comportamenti e radici materiali comuni. E che nella spontaneità delle insorgenze e nella loro rapida caducità hanno un comune denominatore.

Spontaneità o spontaneismo di cui l’interpretazione anarchica delle contraddizioni sociali e della loro risoluzione radicale sembra fare il vettore principale di, quasi, ogni iniziativa politica e organizzativa. Caducità che spinge, dal lato del marxismo o del socialismo ortodosso, alla ricerca di formule organizzative (partito, cellule, centralizzazione direttiva) capaci di impedire lo sfaldamento delle esperienze, sia dopo la loro riuscita che a seguito di una sconfitta.

Due interpretazioni dello scontro e delle sue forme che spesso non possono fare altro che ostacolarsi l’una con l’altra. Soprattutto da parte di quelle interpretazioni marxiste più rigide che pur di salvaguardare organizzazione e prospettive politiche definite in linea teorica “una volta per tutte”, rinunciano a partecipare allo scontro e alle sue manifestazioni concrete, adducendo problemi di “arretratezza” sociale oppure di inadeguatezza politica, giungendo troppo spesso a tacciarle di avventurismo se non addirittura accusarle di esser null’altro che il prodotto di agenti provocatori.

Una storia rintracciabile, almeno qui in Italia, nell’atteggiamento di Turati nei confronti della Settimana rossa del 1914, quando sull’alba del primo conflitto imperialista le manifestazioni antimilitariste furono violentemente represse a partire da Ancona oppure nelle riserve che lo stesso Partito socialista ebbe nei confronti ancora dell’insurrezione torinese del 1917 o nell’abbandono a se stessi dei manifestanti proprio in occasione delle giornate del maggio 1898 a Milano5.

Anche il Partito comunista italiano, il PCI, prima adeguandosi al volere del Comintern e del Cominform e in seguito memore dall’atteggiamento staliniano nei confronti di ogni opposizione alle direttive di partito, non esitò mai, fino alla fine dei suoi giorni, nel condannare qualsiasi iniziativa spontanea della classe nei confronti del comando capitalista. Fascisti, provocatori e traditori, a seconda dei periodi, furono sempre definiti i giovani, gli operai, le donne che dal secondo dopoguerra in poi, passando per piazza Statuto a Torino nel luglio del 1962 fino alle lotte autonome degli anni Settanta insorsero spontaneamente e, spesso, violentemente contro la dittatura del lavoro salariato.

Questo, però, non poteva far altro che avvantaggiare il nemico di classe nella sua azione sia divisa che repressiva nei confronti della classe operaia o degli strati sociali marginali della società, nei confronti dei quali la definizione spesso utilizzata di lumpenproletariato, più che attenersi a quella marxiana di proletariato marginale oppure momentaneamente escluso dal lavoro, si trasformò in autentico stigma, tradotto come sottoproletariato ovvero la classe più degradata, non solo dal punto di vista economico ma anche, e forse soprattutto, morale, priva di alcuna forma di coscienza di classe, o almeno di ciò che il partito ritiene tale, e non organizzata nei sindacati ufficiali.

Una classe, secondo questa diminutiva e offensiva interpretazione del termine, i cui componenti oltre ad essere accusati di trarre il loro reddito da occupazioni vicine all’illegalità (furto, prostituzione, imbrogli di vario genere), proprio per la loro miseria culturale e politica potrebbero facilmente essere preda delle idee più retrograde e reazionarie.

Però, pur essendo vero che porzioni immiserite della società e della classe lavoratrice esclusa dal lavoro possono esser facilmente preda delle rivendicazioni reazionarie e fasciste, è altresì vero che anche porzioni significative di classe operaia, quella un tempo definibile come aristocrazia operaia e oggi inquadrata nel cosiddetto ceto medio produttivo, hanno spesso aderito e ancora aderiscono a tali rivendicazioni di stampo razzista, nazionalista e sessista. Come l’elettorato di Trump può ben dimostrare oggi.

Tutti fattori che nella criminalizzazione di ogni dissenso, non allineato con il discorso ordinativo di carattere socialista e socialdemocratico un tempo e liberal-democratico oggi, trovano lo strumento ideologico più adatto sia per il controllo sociale da parte dello Stato che di quello politico e sindacale da parte di tutti quei partiti, istituzionali e non, che della conservazione o della riforma dell’esistente in nome del progresso hanno fatto il loro, anche se spesso non dichiarato, fine ultimo.

Ma per tornare ai tempi di cui tratta la ricerca di Saletti, occorre ricordare come, almeno per l’Italia, fu lo stesso Engels, in qualità di segretario per l’Italia dell’Alleanza internazionale dei lavoratori, a tracciare una linea distintiva tra socialisti e rivoluzionari autentici, ovvero coloro che aderivano alle idee e ai programmi del socialismo cosiddetto poi autoritario e coloro che, aderendo ancora all’Internazionale bakuninista o antiautoritaria, tradivano la causa del proletariato e della sua emancipazione. Un giudizio spesso greve che allontanò dal socialismo marxiano Carlo Cafiero, che pur era stato il primo a divulgare in Italia un compendio del Capitale di Karl Marx da lui stesso tradotto, per trasformarlo sostanzialmente in uno dei primi e più importanti esponenti dall’anarchismo italiano.

Un giudizio negativo espresso da Engels, soprattutto sul socialismo meridionale6 che sembrava dimenticare che non solo a Napoli, il 31 gennaio 1869, era stata fondata da una società operaia partenopea, la Società operaia di Napoli come fu in seguito designata, la prima sezione italiana dell’Internazionale «che aderì pienamente agli statuti dell’Associazione e si costituì in Comitato centrale per tutta l’Italia»7, ma anche che proprio nella parte meridionale del Regno d’Italia per dieci anni si era svolta quella che in tempi recenti lo storico Gianni Oliva ha definito la Prima guerra civile italiana, ovvero quella che per decenni, se non per più di secolo, è stata troppo spesso, superficialmente oppure opportunisticamente, accomunata al brigantaggio8.

E qui, per ricollegare il tutto al tema del testo edito da Malamente, va ricordato che la resistenza contadina e sociale del Sud, pur con tutte le sue inevitabili contraddizioni, aveva anche rappresentato la prima guerra civile “europea” dopo la fine della Restaurazione, prima ancora della Comune di Parigi che si sarebbe rivoltata contro lo stato francese e Napoleone III soltanto nel 1871. Una guerra civile, quella nel Sud dell’Italia, che aveva anche richiesto da parte dello stato unitario l’emanazione di una prima legge speciale, la legge Pica del 1863, che di fatto per la prima volta definiva una legislazione eccezionale destinata a contenere, reprimere e punire pesantemente i disordino sociali e i loro protagonisti.

Una legge, che nell’iniziale fase di stesura, nell’ambito dei provvedimenti eccezionali da prendere prevedeva la deportazione dei condannati per i fatti di resistenza che avevano iniziato manifestarsi fin dal 1861, e di cui la rivolta di Bronte dell’agosto 1860 in Sicilia, aveva già rappresentato un significativo esempio.

Sin dall’inizio della campagna di Vittorio Emanuele II nel Sud, il governo di Torino ha trasferito i soldati borbonici prigionieri di guerra nelle isole del Tirreno o in zone remote dell’Italia settentrionale, e a mano a mano ha affiancato loro gli «sbandati» e i «camorristi». Nel 1861 il governo Ricasoli ha cominciato a pensare ad un progetto organico di deportazione di «briganti e manutengoli» in luoghi lontani dall’Italia, sull’esempio di quanto ha sempre fatto la Francia nella Guyana e in Madagascar; il successivo governo Rattazzi ha proseguito su quella strada, facendo sondaggi con i diplomatici portoghesi sulla possibilità di impiantare stabilimenti penali in Mozambico o nelle colonie portoghesi del Pacifico (Timor, Macao, Goa) e ha cercato di definire forme di compartecipazione italiana alla sovranità su territori non ancora completamente assoggettati da Lisbona; appena insediato, il governo Minghetti ha apprestato una fregata della Regia marina destinata a partire per i mari dell’Australia e studiare la praticabilità degli stabilimenti di deportazione, ma ha dovuto fermarsi per l’intervento di Napoleone III e dell’Inghilterra, preoccupati che l’istituzione di colonie penali fosse la copertura di un’ambizione espansionistica dell’Italia 9.

Cosa di cui questi ultimi due governi si intendevano assai, considerate sia la deportazione in Algeria dei rivoltosi del 1848 francese, proprio da parte di Napoleone III, che quella dei sottoproletari, ribelli irlandesi e donne di “malaffare” portate avanti dal Regno Unito verso l’Australia a partire dal progetto di colonizzazione inglese di quel continente iniziato nel 178710. Elemento che obbliga ancora una volta a riflettere come nei progetti legislativi e repressivi dei governi statali moderni repressione del dissenso, rimozione degli indesiderati e colonialismo siano portati costantemente avanti in parallelo. Fino agli attuali centri di detenzione per immigrati in Albania previsti dall’attuale governo Meloni che oltre ad allontanare gli stranieri indesiderati dal territorio nazionale rilancia virtualmente anche il progetto, in auge fin dalla Prima guerra mondiale e mai abbandonato del tutto, di controllare l’altra sponda del mare Adriatico proprio là dove questo si restringe maggiormente. Senza dimenticare come la legislazione anti-mafia sia sempre stata utilizzata anche al di fuori dei suoi presunti confini per colpire la dissidenza politica, con l’uso dell’articolo 41bis oppure, come si è tentato recentemente a Torino, di dichiarare comportamento mafioso il saluto portato da un corteo di militanti Pro-Pal ad una compagna detenuta agli arresti domiciliari (qui).

Queste le radici su cui poggiava i piedi la convocazione del primo congresso internazionale contro il terrorismo “anarchico” in uno Stato che della repressione popolare e della dissidenza armata aveva già fatto lunga esperienza, sia politico-legale che penale e militare, e a cui la ricca e dettagliata documentazione compresa nel saggio di Giuio Saletti porta un più che significativo contributo per la comprensione non soltanto della repressione della dissidenza anarchica e classista in tutte le sue forme politiche e organizzative, ma anche dei successivi passi intrapresi in direzione della repressione delle lotte sociali durante tutta la storia dello stato italiano fin dalla sua fondazione, passando per le leggi speciali del Fascismo e quelle antiterrorismo della prima repubblica insieme all’uso del 41bis, fino all’attualità politico-governativa odierna. Che con la Legge 9/6/2025 n.80, meglio nota come Decreto sicurezza, non ha fatto altro che continuare una tradizione repressiva che ha preceduto ed è continuata ben oltre il Fascismo storico.

Una continuità della percezione del pericolo, per l’ordine borghese, rappresentato dall’anarchismo e dalla lotta di classe che farà sì che intorno allo stesso o a ciò che si intende per esso, fin dal congresso del dicembre 1898, si vada:

concentrando, ritagliando e raffinando una ‘giurisdizione penale del nemico’ attraverso l’invenzione del delitto sociale (in realtà coincidente con il “delitto anarchico”) quale stabile e organico stato di eccezione che ingloba e va oltre il ‘duplice livello di legalità’– norme del fatto e della colpevolezza/norme del sospetto e della pericolosità – alla base degli ordinamenti penali sul finire del diciannovesimo secolo.
In questo quadro la conferenza di palazzo Corsini, generando una koinè giuridica continentale attraverso la certificazione dell’impoliticità del delitto anarchico, è appunto il tentativo, in una prospettiva nitida (seppure ancora ideale) di ‘universalismo penale’, di imporre su scala europea strumenti normativi e repressivi omogenei e comuni e istituzionalizzare una prima forma di cooperazione tra le polizie contro una minaccia percepita e pervicacemente agitata dalla borghesia d’ordine come il tangibile “danger international permanent” di quegli anni.
[Cosicché] Nel corso della seconda seduta plenaria all’unanimità passa la proposizione di principio, suggerita dall’ambasciatore russo, che «l’anarchisme n’a rien de commun avec la politique» e che pertanto non sarebbe stato trattato, in sede di conferenza, come una dottrina politica. Una decisione in qualche modo scontata, e tuttavia giuridicamente incisiva perché imprime esiti obbligati alla discussione decretando da subito che quello anarchico è delitto impolitico, assimilabile al reato comune e in quanto tale sottratto al favor rei (specie per ciò che riguarda il divieto di estradizione) riconosciuto dagli ordinamenti liberali ai reati politici. E dunque, quando a metà dicembre in seno alla sottocommissione si affronterà l’argomento, sarà agevole stabilire che l’atto anarchico sarebbe stato passibile d’estradizione se giudicato reato nel paese richiedente e in quello richiesto; che estradabili sarebbero stati anche i reati ‘satellite’ (quali la preparazione dell’atto anarchico e la fabbricazione di esplosivi, l’associazione organizzata, l’istigazione e l’apologia dell’atto anarchico); e che l’atto anarchico, per l’appunto, non sarebbe stato considerato delitto politico ai fini dell’estradizione11.

La conferenza di Roma sembra così porre le basi, almeno dal punto di vista teorico, di tutta la giurisdizione penale d’eccezione a livello internazionale fino ai nostri giorni e se precedentemente si è parlato della netta separazione avvenuta tra socialismo e anarchismo occorre qui ricordare che era di pochi anni prima la pubblicazione da parte del socialista positivista Cesare Lombroso del testo Gli anarchici (1894), in cui dall’iniziale collegamento tra dati antropometrici e pulsione alla violenza dei criminali comuni lo studioso aveva tratto indicazioni per studiare gli stessi effetti sui comportamenti dei militanti anarchici12. Contribuendo, anche solo indirettamente, a far sì che:

Il terreno sul quale la conferenza raggiunge intese significative è comunque quello delle misure amministrative e dell’attività di polizia, sul piano ad esempio del metodo antropometrico di identificazione dei criminali, al punto che si ritiene – non senza fondamento – che l’International Criminal Police Organization (ossia l’Interpol) «in several ways can be considered a descendant or at least a step-child of the Rome Conference». Su iniziativa tedesca, i delegati approveranno all’unanimità la proposta di istituire in ogni paese una ‘agenzia centrale’ alla quale affidare il compito di controllare in segreto gli anarchici agevolando lo scambio diretto di segnalazioni e informazioni13.

E anche se il testo finale della conferenza fu approvato ad referendum escludendo così impegni vincolanti per gli stati che vi avevano preso parte lasciando alla valutazione discrezionale di ciascun governo se e a quali proposte dare attuazione, la cosa non avrebbe impedito all’ammiraglio Canevaro di affermare, nel congedare i delegati: «Che anche se tutti gli scopi che alcuni di noi si erano prefissi non sono stati pienamente raggiunti, possiamo tuttavia ritenere che i nostri coscienziosi sforzi per il raggiungimento di un più adeguato ordinamento giuridico sono lontani dall’esser rimasti sterili»14,


  1. Per il clima politico generale in cui si svolse la conferenza si veda: U. Levra, Il colpo di stato della borghesia. La crisi politica di fine secolo in Italia 1896/1900, Feltrinelli, Milano 1977.  

  2. G. Saletti, Gli anarchici, la conferenza di Roma e il delitto sociale, introduzione a I verbali segreti della conferenza antianarchica. Il primo vertice internazionale contro il terrorismo (Roma, 1898), Edizioni Malamente, Urbino 2025, p. 17.  

  3. Ivi, p. 17.  

  4. Si veda in proposito: E. Quadrelli, György Lukács, un’eresia ortodossa introduzione a G. Lukács, Lenin, DeriveApprodi, Bologna 2025.  

  5. Come possiamo ricostruire a partire da una testimonianza inaspettata, quella di Camillo Olivetti, futuro fondatore dell’omonima industria eporediese, in una lettera alla moglie Luisa Revel di qualche anno successiva ai fatti: «Nel maggio ’98 andai a Milano con la ferma intenzione di prendere parte ad una rivoluzione. Stando a Ivrea avevo preveduto, molto meglio che gli uomini che eran sul sito, che qualche cosa doveva succedere. Io credevo che Turati, Rondoni e tanti altri, che per così dire eran a capo del partito, avrebbero saputo condurre le masse e instaurare un nuovo regime. […] A Milano non accadde nulla di quanto io prevedevo, almeno per parte dei capi che non capirono nulla e non seppero né frenare né comandare il movimento. Il risultato furono 500 ammazzati e migliaia di anni di galera distribuiti. Quella volta io la scampai bella! Visto che a Milano non vi era nulla da fare, me ne andai a Torino, ed ero tanto esaltato in quei giorni che se avessi potuto trovare un duecento uomini ben armati avrei cercato di suscitare una rivoluzione […] Dopo questa disillusione a poco a poco mi ritirai dalla vita politica» (C. Olivetti, Lettere Americane, Fondazione Adriano Olivetti, 1999).  

  6. Si veda in proposito: P. C. Masini, Eresie dell’Ottocento. Alle sorgenti laiche , umaniste e libertarie della democrazia italiana, Editoriale Nuova, Milano 1978.  

  7. G. de Martino, V. Simeoli, La polveriera d’Italia. Le origini del socialismo anarchico nel Regno di Napoli (1799-1877), Liguori editore, Napoli 2004, p.131.  

  8. G. Oliva, La prima guerra civile. Rivolte e repressioni nel Mezzogiorno dopo l’Unità, Mondadori Libri S.p.a., Milano 20255.  

  9. G. Oliva, La prima guerra civile, Mondadori, Milano 2025, pp. 33-34.  

  10. Si veda in proposito: R. Hughes, La riva fatale. L’epopea della fondazione dell’Australia, Adelphi Edizioni, Milano 1990.  

  11. G. Saletti, op.cit., pp.18-24.  

  12. Si veda in proposito: M. Bucciantini, Addio Lugano bella. Storie di ribelli, anarchici e lombrosiani, Giulio Einaudi Editore, Torino 2020.  

  13. G. Saletti, op. cit., p.25.  

  14. Cit. in G. Saletti, op. cit., p. 27 – traduzione a cura del recensore.  

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I barbari contro la Storia https://www.carmillaonline.com/2025/08/13/i-barbari-contro-la-storia/ Wed, 13 Aug 2025 20:00:38 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=88112 di Sandro Moiso

[Per ricordare la figura di Emilio Quadrelli ad un anno circa dalla sua scomparsa, e per gentile concessione della casa editrice, si pubblica qui di seguito la Prefazione alle sue Cronache marsigliesi recentemente raccolte in volume da MachinaLibro, Roma marzo 2025.]

Tra il 6 settembre 2022 e il 22 settembre 2023 vengono pubblicati su Carmillaonline 35 articoli di Emilio Quadrelli, alcuni singoli e altri, la maggior parte, facenti parte di serie diversamente intitolate. Certamente in questi articoli sono presenti tutti i temi della ricerca militante di Emilio: la guerra come pratica comune dell’età dell’imperialismo; il partito (solo [...]]]> di Sandro Moiso

[Per ricordare la figura di Emilio Quadrelli ad un anno circa dalla sua scomparsa, e per gentile concessione della casa editrice, si pubblica qui di seguito la Prefazione alle sue Cronache marsigliesi recentemente raccolte in volume da MachinaLibro, Roma marzo 2025.]

Tra il 6 settembre 2022 e il 22 settembre 2023 vengono pubblicati su Carmillaonline 35 articoli di Emilio Quadrelli, alcuni singoli e altri, la maggior parte, facenti parte di serie diversamente intitolate. Certamente in questi articoli sono presenti tutti i temi della ricerca militante di Emilio: la guerra come pratica comune dell’età dell’imperialismo; il partito (solo e unicamente) dell’insurrezione; la nuova composizione di classe e il ruolo del proletariato migrante al suo interno; la necessaria centralità di Lenin per la riflessione politica antagonista; l’internazionalismo proletario come irrinunciabile riferimento per un movimento di classe, contrario a qualsiasi forma di nazionalismo e di populismo; i “giornali” come forma e fonte di organizzazione politica e del pensiero rivoluzionario; i “barbari” delle periferie metropolitane e internazionali intesi non come ritagli di un passato ormai superato ma, piuttosto, come espressione più avanzata delle contraddizioni sociali causate dalla globalizzazione e, seguito di quest’ultima considerazione, il rifiuto di ogni forma di razzismo e di separazione secondo linee del colore. Anche, e soprattutto, quando questo sia espressione delle forme più retrograde di pensiero ricollegabile all’aristocrazia operaia o ad una classe operaia imbelle e impaurita tout court.

Di questi articoli, ben dodici sono dedicati alla città di Marsiglia, al suo proletariato e alle sue nuove forme di auto-organizzazione. Otto fanno parte delle Cronache marsigliesi uscite tra il 2 aprile 2023 e il 13 luglio dello stesso anno, mentre altri quattro fanno fanno parte della serie Le problème n’est pas la chute mais l’atterrissage. Lotte e organizzazione dei dannati di Marsiglia, titolo che fa esplicito riferimento al film del 1995 La Haine (in Italia L’odio) di Mathieu Kassovitz, usciti tra il 26 marzo e il 22 aprile sempre del 2023. In questi quattro è centrale il ruolo delle palestre come momento di organizzazione dal basso e come luoghi di addestramento alla preparazione fisica e alla disciplina dei militanti.

Marsiglia diventa così per Quadrelli, oltre che un luogo fisico geograficamente determinato, anche un luogo dell’anima. Una sorta di città ideale, laboratorio di nuove forma di lotta e di organizzazione dal basso. Un campo di battaglia sul quale già si sperimentano le contraddizioni e le lotte del futuro.

Le date degli articoli ci trasmettono l’urgenza vissuta da Quadrelli di comunicare e lasciare in eredità ai suoi lettori e compagni, una riflessione in costante evoluzione che egli continuava a svolgere non per amore della filosofia e della sociologia oppure per rivendicare una sorta di primato dell’intelletto e suo sul corso reale degli eventi e delle lotte, ma piuttosto per contribuire all’avvio di un processo di formazione di un partito formale che avrebbe comunque dovuto adeguare le sue forme a quelle espresse dal partito storico. Intendendo con quest’ultimo non soltanto le lezioni acquisite dalla storia del movimento operaio nelle sue differenti fasi e dalle lezioni delle controrivoluzioni, così come era stato inteso dalla Sinistra Comunista, di cui Emilio fu sempre attento lettore e critico, ma anche come l’espressione dell’immediatezza della soggettività di classe una volta che questa si manifesti attraverso le lotte e, soprattutto, le nuove forme che queste dovevano assumere ad ogni tornata storica per rispondere alle modificate condizioni sociali ed economiche, forme del lavoro in primis, create dal capitale nella sua esigenza di superare e infrangere qualsiasi limite al suo sviluppo. In modo da dar corpo e gambe su cui marciare alla dialettica prassi//teoria/prassi necessaria per la comprensione e la direzione del processo rivoluzionario. Perché in Quadrelli, come per Lenin, le rivoluzioni non si fanno, ma si dirigono.

Una riflessione che si pensava e voleva eretica, perché qualsiasi rottura rivoluzionaria non avrebbe mai potuto rappresentare altro che un’eresia nei confronti di pratiche politiche e forme organizzative troppo statiche perché legate a cicli precedenti di lotta. Tipica, da questo punto di vista, la sottolineatura di come l’azione di Lenin, l’uomo di Kamo, e del bolscevismo avesse rappresentato una straordinaria e vincente rottura con le modalità organizzative e di pensie ro dell’ormai corrotta Seconda Internazionale.

In questo senso, quindi, i militanti rivoluzionari non possono far altro, per potersi ritenere tali, che collocarsi sul filo del tempo, altra definizione tratta dalla Sinistra Comunista1. Non farlo significherebbe, per Quadrelli, essere irreparabilmente condannati al fallimento, all’inutilità e a un rapido e meritato oblio.

In un mondo in cui il capitalismo per mantenere il proprio dominio e realizzare i propri profitti deve continuare a rinnovare le condizioni della produzione e rompere con qualsiasi barriera di carattere nazionale, geografico, politico, economico, militare, tecnologico ed economico, approfittando di qualsiasi occasione per rafforzare la propria posizione politica-militare e di mercato, i militanti della rivoluzione devono rimanere al passo coi tempi e cogliere ogni momento in cui una crepa di crisi si apra in maniera significativa.

In questo occorre farsi barbari, non per genuflessione nei confronti dei nuovi stili di vita, organizzazione e lotta creati o importati, spesso tutti e due, da una nuova composizione di classe, ma per forzare la Storia là dove questa, secondo le interpretazioni più deterministiche, tende a farsi ostacolo del rivolgimento sociale e del cambiamento radicale.

In questo il russo Lenin si è fatto barbaro: non per appartenenza, nazionale, linguistica o etnica, ma per aver saputo gcogliere il momento, l’opportunità offerta dagli eventi derivati prima dal 1905, e alla prima disfatta militare dell’impero zarista ad opera della nascente potenza nipponica, e successivamente, e in maniera decisiva, dal disastro prodotto dalla Prima guerra mondiale con il suo corollario di rivolte e diserzioni tra i militari, gli scioperi delle operaie edegli operai di Pietroburgo, il pronunciamento delle guarnigioni della stesa città e il subbuglio nel mondo contadino. Tutti avvenimenti che, come la stessa storia di quegli anni, furono affrontati in maniera differente, e sostanzialmente, controrivoluzionaria, da menscevichi e socialisti-rivoluzionari.

Un Lenin che si fa barbaro agli occhi della tradizione marxista e della seconda internazionale, anche perché sa recuperare gli elementi di soggettività e di forzatura presenti nella passata esperienza del populismo russo2. Superato certamente nelle concezioni politiche, ma non nella capacità di agire, anche apparentemente contro la storia. Processo attraverso cui occorre individuare per tempo la linea di tendenza del moto sociale per definire la linea di condotta necessaria alla sua evoluzione politica e, non dimentichiamolo mai, militare.

E qui, se si vuole, si giunge un po’al nocciolo di quanto generalmente espresso dal comunista genovese: l’azione soggettiva in grado di appropriarsi delle condizioni oggettive non per assecondarle, secondo la tradizione del determinismo più becero, ma per ribaltarle nel loro contrario. Perché in questo deve consistere la Rivoluzione: ribaltare il presente per trasformarlo in un differente e più avanzato futuro. Spronando il ronzino della storia fino a farlo schiantare, come avrebbe saputo meglio riassumere poeticamente Vladimir Majakovskij.


  1. Si tratta di una serie di 136 articoli pubblicati, proprio sotto il titolo Sul filo del tempo, da Amadeo Bordiga tra il 1949 e il 1955, prima sul giornale Battaglia comunista e successivamente, a seguito della frattura avvenuta all’interno del Partito comunista internazionale, su il programma comunista. Tutti attualmente disponibili sul sito N+1 e rintracciabili qui.  

  2. A proposito delle simpatie espresse da Marx nei confronti dei terroristi russi si veda E. Cinnella, L’altro Marx. Una biografia, dellaporta editori, Pisa-Cagliari 2024.  

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Libere scelte e poteri oppressivi nella messa a fuoco filmica (Piccole stregherie 2) https://www.carmillaonline.com/2025/08/09/libere-scelte-e-poteri-oppressivi-nella-messa-a-fuoco-filmica-piccole-stregherie-2/ Sat, 09 Aug 2025 20:00:28 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=89799 di Franco Pezzini

Sergio Battista, Ignes lucis. Eretici e streghe nella storia del cinema, pp. 209, € 18, Tempesta, Trevignano Romano RM 2024.

Che gruppi minoritari e indotti a un’esistenza segreta dalle più varie contingenze storiche o sociali – eretici, streghe, membri di società segrete… – siano stati presentati dagli schermi cinematografici e televisivi come entità socialmente pericolose (la setta come mostro plurale: cfr. qui e qui) o invece come vittime sulla base di accuse demonizzanti è fenomeno ampiamente diffuso, e in grado di offrire alle trame un più forte motore drammatico. Talvolta il gruppo è in realtà presente [...]]]> di Franco Pezzini

Sergio Battista, Ignes lucis. Eretici e streghe nella storia del cinema, pp. 209, € 18, Tempesta, Trevignano Romano RM 2024.

Che gruppi minoritari e indotti a un’esistenza segreta dalle più varie contingenze storiche o sociali – eretici, streghe, membri di società segrete… – siano stati presentati dagli schermi cinematografici e televisivi come entità socialmente pericolose (la setta come mostro plurale: cfr. qui e qui) o invece come vittime sulla base di accuse demonizzanti è fenomeno ampiamente diffuso, e in grado di offrire alle trame un più forte motore drammatico. Talvolta il gruppo è in realtà presente uti singuli, in riferimento a un singolo esponente di cui si insegua la storia: e ovviamente si tratta di un panorama vastissimo.
Ora, un taglio intelligente per affrontare una materia tanto sovrabbondante è offerto da Sergio Battista in Ignes lucis: un lavoro monografico impegnativo con un esito di estremo interesse. Il panorama affrontato è assai ampio, guardando a oggetti che, anche dal punto di vista meramente cinematografico, potrebbero costituire materia di più monografie: connotati narrativi di fenomeni sociali e antropologici come eresia e stregoneria, singoli processi eccellenti dal medioevo al Novecento (Giovanna d’Arco, Giordano Bruno, Galileo, ma anche Bonhoeffer), loro mitopoiesi. Merito dell’autore essere riuscito a ben governare un insieme oggettivamente complesso, e – aspetto da rimarcare, in un saggio – di averlo fatto con uno stile narrativo ricco e felice.
Il tema abbraccia situazioni storiche lontane l’una dall’altra, affrontandole in ordine (solo tendenzialmente) cronologico. Si parte da una riflessione sul concetto di eresia definita dal consolidarsi di un’ortodossia cristiana e da una marginalizzazione della presenza femminile, difforme dalla prassi delle origini che vedevano una certa varietà di situazioni: un passo che avrà ulteriori ricadute nella costruzione (soprattutto tarda) della figura della strega. Spazio particolare è qui riconosciuto allo gnosticismo, anche per il diverso ruolo attribuito alla donna.
Dall’introduzione si passa a cenni sull’eresia pauperista, sull’inquisizione, sulle “donne del diavolo” – cioè sulla guerra alle streghe: ma fin qui restiamo a cenni di cornice, ovviamente, per la vastità dell’orizzonte considerato e per poter fornire singole chiavi utili all’analisi di prodotti filmici.
“Il cinema fin dalle origini non poteva non interessarsi al fenomeno dell’Inquisizione e del suo campo d’azione”: così inizia dunque il capitolo Ricerche storiche e immaginari cinematografici, che prende atto dell’impatto anche visivo di alcuni temi. A partire dal meraviglioso film svedese Häxan – La stregoneria attraverso i secoli di Benjamin Christensen (1922), con il suo sontuoso ricorso a fonti artistiche – Bosch, Goya eccetera – e la sua pietà umana, e che avrebbe dovuto rappresentare la prima pala di un trittico, seguita da Helgeninde (La santa) e Ander (Gli spiriti). Ma scarso successo e censure ne impedirono lo sviluppo. D’altra parte non si tratta del primo film a stigmatizzare certi fenomeni, e l’autore ricorda non solo il danese Pagine dal libro di Satana di Carl Theodor Dreyer (Blade af Satans Bog, 1920) ma altri precedenti, indietro fino a Méliès.
Ed è da questa stagione primeva del cinema che la figura di Giovanna d’Arco e la tragedia del suo rogo trovano spazio con relativi atti di accusa al potere: un soggetto di enorme successo di cui in questa sede si mappano le produzioni principali – compresa naturalmente la grande versione con Ingrid Bergman (Giovanna d’Arco al rogo di Roberto Rossellini, 1954) – a sopperire alla scarsezza di raffigurazioni credibili dell’eroina. Le diverse letture sgranano così quel che Battista definisce un primo piano sul potere (in particolare in La passion de Jeanne d’Arc di Carl Theodor Dreyer, 1928), e con un utilizzo dei documenti processuali come sceneggiatura (Procès de Jeanne d’Arc di Robert Bresson, 1962). Ovviamente il tema verrà ancora ripreso, sia per la fascinazione del mistero che la vicenda trattiene, sia per il suo carattere paradigmatico.
Da Giovanna, l’autore torna però mille anni indietro con la vicenda di Ipazia come riletta in Ágora di Alejandro Amenábar (2009), un film interessante al netto di alcune libertà, e che richiama in scena il tema dell’opposizione tra un potere religioso ormai catafratto da una rigida ortodossia e una figura “deviante” femminile.
Con un’ulteriore capriola cronologica, la sezione successiva riguarda scene emblematiche di caccia alle streghe. A partire dal caso di Salem nel contesto puritano 1692-1693 e dall’imbarazzata memoria trattenutane nel mito fondativo americano: anche in questo caso una storia gravida di ricadute artistiche – si pensi al rapporto con La lettera scarlatta di Hawthorne, che modificò il proprio cognome per allontanarlo da quello di un antenato John Hathorne magistrato a Salem – e cinematografiche fin dal 1926, compresa la versione del 1996 La seduzione del male di Nicolas Hytner ispirata a The Crucible di Arthur Miller (1953) memore della caccia ai comunisti. Una coda a questa sezione è dedicata però a Matthew Hopkins, il grande inquisitore – come lo definisce il titolo italiano, in modo non del tutto filologico – del raggelante film di Michael Reeves (1968) con un Vincent Price molto anomalo e per una volta privo di simpatiche gigionerie.
La sezione che segue verte ancora sulle streghe. Si parte con il capolavoro Dies Irae di nuovo di Dreyer (1943), grandioso teatro del conflitto interiore tra tensione spirituale e pulsioni istintuali, liberamente ispirato alla tragica vicenda della norvegese Anne Pedersdotter, arsa viva per stregoneria nel 1590. Si prosegue con il poco noto e terribile Forfølgelsen di Anja Breien (1981), sul tema dell’ignoranza dell’amore in una comunità superstiziosa, per passare al paradigmatico caso cinquecentesco – emerso solo negli anni Ottanta – di Gostanza da Libbiano, oggetto di uno studio storico di Franco Cardini (Laterza, 1989) e del film di Paolo Benvenuti (2000) con Lucia Poli. Meno diffusamente conosciuti sono altri processi portati su grande schermo ed esaminati in sequenza da Battista, quello a Caterina Ross, 1697, nel film di Gabriella Rosaleva (1982), e quello delle streghe dello Sciliar, 1506-1510, nel film eponimo di Andrea Dalfino (2021), con gli echi di un antico culto matriarcale.
La sezione successiva del saggio, Visioni eretiche, prende in esame le trasposizioni su schermo di alcuni casi celebri di eresia (etimologicamente, “scelta”), del Menocchio studiato da Carlo Ginzburg ne Il formaggio e i vermi (Menocchio di Alberto Fasulo, 2018), di Cecco d’Ascoli (L’eretico – Un gesto di coraggio di Piero Maria Benfatti, 2005), naturalmente di Giordano Bruno (il film eponimo di Giuliano Montaldo, 1973, con Gian Maria Volonté e un grande cast, a proseguire un itinerario del regista sul tema dell’intolleranza) e dello stesso Galileo. Soggetto di pellicole fin dal 1909 (Galileo Galilei di Arturo Ambrosio e Luigi Maggi), poi protagonista della lettura di Brecht portata ovviamente a teatro (emblematica la versione di Strehler al Piccolo Teatro, 1963, con pressioni cardinalizie per bloccarla) e più volte sullo schermo fino al censuratissimo Galileo di Liliana Cavani (1968) e oltre. Con scelta molto interessante, la sezione si chiude con Bogre – La grande eresia europea di Fredo Valla (2021), un grande documentario di viaggio – soprattutto interiore – sulle tracce di catari e bogomili.
L’ultima sezione, Eretici moderni, affronta anzitutto le pellicole prodotte sul pastore e teologo luterano Dietrich Bonhoeffer, giustiziato dai nazisti per la sua collaborazione all’attentato a Hitler (in particolare Bonhoeffer: Agent of Grace di Eric Till, 2000, e i documentari Hanged on a Twisted Cross di T.N. Mohan, 1996 e Bonhoeffer di Martin Doblmeier, 2003). Battista spiega così l’inserimento di Bonhoeffer nel suo studio:

è stato quello che definisco un eretico moderno, vale a dire colui che ha fatto una “scelta” di campo ben precisa, in un periodo dove era più semplice seguire l’omologazione, ovvero ricalcare le scelte fatte dalla maggioranza, che ricordiamo, non ha sempre ragione.

Il passo successivo riguarda opere teatrali degli anni Sessanta che vedono un profondo ripensamento delle esperienze di un Novecento tragico e ambiguo – come L’istruttoria di Peter Weiss e Il Vicario di Rolf Hochhuth con il film trattone Amen di Costa-Gavras (2002); e poi le vicende di Dovlatov – I libri invisibili di Aleksey German Jr. (2018), dove nel grigiore dell’Unione Sovietica brezneviana lo scrittore non allineato non finisce materialmente al rogo ma cancellato, marginalizzato, censurato.
Come l’autore rimarca nella postfazione, il volume non ha pretese di completezza enciclopedica (non vi trovano spazio, per dire, I diavoli di Ken Russell, 1971, o La visione del sabba di Marco Bellocchio, 1988), e riguarda quasi in tutti i casi film cosiddetti “storici” a prescindere dalle libertà eventualmente presenti: “storici” nel genere di approccio ma anche spesso nella loro realizzazione, che segna svolte nell’immaginario cinematografico e coinvolge grandi registi e attori. Dove il titolo Fuochi di luce evoca non solo la messa in luce e divulgazione collettiva di alcune storie emblematiche, con l’evidenziazione di taluni clamorosi meccanismi legati al rapporto col potere, ma anche nel riferimento – materiale o metaforico – al rogo come strumento del potere stesso, cui si oppone colui che compie una “scelta”.
La natura ibrida del testo (le due piste storica e filmica sono oggettivamente complesse da armonizzare) e la scelta di evitare una chiave cronologica stretta rendono la sfida interessante e originale. Il tema d’altronde è immenso, e meriterebbe da parte dell’autore supplementi d’indagine settoriali, in particolare nell’ampio bacino della narrazione popolare di genere. Se il vecchio gotico nasceva in polemica con il passato papista di inquisitori e roghi, le riflessioni di queste pellicole possono toccare provocatoriamente temi assai più vicini a noi.

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György Lukács, un’eresia ortodossa / 1 — L’attualità dell’inattuale https://www.carmillaonline.com/2024/11/06/gyorgy-lukacs-uneresia-ortodossa-1-lattualita-dellinattuale/ Wed, 06 Nov 2024 21:00:03 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85172 di Emilio Quadrelli

[Inizia oggi la pubblicazione di un lungo saggio di Emilio Quadrelli che il medesimo avrebbe volentieri visto pubblicato su Carmilla. Un modo per ricordare e valorizzare lo strenuo lavoro di rielaborazione teorica condotta da un militante instancabile, ricercatore appassionato e grande collaboratore e amico della nostra testata – Sandro Moiso]

“È più piacevole e più utile partecipare alle esperienze della rivoluzione che scrivere su di essa.” (V. I. Lenin, Stato e rivoluzione)

La decisione del Governo ungherese di chiudere l’Archivio Lukács è un indicatore dei tempi. Un indicatore che rimanda a quell’ora più buia già tristemente conosciuta [...]]]> di Emilio Quadrelli

[Inizia oggi la pubblicazione di un lungo saggio di Emilio Quadrelli che il medesimo avrebbe volentieri visto pubblicato su Carmilla. Un modo per ricordare e valorizzare lo strenuo lavoro di rielaborazione teorica condotta da un militante instancabile, ricercatore appassionato e grande collaboratore e amico della nostra testata – Sandro Moiso]

“È più piacevole e più utile partecipare alle esperienze della rivoluzione che scrivere su di essa.” (V. I. Lenin, Stato e rivoluzione)

La decisione del Governo ungherese di chiudere l’Archivio Lukács è un indicatore dei tempi.
Un indicatore che rimanda a quell’ora più buia già tristemente conosciuta dall’Europa. Riproporre Lukács allora è anche un atto, per quanto limitato, di resistenza. Limitato ma non inutile. La resistenza non nasce dal nulla ma da idee–forza in grado di armarla. Lukács è un’arma utile e attuale. Si tratta di imparare a maneggiarla.

Nel febbraio del 1924, a poche settimane dalla morte di Lenin, György Lukács dà alle stampe il pamphlet Lenin. Teoria e prassi nella personalità di un rivoluzionario. Un centinaio di pagine scritte di getto che, come proveremo ad argomentare, si mostrano uno dei testi più ricchi e densi della teoria politica marxiana dell’intero novecento. La sua complessità e ricchezza è tale da rivestire ancora nel presente molto di più di una semplice curiosità e ancor meno l’ennesimo omaggio malinconico al mondo di ieri. Se c’è una cosa che nel testo di Lukács sorprende e assieme stupisce è la sua attualità. Comunque prima di immergerci nell’esposizione del saggio lukácsiano è necessario dire qualcosa sull’autore: György Lukács è tutto tranne che una figura semplice, la sua condizione di militante costretto alla autocritica in permanenza racconta già qualcosa di non proprio irrilevante. In continuazione, e a questo destino non sfugge neppure il Lenin, Lukács deve far ricorso, per poter essere letto e pubblicato, a una qualche forma di ammenda. Paradossalmente ogni ortodossia instauratasi nel santuario comunista si è sentita in dovere di criticare Lukács almeno un poco, lasciandogli però sempre aperto lo spiraglio dell’autocritica. Figura intellettuale di prim’ordine cresciuto in quella fucina culturale, forse irripetibile, che è stata la crisi intellettuale del primo novecento europeo, ha una formazione ben poco in linea con ciò che diventerà l’ortodossia comunista1.

Weber e Simmel possono, a ragione, essere annoverati tra i suoi padri intellettuali tanto che non saranno pochi gli echi di questi autori che rimarranno presenti nelle sue opere2. A Marx giunge attraverso Hegel nei confronti del quale, anche nei momenti in cui lo stesso movimento comunista tratta il medesimo come un cane morto, continua a rivendicarne il tratto profondamente sovversivo racchiuso nelle sue opere, sottolineando in continuazione il debito contratto dalla teoria marxiana con la dialettica hegeliana3; del resto lo stesso Lenin rivolse qualcosa di più che un semplice apprezzamento alla hegeliana Scienza della logica, apprezzamento che gli epigoni fecero presto a riporre nell’oblio4.

L’oggettivismo e il determinismo, che iniziarono a farsi strada all’interno del movimento comunista, hanno il loro incipit proprio con la messa al bando della dialettica hegeliana che, ben presto, si mutuò in una messa al bando della dialettica tout court. Con questa, l’intera dimensione della soggettività di classe finì con l’essere crocefissa e sepolta nel folto mondo dell’eresia e, con lei, il partito dell’insurrezione normalizzato dentro la classica sociologia politica michelsiana5.

Paradossalmente l’ortodossia comunista, sempre prona a cercare influenze borghesi tra le righe dei pensatori scomodi, finì con l’assumere, proprio dentro il partito rivoluzionario, quel destino che non senza sofferenza Weber aveva profetizzato per il mondo moderno. Anche su questo Lenin, nella sua nota battaglia contro l’irrompere del dominio burocratico nei Soviet e nel partito, aveva avuto parole estremamente chiare. Come aveva ampiamente argomentato in Stato e rivoluzione, e su questo ci soffermeremo molto in seguito, compito della rivoluzione proletaria era, in primo luogo, spezzare la macchina statuale borghese, non riprodurla o addirittura ampliarla. Tra proletariato e borghesia vi è un salto storico, non un passaggio di consegne. Nella cuoca di Stato e rivoluzione Lenin sintetizzava al meglio l’essenza stessa della rottura rivoluzionaria. Cuore di questa rottura non può che essere la soggettività di classe. Il delinearsi e il rafforzarsi della gabbia d’acciaio non è un fatto tecnico ma politico. Non riconoscerlo significa negare alla classe il suo ruolo strategico e far riemergere e recuperare, sotto le spoglie della necessità oggettiva, l’apparato statuale tradizionale. In tale ottica, ovviamente, non vi può essere spazio alcuno per quel: “Bisogna sognare!” sul quale Lenin costruisce il programma rivoluzionario e che, nonostante le immani difficoltà che lo circondano, continua a far suo. L’ottobre è un cominciamento, “On s’engage…. puis on voit!”, qui è per intero Lenin. “Poi si vede!” ma dentro l’orizzonte della dialettica storica. In ogni cominciamento vi è solo una certezza, quella della radicale rottura. Questo, in fondo, è il Lenin che Lukács coglie e ci restituisce 6.

Autore difficilmente addomesticabile è stato costretto a vivere in una sorta di semi-clandestinità politica e intellettuale, trovando nel volontario confino dell’erudizione l’escamotage per poter continuare a scrivere e pensare, allontanando in tal modo da sé l’occhio vigile ma poco sveglio dei vari censori che si sono susseguiti nel vaglio dei suoi testi. Costretto, come si è detto, a criticare le proprie opere ogni qualvolta queste venivano nuovamente edite in realtà, tra le righe e le pieghe di ogni sua autocritica, vi è sempre la conservazione e la difesa del nocciolo duro di quanto sostenuto. Nella stessa introduzione a Storia e coscienza di classe del 1967, il testo nei confronti del quale, almeno in apparenza, sembra prendere con maggiore decisione la distanza, archiviandola come passaggio formativo dell’epoca giovanile, una lettura minimamente attenta mostra come gran parte delle tesi sostenute più che rinnegate vengano, per quanto in parte smussate, sostanzialmente riconfermate7. In ciò, inoltre, vi è una non secondaria finezza che sfugge per intero alle pletore dei censori. Nel legare Storia e coscienza di classe alla fase giovanile, avendo a mente quanto in quel testo Lukács civetti con Hegel, costruisce l’immagine di un giovane Lukács non poco affine al giovane Marx, quel giovane Marx che, dopo la scoperta e la pubblicazione dei noti Manoscritti insieme a tutta la sua opera giovanile, non pochi problemi stava dando alla teoria politica comunista mainstream. Il giovane Lukács, sembra dire il Lukács maturo, compie gli stessi errori del giovane Marx lasciando in sospeso, tra le righe, la domanda: ma questi sono stati veramente degli errori? In qualche modo, quindi, l’impressione è che Lukács rimodelli, nella forma voluta dai censori dell’epoca i suoi testi, continuando a mormorare eppur si muove.

Come tutti i pensatori di razza è rimasto pressoché immune alle insidie del tempo mentre, dei suoi solerti censori, se ne sono perse abbondantemente le tracce. Se già il nome di Zinoviev8, il grande accusatore di Storia e coscienza di classe, è forse ancora noto ai residui cultori della tradizione comunista, personaggi quali Deborin e Rudas9, grandi pubblici ministeri dell’ortodossia dell’epoca, difficilmente sono in grado di far sorgere un qualche ricordo mentre del grande ortodosso Ždanov tutti ricorderanno il valore militare mostrato a Leningrado, mentre stenderanno un pietoso velo di silenzio su tutto ciò che concerne teoria politica, arte, letteratura e filosofia10. Se il tempo del presente è spesso magnanimo con gli yes man, il filo del tempo è fortunatamente uso a parametri diversi. Al pari dei suoi vari maestri Lukács e i suoi scritti continuano a essere fonte non di risposte certe, bensì di continui interrogativi che, nella loro inattualità, continuano a mostrarsi attuali.

Con la rottura imposta dal ’68 Lukács conosce una non secondaria e profonda reinassance, le sue opere, dentro un movimento che non poteva che assumere le vesti dell’eresia, tornano attuali. Quell’Angelus Novus che è sempre alla base di tutte le insorgenze proletarie si scagliava, e non poteva essere altrimenti, equamente contro tutte le vestali dello status quo11, del quale il movimento operaio e il movimento comunista erano una componente non secondaria. Con il ’68 il tema dell’alienazione diventa centrale12, ma al contempo riaffiora prepotentemente, e ciò sarà particolarmente vero nel nostro paese, la questione della guerra di movimento che il movimento operaio ufficiale aveva, da tempo, riposto nell’archivio polveroso della storia di ieri13. L’attualità della rivoluzione torna a essere il qui e ora della lotta di classe. In tale contesto, l’autore che intorno alla attualità della rivoluzione aveva, al banco della storia, puntato tutto non poteva che ritornare attuale. Una attualità che non nasce in un qualche seminario, o tra le ristrette schiere dell’erudizione ma nell’insorgenza delle colonie interne occidentali, nella critica al socialismo reale, sulle barricate parigine per approdare e soffermarsi a lungo nelle lotte operaie e proletarie italiane, senza dimenticare l’apparire di quel soggetto, il colonizzato, che irrompe prepotentemente sulla scena storica ponendo questioni che il movimento operaio e comunista ufficiale è ben distante dal comprendere e ancor meno dall’accettare così come, a irrompere prepotentemente sulla scena politica, è la questione femminile e la critica al patriarcato, del quale l’ortodossia comunista rappresenta un pilastro non secondario. Proprio razza e genere saranno gli elementi che metteranno principalmente in crisi le retoriche dominanti all’interno dell’ortodossia comunista e che la renderanno del tutto estranea al riapparire prepotente dell’Angelo della storia. Non per caso tutti i partiti comunisti europei, e in special modo quelli di maggior peso politico come quello italiano e francese, si schierano apertamente contro il movimento e a difesa dello status quo. Puntualizzato ciò, riprendiamo il filo del nostro discorso.

(1continua)


  1. Per una buona esposizione della complessa figura intellettuale di Lukács si veda, G. Bedeschi, Introduzione a Lukács, Laterza, Roma–Bari 1971. Sulla formazione di Lukács il bel lavoro di, F. Fortini, Lukács giovane, in Id., Saggi ed epigrammi, Mondadori, Milano 2003. Per un buon dibattito sulla figura intellettuale di Lukács e l’insieme di tradizioni filosofiche che precipitano nella sua elaborazione si possono vedere i saggi compresi in, AA. VV., Letteratura, storia, coscienza di classe. Contributi per Lukács, Liguori, Napoli 1977; T. Perlini, Utopia e prospettiva in György Lukács, Edizioni Dedalo, Bari 1968.  

  2. Basti pensare al classico, G. Lukács, L’anima e le forme, SE, Bellaria (Rimini) 2012. Per una discussione su questi aspetti per nulla secondari della formazione intellettuale di Lukács si veda, A. De Simone, Lukács e Simmel. Il disincanto della modernità e le antinomie della ragione dialettica, Milella, Bari 1985.  

  3. L’incontro con Hegel insieme all’influenza che questi esercitò costantemente nei suoi confronti è retrodatabile sin da quel, G. Lukács, Teoria del romanzo. Saggio storico–filosofico sulle forme della grande epica, SE, Bellaria (Rimini) 2015, iniziato nel 1914 e pubblicato nel 1920. L’interesse per la filosofia hegeliana rimase una costante dell’attività intellettuale di Lukács che lo accompagnò praticamente per tutta la vita. A Hegel e all’interpretazione della sua filosofia, e in particolare alle ricadute che La fenomenologia dello spirito, G. W. F. Hegel, 2 Vol., La Nuova Italia, Firenze 1973, avrebbero avuto per il materialismo storico – dialettico consacrò uno dei suoi lavori più importanti e significativi, G. Lukács, Il giovane Hegel e i problemi della società capitalista, 2 Vol., Einaudi, Torino 1975  

  4. Cfr. V. I. Lenin, Quaderni filosofici, Editori Riuniti, Roma 1971  

  5. R. Michels, La sociologia del partito politico, Il Mulino, Bologna 1966. In questo testo Michels descrive il funzionamento del partito politico, indipendentemente dai suoi orientamenti ideologici, nelle società moderne. Una modellistica alla quale non sfugge alcuna forma politica organizzata la quale è del tutto interna alle retoriche proprie del mondo borghese. In ciò Michels ha sicuramente ragione. Tutti i partiti interni all’ordinamento borghese non possono fare altro che uniformarsi a questo ordinamento ma è esattamente qui che si situa la differenza e la rottura tra tutti i partiti della borghesia e il partito dell’insurrezione. Questi non è un altro partito che si presenta sulla scena della competizione borghese bensì il partito che si propone di affossare la borghesia, per questo la sua strutturazione non è commensurabile con quella degli altri partiti. Del resto, questo partito mira a spezzare la macchina statuale non a impossessarsene. La differenza con tutti gli altri partiti si colloca sul piano della rottura storico–politica con un’intera epoca, non con un programma di governo in competizione con altri programmi di governo. Il partito dell’insurrezione incarna la relazione classe contro classe e non, come solitamente avviene tra i partiti borghesi, quella tra ceti politici momentaneamente avversi. Prendendo a prestito Schmitt si può asserire che, mentre la relazione tra i partiti borghesi è riconducibile alla dimensione dell’inimicus, quella tra il partito dell’insurrezione e tutti gli altri partiti è contrassegnata dalla relazione amico/nemico in senso esistenziale.  

  6. Questo è ciò che M., Cacciari, nella sua corposa introduzione ai testi lukacsiani pubblicati sulla rivista Kommunismus, Sul problema dell’organizzazione. Germania 1917–1921, in G. Lukács, Kommunismus 1920–1921, Editore Marsilio, Padova 1972, sembra non cogliere. Cacciari, infatti, considera il destino weberiano come qualcosa di ineludibile e insuperabile per cui non può che ascrivere Lukács tra gli utopisti di ispirazione escatologica e millenarista. Ciò che sembra sfuggire a Cacciari è proprio quel cominciamento che la rivoluzione proletaria si porta appresso insieme a tutte le possibilità che un’era nuova, frutto di una rivoluzione di classe, apre. Cacciari rimane prigioniero del tempo del presente dimenticando che, quel tempo, non è un tempo impolitico ma è il tempo e lo spazio sedimentato dal capitale. Sfugge, ad esempio, a Cacciari, che la metodicità dei tempi, lo sfruttamento maniacale di questi non appartengono indistintamente alla società ma sono il frutto di una modellistica storico–politica che si è imposta attraverso quella religione, il protestantesimo, che, come ben argomenta M. Weber nell’Etica protestante e lo spirito del capitalismo, Rizzoli, Milano 1991, meglio di altre incarnava lo spirito del capitalismo. In sostanza ciò che Cacciari nella sua critica a Lukács rimprovera è l’adesione incondizionata alle possibilità che la dialettica storica offre e, con ciò, il legame di Lukács con Marx. Non stupisce che, a partire da questi presupposti, Cacciari, con il suo realismo pragmatico, sia diventato uno dei principali alfieri delle società neoliberiste e se, tra le sue vene, scorre una qualche goccia di sangue hegeliano è quello dell’Hegel politicamente prono allo status quo e non l’Hegel dal quale Marx ricavò la possibilità dell’utopia comunista.  

  7. Su questo aspetto si veda la bella introduzione di M. Spinelli, Storia e coscienza di classe cinquanta anni dopo, in G. Lukács, Storia e coscienza di classe, Mondadori, Milano 1973.  

  8. G. E. Zinoviev diresse l’Internazionale comunista sino al 1925. Da quella postazione non irrilevante bollò di eresia Storia e coscienza di classe.  

  9. A. B. Deborin filosofo e militante menscevico aderì al bolscevismo nel 1928 e divenne, anche se solo per breve tempo, un fanatico cacciatore di eresie. L. Rudas dirigente del partito comunista ungherese insieme al sopra ricordato Deborin fu tra i più accaniti avversari di Lukács e della sua eresia filosofica. Per una puntigliosa e anche ironica critica del loro operato si veda, G. Lukács, Coscienza di classe e storia. Codismo e dialettica, Edizioni Alegre, Roma 2007.  

  10. A. A. Ždanov, vestale della cultura sovietica si mostrò, in realtà, assai prono a una cultura nazionalista e conservatrice. Intellettuale per nulla brillante si rivelò, invece, un organizzatore politico e militare di primordine dirigendo, con grande successo, le difese e la resistenza di Leningrado per tutto il suo lungo assedio sino alla liberazione.  

  11. Il ’68 fu senza ombra di dubbio un momento di rottura storica che coinvolse tutti i sistemi politici. Oriente e Occidente furono scossi da un moto sovversivo dove il treno contro la storia sembrava nuovamente essersi messo in moto. Per una concettualizzazione di questa asserzione si veda il bel lavoro di G. Roggero, Il treno contro la storia. Considerazioni inattuali sul ’17, Derive Approdi, Roma 2018. La pubblicistica sul ’68 è sterminata e di difficile catalogazione per una sua ampia panoramica si può vedere, P. Ortoleva, I movimenti del Sessantotto in Europa e in America, Editori Riuniti, Roma 1988; volendo scegliere un paio di testi in grado di, in senso ampio, fornire l’humus culturale ed esistenziale del movimento occorre indicare in, H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, Einaudi, Torino 1999 il libro che ha sicuramente maggiormente segnato e influenzato tutta una generazione e F. Fanon, I dannati della terra, Einaudi, Torino 2007 che ha contribuito non poco a rompere con i dogmatismi in cui era precipitato il movimento comunista e a ridare fiato e respiro all’idea di rivoluzione totale che l’ortodossia comunista aveva da tempo seppellito dentro il pragmatismo imperante. Sia Marcuse che Fanon rilanciarono quel tratto escatologico che la stessa idea di rivoluzione si porta appresso. In questo senso non è neppure inessenziale ricordare, dentro il ’68, la scoperta di un autore come E. Bloch e i suoi, Thomas Munzer teologo della rivoluzione, Feltrinelli, Milano 2010 e ancor più, Ateismo nel cristianesimo, Feltrinelli, Milano 2005, edito proprio nel 1968, che ribadivano la necessità di pensare e praticare l’utopia marxiana del passaggio dalla preistoria alla storia. Fanon, inoltre, immetteva prepotentemente dentro il panorama politico occidentale il costante rimosso della “questione coloniale” un aspetto che, soprattutto in Germania, ebbe ricadute considerevoli, cfr. G. Bausano, E. Quadrelli, Ulrike Meinhof, Una vita per la rivoluzione, Interno 4 Edizioni, Rimini 2021. Infine, ma non per ultimo, va ricordato come proprio dentro il ’68 iniziò a imporsi prepotentemente il tema della questione di genere, sostanzialmente estranea alle retoriche del movimento comunista ufficiale, e come questo tema, nelle sue articolazioni più radicali, finì con il legarsi alle tematiche della razza scoprendo così il vaso di Pandora del colonialismo come non secondaria articolazione del dominio patriarcale. Patriarcato e colonialismo irruppero dentro il movimento del’68 creando non pochi problemi all’insieme della sinistra il cui volto bianco e maschilista, tanto che la famiglia ancorché in versione proletaria rimaneva un suo totem inamovibile, non la distingueva di molto dal mondo e dalla cultura borghese. Su questi aspetti si veda il bel saggio di A. Davis, Donne, razza e classe, Edizioni Alegre, Roma 2018.  

  12. Di qua la renaissance di Lukács il quale, proprio intorno al tema dell’alienazione nella società capitalista, aveva incentrato parte delle sue opere giovanili e, conseguentemente a ciò, la ripresa di interesse per quell’umanesimo marxiano che, soprattutto le opere del giovane Marx, facevano albeggiare così come, l’aspetto etico dell’agire politico rivoluzionario, un tema che in Lukács compare in gran parte della sua elaborazione teorica, si impose come una vera e propria linea di condotta del ’68. Sotto questo aspetto, almeno come arco di senso, un’importanza sicuramente determinante lo rivestono i saggi lukacsiani raccolti in, G. Lukács, Scritti politici giovanili 1919–1928, Editore Laterza, Bari 1972. Quanto la renaissance di Lukács influenzò il ’68 è ben sintetizzabile in un testo, H. J. Krahl, Costituzione e lotta di classe, Jaca Book, Milano 1983, una delle più importanti produzioni teoriche del ’68, il quale, proprio dai temi lukacsiani, prende le mosse. 

  13. Al proposito si vedano, A. Gramsci, Note sul Machiavelli sulla politica e sullo Stato moderno, Editori Riuniti, Roma 1994; P. Togliatti, La guerra di posizione in Italia. Epistolario 1944–1964, Einaudi, Torino 2014. Con Gramsci, che non a caso era stato posto ai margini dell’Internazionale comunista e dentro lo stesso partito comunista italiano viveva in una condizione di sostanziale isolamento politico, si fa strada l’idea che nei paesi a capitalismo avanzato la guerra di movimento, ossia la lotta rivoluzionaria violenta e insurrezionale, non potesse darsi e che, pertanto, il partito si dovesse attrezzare per una lunga guerra di posizione al fine di conseguire una egemonia culturale dentro la società civile. Di qui la teorizzazione dell’edificazione delle casematte della cultura che sarebbero diventate il cuneo attraverso il quale fare breccia nella società borghese. Un’ipotesi che Togliatti fece interamente sua dopo il suo ritorno in Italia nel 1944. Con ciò il movimento comunista rinunciava, per decreto, a qualunque possibilità rivoluzionaria imbracciando la mesta e fallimentare via del parlamentarismo. La deriva prima opportunista e poi apertamente collaborazionista e controrivoluzionaria che il PCI mostrò apertamente nell’era Berlinguer non è altro che il naturale approdo dell’assunzione della guerra di posizione come progetto strategico del movimento proletario. Una scelta che non ebbe sullo sfondo alcuna furberia tattica ma la reale e, occorre riconoscerlo, onesta rinuncia, in piena tradizione socialdemocratica, alla rivoluzione comunista. Un abbaglio e un malinteso, quello della furberia tattica, coltivato da molti sia nell’ambito della borghesia che in quello proletario. Su ciò si creò il mito della doppiezza di Togliatti il quale avrebbe ufficialmente optato per questa ipotesi continuando però a coltivare progetti rivoluzionari. Sull’inconsistenza di questo aspetto, diventato un luogo comune anche se del tutto privo di un qualche fondamento, si possono vedere, R. Gualtieri, Togliatti e la politica estera italiana. Dalla Resistenza al trattato di pace 1943–1947, Editori Riuniti, Roma 1995; G. Bocca, Togliatti, Feltrinelli, Milano 2014.  

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Il ciclo di Eymerich, una narrativa popolare che inquieta e non consola /2 https://www.carmillaonline.com/2022/08/23/il-ciclo-di-eymerich-una-narrativa-popolare-che-inquieta-e-non-consola-2/ Mon, 22 Aug 2022 22:18:28 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=73390 di Fabio Ciabatti

In Mater Terribilis, in uno dei più classici futuri alla Evangelisti in cui la razionalità di Eymerich dispiega le sue distopiche conseguenze, esiste il Vortex, una stazione satellitare in grado di immagazzinare i sogni e gli incubi di tutta l’umanità e di ritrasmetterli modificati e amplificati alle menti delle persone. Due funzionari di questa stazione dialogano tra di loro:

La gente “Non riesce più a distinguere tra incubo e realtà. Quanto ai sogni, non sa più nemmeno cosa siano. “Be’, era proprio questa la finalità del sistema. Spegnere i sogni. [...]]]> di Fabio Ciabatti

In Mater Terribilis, in uno dei più classici futuri alla Evangelisti in cui la razionalità di Eymerich dispiega le sue distopiche conseguenze, esiste il Vortex, una stazione satellitare in grado di immagazzinare i sogni e gli incubi di tutta l’umanità e di ritrasmetterli modificati e amplificati alle menti delle persone. Due funzionari di questa stazione dialogano tra di loro:

La gente “Non riesce più a distinguere tra incubo e realtà. Quanto ai sogni, non sa più nemmeno cosa siano.
“Be’, era proprio questa la finalità del sistema. Spegnere i sogni. I sogni non sono governabili, gli incubi sì. Sovversione e terrorismo nascono dai primi, anche se magari si convertono nei secondi”.

Questo discorso è fatto dal punto di vista del potere e per questo dove sta scritto sovversione e terrorismo possiamo leggere rivoluzione e ribellione. Ciò detto questo brano fa pensare all’Unione Sovietica. Il più grande sogno trasformato in un tremendo incubo. Al di là di questa suggestione, tornando ai romanzi di Eymerich, la gran parte delle eresie che ci presenta Evangelisti rimangono in bilico tra queste due dimensioni: di sogno e di incubo.
Insomma l’immaginario non è soltanto lo scrigno immateriale che custodisce i tesori più preziosi dell’animo umano rimossi dalla razionalità dominante. L’immaginario è strutturalmente ambiguo. Se superiamo le colonne d’Ercole che delimitano la logica del nostro mondo non troviamo automaticamente sogni e pulsioni di libertà. Certamente ci imbattiamo in frammenti di possibili mondi alternativi, ma assemblati in una forma magmatica e per questo utilizzabili anche in modo regressivo da ciarlatani, mestatori e funesti imbonitori.
In Cherudek Eymerich si scontra con Rupescissa, un alchimista che, con il suo elisir, vuole assicurare a folle di infelici l’“accesso a una vita più ricca, in cui il corpo si fa lieve e i beni dello spirito sono condivisi”. Nel condannare la sua eresia, il cinismo dell’inquisitore ha almeno una freccia al suo arco che sembra provenire da una faretra rivoluzionaria:

“Curioso” commentò Eymerich, un sorrisetto cinico sulle labbra. “Ogni tanto compare qualcuno che promette ai poveri il riscatto. Purché si impegnino a rimanere poveri nella vita ordinaria e cercare soddisfazione nel mondo dei sogni”. 

Questa affermazione dal sapore marxiano, decisamente sorprendente in considerazione di chi la sta pronunciando, sembra segnalarci che il disincanto illuministico rimane necessario per separare il grano dal loglio. Dunque, il riemergere di antiche sapienze e di divinità del passato, l’immaginario rimosso dal potere, non basta. Se i desideri e le pulsioni di liberazione che risorgono da tempi remoti non si trasfigurano in qualcosa di diverso, all’altezza di nuovi tempi e del futuro che a partire da essi può essere immaginato, alla fine si trasformano in mostri. I sogni possono diventare incubi. Ciò accade, per esempio, quando il desiderio di comunità, che risorge dalle ceneri dell’individualismo moderno, si trasforma in etnocentrismo totalitario e razzista. Di segno opposto è quanto accaduto nel 1871, quando la memoria dell’autogoverno delle municipalità medioevali si è trasfigurata nella democrazia della Come di Parigi. Una simile dinamica si è verificata quando il vivo ricordo dell’autogestione della obscina russa ha trovato nuova linfa nel potere dei Soviet durante la prima fase della rivoluzione del 1917.
Non so se fosse nelle intenzioni di Evangelisti, ma sembra ci stia dicendo, a modo suo, che la rivoluzione non sarà un pranzo di gala, quantomeno per il fatto che ci costringerà a mollare gli ormeggi delle nostre più consolidate convinzioni e a navigare nel mare aperto dell’incertezza. Ma non abbiamo alternative. Pena la trasformazione dei più bei sogni in incubi tremendi.  

L’immaginario, in altri termini, è un luogo conteso in cui “Salvezza e dannazione si manifestano insieme quando il mondo vacilla”.1 Non è facile definire questo concetto, anche se evidentemente Evangelisti attinge alla concezione dell’inconscio collettivo e degli archetipi sviluppata dallo psicanalista Carl Gustav Jung. Cosa evidente, per esempio, nella definizione che dà dell’inconscio collettivo il fantasma di Eymerich nell’omonimo romanzo: “Il luogo dei sogni, delle figure che tutti conoscono senza saperle descrivere, dei miti e delle forme universali. Frutto di un accumulo secolare”. L’immaginario è dunque ciò che può mettere in connessione gli esseri umani e che perciò rappresenta un potenziale antidoto al potere che tende invece a separarli. Ma è anche una regione del reale pericolosa in cui ci si può perdere. Nel primo libro del ciclo, Nicolas Eymerich, inquisitore, così viene descritto da Sweetlady, medium dell’astronave Malpertuis: “L’immaginario è un luogo senza tempo e senza spazio, come il delirio degli schizofrenici. C’è chi, come loro, vi resta impigliato per sempre e non riesce più a trovare la strada del suo corpo”.
Senza perderci noi stessi nelle complicatissime sfaccettature di questa dimensione esplorate dal ciclo di Eymerich, considerato che non è sempre facile distinguere tra la metafora narrativa e la realtà che essa vuole rappresentare, possiamo senz’altro dire che la concezione del tempo è fondamentale per capire cosa si intenda per immaginario.
“Per Einstein, il tempo era una freccia dal percorso irreversibile” ci viene raccontato in Eymerich risorge dallo scienziato Frullifer. Questo personaggio, più volte presente nel ciclo dell’inquisitore dopo la sua comparsa nel primo romanzo, con la sua fisica psitronica ribalta la concezione einsteiniana aiutandoci a interpretare sia i paradossi spazio-temporali dell’immaginario sia i connessi prodigi demoniaci che Eymerich si trova ad affrontare nelle sue avventure. Anche per l’inquisitore il tempo scorre inesorabilmente in una sola direzione, quella che scandisce l’inarrestabile e progressivo dominio della vera Chiesa sul mondo, l’unico regime che al caos può sostituire l’ordine.
Tutto ciò che ritorna dal passato, le antiche divinità, soprattutto femminili, che risorgono dai tempi antichi intralciano questo cammino voluto da Dio e per questo non possono che avere, per l’inquisitore, natura demoniaca, vale a dire irrazionale. E infatti, sostiene Eymerich, “quelle che finora abbiamo chiamato divinità sono in verità demoni, impegnati a predicare una liberazione immediata, lontana da quella spirituale voluta dalle Scritture
(Cherudek). Non a caso, secondo l’inquisitore, “la nozione del tempo è uno dei principali cardini del pensiero su cui gioca Satana nei suoi inganni. Sconvolge le menti e semina confusione”. (Rex Tremendae Majestatis) Una concezione, quella di Eymerich, che corrisponde alle sue attitudini personali. L’inquisitore, infatti, “detestava il fardello del passato: equivaleva a cercare oggetti perduti sul fondo di un lago melmoso”. Per questo “non conservava memoria dei morti. Li cancellava, semplicemente. E se i loro volti riaffioravano, li cancellava di nuovo”. (Il castello di Eymerich

Occorre ancora una volta sottolineare che dietro l’apparente forma mentis medievale si nasconde la concezione, tutta moderna, del progresso. Ed è proprio questa concezione unilineare del tempo che viene meno nell’immaginario. Esso è infatti una dimensione senza tempo, caratterizzata dalla presenza simultanea di tutti i miti, le leggende, i sogni e le credenze della storia dell’umanità. Questa atemporalità può avere una lettura forte, se seguiamo un’interpretazione strettamente junghiana dell’immaginario collettivo quale contenitore inconscio di simboli e immagini arcaiche, eredità della storia primordiale dell’umanità, simultaneamente presenti nel patrimonio psicologico di tutti gli esseri umani, indipendentemente dalla loro esperienza personale.
Possiamo però darne una lettura più debole laddove ci limitiamo ad ammettere che in ogni società, simultaneamente al modo di produzione dominante, esistono anche embrioni di forme sociali residuali, arcaiche e future con il loro portato di forme di pensiero, consce e inconsce.2
Debole o forte che sia la lettura, rimane il fatto che, una volta abbandonata l’ingenua fiducia nelle ineluttabili leggi della storia che portano al sorgere del socialismo, abbiamo compreso che l’unica concezione lineare del tempo è quella del potere che vuole presentare se stesso come privo di alternative. Indipendentemente dalle fonti di ispirazione di Evangelisti, a partire dal suo universo narrativo è difficile non pensare all’interruzione di questo continuum storico nei termini del potere messianico debole di Walter Benjamin che connette il presente rivoluzionario con il passato e il futuro: da una parte, infatti, le generazioni presenti hanno la possibilità di redimere le sofferenze di quelle passate e, dall’altra, il sacrificio delle precedenti generazioni sconfitte, la memoria dei martiri del passato ispirano le lotte di liberazione del presente. 

In realtà, all’apice del ciclo di Eymerich, sarà egli stesso ad acquisire una concezione ben più complessa del tempo che, pur abbandonando le semplificazioni dell’ideologia “linearista”, non rinuncia a un finalismo sui generis in grado di ribadire il dominio universale della chiesa. Per raggiungere questo risultato Eymerich deve percorrere completamente, attraverso l’intero ciclo dei libri a lui dedicati, Il viaggio dell’eroe di cui ci parla il famoso manuale di sceneggiatura hollywoodiano di Christopher Vogler. Questo viaggio però ha un esito assai diverso da quello previsto dalla narrativa mainstream. La parabola convenzionale, come descritta dallo studioso di religioni Joseph Campbell, da cui Vogler riprende il concetto di viaggio universale dell’eroe, prevede un movimento in tre atti:

L’eroe abbandona il mondo normale per avventurarsi in un regno meraviglioso e soprannaturale (x); qui incontra forze favolose e riporta una decisiva vittoria (y); l’eroe fa ritorno dalla sua misteriosa avventura dotato del potere di diffondere la felicità fra gli uomini (z).3

In questo percorso l’eroe, seguendo le orme della psicanalisi junghiana, è in grado di fare i conti con la sua ombra, con il suo lato oscuro. E in questo modo completa sé stesso compiendo il suo processo di “individuazione”.
Come già accennato, il viaggio di Eymerich, pur seguendo formalmente le tappe del percorso vogleriano/jungiano, si conclude in modo decisamente originale: completandosi con l’altro da sé, la sua ombra femminile, l’inquisitore si trasforma da cattivo in supercattivo. Diventa demiurgo universale capace di attraversare il tempo per imporre il suo ordine spietato. Invece di riportare dalla sua avventura l’elisir della felicità da donare agli esseri umani, si procura il veleno che sarà in grado di intossicare il presente e tutti i secoli futuri raccontati nei romanzi di Eymerich. 

Prima di completare questo percorso, in Rex tremendae maiestatis, Eymerich ha un sogno premonitore.

Non sapeva quale epoca stesse osservando: aveva l’impressione di abbracciarle tutte quante. Il mosaico che contemplava pareva avere un unico movente: fare proprie ricchezze comuni e piegare chi ne era espropriato. Magari ucciderlo. Una legge che aveva dominato sulla Terra prima ancora che l’uomo assumesse la forma attuale.
Eymerich ne era confortato. Nella sua selvaggia maestà, quello poteva essere il suo regno. Osservava guerre interminabili. Alcune le conosceva perché erano ancora in atto. Altre, trascorse o future, erano combattute con armi immaginose e devastatrici …
Era tempo che, su uno dei tanti mondi, qualcuno fosse chiamato a prenderne in pugno la tremendam majestatem. L’idea spaventava Eymerich, ma al tempo stesso lo lusingava. Si sarebbe mostrato degno del compito. Avrebbe mostrato fini degni a battaglie insensate. La carica di Rex non lo spaventava.

Un potere tremendo, quello del Rex, che l’Eymerich onirico non vuole utilizzare per mettere fine alle “guerre interminabili” che piagano la storia dell’umanità, ma sfruttare per strumentalizzare queste stesse guerre per i suoi obiettivi, guidandole verso “fini degni”. Si tratta di instaurare, questa volta con superpoteri, con la capacità di attraversare il tempo, il dominio dell’impero universale della chiesa e di ribadire le verità eterne della teologia tomistico-aristotelica. 

Queste verità, la razionalità delle leggi volute da Dio, secondo Eymerich non possono essere sovvertite da Satana che, però, può creare delle illusioni, degli inganni che gli esseri umani possono facilmente scambiare per realtà. Come meramente illusorio era, secondo l’ideologia dominante, il comunismo considerato alla stregua di una religione secolarizzata. Una sorta di eresia ingannatrice, ma capace di mobilitare le masse ingenue.
Tornando ai nostri romanzi, dare credito a queste illusioni, anche a fin di bene, evocando i demoni per utilizzarli a vantaggio della vera fede, è una imperdonabile deviazione dalla della retta via. È quello che fa il vecchio mentore dell’inquisitore, padre Dalmau ne
Il castello di Eymerich, trasformandosi così in suo acerrimo nemico. L’anziano maestro sostiene che è lecito “Punire il male con lo stesso male” e cioè “saper usare gli strumenti del proprio nemico, anche a costo di divenire simile a lui”. Perché il fine giustifica i mezzi. Nonostante condivida il machiavellismo del suo maestro, Eymerich punirà padre Dalmau con una tremenda morte. Ma in Rex Tremendae Majestatis, l’inquisitore si comporterà in modo simile a quello del suo vecchio mentore seguendo il percorso alchemico-iniziatico indicato da un libro maledetto, il Discorso della saggia Maria sulla Pietra dei filosofi.  

“Dove regna il demonio – sostiene Eymerich – la realtà è sovvertita, sono le leggi del diavolo ad avere valore. … Ci conformiamo a convenzioni bugiarde, inventate da maghi e giudei, solo per uscire dalla follia dell’inferno. Le stritoliamo nelle loro stesse norme assurde”
“Ma così ci consegniamo alla menzogna!”
“No è la menzogna che si consegna a noi”.

È questo il passo definitivo che trasforma l’inquisitore in demiurgo. Un passo analogo a quello del neoliberismo che assorbe le spinte libertarie degli anni Sessanta e Settanta per ribadire l’ordine capitalistico. Il pensiero dominante diventa pensiero unico assimilando ciò che gli si oppone. Colonizzando completamente l’immaginario. Eymerich è un mostro incompleto finché cerca soltanto di eliminare l’eresia che si oppone alla sua verità, diventa un supermostro quando riesce ad assorbirla.

Di fronte a un esito così inquietante la letteratura può mostrarci come alcune brecce nel muro del dominio rimangono aperte. Alle volte Evangelisti ce lo concede. Anche nel futuro in cui la spietata razionalità di Eymerich ha trionfato, il controllo totalitario sull’immaginario può mostrare delle incrinature. Succede quando Mosaico, il soldato Frankenstein progettato dai nazisti, alla fine si rivolta contro i suoi creatori perché per costruirlo sono stati utilizzati, deviando dai piani originari, membra di ebrei che mantengono una memoria del loro passato. Accade anche nel lontano futuro quando Vortex, poiché i suoi utilizzatori cercano di aggirare le regole che essi stessi si erano dati per evitare abusi da parte delle singole potenze in guerra, alla fine va in crash e inizia a trasmettere al posto degli incubi previsti dal sistema immagini di rivolte del passato. Anche nel più lontano futuro raggiunto dal ciclo dell’inquisitore, dopo l’anno 3000 quando i discepoli del demiurgo Eymerich diffondono il suo vangelo, ci sono “sentori di malumore, di rivolte aperte nel sistema di Tessalonica” (Il fantasma di Eymerich). 

Cosa ancora più importante, secondo Evangelisti, la letteratura non ha il compito di mostrarci la via che ci conduce oltre le contraddizioni del presente, magari attraverso l’opera di qualche eroe salvifico.

Non possono essere gli scrittori, per quanto bravi siano, a indicare soluzioni. Deve essere la società civile, avvisata di ciò che accade da chi sa colpire il suo immaginario (narrativa, giornalismo, il multiforme universo dei media) a cercare di colorare sé stessa in tinte diverse dal nero. Salvo trasformarsi in ricettacolo di demoni che, prima o poi, reclameranno il loro sfogo.4 

Si può sentire qui l’eco di una vecchia affermazione di Marx: “l’emancipazione della classe operaia deve essere l’opera della classe operaia stessa”. L’eco della vecchia categoria dell’autoemancipazione del proletariato. È con il ricorso a questa categoria che forse possiamo spiegare “Il (più grande) mistero dell’inquisitore Eymerich”. In questo modo, cioè, possiamo forse capire perché Valerio Evangelisti, un incorreggibile compagno, un rivoluzionario impenitente, abbia fatto di uno spietato e terribile persecutore di “rivoluzionari” il più affascinante dei suoi personaggi. Le storie di Eymerich colpiscono magistralmente il nostro immaginario, prima blandendo i nostri sogni e poi precipitandoci in un terribile incubo, per avvertirci di cosa succede quando arriviamo al punto in cui è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo.

(2 – fine – la precedente puntata qui)


  1. S. Consigliere, Favole del reincanto. Molteplicità, immaginario, rivoluzione, DeriveApprodi, Roma 2020, p. 150

  2. Cfr. Raymond Williams, Marxism and literature, Oxford University Press, Oxford-New York 1977. Sul concetto di non contemporaneità cfr. Ernst Bloch, Eredità di questo tempo, Mimesis, 2015. 

  3. J. Campbell, L’eroe dai mille volti, Lindau, Torino 2012, p. 41. 

  4. V. Evangelisti, “L’estinzione del movente”, in Id. cit., p. 148. 

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Il ciclo di Eymerich, una narrativa popolare che inquieta e non consola /1 https://www.carmillaonline.com/2022/08/22/il-ciclo-di-eymerich-una-narrativa-popolare-che-inquieta-e-non-consola-1/ Sun, 21 Aug 2022 22:10:22 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=73387 di Fabio Ciabatti

Valerio EvangelistiCombattere la colonizzazione dell’immaginario da parte del potere attraverso un originale utilizzo di generi narrativi considerati minori: avventura, fantastico, giallo, fantascienza ecc. Come si articola questa amalgama tra romanzo popolare e letteratura esplicitamente politica nell’opera di Valerio Evangelisti? L’autore bolognese sostiene che “Tematiche come il razzismo, la guerra, la fame, il disagio urbano, l’invadenza dei mass media, l’autoritarismo, l’arroganza del potere eccetera sono per la narrativa ‘di genere’ pane quotidiano”.1 Ma afferma anche che, in questo ambito, prevale spesso [...]]]> di Fabio Ciabatti

Valerio EvangelistiCombattere la colonizzazione dell’immaginario da parte del potere attraverso un originale utilizzo di generi narrativi considerati minori: avventura, fantastico, giallo, fantascienza ecc. Come si articola questa amalgama tra romanzo popolare e letteratura esplicitamente politica nell’opera di Valerio Evangelisti? L’autore bolognese sostiene che “Tematiche come il razzismo, la guerra, la fame, il disagio urbano, l’invadenza dei mass media, l’autoritarismo, l’arroganza del potere eccetera sono per la narrativa ‘di genere’ pane quotidiano”.1 Ma afferma anche che, in questo ambito, prevale spesso la ripetizione all’infinito di temi e schemi collaudati. In breve, la paccottiglia.
Tenendo conto di questa duplicità, possiamo partire da quanto sostiene Umberto Eco a proposito del romanzo popolare: questo genere letterario sorprende il lettore con innumerevoli colpi di scena, ma alla fine lo tranquillizza con quello che già sa immergendolo in un intreccio narrativo di cui conosce i pezzi, le regole e anche l’esito. E l’esito è che il bene trionfa. Il bene definito dai canoni della moralità dominante.2

Il procedimento descritto da Eco è per certi versi l’opposto di quello utilizzato da Evangelisti nel ciclo dedicato all’inquisitore generale di Aragona Nicolas Eymerich con le sue storie ambientate nella seconda metà del 1300, ma intrecciate con altre vicende che si svolgono in periodi futuri (dalla Seconda guerra mondiale al 3000 d.c.) o più raramente  in dimensioni oniriche. Il tutto raccontato nella tipica struttura articolata su tre livelli cronologici. Nei tredici romanzi del ciclo “canonico”, pubblicati tra il 1994 e il 2018, lo scrittore bolognese immerge il lettore in un’atmosfera “paraletteraria” apparentemente poco impegnativa. Lo accoglie in un immaginario in cui si trova a suo agio, quello del romanzo d’avventura in cui il protagonista, come in un giallo, deve risolvere degli enigmi che si colorano di tinte horror, soprannaturali, fantastiche. Ma progressivamente la trama concettuale sottesa al racconto si infittisce, ci spiazza, ci porta in lande sconosciute in cui la nostra razionalità fatica ad orientarsi. È questo percorso dal noto all’ignoto che costituisce l’utilizzo politico che Evangelisti fa della letteratura popolare.
In
Rex Tremendae Majestatis, ribaltando un procedimento intellettuale che rimanda esplicitamente a Sherlock Holmes, Eymerich afferma: “il mondo che abbiamo attorno è impazzito. Non è più vero che, eliminato l’impossibile, l’improbabile rappresenti la realtà. È vero l’esatto contrario”.  L’effetto finale è tutt’altro che rassicurante, al contrario di quello descritto da Eco. Per guidare la resistenza contro la colonizzazione dell’immaginario, sostiene infatti il nostro autore, è necessaria una narrativa “che inquieti e non consoli”.3

Però alla fine, come un tipico romanzo di avventura, Eymerich vince perché ha tutte le caratteristiche di un eroe. L’inquisitore è certamente uomo di scienza, ma anche di azione: “padre Nicolas è un condottiero. Se non combattesse dalla parte giusta, lo scambiereste per un demonio”, sostiene in Cherudek padre Corona, l’unica persona che l’inquisitore potesse considerare come un sorta di amico. Un eroe, dunque, ma dalla doppia natura, come testimonia il nomignolo che gli affibbiano i suoi nemici catari, San Malvagio. Eymerich è coraggioso, intelligente, scaltro, dedito alla causa e incurante del proprio tornaconto personale. Al tempo stesso, però, è spietato, iracondo, vendicativo, orgoglioso. È nei momenti di maggior pericolo, ci ripete spesso Evangelisti, che riesce a riacquistare il massimo della sua lucidità e partire alla riscossa.
Come molti tra gli eroi più riusciti l’inquisitore ha un
fatal flow, una ferita originaria che lo tormenta esprimendosi nelle sue molteplici fobie che, in fin dei conti, sono manifestazioni della sua incapacità di empatizzare con le persone e con il mondo. Momenti di pietà nei confronti del prossimo e anche delle proprie vittime ci sono, ma vengono repressi immediatamente con rabbia. In certi situazioni le sue fobie lo bloccano, ma soprattutto, nel tentativo per lo più inconscio di fronteggiarle, contribuiscono a costituire quella che lo psicanalista rivoluzionario Wilhelm Reich (coprotagonista del romanzo Il mistero dell’inquisitore Eymerich) definirebbe la sua armatura caratteriale. Che è poi la sua armatura da eroe. “La cappa nera e la tonaca bianca erano per lui un segno di forza, meglio ancora di quanto sarebbe stata una corazza” (Mater Terribilis). Senza di essa l’inquisitore afferma  di sentirsi nudo. Eymerich può essere un eroe soltanto perché non ha ancora riconosciuto i suoi demoni interiori e li proietta all’esterno. I suoi demoni diventano Satana in persona. Solo quando aveva “Individuato il nemico l’inquisitore si sentiva molto più sicuro di sé”Mentre si sentiva “spaesato”, una sensazione che odiava, “ogni volta che gli capitava di interrogarsi sulla propria identità” (Il Castello di Eymerich).

Alla fine di ogni romanzo, come prevede la narrazione convenzionale, Eymerich sconfigge i suoi nemici e ripristina l’ordine momentaneamente infranto. Ma di che tipo di un ordine si tratta? La giustizia ha trionfato? Ciò che nel romanzo d’avventura rimane spesso implicito o soltanto sullo sfondo, nelle vicende di Eymerich viene tematizzato esplicitamente. L’opposizione mortale tra ortodossia e eresia viene drammatizzata e messa in primo piano attraverso i ripetuti scontri dialettici che l’inquisitore ha con i suoi interlocutori e avversari. L’inquisitore “Aveva consacrato la propria vita alla ricucitura di un equilibrio costantemente violato sia dalle colpe degli uomini sia dalle insidie del Maligno”. Ogni attentato a questo equilibrio “costituiva uno strappo in una tela tessuta alla perfezione”. Da dio in persona (Mater Terribilis).
In questo ordine non c’è posto per alcuna alterità. Ogni alterità è eresia. Nella battaglia tra ortodossia e eresia la religione professata dall’inquisitore è qualcosa di più del classico instrumentum regni. È vero che normalmente la missione di Eymerich è duplice: deve combattere contro i nemici della vera fede e contemporaneamente sventare le trame politiche che si oppongono al papato. Ma l’inquisitore più volte afferma che la chiesa è al disopra di tutti i regni. È l’unico impero universale. In apparenza abbiamo a che fare con una forma mentis medioevale. Ma sotto queste mentite spoglie di si nasconde l’idea che, per dirla con Sandro Moiso, l’immaginario non è un’articolazione della politica, ma è quest’ultima ad essere un territorio dell’immaginario.

Eymerich è costruito consapevolmente come un personaggio anacronistico. Sotto l’apparente visione del mondo medievale di tipo aristotelico-tomistico, emerge il razionalismo moderno con il suo inarrestabile impulso totalitario. Un impulso inesorabilmente orientato a negare e distruggere tutte le relazioni sociali e le concezioni del mondo che a esso si oppongono. La sua razionalità è tutt’altro che premoderna: è fredda ed astratta al punto di diventare disumana e, in certi momenti, di lambire la follia. Eymerich combatte contro ogni possibilità che l’ordine dominante sia incrinato da ciò che è ritenuto impossibile, dall’evento, dal novum.
Fin dal primo romanzo del ciclo,
Nicolas Eymerich, inquisitore, sappiamo che “lo stato d’animo con cui l’inquisitore si accostava a tutto ciò che non conosceva” era “la diffidenza di chi si avventura in un territorio nemico”. Come leggiamo in Picatrix, per l’inquisitore “Un vero “ignoto” non poteva esistere. Dio aveva dettato regole certe e ovunque valide”. Come ne La guerra dei mondi di H.G. Wells, di cui Evangelisti ci parla nell’articolo “In difesa della fantascienza”, c’è un tema sotteso all’intero ciclo dell’inquisitore, la minaccia “della caduta di un’intera civiltà davanti a una minaccia inaspettata”.4

C’è un altro elemento di manifesto anacronismo che Evangelisti pone al cuore della narrazione. La storia personale di Eymerich coincide, pressoché letteralmente, con la tipica biografia del “mostro” delineata dallo scrittore quando parla del serial killer Zodiac nell’articolo “American psycosis”. Si tratta, in realtà, di un percorso psicologico sufficientemente comune negli Stati Uniti contemporanei da causare una sorta di sociopatia diffusa di cui il fenomeno degli assassini seriali è solo l’esito più estremo. In Rex tremendae majestatis c’è la descrizione dell’“infanzia  difficile” dell’inquisitore e come nel caso di Zodiac abbiamo “una situazione familiare in cui la figura materna deborda e prevarica con un eccesso di affetto o con un eccesso di freddezza – quest’ultimo è il caso di Eymerich -, mentre la figura paterna è distante ed evanescente” – del tutto assente a causa della prematura morte per quanto riguarda l’inquisitore.5
Un clima familiare di generale di violenza, disamore ed estraneità, portano Zodiac/Eymerich negli anni dell’infanzia a temere il prossimo e a tentare di evitarne le aggressioni fisiche e psicologiche. Diventa così un bambino chiuso, diffidente in forma esasperata, dominato da un costante desiderio di non farsi notare. Solo nel più radicale isolamento riesce a trovare la propria libertà e un lenimento alle sue sofferenze. Coltiva al proprio interno una carica di affettività che non riesce ad esternare causando un accumulo di aggressività. Alla fine, uno spaventoso vuoto emozionale recide anche gli ultimi legami con il mondo esterno. L’aggressione diventa l’unico modo che riesce a trovare per comunicare.
Evangelisti, insomma, ci sta dicendo che in un contesto sociale permeato dai connotati schizoidi è il potere in quanto tale, impersonato nella sua forma più estrema da Eymerich, che assume connotati sociopatici. A differenza della maggior parte della letteratura, Evangelisti “ha identificato nel potere stesso l’agente del male”6 e, come nella migliore paraletteratura, ha descritto un mondo “in cui la violenza non è un dato incidentale, ma una componente ineliminabile del contesto”.7 In un ambiente strutturalmente malato, la freddezza, la chiusura in se stessi, la reciproca ostilità e diffidenza, da forme patologiche diventano valori da rivendicare fino al punto di giustificare il disprezzo per il perdente (l’inquisitore detesta ogni forma di debolezza, sia fisica che mentale) e il diritto del cacciatore (ciò che Eymerich in Cherudek considera “la naturale crudeltà dei giusti”).

In Mater Terribilis Evangelisti descrive una conversazione tra un direttore di giornale e un sottosegretario alla difesa italiani che sostengono la necessità di inventare false notizie per sostenere la guerra della NATO contro la Jugoslavia. Il politico cita con approvazione Lenin quando sostiene che è indifferente l’uso che il chirurgo fa del bisturi se l’operazione è necessaria alla storia. Evangelisti, che si riconosce in “quella sinistra eretica fatta di anarchici, di autonomi, di situazionisti, di operaisti, di consiliaristi, di massimalisti, di socialrivoluzionari, di populisti eccetera”,8 si pone senz’altro dalla parte dell’anarchico Amedeo Borghi che, di fronte a questa affermazione, chiede al leader bolscevico: “e se il vero malato fosse il chirurgo?” La conversazione si chiude con il sottosegretario che giudica la domanda chiaramente insensata e per questo non meritevole di alcuna risposta, come effettivamente avvenne. Nessun potere è disposto a mettere in dubbio sé stesso e la sua legittimità.

Siamo lontani anni luce dalla letteratura che si autoproclama “alta”. Quella che, secondo Evangelisti, si caratterizza per “il minimalismo dilagante, la debolezza scambiata per poesia, i colori pastello ritenuti tinte ideali per dipingere il mondo, la gratuità stilistica, il chiamarsi fuori dello scrittore dalla storia, la ripetitività di trame incentrate sulla solita, immarcescibile gamma di sentimenti e situazioni”.9 Siamo nel cuore massimalista della paraletteratura.
Questo massimalismo si esprime nel fatto che, nel ciclo di Eymerich, ma anche negli altri romanzi di Evangelisti, assistiamo allo scontro tra due immaginari paradigmatici e alternativi. Il pensiero dell’inquisitore cerca la precisione, la misurazione, la distinzione, la scomposizione, la separazione. In Cherudek possiamo leggere uno dei tanti brani indicativi della forma mentis di Eymerich:

più di ogni altra cosa, ciò che lo innervosiva oltre il tollerabile era la confusione tra le forze in campo. La sua indole esigeva chiarezza e contorni precisi; l’ambiguità di quel conflitto equivaleva ai suoi occhi alla conferma che una mano demoniaca reggeva i capi della vicenda. 

Nella fede dell’inquisitore non c’è posto per il sentimento e la pietà. Per tutto ciò che costruisce legami sociali, comunità. Brigida, la mistica in odore di santità che Eymeric incontra sempre in Cherudek, così lo accusa:

“Il fatto che in te non c’è amore, te l’ho già detto. La tua fede è una cosa fredda, spietata, lontana da Dio. Più che in lui tu credi nel diavolo, e il diavolo è tutto quello che non rientra nell’ordine disumano che vorresti instaurato”. 

L’immaginario alternativo che emerge dalle eresie combattute ferocemente da Eymerich  è costituito dal tessuto comune, dall’inconscio collettivo, dai sogni condivisi, dalla quinta essenza e dalla materia sottile degli alchimisti, ossia da tutto ciò che unisce e mette in comunicazioni gli esseri umani, dal legame profondo che tiene insieme l’intero mondo. È questo, ci dice Alberto Sebastiani, autore del più completo e interessante saggio critico dedicato al ciclo di Eymerich, il cuore del conflitto politico raccontato nell’intera opera narrativa di Evangelisti, la sua One big novel che comprende sia i suoi romanzi storici sia quelli fantastici. È questo il cuore massimalista della fantascienza del ciclo: la possibilità di uscire dal realismo capitalista.10 

Ma c’è un punto che vale la pena sottolineare. In questo scontro titanico Eymerich è dalla parte della razionalità. Certmente è la razionalità spietata del potere, ma in fin dei conti è anche la nostra razionalità perché i suoi nemici sfidano la logica del nostro mondo e per di più lo fanno in modo oscuro e inquietante. Mathilde, sacerdotessa del culto luciferano in Mater Terribilis, così si rivolge all’inquisitore spiegando la natura dell’Archetipus Mundi:

“Nicolas Eymerich, qui non potete pretendere risposte ispirate a ciò che chiamate ragione. In questo mondo il tempo non scorre: convive in maniera simultanea … Spiegazioni basate su causa ed effetto, su un prima e su un dopo, sono funzioni anch’esse simboliche. Puri espedienti per darsi un orientamento in una landa dai confini indefiniti”.

L’altro mondo possibile, sempre represso ma continuamente risorgente, quello che nasce delle eresie provenienti da antichi culti spesso legati a divinità femminili, è popolato da innumerevoli creature inquietanti. Un aspetto tutt’altro che rassicurante che si proietta anche sull’avvenire. Mettendo in rapporto i differenti strati temporali della narrazione, infatti, Evangelisti evoca una sottile ma significativa relazione tra alcune delle pratiche magiche esercitate ai tempi di Eymerich e le vicende che, in un lontanissimo futuro, porteranno alla creazione dei mostruosi soldati utilizzati nello nello scontro bellico senza fine tra Euroforce e RACHE, le potenze dominanti nel continente euroasiatico: si tratta dei mosaici, una sorta di morti viventi nati dall’assemblaggio di parti di corpi senza vita, e dei poliploidi, esseri umani con un corredo genetico modificato che ne moltiplica gli organi.
Forse ancora più inquietante di questi guerrieri del futuro è la figura evocata dagli eretici luciferani: lato oscuro presente presente in ogni madre amorevole (in ogni  “Mater Bona”), la “Mater terribilis” dell’omonimo romanzo è la genitrice che divora, castra e uccide la sua prole. Il suo nemico per eccellenza, ci viene spiegato con una citazione in esergo presente in uno dei capitoli del romanzo, è l’eroe, colui che viene raffigurato come il cavaliere valoroso che doma e imbriglia il lato istintuale e inconscio.
Di fronte a una natura così selvaggia ed oscura non siamo forse tentati di schierarci con dell’eroico cavaliere? Non siamo spinti a stare dalla parte di Eymerich? Se così non fosse, se una parte di ciascun lettore non si identificasse con l’inquisitore, tutto il fascino del meccanismo narrativo costruito da Evangelisti verrebbe meno. Ma è chiaro che Eymerich suscita in noi anche un sentimento di repulsione, di rifiuto. Ed è questo l’effetto finale che Evangelisti vuole ottenere. E se l’autore vuole che il suo lettore si ribelli al suo eroe non stiamo assistendo a un’originale autocritica della figura stessa dell’eroe?

(1 – continua)


  1. V.  Evangelisti, “Elogio della paraletteratura” in Id., Le strade di Alphaville, Odoya, Bologna 2022, p. 69. 

  2. Cfr. Umberto Eco, Il superuomo di massa, Bompiani, 2015 e Umberto Eco, “Il mito di superman” in Umberto Eco, Apocalittici e integrati, Bompiani, 1999. 

  3. V.  Evangelisti, “Una narrativa adeguata ai tempi”, in Id, cit, p. 78. 

  4. V. Evangelisti, “In difesa della fantascienza”, in Id,. cit., p. 79. 

  5. V. Evangelisti, “American psycosis”, in Id, cit., p. 209. 

  6. V. Evangelisti, “Periferie pericolose”, in Id, cit., p. 33. 

  7. V. Evangelisti, “Apologia della sottoletteratura”, in Id, cit., p. 69.  

  8. V. Evangelisti, “Periferia di Alphaville.23:15, ora oceanica”, in Id, cit. p. 53. 

  9. V. Evangelisti, “Periferie pericolose”, in Id, cit., p. 31. 

  10. Cfr. A. Sebastiani, Nicolas Eymerich. Il lettore e l’immaginario in Valerio Evangelisti, Odoya, Bologna 2018. 

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Pandemia, economia e crimini della guerra sociale. Stagione 2, episodio 3: disciplinamento dell’immaginario e del lavoro. https://www.carmillaonline.com/2021/03/16/pandemia-economia-e-crimini-della-guerra-sociale-stagione-2-episodio-3-disciplinamento-dellimmaginario-e-del-lavoro/ Tue, 16 Mar 2021 22:00:07 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=65336 di Sandro Moiso

Ho scritto recentemente, a proposito del pensiero di Carl Schmitt, che il concetto di “eccezione” è fondativo della sovranità ovvero del potere dello Stato, qualsiasi sia la forma politico-istituzionale che questo assume: «Sovrano è chi decide sullo stato di eccezione»1.

Da questa affermazione è possibile far derivare che l’eccezionalità, o stato di eccezione, e la facoltà/forza di deciderne gli aspetti formali e strutturali costituiscono le condizioni [...]]]> di Sandro Moiso

Ho scritto recentemente, a proposito del pensiero di Carl Schmitt, che il concetto di “eccezione” è fondativo della sovranità ovvero del potere dello Stato, qualsiasi sia la forma politico-istituzionale che questo assume: «Sovrano è chi decide sullo stato di eccezione»1.

Da questa affermazione è possibile far derivare che l’eccezionalità, o stato di eccezione, e la facoltà/forza di deciderne gli aspetti formali e strutturali costituiscono le condizioni che devono sostanziare ogni governo poiché, se nelle fasi “normali” la normativa vigente è sufficiente a governare l’esistente e a dirimerne le contraddizioni, è proprio nella gestione di una fase inaspettata, e dunque potenzialmente pericolosa, che si esprime la vera autorità, riconosciuta come tale.

Se questo risulta essere piuttosto significativo dal punto di vista meramente politico, soprattutto in una fase come quella che stiamo attraversando e che abbiamo precedentemente definito come “epidemia delle emergenze”2, assume un’ulteriore importanza una volta che lo si associ alle riflessioni di Michel Foucault sul “potere di disciplina”.

In che consiste un simile potere? L’ipotesi che vorrei avanzare è che esiste, nella nostra società, qualcosa che potremmo definire un potere disciplinare. Con tale espressione mi riferisco, semplicemente, a una certa forma, in qualche modo terminale, capillare, del potere, un ultimo snodo, una determinata modalità attraverso la quale il potere politico – i poteri in generale – arrivano, come ultima soglia della loro azione, a toccare i corpi, a far presa su di essi, a registrare i gesti, i comportamenti, le abitudini, le parole; mi riferisco al modo in cui tutti questi poteri, concentrandosi verso il basso fino ad investire gli stessi corpi individuali, lavorano, plasmano, modificano, dirigono, quel che Servan chiamava “le fibre molli del cervello”3. Detto in altri termini, credo che il potere disciplinare sia una modalità, del tutto specifica della nostra società, di quel che si potrebbe chiamare il contatto sinaptico corpi-potere.
La seconda ipotesi che vi sottopongo è che tale potere disciplinare, in ciò che presenta di specifico, abbia una storia, e dunque non sia sorto all’improvviso, ma neppure sia esistito da sempre. Esso si è piuttosto formato a un certo punto e a seguito una traiettoria, in un certo senso trasversale, lungo le vicende della società occidentale4.

Se la sovranità si fonda sull’eccezione, la sua dichiarazione e direzione, e il potere disciplinare sulla permeazione dei corpi e delle menti da parte del potere “sovrano”, sembra piuttosto evidente che la situazione attuale, determinata dalla pandemia e dalla sua gestione politica, sanitaria ed economica, porti a compimento, in maniera impensabile anche nei regimi totalitari del ‘900, una forma “totale” e generalizzata in quasi tutto l’Occidente (ma non solo) di controllo sociale e dirigismo economico-sanitario.

Una forma di totalitarismo emergenziale che della “sicurezza” ha fatto il centro del suo discorso, facendo addirittura impallidire i precedenti discorsi in tal senso fatti a proposito del terrorismo o dei fenomeni migratori, che, a questo punto, sembrano soltanto aver costituito i presupposti discorsivi della nozione attuale di “sicurezza” e “controllo” (sociale)5.
Lo stesso Foucault, a proposito di un potere che neppure cercava più di salvare le apparenze, aveva affermato in una conversazione del novembre del 1977:

[Il potere] Ha ritenuto che l’opinione pubblica non fosse temibile, o che potesse essere condizionata dai media. Questa volontà di esasperare le cose fa parte d’altro canto del gioco della paura che il potere ha messo in atto ormai da anni. Tutta la campagna sulla sicurezza pubblica deve essere corroborata – perché sia credibile e politicamente redditizia – da misure spettacolari che provino la capacità del governo di agire velocemente e ben al di sopra della legalità. Ormai la sicurezza è al di sopra delle leggi. Il potere ha voluto mostrare che l’arsenale giuridico è incapace di proteggere i cittadini6.

Non si stupisca il lettore per il riferimento ad un testo che in realtà si ricollegava all’estradizione dalla Francia dell’avvocato Klaus Croissant, difensore della Frazione Armata Rossa (RAF) e accusato di complicità con i suoi clienti, verso la Repubblica Federale Tedesca dopo che i membri del gruppo Baader erano stati “ritrovati” morti nelle celle del carcere di Stammhein. La “sproporzione” sta soltanto nell’occhio disattento, una volta considerato come la strategia di demonizzazione dell’avversario politico e sociale e dell’istituzione di un “diritto penale del nemico” sia stata traslata, neppure in tempi troppo lunghi, dall’applicazione ai processi per terrorismo e banda armata a quelli destinati a reprimere e criminalizzare movimenti quali quelli No Tav e No Tap 7 fino ai Dpcm, autoritari e, come vedremo tra poco, incostituzionali, destinati a regolare, ancor più che la salute (intesa dal punto di vista sanitario) pubblica, i comportamenti sociali e individuali.

Intanto è di pochi giorni or sono la notizia che un magistrato di Reggio Emilia ha annullato le multe inflitte, dai carabinieri di Correggio, ad una coppia per un’autocertificazione falsa, in violazione delle norme di divieto di circolazione imposte dal primo dpcm emesso dall’ex-premier Giuseppe Conte l’8 marzo 20208. La decisione del magistrato, Dario De Luca, sottolinea come un dpcm non possa limitare la libertà personale perché è un atto amministrativo, motivo per cui un decreto del premier è illegittimo se viola i diritti costituzionali.

Il giudice emiliano ha infatti assolto gli imputati «perché il fatto non costituisce reato» visto che il falso è un «falso inutile, configurabile quando la falsità incide su un documento irrilevante o non influente», aggiungendo inoltre che la norma che impone l’obbligo dell’autocertificazione sia da ritenersi costituzionalmente illegittima e quindi da disapplicare. Poiché, spiega ancora, la limitazione della libertà personale può avvenire solo a seguito di un atto dell’autorità giudiziaria e non di un atto amministrativo qual era il decreto in questione di cui si rileva «l’indiscutibile illegittimità come pure di tutti quelli successivamente emanati dal capo del governo».

Ciò che importa, di tale sentenza, è il fatto che questa riveli come ormai i governi, approfittando dello stato di emergenza o di eccezione, possano operare in totale antitesi alle costituzioni così spesso presentate come “carte dei diritti”, ci sarebbe da aggiungere quasi mai applicati e quasi sempre ignorati. Ma la stessa può anche costituire un precedente giuridico importante per tutte quelle situazioni, come quella dei No Tav valsusini che stanno ricevendo multe individuali di centinaia di euro per essersi allontanati senza valide ragioni dal proprio domicilio, in cui la limitazione della libertà di movimento possa coincidere con la limitazione della libertà di espressione e di manifestazione.

Il caso è circoscritto, ma ciò non vuol dire che sia insignificante dal punto di vista giuridico nel rilevare come i governi si stiano muovendo nella totale illegalità, approfittando dell’occasione fornita loro dall’epidemia da Covid-19. Sulla quale ultima non è certo il caso di fare del complottismo o di adulterarne la gravità, dal punto di vista della salute e dell’economia, sminuendola. Piuttosto si rende necessario smontarne, pezzo dopo pezzo, tutta la narrazione che ne viene fatta a livello politico e mediatico.

Tornando a Foucault, val forse la pena di ricordare che il filosofo francese definì l’immaginario «segno di trascendenza» e il sogno «esperienza di questa trascendenza sotto il segno dell’immaginario»9. Poiché, come riassume Alessandro Fontana: «L’immaginario è dunque non tanto il ridotto della ragione, né il deposito dei suoi archetipi, quanto lo spazio delle direttrici costitutive e primarie dell’esistenza, delle sue virtualità trascendentali, prima del suo oggettivo esplicarsi nelle forme della storicità»10.

L’immaginario pubblico o collettivo, soprattutto a partire dalla fondazione dello Stato moderno tra XVI e XVII secolo, deve essere corretto e contenuto per il tramite di norme che siano corroborate da “verità evidenti” e da saperi che, a partire dalla fine del XVIII secolo:

avranno soprattutto il compito di stabilire ed enunciare come verità di natura la regolarità delle condotte prescritte dal potere disciplinare. Nasce così, sostiene Foucault, un nuovo regime di verità, quello di una verità normalizzatrice, la cui forma è fondamentalmente definita dal modo di funzionamento dell’esame, vero e proprio «rituale di verità della disciplina», grazie al quale potrà venir effettuato l’investimento pubblico dell’individualità normalizzata, e nelle cui tecniche le nascenti scienza umane e le stesse «scienze “cliniche”» cercheranno, secondo lui, l’essenziale dei propri metodi e delle proprie procedure […] la nuova economia del potere disciplinare, con il suo controllo permanente dei corpi, la normalizzazione delle condotte, le tecniche infime e minuziose di estrazione e di costituzione dei saperi (e di «saperi veri», precisa Foucault), rappresenta un tentativo di potenziamento degli effetti di potere in estensione, intensità e continuità. Si tratta, insomma, di una meccanica di potere che mira a penetrare la totalità del «corpo sociale» (che ha cessato di essere una semplice metafora per il pensiero politico, dirà nel 1976 al Collège de France) per produrre quei «corpi utili» funzionali ai nuovi meccanismi di produzione sviluppati dal capitalismo11.

Si torna qui, dunque, alla necessità per il potere di plasmare, a sua immagine e somiglianza, la società e i corpi, normalizzando il prodotto di quelle fibre molli del cervello di cui parlava Servan proprio alla fine del ‘700. E si torna anche alla necessità, per le forze che si vogliono antagoniste, di controbattere colpo su colpo alle vertiginose, o abissali, costruzioni dell’immaginario capitalistico con cui sempre più occorre fare i conti. Non lasciandosi abbindolare né dalla “razionalità” delle scelte dei governi, delle imprese e delle loro scienze, né, tanto meno, dalle disordinate e confuse, ma soprattutto fuorvianti, ricostruzioni dei complottisti di ogni ordine e grado.

La realtà è lì, pronta a dischiudersi davanti ai nostri occhi, in ogni momento.
Basti pensare alla campagna di vaccinazione, trionfalisticamente annunciata e descritta in ogni dove eppur così misera e tardiva. Mentre gli Stati Uniti annunciano che l’Alaska sarà il primo stato ad essere completamente vaccinato, i media si dimenticano di aggiungere che la stessa ha poco più di 700.000 abitanti e una densità di popolazione pari a 0,4 abitanti per chilometro quadrato12, in Italia e in Europa ai guai legati a piattaforme mal funzionanti per le prenotazioni e ai numeri delle fiale di vaccino assolutamente non sufficienti si è aggiunto anche il “grosso guaio” causato, in diversi paesi europei, compresa l’Italia, dai casi di trombosi verificatisi dopo la somministrazione del vaccino Astra-Zeneca13.

Vaccino che fin dall’inizio aveva suscitato dubbi sulla sua effettiva funzionalità e che solo per l’emergenza vaccinale, legata alla scarsità di dosi disponibili come si è già detto poc’anzi, è stato approvato dall’EMA, prima solo per gli under 65 e successivamente anche per gli over. Confermando così come la vera sperimentazione di vaccini (sviluppati forse troppo in fretta per motivi di mercato) si stia svolgendo sui corpi dei vaccinati. Motivo per cui oggi, dopo diverse morti sospette, siamo costretti ad ascoltare ministri e generali, rappresentati dei governi e della “scienza” (oltre che di Big Pharma, dell’OMS e dell’AIFA) che affermarno che quel vaccino è sicuro ed efficace come tutti gli altri, nonostante la sospensione “in via precauzionale” della sua somministrazione sia stata resa operativa in quasi tutti i paesi europei (buona ultima l’Italia, lasciata sola anche da Germania e Francia) fino a giovedì 18 marzo.

Ora, al di là della facile ironia che si potrebbe fare su quell’”essere sicuro ed efficace come gli altri”, che non si sa se sia una constatazione dell’effettiva efficacia di Astra-Zeneca oppure una svalutazione di fatto dell’efficacia degli altri vaccini, ciò che c’è, molto semplicemente, da rilevare non è il solito big complotto, ma piuttosto il fatto che, come il “nostro” Marx aveva già rivelato, non è la domanda a creare l’offerta ma, piuttosto, il contrario. Ovvero questo c’è, 400 milioni di dosi di Astra Zeneca già acquistate dall’Unione Europea (che sicuramente, nei prossimi giorni, contribuiranno a spingere l’EMA nella direzione di una ripresa delle vaccinazioni con lo stesso siero)14, questo vi beccate e questo deve pure piacervi (anima santa di ogni pubblicità, dal detersivo per i piatti ai segretari del PD fino a ciò che dovrebbe difenderci dalla morte e dal Male), altrimenti niente “miracolo”.

Se è però evidente l’uso politico del discorso medico (e scientifico) che oggi viene fatto, è proprio Foucault a spiegarci che:

Se c’è stato effettivamente un legame tra la pratica politica e il discorso medico, non è, mi pare, perché questa pratica abbia mutato prima di tutto la coscienza degli uomini, il loro modo di percepire le cose o di concepire il mondo, poi in fin dei conti la forma della loro conoscenza e il contenuto del loro sapere; non è neppure perché questa pratica si sia riflettuta prima, in modo più o meno chiaro e sistematico, in concetti, nozioni o temi che sono stati, in seguito, importati nella medicina; è perché, più direttamente, la pratica politica ha trasformato non il senso, né la forma del discorso, ma le sue condizioni di emersione, d’inserzione e di funzionamento; essa ha trasformato il modo di esistenza del discorso medico15.

Il filosofo francese situava a cavallo tra il XVIII e il XIX secolo l’affermazione di una scienza medica di origine positivistica, basata sull’affidamento incondizionato e totale al metodo sperimentale16. Una medicina scientifica e razionale che, però, non si sarebbe mai allontanata del tutto dalla promozione di una fiducia o fede nella Scienza di stampo religioso, assumendo vieppiù le sembianze di un culto destinato a cancellare qualsiasi possibile “altra” eresia, grazie anche al panico oggi esasperato dai media.

Nel tentativo di spazzare via qualsiasi tipo di immaginario che veda nell’attuale modo di produzione la causa e non la salvezza per le attuali pandemie, destinate soltanto a moltiplicarsi in futuro (qui), l’immaginario medico-politico istituzionale trasforma i vaccini in una sorta di panacea universale (sanitaria, economica e sociale) e conferma le ipotesi formulate da Foucault sull’«improvvisa importanza assunta dalla medicina nel corso del XVIII secolo», a partire dagli studi di Baldinger che, nel 1782, aveva definito la medicina “scienza dello Stato”, iscrivendola così nel campo definito vent’anni prima da T. Rau come “polizia sanitaria”, articolazione della più generale “scienza della polizia” o “scienza dell’amministrazione”»17.

La funzione di quella che era stata chiamata la «polizia universale della società» non è più, insomma, di preservare «l’ordine universale dello Stato e il bene pubblico» […] ma, come mostra Foucault rileggendo il Traité de police di Nicolas de La mare e l’«immensa letteratura» sulla Polizeiwissenschaft tedesca, è diventata quella di una tecnica che investe direttamente la vita degli uomini. essa si occuperà progressivamente di tutto ciò che deve assicurare la felicità degli uomini, di tutto ciò che deve ordinare ed organizzare i rapporti sociali. Vigila, infine, su tutto ciò che è vivente […] E’ l’atto di nascita di una politica che è «necessariamente una biopolitica». Ma, aggiunge, poiché «la popolazione non è nient’altro se non ciò di cui lo Stato si fa carico, naturalmente a proprio vantaggio, lo stesso Stato potrà, se necessario, condurla al massacro. La thanatopolitica è così il rovescio della biopolitica»18.

Su questa traccia Foucault arriverà alla selezione razziale operata dagli stati in nome della razionalità scientifica e alle leggi di Norimberga, ma questo esula da questo scritto. Mentre lo stesso tema della thanatopolitica, come rovesciamento della biopolitica, lo possiamo riscontrare, pur rimanendo nell’ambito delle risposte alla pandemia, nel fatto che intorno ai vaccini si sia accesa una vera e propria guerra imperialistica per il controllo del mercato mondiale delle cure per il Covid-19. Guerra autentica che da un lato vede il ricco bottino rappresentato dal raddoppio dei profitti realizzati in un anno dalle grandi case farmaceutiche in gara per la distribuzione del siero19, da un altro lo scontro tra Occidente, Russia e Cina per il controllo geo-strategico dello stesso mercato e da un altro ancora, last but not least, quello che vede i media e i politici fingere sdegno e versare lacrime di coccodrillo su coloro che non possono usufruire di cure mediche adeguate in vaste aree del globo.

Constatare che più di sei miliardi di persone molto probabilmente non potranno usufruire dei vaccini anti-Covid e, allo stesso tempo, strombazzare l’efficacia delle campagne di vaccinazione condotte tra gli anziani dell’Occidente oppure lamentare il taglio delle forniture dei vaccini per i paesi europei, dimenticando i milioni di bambini che, semplicemente, muoiono di fame o per non poter usufruire dei medicinali più comuni, fa parte di questo indegno spettacolo20, che rende evidente come, per l’immaginario occidentale, continuino ad esistere morti dal peso diverso e non comparabile. Una forma ultima e spietata di guerra per mantenere inalterata la “povertà” degli altri e che nella difesa ad oltranza della proprietà dei brevetti vede una delle sue autentiche armi di distruzione di massa.

Oggi, in tempi di pandemia e di democrazie blindate, il ruolo del discorso medico e scientifico sembra aver rafforzato anche un’altra funzione, “interna” agli stessi paesi dell’Occidente: quella regolamentatrice del lavoro. Intendiamoci bene, non quella sempre utile della medicina del lavoro e degli organismi addetti al controllo (sempre meno numerosi e sempre meno ascoltati) degli ambienti in cui questo si svolge. No, qui si tratta delle migliori modalità per poter condurre il lavoro, senza interromperlo, anche durante un’epidemia la cui gravità dichiarata ha costretto la popolazione a rinchiudersi in casa e i giovani e i bambini a rinunciare alla scuola in presenza.

Già in articoli comparsi su «Carmilla» nella primavera scorsa21 si era parlato della radicale trasformazione del lavoro che sarebbe avvenuta a partire dall’emergenza pandemica. In particolare si parlava dello smart working che, oggi, non a caso, è diventato l’elemento centrale del nuovo contratto degli statali e della riforma della pubblica amministrazione.

Sebbene una delle motivazioni che sarà addotta, tra le altre, sarà sicuramente quella di venire incontro alle necessità femminili (famiglia, gestione dei figli e di quella che una volta si sarebbe detta “economia domestica”), che sembrano essere sempre le stesse individuabili nell’immaginario maschile e patriarcale della “famiglia felice”, certamente tale forma di atomizzazione del lavoro, sempre più collegata al raggiungimento degli obiettivi e dei risultati, andrà sicuramente a fracassare il rapporto tra contratto, orario e salario che da molto tempo costituiva una conquista per tutte le categorie di lavoratori dipendenti formalmente “garantiti” da un contratto collettivo.

Se è facile immaginare ciò che tale nuovo tipo di contrattazione, già benedetta dai rappresentanti della triplice sindacale tricolore, comporterà per i lavoratori dello Stato (mentre, nel frattempo, iniziano ad essere messe in discussione anche le ferie degli insegnanti), altrettanto facile è comprendere come essa già porti in seno quella trasformazione dei rapporti di lavoro in fabbrica che, da diversi anni a questa parte, costituisce il vero cuore o core business di ogni richiesta avanzata da Confindustria e dagli imprenditori nei confronti dei lavoratori e delle loro organizzazioni: legare il salario (e magari anche l’orario) alla produttività e al raggiungimento degli obbiettivi.

Il prossimo accordo sindacale dei metalmeccanici e di tutte le altre categorie produttive, una volta scardinata la difesa dei “privilegi” dei lavoratori dello Stato, non potrà vertere che su questo punto. Approfittando, come nel dopoguerra cui si fa così tanto riferimento citando ad ogni piè sospinto la Ricostruzione, dello sfinimento delle categorie sociali meno abbienti, della loro delusione e del loro completo disarmo politico e sindacale. E soltanto allora, dopo la fine del blocco dei licenziamenti, si comprenderanno appieno i sinistri riferimenti a Winston Churchill e alla sua promessa di “sangue, sudore e lacrime”.

Ecco allora che ciò che si diceva all’inizio sul disciplinamento dei corpi e delle menti, passato nella storia dell’Occidente prima attraverso l’istituzione dei conventi e, successivamente, degli eserciti di leva e ferma prolungata (dopo la guerra dei trent’anni, forse l’ultima guerra ad essere combattuta da eserciti quasi esclusivamente formati da mercenari), le caserme, le prigioni, i manicomi, le scuole e le fabbriche, potrebbe giungere una volta per tutte al suo coronamento: il corpo umano sfruttato come produttore/consumatore e la mente ridotta a software funzionale a tale sistema e alla sua “rete”.

Ha scritto un giorno Foucault che la sofferenza e la sventura degli uomini fondano «un diritto assoluto a sollevarsi». Viviamo oggi in un mondo in cui «tutto è pericoloso», come ripeteva spesso. Lo stesso sapere è diventato pericoloso, «e non soltanto per le sue conseguenze immediate a livello dell’individuo o dei gruppi di individui, ma addirittura al livello della stessa storia». In un mondo siffatto quel che ci resta (quel che si impone) è «una scelta etico-politica» sempre rinnovata per «determinare quale sia il pericolo principale»22.

(per Carlo, Arafat, i lavoratori di Piacenza e quelli di Prato in lotta, per Dana e la Valle che resiste, ma anche in memoria di Michel Foucault)


  1. Carl Schmitt, Teologia politica (1934) ora in C. Schmitt, Le categorie del politico, (a cura di Gianfranco Miglio e Pierangelo Schiera), il Mulino, Bologna 1972, p.33  

  2. Jack Orlando, Sandro Moiso (a cura di), L’epidemia delle emergenze. Contagio, immaginario, conflitto, Il Galeone editore, Roma 2020  

  3. “Sulle fibre molli del cervello è fondata la base incrollabile dei più saldi imperi” in Joseph Michel Antoine Servan (1737-1807), Discours sur l’administration de la justice criminelle, Genève 1786, p.35 (n.d.A.)  

  4. Michel Foucault, Lezione del 21 novembre 1973 in Il potere psichiatrico. Corso al Collège de France (1973-1974), Feltrinelli editore, Milano 2010, pp. 48-49  

  5. Solo per fare un esempio: è di questi giorni la notizia che nel corso di un anno di “misure eccezionali” le forze dell’ordine hanno effettuato 47 milioni di controlli, per un totale di 37 milioni di persone…un bel database, non c’è che dire, sulle abitudini e gli spostamenti degli italiani  

  6. Michel Foucault, Ormai la sicurezza è al di sopra delle leggi, Conversazione con J.-P. Kauffmann, «Le Matin», 225, 18 novembre 1977, p.15 ora in Michel Foucault, La strategia dell’accerchiamento. Conversazioni e interventi 1975-1984, duepunti edizioni, Palermo 2009, p. 63  

  7. Si veda, ad esempio, Dario Fiorentino, Xenia Chiaramonte, Il caso 7 aprile. Il processo politico dall’Autonomia Operaia ai No Tav, Mimesis, Milano-Udine 2019  

  8. Patrizia Floder Reitter, «Dire il falso per uscire non è reato» Giudice fa a pezzi i dpcm di Giuseppi, «La Verità», 12 marzo 2021, p. 6  

  9. cit. in Alessandro Fontana, Introduzione a Michel Foucault, Nascita della clinica. Una archeologia dello sguardo medico, Giulio Einaudi editore, Torino 1998, p.XVIII  

  10. A. Fontana, op. cit., p. XVIII  

  11. Mauro Bertani, Postfazione a Michel Foucault, Nascita della clinica, op.cit., pp. 234-235  

  12. Si pensi che la sola Manhattan, una delle cinque divisioni amministrative della città di New York e la più densamente popolata, conta da solo 1.630.000 abitanti  

  13. Astra Zenechaos come ha titolato, martedì 16 marzo, il quotidiano francese «Le Soir»  

  14. Di queste dosi il 10%, 40 milioni, sono state opzionate dal governo italiano, che proprio su Astra Zeneca ha puntato per la vaccinazione di massa entro settembre.  

  15. Michel Foucault, Réponse à une question, «Esprit», 5, 1968 tradotto in A. Fontana op. cit., p. XXIV  

  16. Si veda ancora in proposito: Michel Foucault, Il potere psichiatrico, op. cit.  

  17. Si veda, ancora, Mauro Bertani, op.cit., p. 237  

  18. ibid, pp. 238-239  

  19. Andrea Franceschi, Marigia Mangano, Per colossi e start up dei vaccini 35 miliardi di utili extra nel 2021, «Il Sole 24 Ore», 14 marzo 2021, p. 3  

  20. Raphael Zanotti, Quante persone vivono nei paesi senza vaccini. Sono 6.170.120.899 le persone nel mondo che non hanno a disposizione i vaccini, «Specchio», inserto di «La Stampa», 7 febbraio 2021  

  21. Oggi raccolti in Jack Orlando, Sandro Moiso, op.cit.  

  22. M. Bertani, op.cit., p. 253  

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Dal cortile di casa al Multiverso https://www.carmillaonline.com/2017/10/12/dal-cortile-casa-al-multiverso/ Wed, 11 Oct 2017 22:01:13 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=40805 di Sandro Moiso

Tommaso Maccacaro – Claudio M. Tartari, STORIA DEL DOVE. Alla ricerca dei confini del mondo, Bollati Boringhieri 2017, pp.150, € 14,00

In un’epoca di oscurantismo, di chiusure nazionalistiche e razziste dei confini, il testo di Tommaso Maccacaro (astrofisico) e Claudio Tartari (storico) appare come una salutare boccata d’aria. Anche se, all’apparenza, il testo si occupa di ben altro che delle questioni terrene legate ai tristi temi politici oggi attuali. Eppure, eppure…la storia della progressiva definizione ed allargamento dei confini degli spazi conosciuti dalla specie umana costituisce un ottimo stimolo per la riflessione anche su temi così distanti. [...]]]> di Sandro Moiso

Tommaso Maccacaro – Claudio M. Tartari, STORIA DEL DOVE. Alla ricerca dei confini del mondo, Bollati Boringhieri 2017, pp.150, € 14,00

In un’epoca di oscurantismo, di chiusure nazionalistiche e razziste dei confini, il testo di Tommaso Maccacaro (astrofisico) e Claudio Tartari (storico) appare come una salutare boccata d’aria. Anche se, all’apparenza, il testo si occupa di ben altro che delle questioni terrene legate ai tristi temi politici oggi attuali. Eppure, eppure…la storia della progressiva definizione ed allargamento dei confini degli spazi conosciuti dalla specie umana costituisce un ottimo stimolo per la riflessione anche su temi così distanti. Oltre che su un’infinità di altri.

La straordinari e sintetica panoramica che i due autori ci forniscono sull’evoluzione delle conoscenze umane sullo spazio circostante, condotta a partire dai nostri preistorici antenati, ci obbliga a riflettere sui percorsi che l’immaginario prodotto dai differenti e distanti gruppi sociali ha seguito non soltanto per risolvere problemi di urgenza immediata (l’orientamento spaziale per affrontare lunghi viaggi e spostamenti o la necessità di definire misure sicure per delimitare proprietà, regni, stati e imperi), ma per giungere anche ad una conoscenza che è giunta ben al di là dei limiti (spaziali e fisici) dell’uomo. Fino all’ipotesi di quel multiverso costituito da infiniti universi paralleli o frattale a cui si accenna nel titolo di questa recensione.

Cercare i confini ha infatti indotto gli uomini a superarli costantemente, sia in termini di spazio che di conoscenza. Così se, metaforicamente e praticamente, per le società mediterranee dell’Antichità e del Medio Evo il superamento delle Colonne d’Ercole significò scoprire il mondo degli oceani ed aprirsi ad esso, anche il superamento definitivo della teoria geocentrica tolemaica e dei dogmi che la sostenevano significò per gli uomini, non solo di scienza, partire per un viaggio nel cosmo che non è ancora terminato e dover fare i conti con una conoscenza che più si ingrandisce e più si rende conto di quanto l’universo che ci circonda sia tutt’altro che conosciuto.

L’ardua battaglia dei fisici per ridurlo a dimensioni riconoscibili e misurabili, quindi ad un universo finito, si scontra costantemente con il concetto di infinito postulato da filosofi e matematici, dando vita ad una continua, soprattutto negli ultimi secoli, revisione dei risultati raggiunti che ha dialetticamente dato vita a nuove conoscenze e nuove domande.

Un ciclo infinito di domande, congetture, ipotesi, teorie che sembra essersi sviluppato da quando gli uomini iniziarono ad alzare gli occhi verso il cielo e a cercare, da un lato, di utilizzarlo per i propri spostamenti e il proprio orientamento e, dall’altro, di interpretarne le dimensioni, la distanza, la sostanza e il significato per la specie stessa e il mondo che abitava.

Ciclo infinito che ci rivela come spesso il limite, oltre che di carattere strumentale e conoscitivo, sia stato spesso di carattere ideologico, politico o religioso. Limite non sempre e soltanto posto dagli interessi del potere e dell’autorità. Come dimostra il caso della difesa a spada tratta del sistema geocentrico e tolemaico fatta sia dagli anabattisti che dall’Inquisizione e dalla Congrega dell’Indice che operavano in nome dell’autorità della Chiesa romana contro qualsiasi tipo di eresia.

Una storia complessa e tortuosa quella del progressivo allargamento delle conoscenze geografiche e astronomiche, prima, e astrofisiche e astrobiologiche poi. Una storia contraddittoria che ha costretto e costringe gli uomini che se ne occupavano e ancora se ne occupano a fare i conti con i loro limiti e il loro riduttivo antropocentrismo. Soprattutto oggi che la possibilità di individuare pianeti sui quali la vita sia possibile si fa via via più vicina, costringendo gli scienziati a chiedersi sotto quali altre forme e strutture chimiche, magari non basate sul carbonio, la vita e l’intelligenza possano manifestarsi.

Una storia in cui speculazioni e congetture, una volta liberata la strada da dogmi e divieti, sono state rigettate soltanto in base alla loro erroneità sperimentale ed empirica, in una sorta di labirinto degli specchi in cui dall’osservazione empirica si passa alle congetture e ai postulati, per poi tornare alla dimostrazione sperimentale ed empirica.

Stiamo attenti, ciò che questa storia dimostra è che nemmeno il calcolo e la dimostrazione matematica bastano a confermare un’ipotesi, se poi questa non è verificabile strumentalmente. Prova ne sia l’attitudine galileiana all’osservazione dei fenomeni celesti attraverso un cannocchiale (strumento che tra XVI e XVII secolo stava muovendo i primi passi), nonostante il fatto che a convincere Galileo della corretta (e poi superata) concezione copernicana del sistema solare fossero stati inizialmente i calcoli dello studioso polacco.

Quindi quello che questa ricostruzione ci suggerisce è che il cammino della conoscenza è costituito da un continuo scambio ed elaborazione di informazioni tra osservazione empirica, lavoro dell’immaginazione (congetture e ipotesi) e loro conferma (o meno) a livello empirico e/o strumentale. Un metodo che suggerisce qualcosa anche a chi si occupa di altro, ad esempio della critica dell’esistente. Che evidentemente non può essere affrontata sostituendo dogmi con altri dogmi.

Per finire va perciò detto che l’utilità e l’importanza del testo dei due studiosi più che nella storia delle vicende e delle osservazioni di alcuni individui importantissimi per lo sviluppo delle conoscenze umane (Dante, Levi ben Gershon, Niccolò Cusano, Galileo Galilei, William Herschel o Fritz Zwicky, soltanto per citarne alcuni), consiste proprio nelle riflessioni che costringe il lettore a fare, quando questo si rende conto, come è successo nei secoli per la comunità degli scienziati, che per quanto lontano si riesca ad osservare c’è sempre qualcosa da scoprire oltre.

Un testo, infine, che nel triste panorama scolastico italiano forse dovrebbe essere prima letto e poi adottato dai docenti, sia delle discipline scientifiche che di quelle umanistiche, per insegnare agli studenti a porsi nuove domande e ad andare oltre. Ma questo è davvero chiedere e sperare troppo.

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Cannibali antenati, ovvero antropofagia e Medioevo https://www.carmillaonline.com/2016/01/27/28182/ Wed, 27 Jan 2016 22:30:48 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=28182 di Armando Lancellotti

La vendetta di Atreo22Angelica A. Montanari, Il fiero pasto. Antropofagie medievali, il Mulino, Bologna, 2015, 238 pagine, € 22,00

La storica medievalista e ricercatrice Angelica Aurora Montanari affronta nel suo ultimo libro, Il fiero pasto, un argomento che già per la sua originalità e scarsa trattazione rende il saggio qui presentato meritorio e stimolante: l’antropofagia nel corso dell’età medievale. Nonostante le fonti trabocchino di riferimenti a casi di antropofagia o di banchetti cannibalici, pochi sono ad oggi gli studi sulla più estrema forma di tanatoprassi: il cannibalismo. Probabilmente perché – [...]]]> di Armando Lancellotti

La vendetta di Atreo22Angelica A. Montanari, Il fiero pasto. Antropofagie medievali, il Mulino, Bologna, 2015, 238 pagine, € 22,00

La storica medievalista e ricercatrice Angelica Aurora Montanari affronta nel suo ultimo libro, Il fiero pasto, un argomento che già per la sua originalità e scarsa trattazione rende il saggio qui presentato meritorio e stimolante: l’antropofagia nel corso dell’età medievale.
Nonostante le fonti trabocchino di riferimenti a casi di antropofagia o di banchetti cannibalici, pochi sono ad oggi gli studi sulla più estrema forma di tanatoprassi: il cannibalismo. Probabilmente perché – osserva la studiosa – le testimonianze o i racconti che si incontrano nei documenti medievali incuriosiscono, attraggono il semplice lettore o lo studioso, ma solo momentaneamente, dopodiché l’attenzione si sposta rapidamente su cose ritenute più serie e si dà scarsa importanza al fenomeno del cannibalismo, che finisce presto relegato nell’ambito dell’aneddotica e forse anche poiché spesso non è facile capire la veridicità degli eventi raccontati e non è sempre semplice cogliere il discrimine tra realtà ed immaginazione, tra resoconto dei fatti e fantasia.

Ma di certo – sostiene Angelica Montanari – i nostri antenati medievali, in certe circostanze, hanno praticato il cannibalismo e i “mangiatori di uomini” non sono solo individui mostruosi o malvagi, simili agli orchi delle leggende o delle fiabe, ma «anche buoni cristiani, sono cavalieri e re, giovani donzelle, cittadini e ammalati. Il viandante, l’eremita, il pargolo, il guerriero: tutte potenziali vittime, tutti potenziali carnefici». (p. 8).
A ciò si aggiunga che, affrontando un argomento come questo, alla studiosa interessa non solo la ricostruzione evenemenziale dei fatti, la verifica della loro effettiva occorrenza, ma altrettanto il «mirabolante immaginario che ha perpetuato la memoria antropofaga» (p. 9), che ci permette di ricostruire uno spaccato estremamente interessante del cosmo mentale medievale, connesso ad una delle esperienze più estreme ed inumane che uomo passa conoscere.

cover_fiero_pasto_antropofagiaIl libro si struttura in otto capitoli, ognuno dei quali affronta un aspetto o una modalità o un significato particolare dell’atto antropofagico attraverso una ricchissima varietà di fonti che vanno dalle cronache ai memoriali di viaggio, dai trattati medici e dalle farmacopee ai testi normativi e legislativi, dalle fonti cartografiche ed etnografiche alle raccolte di exempla, dai testi letterari alle immagini e alle miniature, tutte esaminate con rigorosa attenzione che si traduce in sistematica categorizzazione fenomenologica dell’antropofagia durante l’intero arco del Medioevo, con qualche incursione a ritroso nel mondo antico ed in avanti verso la prima età moderna e con un’attenzione particolare per l’area geografica italiana centro-settentrionale e franco-normanna.

L’indagine parte nel primo capitolo (I morsi della fame) con la più immediata delle osservazioni eziologiche: lo stomaco vuoto ed attanagliato da una disperazione famelica può indurre in situazioni estreme al cannibalismo. Se si considerano l’altissima frequenza e la grave incidenza dei periodi di carestia durante l’età medievale, è facile comprendere come una delle premesse o delle condizioni principali dei casi di cannibalismo sia stata la fame. Quando i morsi della fame si fanno insopportabili – osserva l’autrice – il confine tra mundus e immundus tende a scomparire; si mangiano anche gli immundia animalia fino ad arrivare all’atto immondo per eccellenza: il cibarsi di carne umana. Non solo le carestie, conseguenza di inclementi fenomeni naturali, ma spesso anche i lunghi assedi creavano le condizioni affinché quel limite, normalmente considerato aberrante, fosse valicato. È il caso dell’assedio e conseguente sacco di Roma compiuto da Alarico nel 408-410, che causò «pasti antropofagici consumatisi all’interno dell’urbe assediata». (p. 12)

Come è noto, per la mentalità medievale il legame tra naturale e sovrannaturale è così stretto da indurre l’uomo dell’età di mezzo a riportare spesso fatti ed accadimenti mondani a cause e ragioni trascendenti, a spiegare l’incomprensibile di questo mondo con il comprensibile per fede di un altro mondo, quello divino. Le calamità naturali e quindi anche le carestie e la fame sono segni o flagelli divini, che mettono in guardia o puniscono gli uomini per i loro peccati. Non sfugge a questo paradigma esplicativo il cannibalismo: «l’antropofagia può essere uno dei profetici signa che annunciano disastri cosmici, oppure la somma conseguenza dell’ira celeste che invia siccità, piogge diluviali, sciami di locuste, guerre, devastazioni cataclismi e carestie, costringendo gli uomini a immonde pratiche necrofagiche e cannibaliche». (p. 15)
Nelle cronache e nelle testimonianze ricorre frequentemente questo genere di rielaborazione e spiegazione degli episodi di “cannibalismo nutrizionale”, un atto così immondo da poter essere compreso solo se lo si riconduce ad un sovvertimento dell’ordine naturale (quindi divino) delle cose, che solo Dio stesso può volere per colpire con la sua infallibile giustizia i mali degli uomini. È il caos che si impossessa del mondo e ne conseguono effetti apocalittici, come racconta Rodolfo il Glabro circa la grande carestia del 1032-1033, che colpì molte parti d’Europa ed anche la Borgogna: «Come se ormai stesse diventando un fatto abituale il mangiare carni umane, un tale ne portò di cotte per metterle in vendita al mercato di Tournus, quasi si trattasse di comune carne animale. Arrestato, l’uomo non negò quella colpa; fu allora immobilizzato e bruciato sul rogo. La carne venne seppellita; ma un altro la dissotterrò di notte e la mangiò, finendo egli pure bruciato». (p. 17)

Dall’analisi dei penitenziali poi la studiosa desume la fermezza dei divieti riguardanti l’ingestione indiretta di carne o altri resti umani, interdetto già auspicato in passato da Tertulliano riguardo all’abitudine di consumare le fiere dell’arena che avevano divorato carne umana: il pericolo è quello della antropofagia di “seconda mano”, che induce per esempio il re di Francia Giovanni II il Buono nel 1363 a vietare di «macellare animali che si fossero nutriti nelle residenze dei barbieri, dove avrebbero potuto ingerire sangue, capelli o unghie recise. La normativa si estendeva poi a proibire a diverse categorie professionali, tra cui gli stessi barbieri e i chirurghi, l’allevamento del bestiame destinato a uso alimentare nel dubbio che potesse essersi cibato di residui piliferi, fluidi umani o carni amputate». (p. 20)

Ma qual è l’identità del divoratore per fame di carne umana, che nella maggior parte dei casi – cioè esclusi quelli di necrofagia – è prima omicida e poi cannibale? Angelica Montanari ci dice che non è affatto facile tracciarne un profilo, disegnarne un identikit, che rimangono pertanto alquanto imprecisi ed indefiniti; molto più semplice, invece, è raccogliere dai documenti gli indizi riguardo alle vittime del “fiero pasto”, che nei più frequenti casi di “esocannibalismo” sono uomini o donne esterni alla comunità, per esempio malcapitati stranieri o pellegrini o viandanti, oppure bambini attirati con l’offerta di un frutto o di un dono. Questa – osserva l’autrice – è «ritenuta la forma meno grave di antropofagia poiché non lede i componenti del nucleo sociale (come nel caso di assassinio di viandanti e pellegrini)» (p. 53); certamente meno grave dell’“endocannibalismo”, fenomeno che si verifica quando la vittima è parte integrante della comunità, che rischia di sfaldare i legami comunitari e sociali. Ma il caso più grave di tutti è l’”omicidio cannibalico intrafamiliare”, che se «commesso dalla madre verso i figli, mina dall’interno il nucleo fondamentale dell’organizzazione sociale». (p. 53)

E proprio delle “madri antropofaghe” si occupa l’interessantissimo secondo capitolo del libro che individua l’archetipo medievale dell’antropofagia materna (o intrafamiliare) nel testo biblico e in particolare nel secondo Libro dei Re, nel quale si narra dell’assedio di Samaria, quando due donne stremate dalla fame si accordano di uccidere, cucinare e mangiare i corpi dei loro figli; ma mentre la prima tiene fede al patto omicida, la seconda, dopo aver mangiato del figlio dell’altra, si rifiuta di uccidere suo figlio e lo nasconde. In altri passi del testo sacro l’antropofagia intrafamiliare viene invece minacciata come tremenda punizione e necessaria tragedia nel caso di infrazione della legge di Dio da parte del popolo di Israele e così i padri sbraneranno i figli o i figli divoreranno i padri.
Maria divora il figlioMa accanto al testo biblico, vi è un’altra auctoritas fondamentale per i medievali riguardo al cannibalismo materno: è il Bellum Judaicum di Giuseppe Flavio, che racconta l’assedio di Gerusalemme ai tempi dell’imperatore Vespasiano (70 d.C.) e di una donna, Maria, che si ciba del proprio figlio. Disperata per la fame, che attanaglia l’intera popolazione della città assediata e per il deperimento del figlio, che non potrà in alcun modo sfuggire ad una tremenda morte per inedia, a maggior ragione se lei stessa morirà e non potrà più accudirlo, Maria prende la decisione di ucciderlo e di utilizzarlo come cibo. Ma i ribelli, che tengono il controllo di Gerusalemme e la cui rivolta contro Roma ha condotto all’assedio, attratti dall’odore della carne cucinata, fanno irruzione nella casa di Maria per avere una porzione di quel cibo, ma quando vengono a sapere dalla donna stessa di che cosa si tratta, lo rifiutano disgustati e sconvolti. Ma proprio loro, per Giuseppe Flavio, sono ancor più colpevoli della madre cannibale, avendo creato le condizioni perché l’esecrando atto di Maria fosse possibile. La notizia presto si diffonde sia dentro alla città sia al di fuori di essa e giunge fino alle orecchie dei romani e di Tito, figlio di Vespasiano, che dinanzi ad un tale accadimento prende la decisione irrevocabile che Gerusalemme andrà distrutta.

Al di là dei fatti – osserva l’autrice – ciò che più interessa è l’analisi che ne fa Giuseppe Flavio, il quale estende all’intero popolo giudaico, che ha violato la legge di Roma, il crimine di Maria, causato non solo e non principalmente dalla fame, ma anche da una forma estrema e paradossale di pietà per il figlio e soprattutto dall’ira verso i ribelli che hanno provocato la situazione che l’intera Gerusalemme sta vivendo e quindi anche il suo estremo gesto. La «deresponsabilizzazione di Maria è finalizzata ad additare gli insorti come unici veri colpevoli dell’accaduto». (p. 33)

Nel Medioevo il racconto di Giuseppe Flavio si associa alla teoria, desunta dalla Bibbia, dell’antropofagia materna come maledizione punitiva di Dio e il risultato è un acrobatico capovolgimento di senso che porta a corroborare il tremendo pregiudizio cristiano antigiudaico del deicidio. «Il casus belli antropofagico, che dal punto di vista di Flavio (e delle sue prime epitomi latine) motiva la distruzione di Gerusalemme, è diventato progressivamente inutile nella nuova ottica cristiana: sui giudei, colpevoli del massimo peccato, […] ricade sempre e comunque l’infamia più grave e terribile, il deicidio». (p. 35)
L’atto cannibalico, che per l’ebreo e romano Giuseppe Flavio era la “causa” della distruzione di Gerusalemme, negli autori cristiani si capovolge e si trasforma in “conseguenza” inevitabile e tremenda della colpa di tutte le colpe, il deicidio e della sua necessaria punizione.

Come quelle qui sommariamente riproposte riguardo all’antropofagia materna, altrettanto interessanti sono le considerazioni sulla possibilità di un’antropofagia “paterna”, che l’autrice sostiene non essere di fatto contemplata dagli autori cristiani, a meno che l’atto del sacrifico della vita innocente del figlio da parte del padre non costituisca l’esecuzione votiva di un volere divino. In tal caso è proprio l’uomo, è solo il padre che può compiere il gesto estremo infanticida, di cui l’archetipo è Abramo pronto a sacrificare Isacco per ordine di Dio. E il “lieto fine” della vicenda e di altre analoghe confermerebbe come solo all’uomo sia riservato il rapporto sacrificale con Dio e con i valori positivi ad esso connessi, mentre «una madre assassina non agisce mai secondo nobili propositi, ma sempre per follia o per vendetta […]. Ella viene così inevitabilmente relegata nella categoria degli antropofagi bestiali e contro natura». (p. 52)

Maria divora il figlio 2Per rimanere nell’ambito dell’antropofagia sacrale o sacrificale e non rispettando la successione dei capitoli di un libro che per abbondanza e diversità di argomenti e punti di vista considerati può essere letto anche scombinandone la struttura, passiamo al sesto capitolo (Il pasto rituale), in cui Angelica Montanari affronta sia il caso di quella pratica di “antropofagia simbolica” che è il rito eucaristico, sia le accuse di cannibalismo e connessi riti immondi, innanzi tutto imputate dai pagani proprio ai primi cristiani, poi traslate e trasferite da questi ultimi contro i pagani stessi (già dai primi apologisti e padri della Chiesa), ma anche e soprattutto contro eretici ed ebrei nel corso del Medioevo.
Se è vero che né «la teofagia né il cannibalismo sacrale […] nascono con il cristianesimo, essendo presenti in una grande varietà di miti e di culti precedenti» (p. 119) è pure vero che quello di Cristo è un corpo «incarnato, risorto, transustanziato, esposto, venerato, ingerito, assimilato». (p. 119)
I nemici della nuova religione cristiana ebbero quindi gioco facile ad accusare i cristiani di cannibalismo rituale, di cibarsi di carne e sangue umani e di compiere omicidi di bambini per inzuppare nel loro sangue il pane eucaristico.
Gli apologisti e i padri della Chiesa si impegnarono a fondo nel confutare le infamanti accuse e nel rispedirle al mittente in una «tappa fondamentale nel processo di autodefinizione identitaria del nuovo credo» (p. 125), fino ad arrivare a capovolgere i ruoli di accusatori ed accusati.

Nel Medioevo poi, a partire dall’XI secolo in avanti, quando numerose eresie nascono, attecchiscono e si diffondono rapidamente, l’accusa di cannibalismo rituale, nella forma di un plagio demoniaco ed immondo del sacro rito eucaristico, viene imputata proprio agli eretici, i nemici interni, perciò ancor più pericolosi, della cristianità. Gli eretici celebrano «eucaristie sacrileghe con ostie impastate con il sangue o le ceneri dei figli uccisi» oppure preparano «polveri o pozioni a base di residui di bambini in un composto capace – se ingerito – di trasmettere l’errore anche ai fedeli più devoti». (p. 127) Ma – osserva l’autrice – se nella lotta senza quartiere contro catari ed altri eretici è comprensibile che la Chiesa ricorra alle forme peggiori di diffamazione pensabili, risulta invece più complesso comprendere il percorso che porta all’imputazione del plagio sacrilego del rito eucaristico a religioni storicamente precedenti quella cristiana: le correnti misteriche antiche e, ovviamente, l’ebraismo, il più infallibile e sempre pronto all’uso dei parafulmini di buona parte della storia della cristianità.
La verità ontologicamente e logicamente precede l’errore anche quando nell’ordine umano del tempo e della storia le cose si susseguono diversamente, pertanto «con buona pace della sequenza temporale, […] pagani ed ebrei hanno imitato i culti cristiani incentrati sul pasto rituale prima ancora che il cristianesimo si presentasse sul palcoscenico della storia, contraffacendoli diabolicamente in macabri rituali cannibalici». (p. 128)

Già l’antigiudaismo della cultura ellenistica aveva avanzato accuse in tal senso, come testimoniato dal Contro Apione di Giuseppe Flavio, ma è il cristianesimo medievale e basso medievale in particolare che amplifica a dismisura il fenomeno e così la “cronaca nera” dell’Europa cristiana si affolla di casi come quello di Simonino di Trento a cui si aggiunge l’ennesima acrobatica piroetta logica per cui non solo il sacrifico rituale di bambini cristiani è un continuum della violenza contro Cristo crocifisso, ma l’assunzione di «sangue di infanti battezzati da parte di ebrei sarebbe stata motivata dalla volontà di accedere ai benefici redentivi del sangue di Cristo, desiderio che sottintenderebbe paradossalmente la piena accettazione delle verità cristiane». (p. 130)

Retrocedendo al capitolo terzo (Mangiare il nemico), veniamo a conoscenza di un significato e di una forma tanto trascurati quanto interessanti di antropofagia: il divoramento del nemico politico o del tiranno. Si tratta in sostanza di atti di cannibalismo con significati politici e scopi simbolici: il caso più frequente è quello del cuore del nemico strappato dal petto e addentato o sbranato. Circa una quindicina sarebbero secondo le cronache – dice Angelica Montanari – i casi di cannibalismo di questo genere avvenuti tra il XIV e il XVI secolo prevalentemente nell’Italia centrosettentrionale.
La campionatura del fenomeno che il libro riporta parte però dal caso messinese del 1168 durante il regno del normanno Guglielmo II d’Altavilla, quando il popolo, esasperato per le eccessive tasse imposte dagli uomini della regina madre e reggente Margherita di Navarra, uccide Oddone Quarrel, ritenuto il principale responsabile ed un insorto gli trafigge il cranio con un coltello per poi lambire ed ingerire il sangue direttamente dalla lama, per arrivare fino ai fatti del 1585 nel viceregno spagnolo di Napoli, quando l’eletto del popolo Giovan Vincenzo Starace, accusato di privare la popolazione del pane necessario, viene ucciso e squartato dalla folla e le sue carni cotte e crude vengono divorate, passando attraverso le cruente vicende della Marca Trevigiana nel 1313, di Brescia nel 1311, di Firenze nel 1343, oppure ancora di Milano nel 1476 e di Forlì nel 1488 e così via. Non manca neppure un caso francese, che coinvolge però il toscano Concino Concini, uomo di fiducia di Maria de’ Medici, ucciso per volere di Luigi XIII, «il cui cuore sarà strappato e cucinato sui carboni ardenti» nel 1617. (p. 60)

In tutti i casi – che la studiosa cataloga come «tirannicidi, congiure o rivolte, punizioni dell’attentatore del signore, scontri tra fazioni, lotte contro nemici esterni alla città, vendette private» (p. 61) – l’atto di cannibalismo ha il fine di fare scempio del corpo del nemico, spregiarlo e oltraggiarlo; infatti, mentre altre forme di violenza brutale e sanguinaria come l’amputazione, il trascinamento, l’impiccagione per i piedi, fino ad arrivare allo squartamento erano variamente previste da codici penali di molto precedenti il ripensamento e la ridefinizione di delitti e pene dell’illuminismo di un Beccaria, «l’antropofagia, culmine simbolico del rituale infamante» (p. 63), non era contemplata.
Le vittime della violenza cannibalica sono solitamente nobili colpevoli di crimini politici (malgoverno o cospirazione contro un governo giusto); il carnefice è genericamente individuato nel popolo, nella folla, nella moltitudine che si solleva ed insorge; la «pena, quindi, deve essere esemplare e pubblica» (p. 65) e soprattutto infamante, a tal punto che chi ne è colpito viene disumanizzato, animalizzato, ridotto e degradato a semplice carne commestibile.

Supplizio di Andronico ComnenoPer l’autrice, internamente al rituale di vendetta collettiva che comporta smembramento e divoramento del nemico, diverso valore simbolico assumono le modalità di trattamento del corpo straziato. Come ci dice il capitolo quarto (Cuore morso, cuore mangiato), la «crudità della carne […] enfatizza la feritas degli aggressori e pone contemporaneamente l’accento sull’animalizzazione della vittima […]. Al contrario la cottura della carne umana ne sottolinea la novella veste alimentare: è il caso dei bambini cotti che figurano nelle testimonianze delle carestie e nella tradizione testuale e iconografica dell’episodio di Maria, dove il pargolo è immortalato mentre rosola sul fuoco oppure pronto ad essere gettato in un calderone». (p. 77-78)

Non potendo in alcun modo restituire la straordinaria nonché avvincente ricchezza del libro di Angelica Montanari, né intendendo sostituire una semplice presentazione alla sua diretta lettura, completiamo queste considerazioni annotando che molti altri sono gli aspetti dell’antropofagia che la storica affronta nei restanti capitoli del suo lavoro: per esempio la “vendetta cortese” che ricorre nella letteratura medievale, nella quale «un marito geloso, dopo aver trucidato l’amante della moglie, le propina subdolamente a tavola il cuore dell’amato ucciso, celato sotto forma di torta o di altra vivanda» (p. 83); oppure (capitolo quinto, Curare col corpo) l’uso di parti del corpo umano o di membra ricavate da salme per confezionare farmaci, considerati così efficaci da essere quasi miracolosi, analogamente alle reliquie dei santi. Infatti «mentre i monaci erano impegnati a raccogliere i preziosi succhi emersi dalle salme dei santi e a filtrare le reliquie con acqua e vino, in ambito profano si diffondeva una farmacopea ancor più antropofaga». (p. 99) È il caso della cosiddetta “mumia”, «vera e propria carne umana essiccata» (p. 99) considerata un farmaco potentissimo ed efficacissimo.

E per finire riportiamo una “ricetta” – ebbene sì, anche questa non manca – per chi intenda cimentarsi con una tipologia un po’ eccentrica di arte culinaria! È tratta da un testo stampato a Venezia a fine ‘600 da Carlo Lancillotti, medico e chimico modenese, che riporta questa ricetta per la preparazione e la conservazione della carne umana:
«Ingredienti: cadavere umano (a piacimento), mirra, aloe, “spirito di vino ottimo”. Norme per la preparazione: – lasciare il cadavere “un giorno intiero e una notte in tempo sereno all’aria dove li dii il sole e la luna”; – tagliare la carne “in fette”; – aspergere le fette con mirra e un quarto di aloe e polverizzare finemente; – lasciar riposare il tutto quattro o sei ore; – intingere le fette in “spirito di vino” e porre “all’aria in loco secco e ombroso come sarebbe la stufa di un forno, dove si cuoce il pane […] sino che dette fette sieno benissimo secche, che paia carne seccata al fumo”». (p. 117)

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