Enzo Biagi – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 06 Dec 2025 21:23:20 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Normalizzare i devianti, disciplinare il lavoro. Storia di una comunità/fabbrica https://www.carmillaonline.com/2021/01/09/normalizzare-i-devianti-disciplinare-il-lavoro-storia-di-una-comunita-fabbrica/ Sat, 09 Jan 2021 04:30:42 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=64328 di Alexik

A volte ritornano, come fantasmi maligni, come ricordi amari. Gli anni ’80 periodicamente riemergono dal limbo in cui avresti voluto relegarli, con tutto il loro portato reazionario. Rappresentano il giro di boa, il decennio in cui il capitale si è ripreso il suo spazio per costruire un nuovo ordine, sulle ceneri dell’ultimo tentativo di rivoluzione dell’Italia del ‘900. E sulle ceneri della generazione che aveva cercato di cambiare tutto, rinchiusa nelle carceri speciali, ricacciata nel riflusso, devastata con l’eroina.

L’eroina era la sostanza perfetta. Uno strumento [...]]]> di Alexik

A volte ritornano, come fantasmi maligni, come ricordi amari.
Gli anni ’80 periodicamente riemergono dal limbo in cui avresti voluto relegarli, con tutto il loro portato reazionario. Rappresentano il giro di boa, il decennio in cui il capitale si è ripreso il suo spazio per costruire un nuovo ordine, sulle ceneri dell’ultimo tentativo di rivoluzione dell’Italia del ‘900. E sulle ceneri della generazione che aveva cercato di cambiare tutto, rinchiusa nelle carceri speciali, ricacciata nel riflusso, devastata con l’eroina.

L’eroina era la sostanza perfetta. Uno strumento di ‘pacificazione’ di successo già collaudato (assieme al crack) per neutralizzare la ribellione giovanile e le organizzazioni della rivoluzione nera negli Stati Uniti.
L’eroina riusciva a deviare il sogno di rivoluzione verso la fuga individuale in un paradiso fittizio. Rendeva deboli e ricattabili i potenziali ribelli.
Spostava il campo di battaglia dallo scontro contro lo Stato a quello della microconflittualità contro i propri simili,  creando disgregazione sociale e desolidarizzazione all’interno dei quartieri popolari. Forniva pretesto alla militarizzazione dei territori.
Il suo consumo si espandeva veloce, probabilmente anche al di là delle intenzioni iniziali, colpendo le generazioni successive, straripando dalle case popolari ai quartieri del ceto medio, fino alle ville dei ricchi. Producendo, in questo modo, tantissimo ‘materiale umano’, utilizzabile per la sperimentazione di nuovi modelli di controllo sociale.

SanPa: luci e tenebre di San Patrignano”, narra la storia del principale fra questi esperimenti, creato da Vincenzo Muccioli sulle colline riminesi, e da lui diretto con poteri assoluti  fino alla sua morte nel 1995.
Un racconto costruito attraverso l’alternarsi di numerose testimonianze: ospiti ed ex ospiti della comunità (fra cui alcuni stretti collaboratori del fondatore), membri della famiglia Muccioli, giornalisti, giudici, psichiatri, supporters, rappresentanti istituzionali.
Ognun* con la sua angolazione visuale, tale da costruire nell’insieme l’immagine di un fenomeno sicuramente multiforme e complesso.

La docu-serie prodotta da Netflix ha acceso in questi giorni ferventi polemiche. L’attuale direzione della comunità e i suoi fedeli, da Red Ronnie a Letizia Moratti, l’accusano di essere “sommaria e parziale con una narrazione che si focalizza sulle testimonianze dei detrattori“.
Un’opinione contraddetta dall’ampio spazio concesso dal docufilm ad Andrea Muccioli, figlio del fondatore, allo stesso Red Ronnie, e ad Antonio Boschini (tuttora responsabile medico della Comunità),  le cui interviste attraversano l’intero corso delle cinque puntate.
Interviste  che si affiancano anche a numerose immagini di repertorio non certamente ostili: cortei di madri che inneggiano a SanPa, le parole dei giornalisti amici (da Minoli a Biagi, da Costanzo a Montanelli), il sostegno del petroliere Gian Marco Moratti, principale sponsor finanziario della comunità.

Ma soprattutto, la voce che si ascolta maggiormente è quella di Vincenzo Muccioli.
E non è certo colpa dei suoi detrattori se rivendica lui stesso, davanti alle telecamere, la giustezza della riduzione in catene dei fuggiaschi, l’uso della violenza fisica come metodo rieducativo, o la negazione del sostegno farmacologico durante le crisi di astinenza.
Se ridicolizza in modo sessista e spregevole (col giochino dell’anello) le denunce di violenze sessuali delle recluse, o se dichiara candidamente di aver taciuto e mentito sull’omicidio di Roberto Maranzano, massacrato di botte e ucciso in un reparto punitivo della Comunità.

E’ Vincenzo Muccioli il peggior detrattore di se stesso, con le sue esternazioni che finiscono per rendere poco credibili anche le difese d’ufficio dei suoi più convinti sostenitori.
I quali probabilmente si aspettavano di partecipare ad un documentario apologetico, che è ciò a cui erano stati abituati durante decenni di ostracismo televisivo nei confronti delle vittime della comunità.
Come ricorda Rita Maranzano, sorella di Roberto, in una conferenza stampa del 1994 il cui audio è disponibile sul sito di Radio Radicale1:

E’ stato dato spazio a tutti coloro che sostengono il signor Muccioli, a lui e alla sua famiglia, a chi invece voleva opporvisi è stato dato sempre un netto rifiuto. Io per esempio due anni fa dovevo partecipare alla trasmissione I fatti vostri , mi hanno fatta andare a Roma e poi a Roma mi hanno detto che era arrivato il veto di Minoli [all’epoca  capostruttura di Rai2] e quindi non potevo partecipare . Ho sempre cercato di  contattare Rai 1, Rai 2, Rai 3, la Fininvest. Ho trovato un muro.”

Il docufilm sceneggiato d Gianluca Neri, Carlo Gabardini e Paolo Bernardelli, per la regia di Cosima Spender, rappresenta finalmente una breccia su quel muro, e una restituzione di verità e dignità per tutt* quell* che hanno avuto il coraggio di denunciare ciò che hanno visto e subito là dentro, nonostante le minacce, le rappresaglie e la denigrazione.

Un laboratorio per le controriforme

Come dicevo, San Patrignano è stato (e non so in che misura sia ancora) un fenomeno multiforme e complesso, non banale.
Non riducibile solo all’aspetto della  violenza fisica, che comunque l’ha accompagnato fin dalla nascita, da quel primo messaggio di aiuto lanciato nel ’79 dal ventisettenne Paolo Morosini:  “Sono prigioniero di queste persone. Telefonate alla polizia o ai carabinieri. Ho già avuto 7 collassi e sto malissimo“.
Un segnale seguito dalla seconda denuncia nell’ottobre dell’80, quando Maria Rosa Cesarini riesce a fuggire dalla comunità dopo essere stata rinchiusa per sedici giorni in una piccionaia.
Durate la perquisizione che ne segue, vengono trovati dalla polizia, al freddo e nel sudiciume, “Luciano Rubini e Leonardo Biagiotti incatenati in due locali usati come canile, Marco Marcello Costi incatenato alla porta in ferro di un locale di tre metri per uno e Massimo Sola incatenato ad un manufatto adibito a colombaia2.
Sono loro i ragazzi ritratti nelle foto simbolo del “processo delle catene”, un processo fortemente mediatizzato che porterà San Patrignano ai disonori delle cronaca, ma non fermerà la violenza.

Perché al di fuori dell’aula di tribunale, gran parte della società plaude a quella violenza.
Plaude alla sospensione delle garanzie dello stato di diritto per i tossicodipendenti, alla liceità di sequestrarli e richiuderli al di fuori di qualsiasi previsione di legge, ed è disposta ad accettare anche l’uso di trattamenti inumani e degradanti pur di toglierseli di torno.
Partecipa a quella violenza, rifiutando di accogliere e proteggere chi tenta di sottrarsene.
Una società che quando evadi ti cattura, e ti riconsegna a loro.
O che ti chiude tutte le porte, costringendoti a tornarci, perché è l’unico posto dove ti è concesso stare.

Durante il “processo delle catene”, anche dopo la condanna in primo grado, i tribunali di tutta Italia continuano ad inviare tossicodipendenti a SanPa per scontare la pena, nonostante i suoi sistemi siano ormai noti.
In appello, e poi in Cassazione, la magistratura finisce per assolvere Vincenzo Muccioli, spalleggiato dal potere politico e dalle televisioni pubbliche e private a reti unificate.
Lo assolve dalle accuse di sequestro di persona, violenza e maltrattamenti, per “aver agito in stato di necessità putativa“, legittimando con l’impunità il via libera all’uso di quegli stessi metodi, che nel frattempo continuano ad essere esercitati “as usual”.
Una decisione che conferma quell’aura di “extraterritorialità” che avvolge la comunità sulla collina, apparentemente immune anche alle leggi edilizie e fiscali.

Tanta accondiscendenza da parte dello Stato è legata certamente a numerosi interessi contingenti – la comunità muove soldi, voti e consenso – ma al di sopra di questi, c’è il fatto che San Patrignano interpreta pienamente lo spirito del tempo, di quegli anni ’80 inaugurati dalla sconfitta operaia alla Fiat e dalle crociate antiabortiste di Wojtyla.
La comunità partecipa alla costruzione del nuovo ordine, riuscendo a riassumere in una sola esperienza tutte le controriforme possibili.
A partire dalla logica patriarcale che la sottende, con al centro un Dio/padre/padrone dotato di potere assoluto sui suoi ‘figli’, redenti dalla colpa della tossicodipendenza attraverso l’imposizione della disciplina e la rieducazione del lavoro.
Un lavoro coatto e gratuito – nelle strutture agricole e artigianali di SanPa – che riporta alla mente, più che lo spirito cooperativo, quello delle workhouses dell’età vittoriana, le fabbriche/prigione istituite per togliere i poveri e vergognosi dalle strade e raddrizzare le loro cattive abitudini.
In fatto di diritti del lavoro, San Patrignano incarna, in pratica, il sogno proibito di quella borghesia industriale che negli anni ’80 ha da poco riguadagnato il controllo delle fabbriche, la libertà di licenziamento e la vittoria al referendum sulla scala mobile.

Inoltre la vocazione reclusoria della comunità fa da contraltare alla Legge Basaglia, che ha da poco modificato radicalmente i presupposti per la privazione della libertà personale in assenza di reati, ed alla riforma sulle tossicodipendenze del ’75 (quella che istituisce i servizi territoriali pubblici di assistenza) che, come vedremo, SanPa si impegnerà ad emendare dettando ai decisori politici il testo della Iervolino Vassalli.

Ma è nella distruzione/costruzione delle identità e delle coscienze dei reclusi, e nello sviluppo di modelli originali nell’organizzazione delle funzioni di controllo, coercizione, punizione, che  la comunità di Muccioli riuscirà a dare il meglio di sé. (Continua)


  1. Presentazione dell’ASS. dei Familiari e Amici delle vittime di San Patrignano, Radio Radicale, Bellaria, 10 dicembre 1994. 

  2. Tratto da “la mappa perduta“. 

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Un uomo fortunato: intervista a Morando Morandini https://www.carmillaonline.com/2014/07/17/uomo-fortunato-intervista-morando-morandini/ Thu, 17 Jul 2014 21:10:35 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=15601 di Filippo Casaccia

Intervista MorandiniLunedì prossimo Morando Morandini, decano della critica cinematografica italiana, compie novant’anni. Questa intervista inedita – concessami nell’estate del 1998 – è l’omaggio di Carmilla a un maestro discreto e illuminante.

Quando nasce la sua passione per il cinema? E con quali film? Sono stato uno spettatore precoce. Avevo dodici anni nel 1936 quando cominciai a ritagliare le recensioni di Filippo Sacchi sul “Corriere della Sera”, e le corrispondenze dai festival di Venezia. Le incollavo su un quadernone che purtroppo s’è perso nei traslochi di guerra. Insomma, cominciai presto ad andare al cinema in un certo modo: [...]]]> di Filippo Casaccia

Intervista MorandiniLunedì prossimo Morando Morandini, decano della critica cinematografica italiana, compie novant’anni. Questa intervista inedita – concessami nell’estate del 1998 – è l’omaggio di Carmilla a un maestro discreto e illuminante.

Quando nasce la sua passione per il cinema? E con quali film?
Sono stato uno spettatore precoce. Avevo dodici anni nel 1936 quando cominciai a ritagliare le recensioni di Filippo Sacchi sul “Corriere della Sera”, e le corrispondenze dai festival di Venezia. Le incollavo su un quadernone che purtroppo s’è perso nei traslochi di guerra. Insomma, cominciai presto ad andare al cinema in un certo modo: possiamo chiamarlo “critico”? Meravigliavo le signore, amiche di mia madre, snocciolando i nomi di attori e attrici, e a poco a poco cominciai a distinguere un regista dall’altro. Da molti anni ho un sogno che non realizzerò mai: un saggio sulla critica italiana di cinema, suddivisa in generazioni. Sono convinto che in ciascun critico conti la sua infanzia cinematografica, cioè i film con cui “è nato al cinema”, quelli che cominciato a vedere in un certo modo. Parlo di film, ma il discorso si potrebbe estendere ad altri settori: libri, quadri, musica. C’è anzitutto una generazione, ormai quasi scomparsa, che nacque al cinema negli ultimi anni del muto, a cavallo tra gli anni ‘20 e ‘30. Venne poi quella degli anni ’30 sonori, quando, poiché il cinema italiano contava poco, si nutriva di film americani e francesi. Clair, Carné, Duvivier e un po’ meno Renoir che per ragioni politiche era poco importato. Seguirono la generazione del neorealismo, che scoprì il cinema a partire dal ’45 con Rossellini, De Sica, Visconti e quella della Nouvelle Vague a cavallo tra i ’50 e i ’60. In termini anagrafici dovrei appartenere a questa generazione, ma, essendo stato un precoce (ride), faccio parte della precedente. Venne poi la squadra degli anni ’70, quella che rivalutò Matarazzo, Mattoli, Totò e gli altri, insomma quel cinema commerciale, artigianale, non d’autore che le generazioni precedenti avevano ignorato, snobbato, spregiato. L’ultima generazione è quella che ha tettato il cinema sul televisore, ha l’inconscio colonizzato dai film hollywoodiani e scrive saggi pensosi e interminabili sul trash e sul gore. Ma per dirla secca, sono nato al cinema con i film francesi degli ultimi anni ’30. I miei idoli erano Jean Gabin, Arletty, Michèle Morgan. E Gary Cooper tra gli attori americani. Tra le attrici la Davis, la Hepburn, Carole Lombard. E Dorothy Lamour di cui mi innamorai col tramite di John Ford in Uragano (1937). Ford e Hawks erano i miei director preferiti, ma ricordo che mi lasciai incantare da Winterset (Sotto i ponti di New York, 1936) di Al Santell e rimasi sconvolto da Delitto senza passione (1934) di Ben Hecht. Riuscivo già ad andare fuori dai sentieri battuti. A dodici anni, come ho già detto, leggevo Filippo Sacchi, poi passai al settimanale “Film” di Doletti (era un lenzuolo, come il primo “Espresso”) e, infine, al liceo approdai alla rivista “Cinema” e a qualche numero di “Bianco e nero”.

Morandini 1E quand’è che questa passione diventa un mestiere?
C’è un intervallo bellico, diciamo il biennio 1944-45, in cui ho visto pochissimi film. Un buco nero. A guerra finita mi trovai iscritto al quarto anno di Lettere alla Statale di Milano senza aver dato nemmeno un esame. Qui comincio a fare il giornalista in un quotidiano cattolico di Como. Si chiamava “L’Ordine”. Sono un milanese che ha passato vent’anni, tra i 5 e i 25, sulle rive del Lario, dunque in provincia, il sale d’Italia. Il I° luglio del ’47 ero già giornalista professionista. Nella primavera di quest’anno una medaglietta dell’ordine per i 50 anni di professionismo, e ti assicuro che tra gli altri colleghi medagliati e cinquantenari ero tra i più arzilli. Non capitava spesso nemmeno allora di entrare in giornalismo a ventun anni. All’“Ordine” eravamo in quattro, e facevo un po’ di tutto, ovviamente, soprattutto cronaca nera e bianca. Anche un po’ di recensioni di film, ogni tanto. Recensì Paisà, parlandone bene (ride). Succede che nel ’49 mi licenziano. Passo nove mesi da disoccupato o, meglio, senza stipendio poiché collaboravo all’altro quotidiano comasco, “La Provincia”: teatro, cinema, libri, mostre d’arte, qualche articolo di cronaca locale. Nel ’50 trovo un posto a Milano, in un altro quotidiano cattolico: “L’Italia”, dove lavoro per due anni come redattore alle pagine provinciali. Raramente, approfittando delle vacanze o delle distrazioni del titolare della critica cinematografica, riesco a fare anche qualche recensione: Cronaca di un amore (1950) dell’esordiente Antonioni, per esempio. Finché alla fine del ’52 esce un nuovo quotidiano del pomeriggio, “La Notte”: fui promosso sul campo, sin dal primo giorno, critico del teatro di rivista. Si giocava a tutto campo, allora. A fare il successo della “Notte” contribuirono molto la pagina degli spettacoli e quella complementare del “Dove andiamo stasera?” dove per la prima volta su un quotidiano apparvero le famigerate “stellette” della critica, presto accompagnate dai “pallini” del successo di pubblico. Per nove mesi feci anche il vice di Biagi (e così mi firmavo) per il cinema. Recensivo più film io come vice che lui come titolare, ma in quel momento Enzo Biagi aveva il suo daffare come redattore capo del settimanale “Epoca”, appena uscito. Al festival di Venezia 1953 andai io, e da quel momento divenni titolare. Da ragazzo avevo due passioni: la letteratura e il cinema. Se mi guardo indietro, posso dire di essere un uomo fortunato: ho fatto coincidere presto uno di quei due amori col lavoro.

Morandini 2Il piacere della visione: doversi porre davanti a un film con un atteggiamento critico l’ha mai privata di qualcosa?
Sono cresciuto in provincia, a Como, città che non è mai stata culturalmente vivace come Bergamo, Pavia, Parma. Nel ’49 a Como fondai un Circolo del cinema. C’erano molte ragioni per farlo, non ultima quella che volevo vedere i film del passato. Il piacere della visione… è un discorso complesso. Parto da un esempio. Negli anni ’50 a Milano ci si incontrava spesso, tra colleghi, alla prima proiezione pomeridiana dei film nuovi. Incontravo Ugo Casiraghi dell’“Unità”, amico carissimo con cui poi lavorai nella supervisione del primo cinema d’essai italiano. Mi capitava di vedere con lui un film di Jerry Lewis o con Jerry Lewis (il suo primo film di regia è del 1960). A certe gag Ugo rideva come un matto, mentre io rimanevo in silenzio. Non che non mi divertissi anch’io, ma è una questione fisiologica: posso divertirmi moltissimo, ma non rido. Mi capita raramente. Poi, però, leggevo la sua recensione del film con Jerry Lewis, e non si capiva che s’era divertito. È soltanto un esempio, s’intende, ma fin d’allora mi ero posto il problema: come superare i filtri ideologici? Fino a che punto un critico ha il dovere di controllare la propria soggettività? È giusto rimuovere il piacere della visione? D’accordo: Casiraghi era comunista, un marxista di quelli veri, mentre io non lo ero. Di sinistra, è vero, ma di difficile collocazione. Qualche volta penso di essere un liberalsocialista un po’ anarchico: oggi, che si sposta tutto a destra, faccio figura di estremista perché non mi sono mosso! Ebbene, come critico, almeno nella misura in cui ne ero consapevole, mi sono sempre posto il problemi dei filtri ideologici. Facciamo un altro esempio: Samuel Fuller. Da quando alla mostra di Venezia del ’53 arrivò Mano pericolosa, Fuller era stato presentato come un regista di destra, reazionario, muscolare e un po’ fascista. Nel 1961 lascio “La Notte” per “Stasera”, altro quotidiano del pomeriggio, ma di sinistra, pendant del romano “Paese Sera”. Esce a Milano quel che per me ancor oggi rimane uno dei film migliori di Fuller: L’urlo della battaglia (1962). Lo recensisco in modo molto, molto positivo. E su “Cinema nuovo” di Aristarco, baluardo della critica marxista, si scandalizzarono. Già non avevano probabilmente digerito il fatto che su un quotidiano di sinistra avessero preso me, critico di “La Notte”. Per giunta elogiavo apertamente un film di Fuller. Uno scandalo. Mi bacchettarono con un corsivo anonimo al quale risposi con una letterina troppo ironica perché potessero capirla. L’umorismo non era il loro forte.

È possibile giudicare serenamente un cinema ideologicizzato? O semplicemente distinguere destra da sinistra?
Forse per ragioni d’età, ma, nonostante la confusione che regna oggi, so ancora distinguere tra destra e sinistra, almeno in certi campi. Dipende dai livelli, però. Sopra un certo livello mi rifiuto di discutere in termini di destra e sinistra. Nel cinema hollywoodiano che conta, per esempio: che m’importa di stabilire se Ford o Hawks siano o no di destra? È di destra o di sinistra Kubrick? E Altman, Coppola, Abel Ferrara, Scorsese dove li mettiamo? Passiamo in Francia. Resnais è sempre stato un uomo di sinistra: Notte e nebbia (1956), Hiroshima mon amour (1959), La guerra è finita (1966). Ma ha diretto anche L’anno scorso a Marienbad (1961) e Smokin – No smoking (1993). Sono film di sinistra? Godard cominciò con film anarchici di destra (Le petit soldat, 1960, per esempio) e dieci anni dopo diventò maoista. Come la mettiamo con Truffaut? L’alternativa destra-sinistra si riferisce ai contenuti o anche alla forma? Comunque credo nella distanza critica, non ideologica.

Morandini 3Va al cinema con amici? Discute con loro dei film visti?
Al cinema vado solo o in coppia, quasi sempre con mia moglie, raramente in gruppo. Certo che discuto con gli amici, ma quasi sempre a botta fredda. Non ho mai fatto presse parlé, anche perché non sono tanto bravo a parlare. Anche ai festival raramente scambio opinioni con i miei colleghi all’uscita da un film. Non voglio farmi influenzare né influenzare gli altri, soprattutto quando si esce da un film che mi ha intrigato, colpito, sorpreso. In quei casi ho bisogno di una fase di riflessione, e voglio farla in solitudine prima di scrivere. Negli altri casi posso limitarmi a un sí o un no, mi piace o non mi piace. Per quel che ricordo, una volta sola sentii il bisogno di scambiare impressioni e idee, e trovai la persona adatta come interlocutore. Fu nel 1959 quando a Cannes si vide Hiroshima mon amour. E l’interlocutore era Casiraghi. Un critico di una generazione successiva non può immaginare l’impressione che a molti fece quel Resnais che, dieci anni dopo, rivedendolo per la terza o quarta volta, mi sembrò di una semplicità straordinaria. Non in quel giorno di maggio del ’59. Non fui sconvolto da À bout de souffle, ma da Hiroshima mon amour che mi sembrò un film libero come può esserlo un romanzo. Dieci anni dopo era un film trasparente, ma in mezzo c’erano stati gli incontri con i film nuovi degli anni ’60.

Guardando a ritroso, riconosce errori di valutazione su certi registi e sui loro film?
Secondo me sono più gravi le sottovalutazioni che le sopravvalutazioni. Ritengo più grave – nel mio mestiere ma anche nella vita di ogni giorno – sbagliare per difetto che per eccesso, per avarizia che per generosità. Ovviamente anch’io ho commesso errori di questo tipo. Qui bisognerebbe parlare dei rapporti tra espressione e comunicazione. Forse dipende dal fatto che, tirate le somme, sono un giornalista prima di essere un critico. Il primo dovere di un giornalista è saper comunicare, no? Se poi riesce a esprimersi, tanto meglio. In termini diversi, il problema si pone anche per l’artista. Il suo primo dovere è esprimersi, ma non può trascurare la comunicazione, ossia il rapporto col pubblico, con lo spettatore. Diffido dei film che sono “contro” il pubblico, per principio. O forse sono soltanto più esigente. Fossi costretto al gioco della torre, tra Truffaut e Godard, butterei giù Godard. Estremizzo, è chiaro, ma , secondo me, il problema critico dell’ultimo decennio è la svalutazione eccessiva dei film ben costruiti. So anch’io che è una vecchia storia, si ripete in letteratura da duecento anni: classici contro romantici. Se si va contro il pubblico, o si è a un livello molto alto – come Tarkovskij, per esempio – o è meglio lasciar perdere. So benissimo che Lo specchio (1974) è un film per pochi, e io faccio parte di quei felici pochi! Il mio compito di critico è di far aumentare il numero di quei pochi.

Avrà delle antipatie…
Ne ho tante, e non le nascondo. Tinto Brass o Zeffirelli, tanto per fare dei nomi, per non scendere al livello dei Vanzina. Anche in questi casi, però, seguivo un criterio etico: mi astenevo. Dopo due o tre stroncature consecutive, lasciavo il compito di recensire il nuovo film al mio socio Silvio Danese. Insomma, evitavo quel che poteva sembrare un accanimento critico. E risparmiavo il mio tempo. Oltre alle antipatie esistono le ottusità. C’è un regista che ho amato subito, sin dall’inizio: Marco Ferreri. Eppure, di fronte al suo Diario di un vizio (1993), io, ferreriano della prima ora, sono rimasto chiuso. Non mi è piaciuto, non l’ho capito. Le chiamo ottusità provvisorie. Vai a vedere un film e per ragioni tue private (fisiologiche?), lo vedi “male”. Magari sei costretto a scriverne subito, non hai il tempo di rivederlo, ma sai che l’hai visto male. Il guaio è quando non lo sai.

Morandini 6Come si comporta con i film degli amici o dei registi che conosce?
Occorre fare una distinzione tra i critici romani (intesi come critici che abitano a Roma) e gli altri. Io sono un critico di frontiera, per esempio. Abito a 50 km. da Chiasso, (ride), dunque ho meno occasione di frequentare la gente del cinema: produttori, sceneggiatori, registi, attori ecc. Detto questo, considero l’ambiente del cinema italiano romanocentrico un cortile di merda. Puoi scriverlo: un cortile di merda, per intrallazzi, ruberie, omertà mafiosa, raccomandazioni di partito o di corrente, meschinità, gelosie, invidie, politica per bande. È di una corruzione almeno pari a quella di tutto il resto dell’Italia. Il guaio è che, pur vivendo a Milano, questa corruzione mi è più evidente. Sono pochi, pochissimi i registi che posso definire come amici: Bertolucci (tutti e due), Luigi Faccini, Nichetti a Milano, Olmi, Vincenzo Cerami tra gli sceneggiatori. Potrei aggiungere Valerio Zurlini e Gianni Amico, ma se ne sono andati. Per altri può esserci stima e una certa confidenza. Per Gianni Amelio, per esempio, ho una stima grandissima, anche a livello personale, come per De Seta, così come ho stima e confidenza con Marco Tullio Giordana, Emidio Greco, lo stesso Benigni, Bellocchio. Nel 1997 a Venezia diedero a Bertolucci il premio Pietro Bianchi. Poiché di Bianchi sono il successore sul “Giorno” e di Bernardo sono amico, il Sindacato Giornalisti Cinematografici mi chiese di fare un discorsino prima della consegna del premio. Parlai anche del problema che si pone al critico quando deve giudicare il film di un autore amico. Può capitare che si scrivano sul film riserve, qualche dissenso. I casi sono due: se i due sono veramente amici, continuano a esserlo, magari dopo un periodo di silenzio da parte del ferito; se rompono i rapporti, non erano veri amici. Nel primo caso, però, può rimanere un’ombra, paragonabile a quella di un tradimento tra marito e moglie. Appartiene al passato, può essere stata metabolizzato, il tradimento, ma l’ombra resta. Non è un gran problema, comunque. Se ho riserve da fare sul lavoro di un amico, cerco di scriverle in maniera più gentile. Tutto qui. C’è un altro rischio, invece. Se si conosce bene un regista, e gli si vuol bene, il rischio, per il critico è di scambiare le intenzioni per risultati.

Questi erano gli amici. E, invece, le polemiche con occasionali “nemici”?
Polemiche? Le ho avute più a voce che per iscritto, ma molte le ho dimenticate. Magari non so perdonare, ma dimentico spesso. Ebbi una polemica scritta con Alberto Bevilacqua, strascico di un duro attacco che gli feci da Venezia nel 1985 quando fu messo in concorso La donna delle meraviglie. Non replicò subito. Aspettò un’altra occasione per mandarmi una lettera oltraggiosa. Non aveva tutti i torti, però: la mia era stata un’invettiva. Ebbi una polemichetta in pubblico con Tinto Brass. A proposito di un suo film scrissi sul “Giorno” che mi aveva fatto venire la tentazione – come si ha voglia ogni tanto di fare con certi bambini – di mettere il regista nella condizione di non nuocere. Apriti cielo! Brass mandò una lettera al giornale accusandomi di voler limitare la sua libertà d’espressione e di avere auspicato la sua messa al bando. Gli risposi che avevo commesso uno sbaglio nel ricorrere all’ironia sebbene mi meravigliasse il fatto che non fosse stata capita da chi, come Brass, si dava tante arie di trasgressivo, ironico, caustico. Eppure conoscevo la regola: non usare mai l’ironia quando si scrive sui giornali perché c’è il rischio che un lettore su due prenda alla lettera quanto hai scritto. Se scrivessi per iperbole antifrastica e ironica, che Pieraccioni è più grande di Chaplin, sicuramente qualche lettore si scandalizzerebbe.

Morandini 4Ha scritto che le piace essere invaso dai film, non evadere grazie ai film… cosa rende buono un film?
Al più alto grado, come per certi libri, un film dovrebbe cambiare lo spettatore. Uno vede un film e ne esce cambiato nel senso che ha ricevuto tanto che non è più la stessa persona. È un po’ un paradosso letterario, ma ha un suo fondo di verità. Sai, mi tengo sempre sul paragone con la letteratura o con la poesia: i film per il 99% sono in prosa però ci sono anche quelli di poesia. Per cui un film ti può emozionare, ti può dar da pensare, porti delle domande, anche perché credo che l’arte in generale ponga delle domande, non dia delle risposte. Anzi, sono i film che danno delle risposte che sono discutibili. Significa che sono “a tesi”, in fondo in funzione di un programma, politico, civile… o un programma pornografico (ride). Insomma, film che subordinano la loro autonomia di prodotto artistico a qualche cosa d’altro.

Non ha mai provato la tentazione di passare dall’altra parte della barricata?
La questione va divisa in due parti, una autobiografica ed una più generale. Il primo libro di cinema che ho posseduto, mi fu regalato da mia madre quando avevo quattordici quindici anni e purtroppo è un libro che è andato perso negli anni di guerra. Un libro pubblicato da Bompiani, l’autore era Seton Margrave, ma non ricordo più il titolo. Fu un regalo di compleanno di mia madre e mi ricordo ancora la dedica: “a Morando che vuole diventare regista”. C’è stato anche un momento a guerra finita, credo nel ’47, in cui andai a sostenere un esame di iscrizione al Centro Sperimentale – facevo già il giornalista – e non fui ammesso. Ho avuto l’occasione di collaborare alla sceneggiatura di un altro, ma sono sfumate. Una volta è stato quando il mio amico Gianfranco Bettetini m’invitò ad andare ad Alba per conoscere Beppe Fenoglio perché c’era in ballo il progetto di un film su soggetto suo, tra l’altro non sulla guerra partigiana, ma ambientato nelle Langhe del dopoguerra. Andai due volte almeno ad Alba e conobbi Fenoglio. Passammo delle bellissime ore assieme. Si parlò pochissimo del film da fare (ride). Si parlò molto delle Langhe, del vino e poi sei mesi dopo Fenoglio s’ammalo.

E ci sono film che avrebbe comunque voluto fare?
Ogni tanto, una volta ogni due o tre anni, mi succede o di leggere un libro o di vedere un film che mi piace tanto e mi piace in un modo particolare che mi dico che questo è un film che avrei voluto fare io. Non chiedermi titoli perché non me li ricordo più! È un pensiero che hanno in molti, credo. Non è molto profondo!
(Milano, 24/7/98 e Levanto, 4/8/98)

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