epica – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 01 May 2025 23:18:21 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il concilio di Nicea https://www.carmillaonline.com/2024/12/04/in-privato-concilio/ Tue, 03 Dec 2024 23:10:18 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85587 Di Jack Orlando

Francesco Berlingeri; Il concilio di Nicea, Eretica Edizioni, Buccino (SA) 2024; 74pp. 15€

Nello sguardo dell’adulto c’è una crepa, una fessura sottile che si snoda in profondità. Spazio insondabile dove si agita un’epica tutta personale, un luogo popolato di fantasmi, affrescato di sogni, storie che ci raccontiamo e immagini che vorremmo tacere.

Ernst Junger, personaggio istrionico e affilato quanto deprecabile, parlava dell’animo umano come di una stratificazione geologica di tracce lasciate dalle generazioni precedenti. Nel cervello dell’individuo moderno sta, rintanato in un angolo, lo spettro dei primi uomini, impauriti predatori seminudi. Tra l’uno e l’altro si affollano [...]]]> Di Jack Orlando

Francesco Berlingeri; Il concilio di Nicea, Eretica Edizioni, Buccino (SA) 2024; 74pp. 15€

Nello sguardo dell’adulto c’è una crepa, una fessura sottile che si snoda in profondità.
Spazio insondabile dove si agita un’epica tutta personale, un luogo popolato di fantasmi, affrescato di sogni, storie che ci raccontiamo e immagini che vorremmo tacere.

Ernst Junger, personaggio istrionico e affilato quanto deprecabile, parlava dell’animo umano come di una stratificazione geologica di tracce lasciate dalle generazioni precedenti. Nel cervello dell’individuo moderno sta, rintanato in un angolo, lo spettro dei primi uomini, impauriti predatori seminudi. Tra l’uno e l’altro si affollano figure artefici della storia e leggende fondative, narrazioni familiari che investono epiche di civiltà.
E va a finire che siamo il prodotto di un’antologia collettanea vecchia di secoli, di cui siamo coscienti solo in minima parte.

In questa convulsa genealogia Berlingeri nuota nel suo romanzo breve, dove brandelli d’autobiografia illuminano una condizione che è del tutto esistenziale.
E lo fa partendo da un pezzo d’infanzia, stazione di partenza per tutte le cazzate che faremo per sopravvivere a noi stessi nella cosiddetta età della ragione.
Che è tra i bambini che si inizia a delineare la forma della vita.
Le prove di coraggio, le sfide con sé stessi e il valore dei propri pari. Lo stare in branco, il respirarsi addosso. La sicurezza e la fuga, il sudore sulle mani dell’eccitazione, magari della paura. O di tutte e due.
La strada, la casa, il cortile, il sugo della domenica e il fumo delle sigarette che bruciava la gola quando ancora fumare in casa non era pratica disdicevole.
Impariamo ad essere noi stessi solo stando con gli altri, pure se a starci con noi stessi non lo apprendiamo mai davvero.

Tra l’avventura infantile di un parco e la malinconica accensione di una pira tradizionale, si sgrana il rosario dei racconti interiori. Si tenta la misura di ciò che era, di ciò che si è.
E non è un solo fatto di esperienze personali, ma di appartenenze che ci delineano.
Si appartiene al proprio tempo. Ne portiamo il segno come nel libro di Berlingeri si osserva la cicatrice della disgregazione di un mondo contadino, che con i suoi ultimi reperti irriducibili si aggrappa al cemento delle palazzine nuove con gli interni arredati in serie, lasciare il posto alle aspirazioni della nuova generazione e un mondo incompleto le cui comunità dovranno essere ricostruite dai piccoli randagi dell’epoca, figli di tutti in mezzo a una transizione incompleta.
La città di Foggia, con le sue strade e i suoi bar moderni che, al giro di boa degli anni ’80, tenta la sua emancipazione consumistica da una storia di contado ne è il teatro.
Una città che trasfigura liricamente in un paesaggio che non si ferma al portone di casa ma si allunga fino a sfumare il confine con la pelle. Assottiglia la distanza tra il dentro e il fuori.
Apparteniamo ai luoghi e ai corpi che ci appartengono.

È una dimensione liminale, un’osservare sul pelo dell’acqua.
Qualcuno potrebbe definirlo un posizionamento magico, ma non della magia che torna di moda come il vintage, di maghi e fattucchiere; un magico che sta nello sguardo, nella capacità di intuire qualcosa che è appena sotto il visibile delle cose.
È quella dimensione in cui ci si perde volentieri e di cui giusto lo sguardo dell’infanzia può rendere pienamente conto.
Bambini lo siamo stati tutti.
Chi più chi meno, molti di noi lo sono rimasti in strane fogge.
Ma a quello torniamo ciclicamente, costantemente. Pena il sentirci appassire altrimenti.

A otto anni basta un ramo o una spada di plastica per essere un cavaliere templare. Una dozzina d’anni dopo questo potere non c’è più. Ma quel bambino di otto anni che veste i panni del monaco guerriero torna sempre, nascosto, a respirare nell’elettricità di una piazza in tumulto o nel caos di un abitacolo stipato di corpi.
E a quello si rimane in fondo fedeli. Anche se ciò che rimane non pareggia mai i conti di quanto è andato perso.

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Le radici dello sradicamento https://www.carmillaonline.com/2019/06/20/le-radici-dello-sradicamento/ Wed, 19 Jun 2019 22:01:59 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=52967 di Sandro Moiso

Piergiorgio Bonetti, Per non dimenticarci. L’emigrazione dalla Valle Trompia tra Otto e Novecento, Comunità Montana di Valle Trompia, 2019, pp. 368, 15,00 euro

Paese di santi, poeti e navigatori, ma soprattutto di emigranti è stata e continua ad essere l’Italia. Eppure questo semplice ed elementare dato sembra sparire del tutto dalla coscienza “nazionale” ogniqualvolta, in tempi recenti, il discorso sfiora anche soltanto il tema dei migranti e delle migrazioni contemporanee. E come se, al di là delle strumentalizzazioni leghiste e sovraniste, una parte consistente della popolazione italiana, a Nord [...]]]> di Sandro Moiso

Piergiorgio Bonetti, Per non dimenticarci. L’emigrazione dalla Valle Trompia tra Otto e Novecento, Comunità Montana di Valle Trompia, 2019, pp. 368, 15,00 euro

Paese di santi, poeti e navigatori, ma soprattutto di emigranti è stata e continua ad essere l’Italia.
Eppure questo semplice ed elementare dato sembra sparire del tutto dalla coscienza “nazionale” ogniqualvolta, in tempi recenti, il discorso sfiora anche soltanto il tema dei migranti e delle migrazioni contemporanee.
E come se, al di là delle strumentalizzazioni leghiste e sovraniste, una parte consistente della popolazione italiana, a Nord come a Sud, volesse allontanare da sé lo spettro o il ricordo di un’età di miseria, difficoltà economiche, ricerca di una diversa fortuna oppure di un semplice lavoro che spinse tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, ma poi ancora nel secondo dopoguerra, milioni di Italiani ad emigrare in America, in Australia e nel resto d’Europa.
Spettro che ancora si aggira, evidentemente, nella coscienza profonda della nazione e che agita i sonni di coloro che con l’accensione di un mutuo bancario per l’acquisto di una casa in cui vivere oppure che attraverso i “facili” acquisti on line si illudono di aver raggiunto lo status di ‘benestanti’.
Pur sapendo di non esserlo davvero.

Come afferma l’autore del testo nella sua Introduzione:

Negli ultimi venticinque anni l’esplosione del fenomeno immigratorio nel nostro paese, ma soprattutto nelle zone industrializzate del nord dell’Italia, fra le quali la Valle Trompia, ha creato delle tensioni sociali nei confronti degli immigrati, richiamando però allo stesso tempo a molte persone un passato emigratorio non lontano che ha coinvolto direttamente il nostro territorio. Partendo da questo stimolo, dieci anni fa, mi sono posto l’obiettivo di indagare in merito all’emigrazione dalla nostra valle, sia all’interno dello Stato che all’estero […] Per inquadrare la mia ricerca territoriale nel quadro nazionale, ho iniziato il mio studio facendo riferimento ad alcune pubblicazioni di rilievo in questo campo.
Ho poi intrapreso un lungo percorso di ricerca, durato otto anni, che mi ha portato ad esplorare gli archivi storici dei diciotto Comuni attualmente presenti nella valle, comprendenti anche i documenti dei piccoli Comuni soppressi, principalmente nelle categorie esteri, pubblica sicurezza e stato civile. […] Per integrare i freddi dati statistici e cercare di delineare un quadro significativo delle vicende umane, che hanno costituito il fenomeno migratorio, ho ricercato negli archivi comunali le lettere degli emigranti inviate ai sindaci e soprattutto ho effettuato interviste a persone anziane […] E’ stata questa la parte più interessante del mio lavoro, in quanto mi ha messo in diretto contatto con quelle persone che in una società ancora legata alla dimensione paese, non ancora invasa dai mass media e non favorita da trasporti veloci, per motivazioni a volte diverse ma in genere basate sul bisogno, hanno trovato il coraggio di ricercare il benessere anche al di là dei confini nazionali. In questo modo i numeri sono diventati speranze, fatiche, guadagni, delusioni, orgoglio, malinconia e tanto altro.1

Aggiungerei lotte, spesso antifasciste e di classe, considerato che, durante gli anni del regime, emigrazione e dissidenza perseguitata spesso coincisero in molte storie personali, come attestano le biografie di alcuni valtrumplini che all’estero divennero combattenti nella guerra civile spagnola o militanti e organizzatori dei partiti della sinistra francese, come le vite di Pietro Mosè Guerini e di Pietro Angelo Gatta, solo per citarne due, ben dimostrano.

Lotte che prendevano evidentemente origine non solo dalla collocazione politica dei soggetti, ma spesso dallo loro collocazione di classe: operai, minatori, braccianti, talvolta lingére (appartenenti cioè a sacche di nuovi salariati inurbati, spesso sospesi tra occupazione precaria e marginalità sociale). Destino che accomunava questi ultimi, e in grande anticipo, al nuovo proletariato migrante di questi ultimi decenni.

E’ davvero impossibile qui anche solo riassumere la materia complessa e profondamente umana che costituisce l’anima e lo scopo ultimo della ricerca di Bonetti: la ricerca di una memoria, collettiva e individuale, che diventa radice ultima per la comprensione degli effetti dello sradicamento e, allo stesso tempo, della ricostruzione di un immaginario comunitario successivo sia all’abbandono del territorio di origine che al rientro (quando ciò è avvenuto) nello stesso dopo anni di esperienze “altre”.

Memoria, esperienza, vita che, come sottolinea nella sua bella e densa Presentazione Franco Ghigini, spesso trova la sua sintesi in quel canto popolare di cui la Valle Trompia può vantare un grande e significativo patrimonio.

Per avere una storia ci vuole qualcuno che la scriva affinché altri la possano comprendere e narrare. Per avere un’epica ci vuole qualcuno che la canti.
Nell’essere consapevole interpretazione di un vissuto condiviso e nel sostanziarsi di un’esecuzione collettiva il canto popolare è fervido “luogo” di socialità. Ma chi canta non s’impegna solo a spiegare: affidandosi a una rigorosa linearità testuale esprime bisogni, desideri ed emozioni […] Fra i repertori tradizionali lombardi spicca quello, in Valle Trompia, dei cantori e suonatori della Famiglia Bregoli di Pezzaze. Valorizzato in successive ricerche etnomusicologiche […] esso è significativo della variegata tipologia vocale alpina. Si riconoscono antiche ballate e canzoni novecentesche da foglio volante, canti lirici e satirici, canti sociali e politici. Inoltre, vi sono le vivaci musiche da ballo: valzer, mazurke, polke o marce, monfrine o tarantelle. In tale composito repertorio a distinguersi, per eloquenza storia e forza espressiva, è però il corpus dei canti di miniera ed emigrazione, cui doverosamente in queste pagine s’accenna in calce alla serie dei documenti orali. Formalizzatosi nel Novecento, si diffonde con gli spostamenti nei cantieri dei grani trafori italiani ed esteri. Accompagnate dal suono delle fisarmoniche , la spre voci dei Bregoli, appunto minatori ed emigranti, denunciano una drammatica condizione lavorativa e sociale […] “Usìi dall’avansamènto” è la cronaca, dall’esemplare e quasi cinematografica concisione narrativa, di un crollo in galleria e insieme l’asserzione lapidaria di una tragica sorte: “Sangue bresciano ridotto sei così / chi alla tua Brescia a nà siere i all’estero morir”. “Cara moglie” è il rabbioso e accorato messaggio alla persona più amata: “Cara moglie di nuovo ti scrivo / di non darla né ai preti né ai frati / e dalla pure ai più disperati / che nel mondo la pace non han”. “Santa Barbara”, invocazione alla protettrice dei minatori, si risolve in una reiterata denuncia: “Non c’è più medici / nemmeno i professori / che fan guarire / i miei polmoni”. Infine, c’è lo sfrontato e orgoglioso manifesto di “A i dìs che i minatori son lingéri”, a confermare quanto sopra segnalato in merito alla peculiare antropologia dell’emigrante: “Minator io vòi sposar / perché il mondo mi fa girar / e invece il contadin / dove nasce ti fa morir”. Sono canti, quelli dei Bregoli, che si configurano in autentici inni popolari. Essi dicono della tangibile coincidenza di esperienze personali con vicende più grandi. Dicono che l’emigrazione è sì fenomeno interregionale, nazionale e internazionale, ma precisamente condizione di classe. L’epica dei minatori e degli emigranti diviene così epica del proletariato, degli sfruttati del mondo.2


  1. P. Bonetti, pp. 16-17  

  2. F. Ghigini, Cara moglie di nuovo ti scrivo che mi trovo al confin della Francia in P. Bonetti, Per non dimenticarci. L’emigrazione dalla Valle Trompia tra Otto e Novecento, pp. 14-15  

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NarcoGuerra. Cronache dal Messico dei Cartelli della Droga https://www.carmillaonline.com/2015/06/03/narcoguerra-cronache-dal-messico-dei-cartelli-della-droga/ Tue, 02 Jun 2015 22:46:51 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=23057 di Pino Cacucci

Copertina NarcoGuerra Fronte (Small)[Prologo del libro di Fabrizio Lorusso, NarcoGuerra. cronache del Messico dei cartelli della droga, Odoya, Bologna, 2015, pp. 416, € 20 (€ 15 Sito Web Odoya)]

Secondo un vecchio detto che i messicani amano ripetere, “como México no hay dos”. Per molti versi è vero, che il Messico è unico e irripetibile. Ma la realtà odierna dimostra purtroppo che il paese è anche schizofrenicamente sdoppiato: esistono due Messico. Perché qualsiasi viaggiatore, viandante o lieto turista affascinato dalla sua incommensurabile bellezza, può [...]]]> di Pino Cacucci

Copertina NarcoGuerra Fronte (Small)[Prologo del libro di Fabrizio Lorusso, NarcoGuerra. cronache del Messico dei cartelli della droga, Odoya, Bologna, 2015, pp. 416, € 20 (€ 15 Sito Web Odoya)]

Secondo un vecchio detto che i messicani amano ripetere, “como México no hay dos”. Per molti versi è vero, che il Messico è unico e irripetibile. Ma la realtà odierna dimostra purtroppo che il paese è anche schizofrenicamente sdoppiato: esistono due Messico. Perché qualsiasi viaggiatore, viandante o lieto turista affascinato dalla sua incommensurabile bellezza, può tranquillamente attraversarne migliaia di chilometri senza mai percepire un clima di violenza sanguinaria. Eppure… esiste anche l’altro Messico, quello che Fabrizio Lorusso sviscera nei suoi reportage, nei suoi approfondimenti giornalistici, nei racconti di vita quotidiana. E lo fa con esemplare giornalismo narrativo, che attualmente è l’unica fonte di informazione attendibile, non essendo schiava di una gabbia ristretta di “battute” né di censure, o meglio di autocensure, perché tutti, quando scriviamo per una certa testata, abbiamo in mente che questa ha un preciso proprietario e quindi certi limiti ce li mettiamo da soli, prima ancora che vengano imposti. Ovviamente, il giornalismo narrativo non può che trovare spazio in un libro, che poi faticherà non poco a trovare uno spazio nell’editoria. Oppure – come è il caso di alcuni di questi scritti – lo spazio se lo prendono su internet, l’universo che ci illude di essere liberi di esprimere qualsiasi opinione: peccato che, siamo sinceri, finiamo per leggerci l’un l’altro, cioè tra quanti una certa sensibilità già ce l’hanno, senza scalfire la cosiddetta “informazione di massa”, che altro non è se non disinformazione massificata.

Esiste, dunque, anche l’altro Messico, dei corpi appesi ai cavalcavia, delle teste mozzate e infilate sui pali, dell’orrore che ormai viene acriticamente ascritto ai “narcos” quando nessuno capisce più se siano effettivamente i ben armati e ben entrenados Zetas (in maggioranza ex militari di reparti speciali e mercenari centro e sudamericani con master in centri di addestramento di Usa e Israele), o se si tratti di squadroni della morte, milizie di latifondisti, regolamenti di conti d’ogni sorta, ed eliminazione spiccia di oppositori sociali.

E questa è anche la mia schizofrenia, perché…

Il Messico è dove torno ogni anno per qualche mese e dove vorrei concludere i miei giorni, e se, dopo averci vissuto per anni tanto tempo fa, continuo questo incessante andirivieni, forse è per un inconfessabile timore dell’abitudine: ovunque vivi per troppo tempo, finisci per vederne solo i difetti e non più i pregi. Io vado e vengo perché, come un vampiro, continuo a succhiarne gli aspetti migliori. Troppo comodo, lo so. Ma è così. Amo talmente il Messico, da impedirmi di trasformarlo in una consuetudine, in una routine quotidiana che ne assopirebbe le emozioni: è un po’ come con le droghe, l’assuefazione ti priva di rinnovare la sensazione inebriante della prima volta. Meglio rinnovare la crisi di astinenza – chiamiamola struggente nostalgia – che assuefarsi, svilendo quel miscuglio di energie rinnovate e sensazioni ineguagliabili che mi dà ogni volta che ci torno. Se non tornassi ma rimanessi per “sempre”, temo che l’abitudine spegnerebbe tutto.

Odoya Bandiera messicana coca proiettiliE chiarisco: la semplificazione di “pregi e difetti” è improponibile, proprio perché semplifica l’immane complessità della situazione. Difetti: non si può relegare a questo vocabolo l’orrore dei morti ammazzati. Pregi: quei milioni di messicani che in ogni istante ti dimostrano quanto siano diversi dall’orrore, con la loro sensibilità, creatività, ribellione, resistenza… dignità. La cronaca, purtroppo, privilegia gli orribili e trascura i dignitosi.

Leggendo i coraggiosi scritti di Fabrizio Lorusso (coraggiosi per il semplice e spietato fatto che lui, lì, ci vive e si espone alle eventuali conseguenze) riconosco me stesso come ero trent’anni fa: lodevole donchisciotte che, penna – o tastiera – in resta, affronta i mulini a vento dei todopoderosos di sempre, di ieri e di oggi… E in fin dei conti, oggi, mi appare come un’illusione, il tentativo di informare gli altri sulla realtà, perché la sensazione è che tutti (be’, quasi tutti) se ne freghino, della realtà. Quindi, è un’utopia. Ma cosa saremmo, senza illusioni e utopie?

Nada más que amibas. Saremmo parassiti intestinali, tanto per restare sul campo messicano. Miserabili parassiti assuefatti a una realtà ingiusta e insopportabile. È per questo, che abbiamo bisogno di illusioni e utopie. Persino dell’illusione che, scrivendo, informando, potremmo rendere meno feroce e nefasto questo mondo in cui viviamo. Che è anche l’unico che abbiamo.

Petizione del collettivo Paris-Ayotzinapa: “NO alla presenza del presidente messicano Enrique Peña Nieto alle celebrazioni del 14 luglio 2015” – LINK Firma

Prossime presentazioni a Milano: 13 giugno Libreria Les mots e 16 giugno Macao

Leggi l’introduzione del libro: QUI – Risvolto/Riassunto del libro+Bio: QUI 

Pagina NarcoGuerra: QUI – Scarica PDF Indice + Intro + Prologo del libro: QUI

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Tears of Rage https://www.carmillaonline.com/2014/02/28/tears-of-rage/ Thu, 27 Feb 2014 23:20:05 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=12718 di Sandro Moiso

osage county Tears of rage, tears of grief Why am I the one who must be the thief? Come to me now, you know We’re so alone And life is brief1

Rabbia. Il minimo comune denominatore di gran parte del migliore cinema americano dalla fine degli anni sessanta in poi. E nel [...]]]> di Sandro Moiso

osage county
Tears of rage, tears of grief
Why am I the one
who must be the thief?
Come to me now, you know
We’re so alone
And life is brief
1

Rabbia. Il minimo comune denominatore di gran parte del migliore cinema americano dalla fine degli anni sessanta in poi. E nel film di John Wells, I segreti di Osage County, sceneggiato da Tracy Letts che è anche l’autrice dell’opera teatrale da cui è tratto2 , di rabbia ce n’è tanta. Una vera esplosione di rabbia e frustrazione. Tutta al femminile e quasi sempre incompresa nelle sue ragioni profonde.

Rabbia. Intorno e dentro ad una riunione di famiglia in occasione della scomparsa del patriarca (interpretato da Sam Shepard). Morte cercata? Annunciata? Ignorata da chi per troppo tempo aveva condiviso i problemi del matrimonio e della maternità senza, mai, condividerne la gioia? Ma esiste la gioia nel matrimonio e nella famiglia per una donna? Per tutte le donne? La commedia nasconde spesso la tragedia e un’autrice donna può far letteralmente esplodere la poetica aristotelica. Da cui, sicuramente, elimina l’epica.

L’epica resta per gli uomini: l’eroismo, il sacrificio volontario, il conflitto con il padre. Tutto ciò che sa di sublime è destinato agli uomini. Edipo, da Sofocle a Freud, è dramma e problema maschile. Come nella lettera al padre di Kafka o in decine di altre opere. La donna, la moglie, la figlia si sacrificano per dovere. Tale è la condizione femminile. Sembrerebbe per natura oggettiva. E quindi non può esserci eroismo, non può esserci pathos.

Il conflitto madre-figlia, spesso il più drammatico poiché si svolge all’ombra dell’apparentemente imperturbabile autorità maschile, resta troppo spesso fuori dal campo visivo. Nascosto, escluso, proibito. E’ il non detto dell’anoressia, è la ribellione silente di coloro che, non potendo scalzare il dominio patriarcale, sono costrette a rivolgere gli artigli verso le proprie simili. Così il dolore diventa furia, scherno, odio. Di solito rimosso o trattato come follia.

Rabbia e follia. Il destino delle donne forti. Più forti dei loro uomini anche se la società, anche quella di oggi, non vuole davvero sentirlo dire. E loro non lo possono dire. Devono chiudersi in difesa e rasentare la follia. Oppure volare via con la testa con la dipendenza dai farmaci. O dall’alcol. Perché la famiglia è, comunque, sacra. Per l’uomo, altrimenti a cosa varrebbe ancora la sua autorità? Uomo cui si può e si deve perdonare qualsiasi debolezza e qualsiasi viltà, mentre per la donna non è perdonabile nemmeno l’invecchiamento fisico.

Invecchiamento fisico, che fa scontare alle donne troppo forti il loro peccato principale: la forza di carattere appunto. Quella che non può essere perdonata o ammessa. Che se si manifesta nell’adolescenza deve essere derisa, mentre nella maturità deve essere trattata come una malattia. Anche nel cristianissimo ed evoluto occidente. Anche nell’estremo occidente della provincia americana. On the Great Plains of Oklahoma. Dove la moglie di uno scrittore e docente universitario, poeta colto ed intelligente, resta comunque e sempre, prima di tutto, una moglie.

Rimane il problema della colpa originaria che, proprio nel cristianesimo, viene attribuita alla donna. Tentatrice e irresponsabile se non lavora, ma, allo stesso tempo, colpevole e deprecabile se per il lavoro trascura affetti e doveri famigliari. Colpevole sempre e guai a lei se si ribella contro un’attribuzione di colpa troppo spesso profondamente interiorizzata dalle stesse interessate. Colpa che produce frustrazione, paura ed è causa di conflitti. Anche tra sorelle.

Sorelle in lotta per lo stesso uomo. Sorelle che si amano e si odiano. Sorelle vittime della stessa colpa e, magari, dello stesso uomo. Non occorrono i serial killer per far soffrire le donne. Possono soffrire in ambito domestico anche senza violenze. Anche se quelle sono state sofferte in gioventù, in una società arcaica, e non durante l’età adulta. Vittime del fascino maschile. In nome del perbenismo e della norma occorre digerire tutto. Ma fin dove e fino a quando?

E poi ci sono tutte le altre donne: le figlie deboli, impaurite, incerte, smarrite. Non c’è pietà nemmeno per loro. Se vogliono possono accompagnarsi ad un imbecille o a un cretino pieno di soldi. Naturalmente mettendo da parte orgoglio, speranze e rassegnandosi. Così è, così è stato e così sempre sarà. Solo rabbia e follia sembrano poter sfuggire a tale destino. Anche se colei che le manifesta è condannata, inevitabilmente, alla solitudine.

Tutto ciò, e molto altro ancora, è evidenziato in quella che per ora si è rivelata la miglior pellicola dell’attuale stagione cinematografica. Bravi tutti gli interpreti, anzi le interpreti, da Juliette Lewis a Julianne Nicholson. Bella la fotografia con un che di anni settanta nel taglio delle inquadrature e nella scelta della luce. Standing ovation, infine, per Meryl Streep e Julia Roberts. Magnifiche interpreti di una madre e di una figlia “vittime” dello stesso carattere forte ed accomunate da un identico destino di solitudine.


  1. Lacrime di rabbia, lacrime di angoscia / Perché devo essere l’unico colpevole / Vieni da me adesso, tu lo sai / Siamo così soli / e la vita è così breve (Bob Dylan, Richard Manuel, Tears of Rage, The Basement Tapes, 1967-1975)  

  2. Tracy Letts, Agosto, foto di famiglia, Rizzoli 2014, pp. 208, euro 10,00  

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