Enrico Rossi – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 30 Apr 2025 21:35:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Gli archivi pongono domande, gli armadi le ripongono https://www.carmillaonline.com/2024/03/15/gli-archivi-pongono-domande-gli-armadi-le-ripongono/ Thu, 14 Mar 2024 23:05:29 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81684 di Luca Baiada

Daniele Biacchessi, Eccidi nazifascisti. L’Armadio della vergogna, prefazione di Bruno Manfellotto, Jaca Book, Milano 2023, pp. 187, euro 18,00.

 

Viene voglia di parlar bene, di un testo così convinto, così animato da passione. Si dà ragione volentieri a una posizione ben schierata. Ma che fatica bisogna fare, per superare inciampi e confusioni.

Nel risvolto di copertina iniziale: «Biacchessi riapre i fascicoli, li confronta con le carte di vecchi e nuovi processi, incontra testimoni, familiari delle oltre 15mila vittime, magistrati, avvocati, segue le tracce degli assassini rimasti di fatto impuniti, ricostruisce un mosaico composto da verità celate». Con questo [...]]]> di Luca Baiada

Daniele Biacchessi, Eccidi nazifascisti. L’Armadio della vergogna, prefazione di Bruno Manfellotto, Jaca Book, Milano 2023, pp. 187, euro 18,00.

 

Viene voglia di parlar bene, di un testo così convinto, così animato da passione. Si dà ragione volentieri a una posizione ben schierata. Ma che fatica bisogna fare, per superare inciampi e confusioni.

Nel risvolto di copertina iniziale: «Biacchessi riapre i fascicoli, li confronta con le carte di vecchi e nuovi processi, incontra testimoni, familiari delle oltre 15mila vittime, magistrati, avvocati, segue le tracce degli assassini rimasti di fatto impuniti, ricostruisce un mosaico composto da verità celate». Con questo sunto non si comincia nel modo migliore: secondo l’Atlante delle stragi i morti sono ventitremila, ma l’Atlante è inadeguato e probabilmente il numero effettivo è intorno a trentamila. È vero, però, che quel mosaico impegna l’autore da anni, nel solco di un lavoro che comprende Il paese della vergogna (Chiarelettere 2007) e I carnefici (Sperling & Kupfer 2015).

È da respingere l’impressione che Biacchessi, come una certa parte del mondo intellettuale, abbia pubblicato più volte lo stesso libro rimescolando i materiali, rispolverando abiti di scena. Esclusa questa ipotesi, è giusto pensare che abbia sempre bisogno di affinare il suo approfondimento, che desideri farlo crescere, ma che nel frattempo ci voglia mettere a parte di dati importanti, senza tenerli in serbo per quando saranno nella forma definitiva. Ci considera di casa e non fa complimenti, non perde tempo ad abbottonarsi la giacca prima di venire in salotto. Bene, allora, che arrivino spunti preziosi anche per chi frequenta già il tema. Qualche esempio.

L’intervista televisiva a Erich Priebke in Argentina, con risonanza internazionale, che apre al nuovo processo sulle Ardeatine, è del 1994, ma esiste un libro precedente, El pintor de la Suiza argentina[1], e a distanza di molto tempo dall’intervista l’emittente riconosce che la trasmissione ha un debito nei confronti del volume.

Poi. Joachim Peiper è un nazista colpevole del massacro di Boves; per quello la giustizia non lo disturba; per un altro, commesso in Belgio, è condannato ma liberato già nel 1956; però, dopo fughe e cambi di nome tra Francia e Germania, nel 1976 Peiper lascia li mal protési nervi nell’incendio della sua casa, assaltata con bombe da sconosciuti.

Ancora. Nell’ottobre 1959 il magistrato militare Massimo Tringali va all’ambasciata tedesca a concertare il sabotaggio della giustizia sulle Fosse Ardeatine; Herbert Kappler è già condannato e incarcerato, ma sono noti almeno altri dodici criminali e il magistrato suggerisce i passaggi tecnici per l’insabbiamento[2]. Il seguito del processo non si farà. La collaborazione di Tringali, strisciante all’ambasciata per ostacolare la giustizia e tradire il suo paese, è apprezzata dall’ambasciatore, che scrive a Bonn: «Mi unisco alle motivazioni di questa richiesta così piena di riguardo…». Cioè: il magistrato militare italiano anticipa così bene ciò che giova alla Germania, che basta prendere la trama preparata da lui e trasmetterla al dicastero tedesco. Questa storia oscena ha una particolarità: tra i dodici – oltre a Priebke e Hass, che saranno condannati negli anni Novanta – ci sono Hans Keller e Kurt Winden, a loro volta, durante l’occupazione di Roma, magistrati militari. Dopo la guerra Keller farà carriera nel mondo giudiziario, Winden in quello bancario, entrambi resteranno impuniti.

I contatti di Tringali con l’ambasciata sono diversi da quelli – Biacchessi non ne parla – di un altro magistrato, Marco De Paolis, procuratore generale militare in appello, che nel 2021 riceve dalle mani dell’ambasciatore un’alta onorificenza tedesca in una cerimonia ufficiale. Tringali commette un crimine e De Paolis, sessant’anni dopo, certamente no. Eppure, le ombre dei contatti segreti o i riflettori della cerimonia accompagnano la mancata giustizia, allora e adesso, segnando un prima e un dopo, un passaggio attraverso tempi e contesti che sottolinea la stratificazione della società dello spettacolo.

Insomma, materiali interessanti ce ne sono: Biacchessi lavora sodo e, visto che ce la mette tutta, bisogna perdonargli le poche inesattezze e versioni superate[3].

L’ammirazione per Franco Giustolisi, il giornalista che rese nota sulla stampa nazionale la presenza dell’archivio con le stragi nazifasciste, percorre tutto il libro e va condivisa. Altro tema è il Premio Giustolisi, ricordato con entusiasmo dall’autore e da Bruno Manfellotto: il premio ha dato riconoscimenti a personalità, per lo più appartenenti al circuito chiuso che ha successo nella cultura e nella comunicazione, ma purtroppo non risulta che li abbia dati per ricerche nuove e originali sulle stragi.

Quanto al ruolo di Giustolisi nell’emersione dell’archivio – poi chiamato Armadio della vergogna per una scelta felice che si deve a lui – la questione è affrontata male. Non si tratta di Biacchessi ma della prefazione di Manfellotto, L’ostinazione della memoria, quando ricorda il giornalista:

In [Franco Giustolisi] si aggiunse, come chiamarla?, una certa ostinazione della memoria che completò e arricchì quella sua originaria febbre per la verità. Accadde quando nell’estate del 1996 scoprì che a Roma, in una stanza della Procura militare adibita a cancelleria, giaceva un vecchio armadio dimenticato, addossato al muro verso il quale erano state rivolte le ante: perché a nessuno venisse la tentazione di aprirlo. Una rozza barriera. Evidentemente studiata per nascondere qualcosa. E naturalmente Franco lo aprì e lì dentro trovò quasi 700 dossier e un grande registro con più di duemila notizie di reato che documentavano puntigliosamente crimini efferati commessi dai nazisti e dai loro alleati fascisti nel terribile biennio 1943-’45.

A parte i dettagli (le ante, il muro eccetera), discutibili e non decisivi, va detto: non è stato Giustolisi, a scoprire l’archivio, né ad aprirlo. L’archivio fu rifrequentato a partire dal 1994, l’opinione pubblica rimase all’oscuro, lui ne scrisse sulla stampa nel 1996. Forse non ci si rende conto delle conseguenze di attribuire a qualcuno ruoli iniziali, determinanti, propulsivi: se Giustolisi, lui, avesse riaperto l’armadio nel 1994, ci si dovrebbe chiedere come potesse conoscerlo prima degli altri e perché sino ad allora non l’avesse riaperto.

Proprio la riemersione dell’archivio, quella iniziale nel 1994, è un punto di frizione. Biacchessi è documentato e riporta dati noti ma che si rileggono volentieri: soprattutto dichiarazioni di magistrati e funzionari. Il fatto è che tutto questo è presentato senza offrire a chi legge una riflessione più profonda, neanche a livello dubitativo.

L’autore collega la riemersione – è una versione tralatizia – a ricerche di documenti fatte nel 1994 dal procuratore militare di Roma Antonino Intelisano, sia occasionate dal processo Priebke sia connesse alla visita di una «giovane ricercatrice» piuttosto misteriosa (neanche la Commissione bicamerale è riuscita a identificarla); ricerche seguite, poi, da reazioni e attivazioni nella sede centrale della giustizia militare. Il volume non prova a sciogliere l’intreccio.

Altra questione su cui si resta a mani vuote è quella dell’archivio di Giustolisi. È difficile pensare che un giornalista di quella caratura lavorasse senza un buon archivio personale. Anni fa è stata fondata la onlus Archivio Franco Giustolisi, e nel 2020 l’allora presidente della Toscana, Enrico Rossi, ha annunciato il trasferimento dell’archivio Giustolisi a Firenze, con supporto della Regione per riordinarlo e fare un centro studi; sede, il vecchio ospedale di San Giovanni di Dio[4]. Non se ne sa di più, e il libro non indica l’archivio del giornalista tra le numerose fonti consultate, italiane ed estere.

In fondo questi due passaggi, questi ologrammi impalpabili che anche i migliori osservatori quasi sempre trascurano, si collocano in due fasi importanti della storia dell’Armadio: prima un archivio emerge nel chiaroscuro di un ufficio e la notizia viene alla luce grazie a un giornalista; poi l’archivio di quel giornalista resta in una penombra senza corpo. Un archivio pubblico affiora dal buio alla luce, uno privato scivola dalla luce al buio, e in mezzo c’è un uomo che sa la cosa giusta al momento giusto.

Il volume è arricchito da un’intervista a Giustolisi fatta nel 2014, per interposta persona, dopo che la salute l’aveva abbandonato. Ecco il suo ricordo sull’origine della più alta, fra le strutture che si sono occupate dell’Armadio, cioè sull’origine della Commissione bicamerale istituita nel 2003:

Insieme a Massimo Rendina, allora presidente dell’Anpi di Roma, vero uomo e vero partigiano (capo di stato maggiore della 1ª Divisione Garibaldi, nome di battaglia «Max»), ci recammo più volte al Senato per sostenere l’opportunità di una commissione parlamentare d’inchiesta. Ma la destra, in particolare i fascisti, non ne volevano sapere. Poi, a parte le nostre insistenze, tutto cambiò all’improvviso. Il progetto della commissione fu varato, contemporaneamente fu istituita la giornata del ricordo per gli istriani e dalmati. Io sono un antipolitico di natura, di questo tipo di politica intendo, quella che sottobanco dice io do una cosa a te e tu dai una cosa a me. Comunque, i risultati della commissione furono completamente negativi, addirittura un autoceffone che si era dato il Parlamento.

Mettendo da parte ogni considerazione sulla moralità, si nota la convenienza, davvero: il Giorno del ricordo per un’inchiesta. La Commissione lavorò una tantum, chiuse nel 2006 e da allora le due relazioni prodotte non sono mai state discusse in aula; il Giorno del ricordo, invece, torna ogni anno e se ne parla. Come dar via un orologio a cucù per ricevere una sveglia ferma. Il giornalista si rese conto della trappola, dell’autoceffone, e non si diede per vinto:

Tentai altre strade. Cercai di parlare con Luciano Violante, che conoscevo bene anche se non c’erano ottimi rapporti tra di noi, ma il suo portavoce mi riferì: «Il presidente dice che si tratta di questioni di 50 anni fa». […] Cercai anche di parlare con Fausto Bertinotti, uno dei successori della presidenza alla Camera, verso il quale non ho mai nutrito un minimo di stima. Ma la sua risposta, così tranchant, mi lasciò di sasso: tramite portavoce mi fu detto che «dell’armadio della vergogna si era parlato anche troppo». Non ricordo la mia risposta, ma certamente non fu un inno per quest’uomo forse noto per le sue giacche di tweed.

Giustolisi si spense proprio nel 2014, a novembre, poche settimane dopo una sentenza della Corte costituzionale – tappa di una vertenza di rilievo internazionale – favorevole ai risarcimenti per le famiglie colpite dalle stragi[5]. Era anziano, stava male e forse neanche ebbe la notizia. L’autore, però, è al corrente della contesa in corso sui risarcimenti, perché cita la sentenza civile del Tribunale di Novara del 2022 sulla strage di Borgo Ticino; eppure non valorizza il tema. È un altro aspetto su cui il suo impegno si mostra rivolto nella direzione giusta, ma debole sulla tutela delle vittime, e quindi ancora con una bella strada davanti.

Il libro conclude: «Oggi il vero pericolo è che la storia possa essere riscritta non dal vincitore, ma da chi ha perso la guerra». Sì, ma c’è anche il pericolo che la storia la scrivano insieme, i vincitori e i vinti, o per meglio dire la scrivano parallelamente, contrapponendo posizionamenti opposti sulle medesime vicende, però senza effetti quanto alle conseguenze che quelle vicende hanno o devono avere. È ciò che può accadere se il lavoro culturale di impronta soprattutto memoriale – anche quello da apprezzare come il libro di Biacchessi – non tiene conto per intero delle vertenze non risolte e della giustizia non realizzata.

 

 

[1] Esteban Buch, El pintor de la Suiza argentina, Editorial Sudamericana, Buenos Aires 1991.

[2] Biacchessi cita Felix Nikolaus Bohr, L’indagine indesiderata. Una testimonianza di «politica del passato» italo-tedesca, 1959-1961, in «Contemporanea. Rivista di storia dell’800 e del ’900», XVI, n. 3 (luglio-settembre 2013), pp. 429-442, con trascrizioni di documenti, tradotti, e con segnature d’archivio.

[3] Per esempio. A p. 36 il golpe Borghese slitta dal 1970 al 1980, quando il fascista era già morto. A p. 39 la Germania del 1960 è divisa dal muro di Berlino, che sarà costruito nell’anno successivo. A p. 81 l’ordine di compiere la strage delle Fosse Ardeatine viene da Hitler, una tesi superata da anni.

[4] https://www.toscana-notizie.it/web/toscana-notizie/-/la-regione-ospiter%C3%A0-a-firenze-l-archivio-giustolisi.

[5] Corte costituzionale 22 ottobre 2014 n. 238.

 

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Questi vigliacchi non so’ a scorda’ https://www.carmillaonline.com/2021/08/22/questi-vigliacchi-non-so-a-scorda/ Sun, 22 Aug 2021 21:00:38 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=67588 di Luca Baiada

23 agosto 1944, nel Padule di Fucecchio, la palude interna più grande d’Italia. I tedeschi, guidati da fascisti italiani, commettono uno dei massacri più gravi e meno noti: 174 persone, la più piccola di quattro mesi. Malgrado i processi (tre dopo la guerra e uno in questo secolo), in concreto nessuno sarà punito e i parenti delle vittime non saranno risarciti. Resteranno a loro carico anche le spese per gli avvocati di parte civile, raccolte alla meglio in collette tra le famiglie. La strage, allora, le fece precipitare dalla [...]]]> di Luca Baiada

23 agosto 1944, nel Padule di Fucecchio, la palude interna più grande d’Italia. I tedeschi, guidati da fascisti italiani, commettono uno dei massacri più gravi e meno noti: 174 persone, la più piccola di quattro mesi. Malgrado i processi (tre dopo la guerra e uno in questo secolo), in concreto nessuno sarà punito e i parenti delle vittime non saranno risarciti. Resteranno a loro carico anche le spese per gli avvocati di parte civile, raccolte alla meglio in collette tra le famiglie. La strage, allora, le fece precipitare dalla condizione di modesti contadini a quella di lavoratori ancora più sfruttati, scaraventati in difficoltà ignote al loro mondo arcaico, lacerati da traumi che nel linguaggio dei loro giorni fuori del tempo non avevano neanche un nome.

Malgrado la vastità del crimine, il suo tratto particolarmente vigliacco (gli assassini girano intorno alla palude uccidendo nella zona di gronda, abitata da agricoltori e sfollati, ed evitando i partigiani), e il fatto che furono colpiti vari Comuni, ancora adesso pochi associano il nome di Fucecchio a questo fatto. Parlando di Fucecchio è più comodo pensare a Indro Montanelli, giornalista abile a sopravvivere in tutti i regimi, che nel ’47 seguì uno dei processi per il «Corriere d’informazione» e scrisse cose vaghe, per poi trascurare una vicenda che invece era rimasta impressa nelle carni di un’intera comunità.

Diceva bene Walter Benjamin, neanche i morti stanno al sicuro. La memoria è un arnese politico così ambiguo che è difficile ricordarsi quando sia arrivata, anche se è certo che non è sempre stata fra i numi tutelari, come oggi. Quei morti di Fucecchio, quasi tutti poveri (però c’erano la figlia di un gioielliere fiorentino di Ponte Vecchio, un paio di aristocratici e qualche possidente), negli ultimi anni sono diventati ombre cinesi manovrabili, protagonisti non interpellati di iniziative culturali, per lo più di dubbio gusto; sono finanziate con poca spesa dalla Germania, che si guarda bene dal risarcire i sopravvissuti e i familiari. Costa molto meno restaurare monumenti, fare discorsi, stampare libri come quello distribuito alla commemorazione due anni fa, con l’Ambasciata tedesca già in copertina, tanto per essere chiari.

Eppure ce ne sono ancora, di familiari: vivi e dolenti come allora, più di allora, perché un bambino conta su energie e aspettative che un anziano ha consumato. Un anziano ha visto prosperare gli eredi politici del fascismo, ha notato l’arricchimento dei collaborazionisti di allora, ha ascoltato le retoriche di circostanza di personaggi pubblici in cerca di un po’ di visibilità. Titolo felice, La tregua di Primo Levi; ma per le vittime delle stragi non è mai neanche cominciata, e i racconti dei più vecchi trascorrono ininterrotti dagli stenti della guerra alla strage e al peso di una vita, passando per le prepotenze dei fascisti da subito dopo la Liberazione.

Nel 2019 i familiari hanno creduto al presidente della Regione Toscana, Enrico Rossi. Proprio alla commemorazione di questa strage aveva ricordato la mancata giustizia da parte della Germania, e poi su un giornale: «L’Armadio della vergogna c’è. E il nostro paese non si è mosso come avrebbe dovuto. Perché le sentenze, contro i mandanti di quelle stragi, non sono state portate a esecuzione. È una vergogna, questa, che ci portiamo dietro, come Italia. E come Regione Toscana siamo disposti a fare ancora di più per arrivare a una degna conclusione. Lo dobbiamo alle vittime, ai superstiti e ai loro familiari». Ancora a fine 2019, su Facebook: «Metterò tutto il mio impegno per affiancare i familiari delle vittime delle stragi naziste nella loro richiesta di risarcimento alla Germania e verificare la possibilità di far costituire la Regione stessa. Ci incontreremo a breve per una risposta ufficiale». Bene per essersi accorto che l’Armadio della vergogna, l’archivio coi fascicoli sulle stragi rifrequentato a partire dagli anni Novanta, esiste; bene per la giustizia ancora possibile, quella economica. E quest’anno anche il nuovo presidente, Eugenio Giani, ha preso posizione.

Sempre nel 2019 un convegno in Senato, Stragi e deportazioni nazifasciste: per la giustizia e contro l’ambiguità, aveva offerto qualcosa di inedito, in Italia: nel Palazzo un incontro per mettere sulla graticola le conseguenze di crimini sprofondati nel Novecento, per giudicare la storia. Le vittime erano venute in torpedone da lontano, col vestito buono, la cravatta che senza non ti fanno entrare. Il viaggio a Roma, tutto per loro. Lì, nella sala Koch che è di tutti, un presidente emerito della Corte costituzionale aveva parlato con una franchezza lontana dal linguaggio curiale dei pochi: «Tutte queste tecnicalità che sono state opposte alle aspettative, alle speranze delle vittime – le formule giuridiche non danno nemmeno il senso di quanto siano gravi queste atrocità – non vorrei dire sviliscono, ma mettono una luce abbastanza fredda su tutte queste cose». Quel giorno, l’ex presidente della Consulta aveva messo il dito nell’occhio all’ipocrisia, alla condiscendenza nei confronti degli interessi di Berlino, indicando un’evoluzione necessaria in Italia e nel mondo: «Di fatto c’è il riconoscimento, nella coscienza della comunità internazionale, del valore dei diritti fondamentali della persona in quanto tale, senza divisa, senza conto in banca. […] I diritti fondamentali sono cresciuti, nella coscienza civile della comunità internazionale complessivamente considerata».

Quel giurista senza peli sulla lingua, Giuseppe Tesauro, da qualche settimana non è più con noi. L’impegno continua anche nel suo nome, la strada che ha indicato è in salita ma percorribile. Passa da dove meno te l’aspetti. Quest’anno un tribunale della Corea del Sud ha condannato il Giappone a risarcire le comfort women, le schiave sessuali dei militari nipponici durante la guerra mondiale. Donne che hanno fatto causa personalmente, anni fa, raccontando storie spaventose; nel frattempo sono morte e i crediti sono passati agli eredi. Certi argomenti del Giappone per non pagare somigliano, pensa un po’, a quelli della Germania; esecrazione, propositi, accademia: «Ribadiamo la nostra ferma determinazione a non ripetere mai più lo stesso errore, scolpendo per sempre questi temi nella nostra memoria mediante lo studio e l’insegnamento della storia», dice Tokyo. Siamo alle solite. Ma la sentenza coreana cita proprio quella della Corte costituzionale italiana del 2014, l’ultima scritta da Tesauro. Possibile che il buon lavoro fatto a Roma lo intendano meglio a Seoul che qui? In Corea si è capito che il diritto può cambiare: «La dottrina dell’immunità statale non è permanente né statica. Si evolve continuamente secondo i cambiamenti dell’ordine internazionale».

Se non si fa giustizia sui crimini nazisti, come si può chiederla per altri delitti di Stato? Non è diatriba sul passato. Riguarda il presente: Andrea Rocchelli, Giulio Regeni, Daphne Caruana Galizia, Jamal Khashoggi. E riguarda il futuro: il mai più che fa scattare gli applausi alle commemorazioni – suono beffardo, mentre si sa che le democrazie sbiadiscono e il potere è sempre più irresponsabile – ha il sottinteso di un salvacondotto a ripetere, magari in dosi limitate, studiate per il delitto esemplare, per la pedagogia del sangue. Rocchelli non documenti, Regeni non studi, Caruana Galizia stia zitta e Khashoggi si faccia i fatti suoi.

Un’altra attesa ha un sapore toscano. A febbraio 2020, a Montecitorio, c’è la cerimonia conclusiva del premio Giustolisi «Giustizia e verità» edizione 2019. Franco Giustolisi era il giornalista che si batteva per far conoscere l’Armadio della vergogna, era una penna battagliera che cercava di spezzare il silenzio. Alla cerimonia di nuovo Enrico Rossi, ancora presidente, annuncia il trasferimento dell’archivio Giustolisi a Firenze a cura della Regione; si tratta di renderlo accessibile, riordinarlo e trasformarlo in un centro studi. Rossi indica la sede, il vecchio ospedale di San Giovanni di Dio. La cosa è importante, e Giustolisi è mancato nel 2014.

Chissà se l’anniversario 2021 della strage del Padule si lascerà dietro qualche altra amarezza. Forse discorsi come la memoria attiva, la memoria proattiva, il lenimento. Magari parole come quelle che Ursula von der Leyen, ex ministra della difesa di Berlino e oggi presidente della Commissione europea, ha detto lo scorso luglio a Fossoli, per l’anniversario di un’altra strage, quella di Cibeno, 67 morti. Niente sulla giustizia ma toni a effetto: gli accadimenti insondabili, il sacrificio, l’abisso del male, linguaggio vertiginoso che non costa nulla. E anche qualcosa di imbarazzante: «Invece di combatterci, come abbiamo fatto per secoli, ora ci sosteniamo a vicenda di fronte alle avversità. Il governo italiano ha dato vita a un solido piano di recupero con investimenti e riforme, e l’Europa lo finanzia con oltre duecento miliardi di euro. I primi fondi, raccolti dall’UE, sono arrivati in Italia all’inizio del mese».

Combatterci per secoli? Se la presidente si riferisce ai tanti conflitti europei, non si capisce cosa c’entri il debito tedesco verso le vittime di strage in Italia. Se si tratta dei rapporti fra Italia e Germania, sembra di sentire certe dottrine correnti nel Risorgimento. Per esempio Cesare Balbo, nel Sommario della storia d’Italia che piaceva a Giuseppe Giusti e Massimo D’Azeglio, poneva l’inizio delle guerre d’indipendenza nella vittoria di Teodorico su Odoacre. Forzature, ma spiegabili, al tempo in cui si costruiva una base politico-culturale per l’unità italiana. Adesso quella lettura della storia diventa pazzesca: avvicina la Seconda guerra mondiale (con la Resistenza, un fatto che divide nettamente i due paesi) a una serie plurisecolare di guerre qualsiasi, com’è tipico del revisionismo. Un atteggiamento coerente, in fondo: nel suo documento alla vigilia dell’incarico continentale, Un’Unione più ambiziosa: Il mio programma per l’Europa – dove la parola ambizioso insiste come un tic –, von der Leyen aveva prefigurato una visione del mondo rigida ma rassicurante come il salottino di Barbie. Sullo sfondo c’era il sapere formattato offerto dalla risoluzione del Parlamento europeo Importanza della memoria europea per il futuro dell’Europa, uno scritto antistorico e insidioso dove facevano capolino la riconciliazione, la memoria, il mai più.

E poi, a Fossoli c’era proprio bisogno di far frusciare del denaro, commemorando una strage? Denaro, sì, ma non per gli aventi diritto, i familiari delle vittime; per l’economia italiana, da sostenere anche per il bene di quella europea, perché questo sta per quello, allo stragismo si rimedia con lo sviluppismo, e che si vuole di più. Denaro che non è tedesco, ma dell’Unione. Neanche David Sassoli, che accompagnava questa signora abile a mostrare una scarsella gonfia e non sua, ha fatto cenno ai risarcimenti; ha preferito un europeismo irenico, un compitino convenzionale. Sono un inizio esemplare del nuovo corso, un assaggio della Repubblica fondata sulla resilienza, von der Leyen e Sassoli alla loro prima visita insieme in Italia, proprio dove si commemora una strage di persone prelevate da un campo di concentramento; e fra loro c’erano antifascisti, partigiani, eroi.

Sentiamo ancora Tesauro nel 2019. Antefatto: a Trieste nel 2008 si svolse un incontro bilaterale Italia-Germania; c’era quella Merkel che adesso conclude un lungo periodo di brillante cancellierato, e c’era quel Berlusconi che ora vivacchia su glorie opache e che già nel 2008, arrivata la crisi, si affannava per restare in sella (dei due, i fatti dissero chi aveva più furbizia). Tesauro riassume: «Erano tutti a Trieste, a parlare di che cosa? Non si sa bene, però una cosa è certa: che hanno parlato anche di soldi, dati dalla Germania anche all’Italia». Il riparazionismo, cioè il finanziamento della memoria senza giustizia, lo smaschera senza riguardi: «Non dovete risarcire i danni alle singole vittime o ai loro eredi. Potete fare tutti i musei che volete, tutte le feste di paese e della memoria che volete, ma non dovete risarcire i danni alle vittime». Per lui è chiaro che questo non deve compromettere i risarcimenti e che qualcuno ha sbagliato: «Il governo italiano accettò in ginocchio e con entusiasmo questa soluzione, ma per le vittime non era una soluzione».

Aveva ragione Theodore Fenstermacher, uno dei pubblici ministeri a Norimberga, quando in una requisitoria sulla strage di Cefalonia, nel 1949 (The Hostages Trial), denunciò l’emotional fatalism. Fenstermacher, sui nazisti: « È questa filosofia del fatalismo emotivo che ha reso così vili e spregevoli le loro offerte di scuse della colpa individuale e collettiva». C’è chi ha espresso il concetto più alla svelta, e in musica. Dopo la guerra, in Valdinievole c’era un omino, faceva il barrocciaio. Non era istruito come Fenstermacher, girava col cavallo per i paesi e cantava una ballata trasmessa a memoria, Popolo se m’ascolti. Raccontava la strage: «Questi vigliacchi non so’ a scorda’…».

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