emilia – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 30 Apr 2025 21:35:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Qualcosa di meglio. Biografia partigiana di Otello Palmieri https://www.carmillaonline.com/2019/04/26/qualcosa-di-meglio-biografia-partigiana-di-otello-palmieri/ Thu, 25 Apr 2019 22:01:44 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=52257 di Alfredo Mignini ed Enrico Pontieri

[Dopodomani – 28 aprile 2019 – Otello Palmieri, Alfredo Mignini ed Enrico Pontieri presenteranno “Qualcosa di meglio. Biografia partigiana di Otello Palmieri” (Ed. Pendragon, 2019) presso il Centro Sociale Antenore Lanzarini di Stiore (Bologna). La pubblicazione del libro e la sua prima presentazione pubblica sono ulteriori tappe di un viaggio nato dall’incontro tra un partigiano esule e migrante e due ricercatori di storie e conflitti. Alfredo Mignini, già autore di Un lavoro da non sfruttare nessuno, ed Enrico [...]]]> di Alfredo Mignini ed Enrico Pontieri

[Dopodomani – 28 aprile 2019 – Otello Palmieri, Alfredo Mignini ed Enrico Pontieri presenteranno “Qualcosa di meglio. Biografia partigiana di Otello Palmieri” (Ed. Pendragon, 2019) presso il Centro Sociale Antenore Lanzarini di Stiore (Bologna). La pubblicazione del libro e la sua prima presentazione pubblica sono ulteriori tappe di un viaggio nato dall’incontro tra un partigiano esule e migrante e due ricercatori di storie e conflitti. Alfredo Mignini, già autore di Un lavoro da non sfruttare nessuno, ed Enrico Pontieri, hanno incontrato Otello Palmieri e attraverso le conversazioni, le fotografie e i ricordi si sono immersi, con il benestare del protagonista, nella sua vita rocambolesca. Si sono così ritrovati a combattere i fascisti, a scappare dall’Emilia alla Cecoslovacchia incolpati dell’uccisione dell’oste fascista di Oliveto, a migrare in Svizzera per sbarcare il lunario e in molte altre storie personali e collettive.. in un gioco di specchi tra passato e presente, politica e sopravvivenza, che solo all’apparenza può sembrare anacronistico. Chi è nei dintorni non perda l’occasione di ascoltare le storie di Otello e chiedere ad Alfredo ed Enrico perché storie come queste dovrebbero essere raccontate. Intanto, a seguire, un assaggio del loro lavoro. ss].


Crespellano, sabato 4 marzo 2017, mattina

Otello è titubante, restio. «Io penso che è già tardi… ai giovani non c’interessa più!». Rincara: «sono cose che io penso che non interessano più alla gente». Ecco, pensiamo noi, ci siamo di nuovo. Il novantenne che ha fatto il partigiano, la ferocia che si tramuta in febbre del fare, la Repubblica e la Costituzione, i giovani che non capiscono. Un copione già scritto. Forse. Ma intanto oscilla, apre qualche spiraglio: «le sapevo raccontare meglio», invece adesso la memoria, dice lui, non lo supporta più e «non vorrei che perdeste del tempo per niente». Sorridiamo e pensiamo a una prima domanda per rompere il ghiaccio. Come se non aspettasse altro, però, Otello inizia a raccontare senza preamboli e senza aspettare le domande. Riprende i fili di un discorso interrotto anni e anni fa. La sua è la storia di «quelli che erano incolpati per i fatti del-del-del… di Togliatti! Quando hanno attentato a Togliatti». Sembra un messaggio in codice, il suo modo di mettere le carte in tavola: sono uno che non sta lì a girarci intorno. E noi giù di penna, quasi mandiamo di traverso il caffè per trattenere qualcosa del suo slancio.

Altro che novantenne, ci diciamo con uno sguardo, questo qui va spedito.

Gli appunti si riempiono di righe frettolose, sigle, segni e numeri storti. Un enorme punto di domanda campeggia accanto alla scritta «14 luglio 1948». Quella mattina Antonio Pallante si presentò all’uscita di Montecitorio ed esplose quattro colpi di pistola contro Palmiro Togliatti, capo del Partito comunista e punto di riferimento quasi indiscusso per chiunque avesse qualcosa per cui battersi. Per la base, e forse anche per i dirigenti, era «il Migliore». Dalle risaie e dai campi occupati per protesta e necessità a lui s’intonava, riadattato, un vecchio canto di lotta: L’Italia l’è malada / Togliatti l’è ’l dutùr. È per questo che quando si diffuse la notizia che Ercoli era più morto che vivo, lo sciopero fu la risposta immediata. Generale, spontaneo, rincorso dal sindacato. Di quelli che basta un niente per fare l’insurrezione. I giorni seguenti furono fra i più incandescenti della storia repubblicana, ma è chiaro che la pentola bolliva da un pezzo e le revolverate di Pallante non furono altro che un modo per sbarazzarsi del coperchio.

Una lunga freccia solca tutto il foglio e termina sulla parola: «Praga». Dal resto s’intuisce però che parliamo della fuga, non tanto della meta. L’espatrio suo, di Filippo e di Ivo – ma anche, scopriamo, di tale Nardi di Borgo Panigale – è ridotto a una sequenza di pallini ripassati una, due, tre volte. Primo «la Bastèrda (bosco vicino a Oliveto – andarci con Mario)», secondo «la Muffa», quindi «Portonovo (Medicina)», poi «via Fiume 15, Bolzano» e infine «San Candido (Dolomiti)».

Tornano e si moltiplicano i punti interrogativi: «Attentato a Togliatti – Bologna??». Siamo perplessi, è evidente. Sentirlo insistere sul 14 luglio ci sembra strano. Che la febbre dell’insurrezione abbia colpito anche le colline bolognesi? E tutti quei libri che ci spiegano che qui il partito è sempre stato il primo della classe, allineato, fatto di militanti disciplinati e quadri lungimiranti? Non erano quelli delle feste dell’Unità, della “falce e tortello”? Mica è l’Amiata!, sussurriamo appena, mica son le fabbriche milanesi, ma non osiamo interrompere. Il flusso di annotazioni sovverte le leggi della cronologia, gli stessi eventi tornano con una circolarità bizzarra, inspiegabile. […]

Otello è un fiume in piena. Regala frammenti, aneddoti, battute. Esplode in risate inaspettate, soprattutto raccontando delle volte in cui sarebbe dovuto morire e non è morto, durante la guerra, sempre col ritornello «e anche lì son stato fortunato». I suoi ricordi si accavallano a quelli di Mario, che ricompone i pezzi dei racconti di suo padre, o a Fabrizio che ci spiega la sua idea del libro che sarà. Noi per lo più ascoltiamo, una parola ogni tanto, a metà fra la voglia di entrare in confidenza e quella di vestire i panni dei professionisti. Dopotutto il progetto è solo abbozzato e a giocarsi male la prima impressione si fa presto.

L’ora che segue è un concentrato di tutte le storie che avremmo ascoltato in un mese di incontri, caffè e registratori. Ne emergono appena tratteggiati i contorni, si va formando una mappa di luoghi e spostamenti, sempre rocamboleschi. Man mano i toponimi si fanno oscuri e le due versioni di appunti sono più un intralcio che un’astuzia. Confini attraversati sempre di notte e sempre a piedi, passaggi in moto da una casa di compagni all’altra, paesi frammentati in zone d’occupazione. E poi uomini cui affidarsi sulla base di curiosi segni di riconoscimento, polizie occhiute che interrogano e controllano. In fondo al tunnel, České Budějovice e, finalmente, Praga. Lì c’è la scuola di partito, il lavoro agricolo delle “brigate”. Poi, i modernissimi impianti al confine con la Germania. Da Bologna notizie poco rassicuranti, il processo in stallo e gli «avversari» sempre pronti a screditare: «sono andati a rubare in qualche posto – a me, me l’ha scritto mia mamma perché io ero già in Cecoslovacchia – [e] un signore che abitava a Oliveto, al gîva par al paäiṡ: “Ah, ma i an da magnêr quî ch’i îran là int la Bastèrda[1]», dovranno pur mangiare quelli nascosti nel bosco, «la gente a Oliveto ci credeva […] banditi». E soprattutto li credeva a due passi da casa, nei rifugi partigiani.

Quelli, invece, stavano oltrecortina.

Spuntano finalmente le due valigie da dietro al mobile. Le sbirciavamo con la coda dell’occhio dal nostro arrivo, senza azzardarci a chiedere. Otello non ne è geloso, le apre e sparpaglia il contenuto sul tavolo. Saltano fuori i quaderni, pagine fitte con gli accenti sulle consonanti, testi brevi e termini copiati in sequenza, qualche disegno geometrico. «1953» si legge sull’etichetta sbiadita di un quaderno nero. Ci fiondiamo a sfogliarlo, magari troviamo qualcosa del 5 marzo. Cinque tre cinquantatré, il giorno in cui i comunisti di tutto il mondo piansero la scomparsa di Iosif Vissarionovič Džugašvili, al secolo Stalin.

Ma Otello è preso da altro. Legge, commenta, precisa i ricordi, aggiunge particolari e traduce all’impronta dal ceco. «Lavoro individuale, vedi? Se lo devo dire [non riesco], però se lo vedo scritto…» e ride. «È una lingua difficilissima, ci sono due-tre consonanti insieme» e non si sa come pronunciarle. Per impararla, quelli con la quinta elementare come lui avevano dovuto ripartire dalla grammatica italiana, riprendere la mano con gli esercizi. Ed è così che lui ha contratto la malattia della lettura e oggi legge tutto ciò che gli capita a tiro, come allora girovagava per Praga in cerca di biblioteche e vecchi volumi nella lingua ritrovata. A Bolzano, da fuggiasco, scoprì la Commedia, versi d’esilio che hanno percorso i secoli per acciuffarlo poco prima che passasse la frontiera. Le valigie riportano a galla i libri, per lo più manuali e qualche romanzo. Volumi che venivano «da casa», arrivati dall’Italia dentro plichi e doppifondi che i dirigenti di Botteghe Oscure, o i connazionali col passaporto in regola, recapitavano all’ufficio di via Opletalova, appena dietro piazza San Venceslao.

Casa. Passa mai la voglia di tornare a casa? Forse sì. Quando si va nel socialismo realizzato, quando si tocca con mano l’eden. «A dire che si era comunisti, noi eravamo orgogliosi, perché eravamo in un paese… quello che volevamo noi secondo il nostro…» e al diavolo se «invece non era così», se «non era il paradiso che pensavamo noi»! Comunque meglio dei processi ai partigiani e dei fascisti liberi di riprendere le posizioni di un tempo.

O no?

Certo Oliveto, o Bologna che sia, è qualcosa di diverso, è casa. E allora quando gli dicono che il processo è chiuso, lui non esita: «voglio andare a casa. Mé a vói andèr a vàdder mî pèdar e mî mèdar[2]… la mia ragazza». Ci guarda e ride. Ma certo, come si fa a non capire? Meglio il buongoverno del sindaco Dozza a casa tua che una vita di sradicamento sotto il Patto di Varsavia. Ma allora perché nel ’54 non fa in tempo a tornarci, in quella casa, che se ne va in Svizzera?

Mario insiste sulle relazioni forti che legano i partigiani fra loro e alla loro terra, ci suggerisce l’inevitabilità del ritorno anche per chi ha scelto di invecchiare altrove. «Sì, sì…», fa Otello, «io sono rimasto legato qui, sennò non sarei tornato». Quindi la Svizzera è ancora meglio del Pci e di Giuseppe Stalin? cosa sta cercando di dirci?

[…]

Arriva il momento di salutarci e siamo frastornati. Una matassa di appunti fitti ma ci sembra di non capire nulla. Scorgiamo almeno tre vite – la lotta armata partigiana, l’esilio oltrecortina e l’emigrazione nel bernese – che solo in parte si spiegano l’un l’altra. […] Otello legge, impara, scrive, torna, si sposa, riparte, affronta un lutto terribile. Otello sceglie. E questa storia dell’esilio accettato con muta rassegnazione non convince, elude tutte le domande che affollano i nostri pensieri. È probabile che sappia, ma il suo non è martirio, questo è chiaro. Otello tirava (tira?) dritto, credeva (crede?), è determinato. Quelli incolpati quando hanno attentato a Togliatti, ripeteva. Ma che c’entra il 14 luglio 1948 con l’uccisione di Mignani, più vecchia di quasi tre anni? Quello che ci sembrava un classico regolamento di conti con gli (ex?) fascisti perde centralità nel suo racconto, scolora di fronte al resto. Come lo spieghiamo nel libro?

«Non lo so» fa uno di noi due.

«Sarà il caso di tornare su a Crespellano a chiederglielo» fa l’altro mentre ci fiondiamo sulla provinciale in direzione est.

[1]     Diceva per il paese: “Ah, ma devono mangiare quelli, che saranno là, alla Bastèrda”.

[2]     Voglio andare a trovare mio padre e mia madre.

]]> Il fiato del drago https://www.carmillaonline.com/2018/10/01/il-fiato-del-drago/ Mon, 01 Oct 2018 21:30:00 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=48957 di Giovanni Iozzoli

Oh, il mistero arcano della creazione di valore. Oh, il mistero ancora più occulto della creazione di coscienza: i produttori di valore davanti all’incantesimo della merce, della ricchezza astratta, della potenza produttiva dispiegata. E della loro indecifrabile condizione dentro questa fantasmagoria.

Anche quest’anno, nonostante una discreta repulsione, sono stato arruolato tra i relatori di minoranza (di micro-micro minoranza) nelle assemblee congressuali della CGIL del mio territorio. Alcune cose vanno fatte anche se non sai più perchè. Fa un po’ parte del gioco.

La vecchia CGIL è un corpaccione molle, esanime su cui si proietta minacciosa l’ombra storica dell’inutilità. [...]]]> di Giovanni Iozzoli

Oh, il mistero arcano della creazione di valore.
Oh, il mistero ancora più occulto della creazione di coscienza: i produttori di valore davanti all’incantesimo della merce, della ricchezza astratta, della potenza produttiva dispiegata. E della loro indecifrabile condizione dentro questa fantasmagoria.

Anche quest’anno, nonostante una discreta repulsione, sono stato arruolato tra i relatori di minoranza (di micro-micro minoranza) nelle assemblee congressuali della CGIL del mio territorio.
Alcune cose vanno fatte anche se non sai più perchè. Fa un po’ parte del gioco.

La vecchia CGIL è un corpaccione molle, esanime su cui si proietta minacciosa l’ombra storica dell’inutilità. Però una cosa buona la mantiene, almeno sul piano dei principi: i suoi congressi si decidono sui posti di lavoro, azienda per azienda, in una consultazione di massa che dovrebbe riguardare tutti i sui iscritti. Inutile dire che se il metodo è virtuoso, la prassi lo è molto meno. Senza parità di condizioni – com’è ovvio anche nello schema di ogni democrazia liberale – alla fine della conta prevale chi ha in mano le risorse, cioè gli apparati e le chiavi della cassa. Però ogni 4 anni, nel grigio tran tran quotidiano in cui si macinano essenzialmente ripiegamenti, si apre uno squarcio vero di vita sindacale e discussione: e finanche la piccola minoranza eretica e scombinata – l’unica rimasta in CGIL – ha il diritto statutario di andare a parlare direttamente con i lavoratori, tutti, senza eccezione, fin dove le sue modeste forze le consentono di arrivare.

Breve parentesi per i non addetti ai lavori: in CGIL sono sempre esistite una o più “sinistre sindacali” – e le si derubricava alla voce “diverse sensibilità”. E si usava proprio questo termine emotivo ed affettivo – sensibilità – per definirle come sfumature dentro il corpo sempre omogeneo della grande madre. Una quindicina d’anni fa, grazie a quella che fu allora l’anomalia Fiom – e alla iniziativa coraggiosa di Cremaschi e di un manipolo di giovani quadri operai – venne costituendosi un’altra area di sinistra sindacale: con la velleità non tanto di incarnare “una sensibilità” quanto piuttosto una rottura politica e culturale . La caratteristica principale di questa aggregazione era proprio quella di essere “fuori fuoco” rispetto alla storia paludata delle vecchie sinistre interne; parlava un linguaggio diverso e veicolava dentro il dibattito in CGIL, parole d’ordine e tematiche (dal salario garantito alla contrattazione senza vincoli, al sostegno al movimento no global) che erano essenzialmente estranee alla storia della Confederazione. Con buona ragione, i gruppi dirigenti bollavano quella sinistra come un “corpo estraneo”. E oggettivamente era vero, si trattava di una anomalia minoritaria, colorata e vivace che poco aveva a che vedere con il grigiore monocorde del sindacalismo concertativo degli anni ’90 – e le sue variegate “sensibilità”.

Ma torniamo al presente.

Mi capita di andare qua e là a fare queste assemblee, in aziende grandi e piccole, tecnologiche e arretrate. Ci vado quasi sempre controvoglia e con un groppo in gola. Non mi piace il format, sembra una recita davanti a platee distratte e disilluse – i dieci minuti a relatore, l’illustrazione dei due documenti: quello di maggioranza che invita alla ponderatezza e promette di rimettere mano a tutte le infinite sconfitte ingoiate negli anni senza combattere; e quello di minoranza, che sembra un ardito proclama rivoluzionario, ma è sonoramente avulso dal contesto: che è pur sempre quello di una semplice triste assemblea congressuale della CGIL, davanti a lavoratori abituati a sentir parlare da dieci anni essenzialmente di ammortizzatori sociali. Io faccio la mia parte, senza eccedere in lirismi. Bisogna rispettare questa gente che viene ancora a darti ascolto e mantiene un filo di contatto con quella cosa che si chiama “sindacato”. Si tratta spesso di lavoratori e lavoratrici piuttosto anziani, segno che vent’anni di controriforme hanno funzionato. In certe aziende, quando si presentano alle assemblee, hanno davvero l’aspetto dimesso dell’esercito sconfitto in ritirata: gli abiti scalcagnati da officina, le grosse scarpe antinfortunistiche che danno un’aria vagamente chapliniana, qualche sbuffo di grasso sulle mani o sul collo di chi non ha fatto in tempo a lavarsi, come i bambini che hanno raspato nella Nutella; e i delegati sessantenni, assennati e stressati, che non trovano ricambi per rinnovare le loro RSU, e le misteriose silenziose presenze di interinali e apprendisti, seduti in fondo, spesso alla loro prima assemblea, così diversi dai colleghi anziani – più giovani, curati, atletici, con le cuffiette e i tatuaggi – ma irrimediabilmente più fragili nella condizione, psicologica oltre che contrattuale, rispetto ai vecchi “indeterminati”.

Tutti ascoltano diffidenti, e sembrano rimproverare muti, solo con gli sguardi o le alzate di sopracciglia, le troppe assenze, i vuoti, le complicità di un sindacato che non li ascolta più da tempo. Tutto il campionario di una stagione di consapevole ritirata sindacale pesa sulle loro spalle.

Quando prendono la parola esprimono generalmente una incazzatura che parte dal proprio immediato vissuto e diventa subito eco corale: perché ho dovuto lavorare 5 anni in più grazie alla Fornero, perché Epifani è in Parlamento, perché con la crisi il padrone è più ricco e io sono diventato più povero? Non c’è neanche la spinta dell’invettiva – che comunque è qualcosa di vitale e incuba di solito una qualche speranza. No, c’è solo l’amara constatazione che gli anni passano impietosi, attaccati a una linea ipermoderna o a un vecchio tornio fa lo stesso: quello che era il mitico operaio emiliano – figura chiave e alfiere di una certa iconografia riformista – si ritrova vilipeso e abbandonato da tutti. Eccola qui, l’Italia profonda, l’Italia del 4 marzo: è tutta ordinatamente seduta in sala mensa davanti a noi, con le gambe accavallate, le fronti sudate, i nostri pomposi documenti congressuali usati per farsi fresco nell’afa settembrina che, come le sfighe, le zanzare e i pappataci, proprio non si decide a passare. Non c’è bisogno di chiedere a questi lavoratori per chi hanno votato alle elezioni, lo sappiamo bene. In qualche modo sono finalmente arrivati al governo – il modo peggiore, la delega ai venditori di fumo e di odio – ma se ne accorgeranno solo tra qualche anno. Per adesso restano in attesa – vediamo che succede, guardiamo che fa questo governo, e adesso sentiamo pure cosa hanno da dirci ‘sti due coglioni: la sera davanti alle loro Tv o adesso schierati in assemblea, sempre pubblico (pagante), sempre platea, mai protagonisti della loro storia.

Solo una volta ho avvertito un sussulto, una specie di fremito, di intensità. Non è stato quando ho inveito contro la Fornero (lo fanno ogni minuto dal 2012, senza i miei suggerimenti), né quando ho parlato di contrattazione o di 35 ore o di altre vette sublimi della retorica d’assemblea. No, è stato quando un lavoratore ha sbottato, dopo il mio intervento, in tono quasi dolente: ma voi, ma voi, ci vedete come siamo messi? Ma lo capite che noi non contiamo più niente, che ci hanno sconfitto, che siamo diventati gli ultimi della fila? Guardateci: che forze abbiamo? Chi siamo? A chi facciamo paura? Come dovremmo fare a riconquistare tutte queste belle cose che raccontate? Siamo finiti perché siamo deboli.

E tutti hanno drizzato le antenne – perché in quel momento la sincerità dolente del collega parlava in qualche modo a nome di tutti.

E allora ho mollato “il documento congressuale” e mi sono lasciato andare all’improvvisazione. E alle 14.30 di un pomeriggio stitico e assolato, davanti a una cinquantina di lavoratori nella sala mensa della CBR srl (componenti oleodinamica e autopompe) – ho rivelato niente meno che la sublime e nascosta verità della Storia.
Ho detto: ma voi, voi fanti sbrindellati della manifattura, voi che vi sentite formiche ignote e anonime, voi che siete grati al padrone se vi fa lavorare, voi che vi percepite come sommatoria di debolezze e solitudini, ma vi rendete conto, benedetti colleghi o compagni (o quel cazzo che siete), vi rendete conto che la ricchezza, oggi, ora, adesso, la state producendo voi? Ma lo capite che senza le vostre mani, la vostra testa, i vostri saperi professionali ricchi o standardizzati, senza la vostra attitudine a sgobbare per poco, senza la vostra perdurante buona condotta (che in fabbrica, a differenza della galera, non porta sconti di pena, semmai il contrario), lo capite o no che senza di voi non ci sarebbe produzione, non ci sarebbe Pil, non ci sarebbe Def, non ci sarebbero acronimi puntigliosi, statistiche, dividendi agli azionisti e compensi ai manager, niente di niente di niente? Senza la vostra ineluttabile fedeltà fiscale non esisterebbero risorse per pagare ospedali e scuole e ponti (che crollano), perché pagate tutto voi, con i mille prelievi tentacolari che avvolgono le vostre pidocchiose buste paga – lo sapete o no? E l’export, il Made in Italy, l’eccellenza italiana, le fiere a Pechino, gli scaffali stracolmi di merci che traboccano minacciose e ci sommergono? Ma chi la produce tutta questa roba? E non solo voi, anche i ragazzi che adesso stanno nell’ufficio progettazione e non possono venire giù, e forse non parteciperanno mai ad un’assemblea con voi; e le “signorine della contabilità” (i vecchi le chiamano ancora così le impiegate), e anche quelle che puliscono i cessi, che sono le più strategiche di tutti – vorrei vedere a lavorare senza di loro (cessi e cooperazione produttiva: buona traccia d’indagine neo-operaista). E anche i vostri colleghi in Cina o in Germania, anche loro sono come voi (ma qua bisogna fermarsi, la rivelazione completa del Segreto sarebbe troppo destabilizzante). Ma lo capite o no che siete voi ad avere in mano le chiavi del negozio, che ogni mattina tirate su la serranda e tenete in piedi questo baraccone, con generosa munificenza verso parassiti e imboscati che risiedono nell’attico? Lo capite che stringete in pugno questo paese, senza neanche sospettarlo? Vi rendete conto che siete ridotti come un elefante che ha paura dei topolini? Vi terrorizzano con le liste di cassintegrazione, le lettere di contestazioni, le rate del mutuo, gli sfratti, le minacce di delocalizzare, le bugie della pubblicità che serve a farvi sentire esattamente come vi sentite – dei roditori che girano sulla ruota inafferrabile del consumista perfetto, raggiungendo solo più alti gradi di frustrazione; e vi costringono a indebitarvi, per poi farvi sentire in colpa per i vostri irredimibili debiti, così da poter spremere da voi ogni residuo pezzettino di solvibilità. Non siete deboli. Non lo siete mai stati. È incredibile, ma è così, ragazzi.

Qui si sono guardati un attimo tra di loro – perplessi, in diagonale, come i piccioni. I più vecchi avevano sentito già parlare di questa cosa – che loro sono i produttori –, avevano l’espressione di chi ricorda una vecchia leggenda dimenticata. Echi lontani. L’angelo della Storia che non entra in sala mensa.

Uscendo all’aperto, col sole negli occhi, la malinconia ti stringe l’anima. Nel cuore rutilante del post-moderno, eravamo semplicemente scivolati 150 anni indietro, nella coscienza, nell’immaginario, nella capacità di leggere le cose, la realtà, nella cultura e nell’intelligenza collettiva. Mentre pensavamo di diventare tutti borghesi stavamo diventando tutti sottoproletari – e non solo in fabbrica, penso ai lumpen delle redazioni, delle università, delle sale professori, del pubblico impiego, del “cognitivariato diffuso”- sottoproletariato iperconnesso –, che generalmente sono messi anche peggio di questi metalmeccanici. Eravamo piombati in piena epopea bracciantile, ma senza lo slancio evangelizzatore dei primi socialisti, di cui non c’era traccia all’orizzonte. Davanti a queste desolazioni assembleari, non mi vengono in mente i classici della letteratura sociale o i miti prometeici. No, piuttosto ripenso a un altro libro.

Ne Il Gigante Sepolto, Ishiguro Kazuo (nobel per la letteratura) racconta la leggenda di un vecchio drago, il cui alito pestilenziale diffonde nell’aria una nebbiolina infida che cancella i ricordi, confonde le memorie, intorpidisce le coscienze. È un incantesimo che ha attribuito al fiato della bestia questo potere. E così tutti gli abitanti di quelle contee vivono cupamente, nella smemoratezza, nella fallace percezione di sé, nel tran tran quotidiano dove il passato è cancellato e quindi il futuro è inimmaginabile. Questa grama condizione sospesa è il prezzo da pagare per la pacificazione della Britannia.

Il drago del racconto finirà ucciso e la storia – terribile, dinamica e sanguinaria – si rimetterà in moto.

Il nostro drago è ancora all’opera, esala i suoi effetti a ogni sospiro, mentre le nebbie circondano cantieri, capannoni, magazzini, si insinuano attraverso le orecchie dentro la testa della gente. Il drago, probabilmente, giace nascosto dentro una qualche cavità naturale, nel cuore della pianura padana, qui nel centro esatto del nuovo triangolo industriale. È la sua nebbia che ti fa sentire debole, impotente, impedisce la presa d’atto della realtà, la consapevolezza. L’incantesimo continua. La pacificazione regge.

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Pastorale emiliana https://www.carmillaonline.com/2017/11/09/41628/ Thu, 09 Nov 2017 22:30:03 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=41628 di Giovanni Iozzoli

Da qualche tempo si è riacceso il conflitto nel comparto carni modenese. O meglio: riemerge la situazione di cronico malessere che cova da almeno due decenni sotto le ceneri, sbottando rabbia e mobilitazione. Quando parliamo di questo territorio – l’angolo di provincia compreso tra Castelnuovo, Castelvetro, Spilamberto, Vignola – stiamo parlando di un pezzo importante del Pil italiano, circa tre miliardi di euro, realizzati da 179 aziende, 5000 addetti, con 8 milioni di quintali all’anno di carni fresche lavorate e salumi: una macchina produttiva potente che importa dagli allevamenti del [...]]]> di Giovanni Iozzoli

Da qualche tempo si è riacceso il conflitto nel comparto carni modenese. O meglio: riemerge la situazione di cronico malessere che cova da almeno due decenni sotto le ceneri, sbottando rabbia e mobilitazione. Quando parliamo di questo territorio – l’angolo di provincia compreso tra Castelnuovo, Castelvetro, Spilamberto, Vignola – stiamo parlando di un pezzo importante del Pil italiano, circa tre miliardi di euro, realizzati da 179 aziende, 5000 addetti, con 8 milioni di quintali all’anno di carni fresche lavorate e salumi: una macchina produttiva potente che importa dagli allevamenti del nord Europa 200 camion di suini macellati ogni giorno – la materia prima che, lavorata in loco, rifornirà tutti i grandi marchi nazionali ed esteri.

Il monoteismo del prosciutto regna sovrano, in questi luoghi; tra i miasmi degli stabilimenti aleggia un vago sentore calvinista – impresa e denaro come manifestazioni della benevolenza divina. Un maialino bronzeo troneggia nella piazza centrale di Castelnuovo Rangone – omaggio a se stessa, di una comunità sobria, laboriosa e danarosa, che vede il suino come metafora della vita.

Quello che è successo, negli ultimi vent’anni in questo comparto, è la nota accelerazione globale di mercati, merci e processi produttivi, che si è abbattuta drasticamente su un distretto che un tempo si sentiva vincente per qualità e specializzazione: concorrenza sempre più feroce, prezzi al ribasso, qualità a picco e pressione sempre più distruttiva sul lavoro vivo. Appalti, sub appalti, spezzettamenti, la filiera che si slabbra e si allunga come un verme. Migliaia di lavoratori, principalmente stranieri, collocati nei gironi via via più degradanti del lavoro in appalto, tra cooperative spurie, terziarizzazioni, consorzi fittizi creati dalle stesse imprese appaltatrici – ovviamente nei segmenti produttivi dove regnano fatica, nocività, rischio per la salute. Insaccati, polpettoni, prodotti precotti e surgelati di ogni ordine e grado: tutto passa dalle mani di queste migliaia di pseudofacchiniquasialimentaristi, dalla salute spesso compromessa – abbondano problemi muscolo scheletrici, polmoniti, ferite da taglio, perché qui le lavorazioni più essenziali si fanno ancora di gomito e coltello.

Ma quella del distretto carni non è la solita minestra avvelenata del panorama italiano – cooperative che non sono cooperative, facchini che non sono facchini, contratti che non sono contratti. Non è solo una storia di appalti fasulli, elusione fiscale e capannoni della logistica persi nelle nebbie brumose della campagna padana. No, qui si sta parlando di un palcoscenico rinomato, dove va in scena ogni giorno la farsa dell’eccellenza agroalimentare italiana: un concentrato di bugie, affarismo, arroganza e retorica tricolore – straprovinciale e global, allo stesso tempo.

Il distretto carni rappresenta la vetrina delle scelleratezze italiane degli ultimi due decenni, un esempio della svalorizzazione del lavoro, della mortificazione operaia. E delle viltà, delle complicità, della subordinazione della politica e del sindacato, della retorica del primato dell’impresa come valore unanimemente condiviso. Perché questi territori, nell’immaginario, amano rappresentarsi come i luoghi dell’eccellenza alimentare, il richiamo ancestrale e fasullo alla terra, alla genuinità della tradizione, al mangiar sano, al mulino bianco e al vivere comunitario.

Tutta fuffa, tutto marketing. In questo comparto (come ovunque) la risorsa essenziale non è la genialità imprenditoriale o il retaggio di mestiere: il fattore chiave è il lavoro vivo, le braccia, l’intelligenza e la disperata disponibilità indotta dalla miseria. Si, la miseria, la vecchia, cara indispensabile miseria, altro che eccellenze: perché solo la miseria può indurre migliaia di nuovi schiavi a rinchiudersi in capannoni e celle frigorifere a rifilare, disossare, tagliare – ballando, a salario pieno, intorno alla soglia di povertà. La miseria è il miglior motivatore professionale, la leva perenne di ogni intrapresa economica. Industria 4.0? Da queste parti si preferiscono ingredienti antichi e tradizionali: sfruttamento, gerarchia, ricatto e sottomissione. Un tempo, per i locali, l’industria norcina fu davvero elemento di elevazione sociale: macelli, laboratori e fabbriche furono tra i templi del compromesso sociale emiliano. Oggi non c’è tempo per favole rassicuranti. Sei euro lorde all’ora, una settimana a casa l’altra lavorare 60 ore – anche 12 ore filate, fino a pisciarsi addosso o mangiare in piedi come i cavalli. E a ogni cambio appalto si sfoltiscono i ranghi dei sindacalizzati e dei riluttanti.

È una storia di pervicace illegalità, quella del distretto carni. Un morto ammazzato nel 2001 (fanno capolino anche i soliti servizi segreti), pestaggi, minacce, auto bruciate, criminali di ogni risma che attraversano la vita, e spesso i cancelli, di aziende prestigiose. Una pastorale emiliana (e segnatamente modenese) dove molti attori diversi continuano immutabilmente a cantare la loro parte – incassando milioni o sputando sangue -, comunque seguendo una partitura criminale efficace, per quanto tremendamente precaria. Il giorno che qualcuno si decidesse ad applicare (almeno un po’) le leggi della Repubblica, il mito dell’eccellenza agroalimentare italiana crollerebbe miseramente – e questo vale per tutta la cigolante catena nazionale, dai raccoglitori di pomodori del foggiano a questi strani facchini ghanesi, cinesi, filippini e albanesi, le cui mani callose (senza retorica) custodiscono il buon nome e la credibilità del marchio made in Italy che finisce sulle tavole di mezzo mondo. E allora, vediamoli, i protagonisti di questa moderna pastorale di provincia.

I PADRONI
Qualcuno è di nobile schiatta imprenditoriale, qualcuno è diventato un global player, qualcuno è un artigiano arricchito, qualcuno ha la mentalità truce del macellaio che sorveglia il negozio: tutti devono correre al ritmo spietato della concorrenza, che significa spremere lavoro e abbassare costi, pretese e qualità. Negli anni 90 hanno venduto tutti l’anima al diavolo, anche se oggi si ostinano a firmare protocolli etici. Aumentare i margini intensificando lo sfruttamento, è l’unica arma rimastagli. Sanno fidelizzare la gente, pagando in nero gli accoliti per scagliarli contro i lavoratori in appalto. Pagano anche giornalisti, pubblici funzionari, eserciti di consulenti, finanziano iniziative pubbliche, civiche, sportive, foraggiano sindaci costantemente distratti, rispetto alle brutture sociali che amministrano. Non sono mai stati soli, nella continua opera di evasione, elusione, violazione di norme e contratti. Queste pratiche non sono invenzione estemporanea di qualche imprenditore spregiudicato: mamma Confindustria veglia su tutti loro e non si è mai dissociata da nessuno dei suoi prosciuttai.

LE CENTRALI COOPERATIVE
Prendono le distanze dal sottobosco malavitoso, per tutelare il buon nome della “vera cooperazione”. Ma se il termine cooperativa è diventata una parolaccia è anche colpa loro, delle loro omissioni e complicità. Del resto i grandi gruppi cooperativi ufficiali hanno da tempo “marchionnizzato” le loro relazioni interne e i rapporti sindacali. Le cooperative spurie sono solo il bordo sfrangiato e impresentabile di un mondo geneticamente modificato, che comincia già dietro i banconi della Coop. Non è un caso che il Ministro del Lavoro nell’epoca del Jobs Act, venga da quella giungla.

LE COOPERATIVE SPURIE
Le mafie hanno scoperto questo mondo negli anni 90 e se ne sono innamorate. Costruire aziende cooperative, riciclare, vincere finti appalti, infilare al lavoro i picciotti in semilibertà. E finalmente entrare a testa alta, senza estorsioni, dentro i circuiti ufficiali del settore, insediarsi legittimamente in territori floridi, sottraendosi ai capricci mutevoli del ciclo dell’edilizia. Una volta i gruppi dirigenti di queste cooperative erano composti direttamente da pregiudicati casertani e calabresi. Oggi hanno imparato meglio a usare i prestanome, anche se magari le sedi legali sono gli studi di avvocati specializzati nel 416 bis. Naturalmente non tutte queste cooperative hanno origine e matrice criminale; nell’affare ci si è buttata tanta gente sveglia che da anni alimenta un tourbillon inafferrabile di sigle, consorzi, concordati, fallimenti, spesso riconducibili agli stessi capicordata e alle medesime aziende appaltatrici. Tecnicamente una “cooperativa spuria” è un’associazione a delinquere. Non dovrebbe occuparsene l’Ispettorato del Lavoro.

I SINDACALISTI
Ne sono passati tanti, dentro e davanti quei cancelli. Non si deve essere ingenerosi o qualunquisti, molti danno l’anima per organizzare e dare sbocco alla rabbia sorda della gente – se si va domattina, alle 5, ai cancelli della Castelfrigo o della Alcar, li si trova là davanti, col megafono e la bandiera. Ma tanti sono stati anche i vili, gli imboscati, gli impotenti che allargavano le braccia davanti a ogni abuso, quelli che limitavano la loro funzione alle denunce e agli esposti. Per non parlare di quelli che si sono prestati a fare da consulenti occulti nell’interesse delle aziende. Se avesse incontrato davanti a sé, il muro di un movimento sindacale serio e autorevole, tutta questa metastasi non si sarebbe mai estesa negli anni.

I QUESTORI
Hanno messo le forze di polizia al servizio delle aziende, a presidio della santa continuità produttiva, come se la Questura fosse l’Agenzia Pinkerton (che almeno non era pagata dai contribuenti). Se avessero “attenzionato” seriamente il comparto carni, oggi nelle carceri di Sant’Anna dovrebbe esistere un “padiglione cooperatori”. Particolarmente deplorevole il metro e la misura delle scelte di ordine pubblico: perché da queste parti, di solito, non si usano i manganelli contro I presidi sindacali; ma se a farli sono questi lavoratori un po’ scurotti (e si presume, meno tutelati), la celere si sente autorizzata a rompere ogni tabù – e anche qualche testa. Come se a questi proletari non si riconoscesse neanche il diritto minimo di sentirsi pienamente classe operaia.

I PM
Hanno lavorato con foga, nei mesi scorsi, per liberare le aziende dalla morsa dei sindacalisti molesti. L’inchiesta contro Aldo Milani, di quale dispiegamento di uomini e mezzi ha potuto giovarsi? Telecamere nascoste, microfoni, intelligence, agenti provocatori e trame raffinate. Chi ha mai visto un magistrato indagare con la stessa determinazione sul settore carni e le sue derive criminali? In occasione dell’arresto del leader del SI Cobas, la Procura ha ufficialmente esposto anche il suo teorema: lo sciopero e il picchetto, in una certa misura, possono essere inquadrati sotto il profilo criminale dell’estorsione. Bloccare un’azienda per spillare quattrini a un padrone, è un’azione delittuosa. Quando la politica muore, entrano in scena i corpi armati dello Stato (tale è la magistratura, non dimentichiamolo mai), che vanno a prendersi il loro spazio di supplenza e direzione politica, rilasciano proclami a reti unificate, scavalcano l’ectoplasma di amministratori e partiti, stabiliscono in proprio ciò che è lecito fare o non fare, nella Repubblica del Maiale.

I CONSULENTI
Ogni mafia ha bisogno dei suoi colletti bianchi. La mafia delle cooperative – e dei suoi committenti industriali – può contare su una pletora di avvocati, consulenti, commercialisti, facilitatori di ogni tipo. Parassiti ben pagati che studiano giorno e notte il modo per eludere leggi, fisco e contratti. Sono professionisti seri, sobri, abituati al basso profilo; magari vivono in questi stessi territori, dentro villette a schiera senza pretese. Fingono di ignorare quello che succede concretamente dietro le piramidi societarie e le trappole antioperaie che progettano. Probabilmente, per giustificare se stessi, nutrono anche una qualche confusa idea di progresso e di necessità dello stato di cose presenti. Una lumpen-borghesia delle professioni che spiega molto di questo paese, da Sud a Nord.

I DIRETTI
Sono I lavoratori assunti dalle imprese, magari con contratti stabili a tempo indeterminato. Sono quelli che fanno più pena di tutti sul piano morale. Ormai si tratta di minoranze dentro aziende che realizzano i volumi produttivi solo grazie al personale delle finte cooperative. Stanno abbarbicati ai loro lavoretti, al loro minuscolo privilegio, guardando ai colleghi del piano di sotto, come mine vaganti che possono mettere in discussione tutto il baraccone. Sono spesso immigrati anche loro, meridionali piovuti qui nei tristi anni 80, con mutui pesanti e figli precari da mantenere. Entrano a testa bassa, la mattina, davanti ai cancelli presidiati dalle lotte. Sanno che quei loro quasi colleghi hanno ragioni da vendere. “Ma così va il mondo: e meno male che non tocca a me…”. La mancanza di dignità a cui questi padri di famiglia egoisti si sottopongono è la parte peggiore della storia.

GLI AUTOCTONI
Sono commercianti, impiegati, spesso anziani pensionati che nella vecchia industria norcina hanno lavorato duramente e guadagnato onorevolmente. Quando i cortei dei nuovi schiavi del prosciutto passano in centro, li guardano, dalle soglie dei bar e dei negozi e scuotono la testa; pensano che questi nuovi arrivati abbiano poca voglia di lavorare, accampino troppe pretese, reclamino troppi diritti. Intanto gli affittano a caro prezzo stamberghe umide in centro, o vecchie masserie in campagna – perché del facchino “non si butta via niente”, si deve spremerlo in fabbrica e fuori, con metodo e scrupolo.

I POLITICI
Pallide figure che cominciano ad affacciarsi ai cancelli degli stabilimenti in lotta, in vista delle prossime elezioni. Sanno di non contare più niente – dichiarazioni di intenti, tavoli, protocolli – , un vecchio mondo caduto in disuso. Esprimono la pochezza caotica dei tempi: un esponente può esprimere “preoccupazione per i licenziamenti” e un altro può tuonare contro le “illegalità dei picchetti”, magari stando nello stesso partito. I facchini ghanesi o filippini, li guardano con perplessa ironia.

LE ROTATORIE
Sono l’elemento più innocente della zona, non fanno male a nessuno, non possono neanche tanto peggiorare la tragica bruttezza dei luoghi. Chissà com’erano le campagne, qui, un po’ di decenni fa, si fa fatica anche a immaginarlo. Dopo aver infilato capannoni grigi dappertutto, negli anni scorsi, oggi prevale la passione per le rotatorie di ogni ordine e grado. Danno al forestiero l’idea di un moto perpetuo in cui non ci si muove mai davvero. Non servono a niente. Sono buone solo per farci dei blocchi stradali.

GLI SCHIAVI RIOTTOSI
E poi c’è finalmente la contropastorale, il coro stonato e furente di Ahmed, Tashi, Antonu, Chen, Salvatore, Frank e molti altri pirati del prosciutto che, coltello in mezzo ai denti, si stanno lanciando contro le vestigia scassate del modello emiliano. Si ribellano perché non hanno altra scelta. Sono le vittime sacrificali del futuro luminoso che ci attende, i neo-schiavi dell’economia servile 4.0. Perché non c’è sviluppo o rivoluzione produttiva senza un esercito di servi pronti a tutto (è per quello che i ricchi, di solito, sono genuini no border e sostenitori dell’Open Society). Ma questi ragazzotti hanno la testa dura, non sono venuti fin qui per immolarsi sull’altare del Made in Italy, se ne fottono del Gran Biscotto, dei sofficini e del polpettone italiano. Hanno già dato abbastanza. Nel centesimo anniversario dell’Ottobre, stanno imparando a volgere le loro baionette da disossatori verso i generali. In questo momento sono loro l’unica vera eccellenza che esprime il territorio.

 

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Andata e ritorno https://www.carmillaonline.com/2016/04/26/30026/ Tue, 26 Apr 2016 21:30:26 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=30026 di Gioacchino Toni

perzechella_iozzoliDa Sud a Nord, dagli Anni ’80 ad oggi, tra un passato inconfessabile ed un presente insopportabile: il nuovo romanzo di Giovanni Iozzoli

Giovanni Iozzoli, La vita e la morte di Perzechella, Edizioni Artestampa, Modena, 2016, 416 pagine, € 17,00

Il nuovo romanzo di Giovanni Iozzoli conduce il lettore dalla Napoli degli anni Ottanta all’Emilia dei nostri giorni in un viaggio di andata e ritorno nello spazio e nel tempo che, oltre a narrare le vicissitudini di alcuni personaggi incapaci di incidere sulla realtà che li travolge, ci racconta la storia di un intero Paese immerso [...]]]> di Gioacchino Toni

perzechella_iozzoliDa Sud a Nord, dagli Anni ’80 ad oggi, tra un passato inconfessabile ed un presente insopportabile: il nuovo romanzo di Giovanni Iozzoli

Giovanni Iozzoli, La vita e la morte di Perzechella, Edizioni Artestampa, Modena, 2016, 416 pagine, € 17,00

Il nuovo romanzo di Giovanni Iozzoli conduce il lettore dalla Napoli degli anni Ottanta all’Emilia dei nostri giorni in un viaggio di andata e ritorno nello spazio e nel tempo che, oltre a narrare le vicissitudini di alcuni personaggi incapaci di incidere sulla realtà che li travolge, ci racconta la storia di un intero Paese immerso in una crisi profonda. Si tratta di una crisi declinata su piani molto diversi: la crisi economica, quella che è sotto gli occhi di tutti, che svuota le fabbriche e le tasche, la crisi di qualsiasi legame civile ed umano ma anche la crisi di senso che rende oggi incapaci di comprendere quanto sta accadendo. Insomma una crisi globale che investe tutto e tutti, come se il declino fosse l’unico angolo di visuale possibile sull’Italia di oggi.

Un infame, quanto maldestro, lontano omicidio, perso nel mucchio dei morti ammazzati degli anni Ottanta, diventa l’occasione per un viaggio nella storia e nella geografia del Belpaese, che di bello pare davvero avere, ed aver avuto, poco. L’improvviso riemergere di un passato ignobile, dopo qualche decennio di forzata, quanto voluta, apatia, non solo finisce con lo svelare il peggio di un’epoca lontana, coincidente con la giovinezza dei protagonisti, ma palesa anche quanto sia nauseabonda l’attualità.

Al centro della narrazione vi sono le vite di due individui incompiuti, le cui solitudini si incontrano nella Napoli degli anni Ottanta: uno studente universitario, Alfonso, vagamente politicizzato, fuori corso, che, in fin dei conti, si lascia vivere, senza speranze, in perenne attesa che qualcosa accada, ed una giovane venditrice di sigarette di contrabbando all’angolo di una strada, Perzechella, anch’essa piena di tormenti e delusioni. L’inaspettato rapporto tra i due si intreccerà con una serie di altrettanto inattesi eventi. Il matrimonio della sorella di Alfonso con un boss locale trascinerà il giovane, seppur marginalmente, in ambienti da cui si era sempre tenuto alla larga e di cui ignora i codici comportamentali e la relazione, tenuta nascosta, con la ragazza, finirà per ingenerare equivoci che si riveleranno tragici. Se Alfonso si avvicina ad un mondo criminale che non conosce, Perzechella tenta, invece, di uscirne e sarà proprio questo aver oltrepassato i rispettivi confini a determinare la tragedia.

Diventato improvvisamente omicida, lo studente dovrà abbandonare in fretta e furia la sua città salendo sul primo treno diretto al Nord e, giunto in Emilia, dovrà ricostruirsi una vita dimenticando il passato e recidendo qualsiasi contatto con i pochi cari che ancora gli restano. Così come improvvisamente, senza nemmeno sapere come e perché, si è trovato a dover fuggire da Napoli, altrettanto improvvisamente quel passato da cui è scappato lo raggiunge e lo costringe non solo a fare i conti con ciò che ha commesso ma anche a guardare negli occhi l’attualità in cui vive. Da quel momento non solo il passato trascorso da patetico perdigiorno si rivela orribile, ma anche il presente vissuto da stimato professionista si mostra per quello che è: falso, ipocrita ed invivibile.

Se i personaggi che popolano gli anni Ottanta, pur nella loro negatività, sembravano comunque in un certo senso inseriti in certezze e caselle ben delineate, con ruoli e strade tracciate come le rotaie di un tram, nell’Italia di oggi, invece, prevale il disincanto, la stanchezza, l’invecchiamento e, soprattutto, l’incapacità di decifrare quanto è accaduto e quanto sta accadendo.
Questo pendolo di andata e ritorno, geografica e temporale, rivela un presente indecifrabile in cui i patetici riflettori televisivi delle piccole tv private degli anni Ottanta, anni ruggenti quanto creduloni, appaiono sempre più fiochi, come il carisma dei vecchi uomini d’onore che si incontrano tra le pagine del romanzo, in una generalizzata decomposizione della società italiana, particolarmente evidente in ambito meridionale, soprattutto nella sua capitale infetta, Napoli.

Iozzoli risulta particolarmente abile nel tracciare, di tanto in tanto, in poche righe, il preciso contesto sociale, politico ed urbanistico in cui si svolgono gli eventi narrati. Un primo esempio è dato dalla sintesi con cui ricostruisce, mirabilmente, la Napoli post-terremoto dei primi anni Ottanta: «Tra l’80 e l’81, dopo il tremendo terremoto che in due minuti aveva spezzato la storia della Campania, seguirono infiniti altri sconvolgimenti. La scossa aveva dato il via ad un domino frenetico. Napoli sembrò implodere su se stessa, miracolosamente tenuta in piedi da un reticolo precario di putrelle, travi, tubi innocenti – ma anche di speranze, imprecazioni, urla, lacrimogeni, sangue e calcolatrici sempre all’opera. Il terremoto certo fu un formidabile detonatore: ma la Santa Barbara era già lì, pronta a esplodere, con le sue baraccopoli urbane e i suoi bassifondi fetidi e malati, e le ferite già aperte, sul punto di infettarsi e diventare cancrena. Quando Valenzi, il sindaco di Napoli, dettava i numeri dei senzatetto nei primi bilanci successivi alla scossa, barava e lo sapeva: dentro aveva fatto conto pari, e ci aveva infilato anche quelli che una casa non ce l’avevano mai avuta, le coabitazioni promiscue, i figli delle lamiere e dei cartoni, gli scantinatisti e quelli che abitavano case dichiarate da trent’anni insalubri e pericolose. Come capita alle guerre, il terremoto aveva ricomposto e quasi costituito un immenso esercito di senza speranza, che in pochi mesi trovò la forza della sollevazione, si riconosceva corpo collettivo, generava le sue avanguardie, tra capipopolo arraffoni e pronti a svendersi e studentelli occhialuti, poveri e caparbi. In pochi mesi successe di tutto – e come tutte le grandi ribellioni napoletane, anche questo uragano lasciò pochissime tracce del suo passaggio» (pp. 15-16).

Nuovamente, nel tratteggiare la Napoli della seconda metà degli anni Ottanta, Iozzoli riesce abilmente a ricostruire sinteticamente e compiutamente un’epoca ed uno spaccato di società: «Tra il 1986 e il 1987, il grosso del movimento post-terremoto era defluito in mille rivoli contrapposti, metabolizzato dall’enorme flusso di spesa pubblica che si stava rovesciando sulla Campania. Dopo il grande ciclo di occupazioni delle case, dopo le prime assunzioni di disoccupati organizzati, rimanevano le frange precarie di quelli che erano rimasti fuori. Dall’esercito della povera gente, tra i figli dei quartieri, che pure avevano copiosamente riempito le piazze di Napoli, pochissimi continuavano a resistere nell’impegno politico, lasciando soli ed esterrefatti i rivoluzionari di professione. I partiti, anche i più piccoli e mal frequentati, avevano recuperato il pieno controllo sulla società, reclutando a man bassa e rafforzando il loro ruolo di agenzie dove si intermediava di tutto: credito, posti, finanziamenti, appalti e affari criminali. […] A parte la massa cospicua degli arrestati e inquisiti, al giro di boa della prima metà degli anni ’80 centinaia di militanti erano letteralmente scoparsi. Alcuni non si facevano più vedere, persi dietro ai fatti loro, in una declinazione individualistica della vita che quasi mai (come invece sostenevano le riviste) culminava con la riscoperta delle gioie del privato. Il riflusso era deriva, deriva pesante, fatta di eroina, esaurimenti, depressioni, suicidi, e un massiccio rientro nei ranghi di una normalità al ribasso, mai gloriosa o appagante. Migliaia di persone, all’inizio degli anni ’80, vivevano semplicemente con un piede di qua e uno di là, sospesi in un nulla quotidiano e un po’ allibiti nel ritrovarsi così sbandati, in un gigantesco 8 settembre da nessuno mai dichiarato» (pp. 47-48).

«Sangue, eroina, calcestruzzo e monnezza si impastavano senza sosta, gonfiando una slavina velenosissima. Napoli fremeva, ma senza nessuno slancio o speranza: quella vitalità era solo la lotta quotidiana delle iene per accaparrarsi l’ultimo lembo di carne» (p. 92)

Nell’Emilia contemporanea le cose non sembrano andare meglio, tanto che anche alla Maserati iniziano a girare le prime lettere di licenziamento, anzi, di mancato rinnovo, visto che i più sono stati assunti come interinali ed a tempo determinato. «Essere entrato in un’azienda così prestigiosa, tre anni prima, sia pur precariamente, lo aveva riempito di vero orgoglio. Basta officine da quattro soldi. Andava anche a fare la spesa con la divisa color crema, col tridente in bella vista sul petto e sulla schiena; anche se non era nessuno, chiunque, incrociandolo – magari anche un giapponese – lo avrebbe collocato dentro una luce di eccellenza, di professionalità. Lui costruiva le macchine dei ricconi. Lui era il piccolo anonimo ingranaggio di una cosa grande e prestigiosa. Adesso era fuori. Fuori da tutto. Tutto stava crollando; come un presepio quando finiscono le feste, e i pastori finiscono a testa in giù negli scatoloni. La città sembrava paralizzata dalla paura. Anche nei baretti di periferia si aspettavano con ansia le notizie sull’indice Nikkei. C’era un’aria di fine secolo – anche se il secolo era appena iniziato; un’aria di crollo imminente, come una bella époque che sta per chiudersi, mentre da lontano nuvoloni minacciosi e rombi di cannone non lasciano sperare nulla di buono» (p.156).

Anche nei tradizionali quartieri popolari è evidente la trasformazione in atto nell’Emilia fiera e produttiva. «Quando erano andati ad abitare là, nel 1996, era una strada decorosa di anziani di periferia, un po’ di verde e cortiletti di ghiaia, l’associazione di quartiere. Adesso si era come spaccata a metà. Dal lato destro c’erano tutte case basse, di uno o due piani, e anche un paio di villette bipiano monofamiliari; gli occupanti erano vecchi operai emiliani doc, o loro eredi, che avevano negli anni risalito la scala sociale e si erano sistemati: casette belle, ristrutturate, in cui si accumulavano i risparmi operosi di una o due generazioni infaticabili. C’era ancora qualche vecchio reduce delle Fonderie, che proprio lì vicino avevano avuto la sede. Sull’altro versante della stessa strada, c’erano tre palazzine alte, del dopoguerra. Anche queste erano vecchie case operaie di gente delle Fonderie; ma non si erano mai evolute, erano rimaste come quarant’anni fa, per affittuari senza pretese, e il loro status di dignità popolare si era trasformato in degrado» (p. 157)

iozzoli_coverIn questo clima di malessere generalizzato che, seppure in maniera differente, accomuna il Sud da cui la vicenda ha preso il via, ed il Nord, che era stato individuato come rifugio sicuro, terra salvifica, ove tutto torna invece improvvisamente a galla, il riemergere del passato determina un’improvvisa frenesia, un accavallarsi di vicende sconclusionate da cui emergono personaggi bizzarri, seppur verosimili, nello sbandamento generale del tempo presente: una ridda di facce e storie – maghi falliti, cantanti neomelodici, narcotrafficanti e loschi faccendieri – che si intrecciano fatalmente, quasi magicamente, conducendo al termine la vicenda narrata. L’epilogo è amaro, non poteva essere diversamente, come il destino di uno dei personaggi, un camorrista di vecchia scuola, che muore ammazzato l’ultimo giorno del 1999, l’ultima notte del secolo, quasi a sancire la sua non adattabilità ai tempi nuovi che si profilano nel nuovo millennio: tempi di feroce vacuità, per certi versi sempre più violenti, lo stiamo imparando a suon di disillusione ed incapacità di reagire. Dopo I terremotati (Manifestolibri, 2009) [su Carmilla] ed I buttasangue (Artestampa, 2015) [su Carmilla], Giovanni Iozzoli continua a realizzare opere che vale la pena leggere.

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Crisi ed identità perdute. I buttasangue https://www.carmillaonline.com/2015/04/12/crisi-ed-identita-perdute-i-buttasangue/ Sat, 11 Apr 2015 22:01:24 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=21860 di Gioacchino Toni

buttasangue_iozzoliGiovanni Iozzoli, I buttasangue, Edizioni Artestampa, 2015, € 16,00

Ne I buttasangue la crisi è la vera protagonista del romanzo: una crisi narrata in diretta, in prima persona, da un’anonima, ordinaria, invisibile vittima, trascinata nel tritacarne di questi tempi feroci. Non c’è pietismo o retorica nel raccontare le gesta convulse del protagonista che attraversa le pagine del racconto. Leggendo, più che dentro una crisi economica, veniamo calati dentro una grande trasformazione antropologica, che dissesta i territori, le comunità, la vita dei piccoli uomini che ne vengono travolti. È una crisi che non si misura solo attraverso gli indicatori [...]]]> di Gioacchino Toni

buttasangue_iozzoliGiovanni Iozzoli, I buttasangue, Edizioni Artestampa, 2015, € 16,00

Ne I buttasangue la crisi è la vera protagonista del romanzo: una crisi narrata in diretta, in prima persona, da un’anonima, ordinaria, invisibile vittima, trascinata nel tritacarne di questi tempi feroci. Non c’è pietismo o retorica nel raccontare le gesta convulse del protagonista che attraversa le pagine del racconto. Leggendo, più che dentro una crisi economica, veniamo calati dentro una grande trasformazione antropologica, che dissesta i territori, le comunità, la vita dei piccoli uomini che ne vengono travolti. È una crisi che non si misura solo attraverso gli indicatori economici: è crisi delle coscienze, rottura dell’etica collettiva, implosione del sistema di vita e di valori su cui tutti, per decenni, avevano fondato e giustificato le loro esistenze.

Il racconto si apre con una morte sul lavoro, il simbolo di un’epoca in cui “di lavoro ne girava tanto ed era normale che ogni tanto qualcuno ci lasciasse dentro una mano o peggio” e finisce con una carrellata dolente sull’Emilia terremotata , due anni dopo l’inizio della storia. “La bassa” a pezzi, tappezzata di attendamenti, è una buona metafora dello smottamento generale di senso in realtà già all’opera da qualche tempo dentro questi territori. Il terremoto, per certi versi, ha soltanto spinto sull’acceleratore della storia, così come era accaduto per il terremoto irpino del 1980 al centro del romanzo precedente dell’autore (G. Iozzoli, I terremotati, Manifestolibri, 2009Recensito su Carmilla). Proprio come in quel caso le scosse telluriche si rilevano presto anche un terremoto sociale.
L’opera precedente presentava una galleria di personaggi condannati al fallimento, con il giovane adolescente protagonista costretto dagli eventi a rifugiarsi verso Nord, verso terre e comunità disposte ad accogliere il nuovo arrivato soltanto tra una marcatura del cartellino e l’altra. L’adolescente, irpino, che si trasferisce al Nord del romanzo precedente non è certo il protagonista, pugliese, de I Buttasangue, ma per certi versi ad essere la stessa è la storia di questo paese, la storia di chi fatica ad arrivare a fine mese e si vede crollare il mondo addosso, la storia di chi si guarda attorno e percepisce di non avere una comunità su cui contare, di essere un individuo senza relazioni vere e durature con altri esseri umani. È per certi versi il trionfo del motto thatcheriano: “La società non esiste. Ci sono solo individui”. Questi sono i risultati.

Antonio, il protagonista, operaio allo sbando, solitario e sfortunato, vive alla giornata in quella “diffusa officina padana”, un tempo orgoglio e perno delle comunità, oggi grande residuo meccanico malato, testimone occasionale della morte sul lavoro di un collega, dal giorno di quell’evento tragico, la sua vita sembra precipitare anche a causa dell’incontro con una ragazzina misteriosa che scombussolerà ulteriormente la sua esistenza. Su di uno sfondo in cui si collocano il cadavere del collega e la codardia davanti alle responsabilità aziendali, di cui è stato testimone, Antonio si trova catapultato in un tunnel senza via d’uscita popolato da sbirri, esorcisti, assessori e disavventure strampalate, incalzanti come un nodo che stringe alla gola, rappresentazione estrema di un mal di vivere che si manifesta nel dolore e nello spaesamento quotidiano diffuso. Ad essere narrata è la storia di un operaio costretto ad arrabattarsi per dimostrare la propria innocenza e tenere in piedi una parvenza di integrità, mentre intorno tutto crolla, un disgraziato in fuga da volantini, responsabilità sindacali, ragionamenti sul futuro, in cerca solo di sopravvivere in un mondo pericoloso che sembra inseguirlo e stringerlo all’angolo. In tale contesto sembra quasi che il protagonista avverta la necessità di una maggiore solitudine, di rifugiarsi in essa, di ritagliarsi uno spazio ed un tempo fuori dall’inospitalità del mondo. La tana, il mondo chiuso all’esterno, può essere l’abitacolo dell’automobile con cui girovaga senza meta la notte o l’abitazione: “E pensare che questo atto semplice di chiudersi dentro, e lasciare il resto del mondo fuori, qualche volta mi dava delle belle sensazioni […] girare quella chiave in faccia alla notte era un rituale che dava sicurezza, ti faceva sentire dentro un micromondo protetto, che ti eri costruito tu e che per 48 ore nessuno poteva disturbare.” Per certi versi, in alcune circostanze, la stessa stramaledetta fabbrica svolge una funzione di rifugio, tanto che, sul finire del libro, lo stesso Antonio deve ammettere a se stesso che: “Questa fabbrica l’ho sempre vista come una casa, un posto noioso e faticoso, ma dentro cui trovarvi riparo dalle cose brutte del mondo”.

Gli “anni buoni”, quelli del lavoro, dell’integrazione, delle speranze ingenue, sono ormai alle spalle, ed erano anni bugiardi, in cui la crisi, “come i brividi di freddo prima della febbre”, proiettava già la sua ombra minacciosa. Nel libro si racconta anche l’ultimo ciclo di emigrazione interna, il sempre più difficoltoso processo di insediamento ed integrazione, il cambiamento vorticoso di un tessuto di piccola provincia industriale violentemente modernizzata, in pochissimi anni, dai flussi economici globali. Il normale cittadino/operaio, eroe e protagonista della stabilità sociale, della coesione, del consenso dentro il modello emiliano, piano piano declina verso una condizione di precarietà e povertà, estraneità civica, rifiuto: quel cittadino operaio diventa il “buttasangue” (epiteto che il giornalista Giuseppe D’Avanzo aveva coniato per descrivere l’ultimo e più precario ciclo di emigrazione dal Sud); “butta sangue” come italianizzazione del “jetta ò sanghe” che è espressione universale di sofferenza, di mal di vivere, che la crisi esalta e amplifica, a partire dalla condizione migrante, per allargarsi alla stragrande maggioranza della società.

La crisi è ormai arrivata al Nord, accompagnata da una colonna sonora ritmata sui tragici botti delle scosse sismiche che hanno improvvisamente svelato il castello di carta su cui si fondavano questi territori: “Per i laboriosi locali, sarebbe stato molto più doloroso e complicato. Loro erano cresciuti con l’idea che c’era una morale, una specie di lieto fine, nella storia: lavori, lavori, lavori come un somaro dalla mattina alla sera per anni e anni, e risparmi, e sei un buon cittadino, e ti presti alla comunità, e alla fine sarai premiato. Questa era la convinzione che aveva spinto tre generazioni a chiudersi nelle officine da quando avevano quattordici anni. Tutti erano sempre stati convinti che il gioco valesse la candela.”
Il terremoto ha presentato il conto, ha fatto crollare tante certezze costruite nel dopoguerra insieme alle case edificate “da generazioni di formiche infaticabili, mattoni, valore, patrimonio, ascesa sociale, stabilizzazione. E adesso sono chiuse, e i proprietari sono vecchi e dispersi – tra figli, parenti, sistemazioni di fortuna – e la grande epopea finisce con quei vecchi che come in un gioco dell’oca tornano alla casella di partenza, al freddo, alla precarietà, alla mancanza di ogni sicurezza – come un ritorno fasullo alla loro giovinezza, ma senza più energia, senza speranze, senza futuro. Quanta fatica, centinaia di milioni di ore di tornio, di fresa, di saldatura, di presse, di vernici – e commerci, edilizia, capannoni e centri direzionali di paese -, tutto frullato e fottuto in un semplice minuto.”

Sembra non salvarsi nessuno da questa deriva, il romanzo non risparmia nemmeno coloro che si prodigano in attività di “volontariato in divisa”, una sorta di ipocrita ed esibito tentativo di redenzione. Quegli abitanti operosi, cittadini perbene, colonne civiche della comunità che “si impegnano al massimo; un po’ perché sono brave persone; un po’ perché non c’hanno un cazzo da fare e questa è la situazione ideale per uscire dalla routine quotidiana […] con piena soddisfazione perché sanno di essere schierati dalla parte giusta, dalla parte del bene, e ci tengono a farsi riprendere dalle telecamere mentre esibiscono la loro scelta di campo. […] L’esercito del bene schiera i suoi reparti migliori per estrarre dal suo seno lo scandalo del male”.

Chi vive la crudezza della realtà dei nostri giorni, riconoscerà qualcosa di sé nella ricerca disperata e goffa del protagonista, alla perenne ricerca di una legittimazione, di un’integrazione, di una redenzione impossibile. Chi vive nei territori della storia, un luogo imprecisato tra la bassa modenese e quella mantovana, riconoscerà questo o quel personaggio, dentro la cartografia di facce e storie vere che il panorama propone. Sulla “bassa” presentata dal romanzo incombe davvero un cielo di piombo e, con questo, l’ispettore Callaghan ed i proiettili delle armi da fuoco non hanno nulla che fare. È una cappa che si è costruita e sedimentata in decenni di accumulazione e produzione forsennata, una cappa di piombo che sembra davvero non lasciare spazio a spiragli di luce in quelle terre che avevano sputato sangue anche pensando ad un sole dell’avvenire che all’orizzonte non sembra più poter far capolino. Qua è lo stesso orizzonte che sembra essere scomparso.

Il finale è aperto a interpretazioni diverse: il protagonista ha cominciato ad adattarsi ai tempi nuovi. La precarietà diventa quasi un’arma vincente. L’illegalità diffusa è un campo di battaglia. Il licenziamento può non essere il male peggiore, lascia capire l’ormai ex metalmeccanico: forse erano peggiori gli anni della produzione, dell’etica del lavoro, della sottomissione di officina. Eppure, mentre esibisce questo nuovo cinico ardore, traspare il rimpianto: puoi diventare spregevole e spietato, ma non puoi cancellare la nostalgia di ciò che poteva essere.
Il racconto non svela quasi nulla della vita in fabbrica; le vicende narrate mostrano piuttosto come essa si propaghi al di fuori dei cancelli, come plasmi la vita del protagonista al di là delle otto ore, tanto che lo stesso romanzo, pur evitando la vita “dentro” l’officina, scandisce la narrazione titolando i diversi capitoli con altrettanti tipi e momenti di produzione: “Lapidatura”, “Rullatura”, “Rettifica”, “Maschiatura”, “Estrusione”… Paradossalmente se il luogo di lavoro può, in alcuni frangenti, anche dare conforto al protagonista, la sua vita al di fuori dei cancelli pare condannarlo ad un “fine pena mai” scandito da una colonna sonora che non conosce alternative al ritmato “produci, consuma, crepa” e quando si interrompe la “produzione ufficiale” perché le fabbriche chiudono, bisogna pur trovare nuove strade, ed a quel punto poco importa se lecite od illecite. Concludendo, Giovanni Iozzoli, con I buttasangue, sembra voler affrontare con le armi della narrativa, ciò che di profondo e terribile si cela dietro la “vita grama” dei tempi nostri

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