emilia romagna – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 30 Apr 2025 21:35:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Costruttori di civiltà https://www.carmillaonline.com/2022/10/13/costruttori-di-civilta/ Thu, 13 Oct 2022 21:55:32 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=74385 di Valerio Evangelisti

[Pubblichiamo uno scritto di Valerio che ha fatto da prefazione al libro Nel vento, come zingari felici, dialoghi tra Luciano Vasapollo e Lorenzo Giustolisi, ed. Efesto, 2021. In particolare si tratta della sbobinatura di un intervento fatto alla Sapienza di Roma, il 21 novembre dello scorso anno.  L’argomento rivela tutto lo studio e il lavoro che ritroviamo nella trilogia de Il Sol dell’Avvenire: un’analisi acuta dei movimenti e della lotta di classe in Emilia Romagna, un omaggio a questa terra che ha dato la nascita alle più diverse esperienze di sovversivismo politico [...]]]> di Valerio Evangelisti

[Pubblichiamo uno scritto di Valerio che ha fatto da prefazione al libro Nel vento, come zingari felici, dialoghi tra Luciano Vasapollo e Lorenzo Giustolisi, ed. Efesto, 2021. In particolare si tratta della sbobinatura di un intervento fatto alla Sapienza di Roma, il 21 novembre dello scorso anno.  L’argomento rivela tutto lo studio e il lavoro che ritroviamo nella trilogia de Il Sol dell’Avvenire: un’analisi acuta dei movimenti e della lotta di classe in Emilia Romagna, un omaggio a questa terra che ha dato la nascita alle più diverse esperienze di sovversivismo politico e sociale. Nella parte finale, troviamo anche un dialogo tra Evangelisti e Vasapollo. Buona lettura.]

Il tema che vorrei trattare è il cambiamento radicale che episodi di conflittualità hanno portato all’interno di una regione specifica, l’Emilia Romagna. Bisogna pensare alla Romagna di fine Ottocento come a una regione completamente diversa da quel che ci appare oggi, fatta di cespugli, intrichi di boschi, caratterizzata da una forte umidità che permetteva il mantenimento di larghe risaie. La popolazione, anch’essa selvaggia come la natura circostante, partoriva anche briganti, di una tipologia particolare. infatti, poco assomigliavano all’immagine del brigante meridionale: il più crudele e il più feroce in assoluto si chiamava il Passatore, soprannominato poi Cortese a seguito di una nota poesia, ma cortese non lo era affatto. Tuttora possiamo trovarlo sulle etichette dei vini, quali il Sangiovese, rappresentato con un improbabile cappello di taglio calabrese, con folta barba; immagine che si discosta totalmente dalla realtà. 

Il Passatore visse a metà dell’Ottocento, portava un cappellino, aveva la barba molto corta che faceva crescere per nascondere le numerose ustioni che portava in viso. Definito crudele perché, oltre ai furti e al largo ricorso alla tortura per indurre a confessare il nascondiglio del patrimonio della malcapitata famiglia di turno, riuscì a conquistare il famoso teatro di Forlimpopoli. Una vicenda presentata come un episodio particolarmente brillante della sua carriera. In realtà la sorella del celebre gastronomo Pellegrino Artusi impazzì, perché fu violentata dai briganti del Passatore che tanto buono non era, patriota men che mai. In Emilia Romagna c’erano quindi i briganti, che provenivano dalla miseria più cruda. Si pensi che nel 1880, in occasione di un allagamento, c’erano braccianti – chiamiamoli così per il momento – che rifiutavano di essere salvati, perché preferivano annegare piuttosto che continuare a condurre la vita precedente. La povertà dilagava: fenomeni come le ripetute guerre e la miseria strutturale avevano ammassato nella regione una quantità di gente, dal lavoro impreciso. Proprio per questo avevo posto precedentemente riserve sul termine braccianti, perché lo erano occasionalmente. Si trattava di persone che in realtà erano disposte a fare un qualsiasi lavoro. L’agricoltura assorbiva gran parte di questa manodopera, ma il fatto è che i lavori agricoli non durano più di cinque o sei mesi, per cui costoro rimanevano disoccupati per buona parte dell’anno. In quei periodi si riducevano a far di tutto pur di poter mangiare: dagli spazzacamini a incaricati dello sgombro delle strade dalla neve durante l’inverno, lavoro prezioso che fornivano le municipalità. Gente, pertanto, che aveva ben poche prospettive di sviluppo davanti. Si trattava, più che di braccianti, di precari o di operai che lavoravano in un contesto agricolo, ed erano completamente diversi da altre figure tipiche delle campagne come i mezzadri, o boari come venivano chiamati in provincia di Ferrara. Costoro erano personaggi effettivamente legati alla terra, vivevano sparsi, per lo più isolati gli uni dagli altri e facevano il loro lavoro con una notevole disciplina, anche perché la piccola quota che riuscivano ad accumulare durante l’anno la usavano con inevitabile parsimonia. La contessa Pasolini di Ravenna, che ha lasciato note molto importanti sulla vita nelle campagne, in special modo nella sua tenuta, elogia al massimo i mezzadri come esempio di famiglia modello, mentre tratta i braccianti come poco di buono. Questo comporta una serie di trasformazioni sul piano sociale. 

La figura tipica dell’operaio agricolo, del bracciante, si discosta dalle altre figure soprattutto per ciò che riguarda le donne. Lo stato di miseria conduce queste popolazioni, molto numerose nel Ravennate e meno nel Forlivese, a comportamenti per qualche verso scandalosi. Vedono la terra come mezzo di guadagno, ma non è sicuramente la loro maggiore aspirazione. Hanno anche costumi inaccettabili da parte del padronato o persino dai mezzadri: le donne, per l’appunto, molto spesso non portano il velo in testa, in un’epoca in cui coprivano i capelli non solo entrando in chiesa, ma anche durante il giorno. I braccianti, inoltre, erano forti bevitori, nei limiti in cui potevano permetterselo, e ciò agevolerà l’azione di chi li vorrà organizzare. Avendo scarso senso religioso, i braccianti bestemmiavano, non frequentavano la chiesa, si esprimevano in maniera brutale ed erano facili alla collera e alla rivendicazione di qualcosa. Ogni anno, infatti, arrivato l’inverno si radunavano in enormi folle davanti al municipio della loro città a chiedere di poter spalare la neve, e spesso questo tipo di rivendicazioni degenerava in piccoli scontri. All’origine erano, dunque, un fattore di turbamento. 

Nella mia tesi di laurea, ripubblicata poco tempo fa, ho ricostruito la storia del primo partito socialista in Italia. Tutti credono che il Partito Socialista italiano sia nato nel 1892, ma 11 anni prima ne era nato un altro con il nome di Partito Socialista Rivoluzionario di Romagna fino al 1886, e successivamente denominato Partito Socialista Rivoluzionario Italiano, e durò anche successivamente la nascita del partito socialista italiano che conosciamo e che oggi pare essersi quasi estinto. Era una corrente totalmente diversa, che derivava dalla Prima internazionale delle sezioni emiliano-romagnole, di impostazione anarchica, rifacendosi a Bakunin piuttosto che a Marx, che a stento si sapeva chi fosse. Anarchici sostanzialmente, dunque, una parte dei quali, guidati dal loro leader maggiore Andrea Costa, portava avanti la tesi secondo cui l’astensione totale da qualsiasi forma di resistenza politica non permetteva una crescita reale ed era priva di risultati. Già nel 1879. in una lettera intitolata Agli amici di Romagna, Andrea Costa invitava a radunarsi con una formazione differente e a partecipare, non alle elezioni politiche generali ma a quelle amministrative; dopodiché Andrea Costa diverrà il primo deputato socialista italiano. La proposta di carattere prettamente politico non mancava di risvolto sociale, Costa indicava chiaramente chi andava conquistato, non come, riuscendo a coinvolgere la classe lavoratrice, tra cui la maggior parte dei braccianti finora menzionati. 

Un partito organizzato ma non in maniera ferrea, bensì sfilacciato pur conservando una propria identità, prendendo parte a determinate lotte che solo dopo un momento ben preciso assunsero un proprio carattere definito. Questi lavoratori furono conquistati non solo tramite la forma partito e i relativi circoli che caratterizzavano la vita politica organizzata, ma anche attraverso un altro sistema di reclutamento. Le “cameracce”, un’invenzione dei repubblicani, dove si beveva, si giocava a carte e dove si svolgeva una parte del lavoro di reclutamento dei socialisti e rivoluzionari. 

Bisogna però capire chi fossero nel concreto questi socialisti rivoluzionari: moltissimi erano ex garibaldini, Andrea Costa stesso aveva combattuto nelle ultime battaglie di Garibaldi, alcuni erano andati in Francia partecipando alla Comune di Parigi, quasi per caso, ma rimasero conquistati da questo episodio tragico della storia francese. Erano artigiani, fabbri, falegnami, sellai, uno di questi socialisti rivoluzionari era il padre di Mussolini, Alessandro, anch’egli un fabbro. Uscivano dal ceto medio-basso e riuscirono, vista la loro estrazione dal popolo, ad avere un rapporto tra loro ma anche ad avviare dei progetti: venne l’idea di raccogliere la manodopera senza lavoro in una cooperativa, là dove il lavoro era solitamente appaltato: un sistema selvaggio. La chiamata al lavoro era singolare. Bisogna considerare che i ceti bracciantili non vivevano nei campi, non avevano case nei luoghi di lavoro. L’appaltatore, arrivata la mezzanotte, suonava una tromba possibile lavoro pubblico; i braccianti correvano con le loro carriole artigianali, verso il luogo di lavoro, solo i primi venivano assunti poiché corrispondevano ai più forti e rimanevano esclusi quelli più malconci, che non potevano correre chilometri spingendo una carriola. I socialisti credono che questo sistema vada superato attraverso la costituzione di società cooperative, totalmente differenti da quelle odierne, tra le altre l’Associazione generale Operai e braccianti del comune di Ravenna, guidate dal socialista rivoluzionario Nullo Baldini. 

Questa associazione, dopo non pochi contrasti, riesce a farsi affidare dai comuni occupazioni che gestisce in una maniera totalmente diversa rispetto agli appaltatori: si lavora a turno – non c’è più bisogno di correre con le carriole-, i compiti vengono ripartiti e questo sistema riuscì a sfamare, non dico tutti, ma sicuramente molti. Il passo successivo che compie questa associazione è finalizzato a dar da mangiare a quanti sono rimasti digiuni, ossia farsi affidare un lavoro di portata notevole che garantisca un reddito per un tempo abbastanza lungo. 

Questo lavoro viene trovato non solo in ambito comunale, ma lo si riceve in appalto dalla municipalità romana: Roma era circondata da paludi, dilagava la malaria, c’erano torbe di insetti più numerosi degli abitanti stessi, una situazione apparentemente irrimediabile. Più volte il Vaticano si era mosso per cercare di correggere questa situazione, ma il lavoro fatto era senz’altro insufficiente. Venne organizzata una spedizione di lavoratori ravennati, che partirono in treno muniti di paletto (era una specie di vanga che veniva usata nelle bonifiche delle paludi, tecnica largamente conosciuta in Romagna) e fazzoletto rosso al collo. Si dirigono verso le paludi dell’Agro Romano, trovando una situazione indescrivibile, che fa quasi desistere la maggioranza. Armando Armuzzi, Il vice di Baldini, riesce comunque a convincere i braccianti a rimanere. Vengono ospitati in dei casermoni e lì nasce qualcosa di nuovo: diventano falansterio, una specie di piccola società socialista. Sono divisi in squadre, ricevono un compenso non in moneta corrente ma in una moneta stampata dalla stessa Associazione Generale Operai Braccianti, che serve per comprare gli alimenti o servirsi dei ristorantini all’interno dello stesso casermone; tutto viene diviso equamente e si  comincia questo lavoro disumano. Devono portare via l’acqua dalle paludi con il paletto, molti muoiono di malaria. Non venivano neppure sepolti. poiché gli abitanti del posto credevano che il cadavere, una volta seppellito, potesse generare altre malattie. Un sacrificio umano enorme, che durò fino ai primi del Novecento e oltre. Le paludi dell’Agro romano sparirono del tutto e costoro si integrarono nella società locale. 

Durante la presentazione di un libro che trattava questo argomento, fui interpellato da un giovane dall’accento fortemente laziale/romano e si scopre essere un discendente dei lavoratori ravennati e la stessa bisnonna era stata citata nel mio libro, fatto che aveva molto emozionato il ragazzo, la bisnonna faceva parte della categoria di eroine -f orse il termine risulta anche inadeguato considerando il loro valore – che nel corso della vita riuscirono a modificare la sofferenza di chiunque abitasse l’Agro, come del resto coloro rimasti in Romagna stavano facendo. Azioni che vennero largamente contrastate dagli agrari locali e invece molto appoggiata dalla parte più erudita della classe dominante; una minima parte, ma che riusciva a comprendere ciò che i braccianti stavano facendo.

Nei primi del ‘900 vengono organizzate altre spedizioni come quelle che avevano trasformato l’Agro romano, alcune verso la Sardegna, altre verso l’estero come in Grecia, un primo movimento, dunque, di trasformazione del territorio. Ai tempi di Andrea Costa, costoro non erano riformisti, si chiavano rivoluzionari perché sostenevano che non si potesse uscire dal capitalismo senza una rivoluzione. In realtà facevano poco da questo punto di vista, a parte qualche scontro. Diventano totalmente riformisti quando si impongono Turati e il suo gruppo milanese di operai, piuttosto che contadini o braccianti. Lì nasce il vero riformismo, che non va confuso con moderatismo – poiché non lo erano affatto, visti episodi come i frequenti scontri contro i crumiri. 

Il loro modo di fare era finalizzato a costruire un contropotere. I socialisti del primo ‘900, volevano costruire una società all’interno di un’altra società, come a Molinella: spacci a prezzi contenuti senza profitti reali, c’erano scuole, infatti, l’istruzione aveva un peso preponderante all’interno della cultura socialista dell’epoca – orologi come quelli Roskoff riportavano scritte come “otto ore per lavorare, otto ore per instruirsi e otto ore per riposare”. Poi c’erano gli organismi di lotta, chiamati leghe di resistenza (o di miglioramento, leggermente differenti, però, nelle funzioni). In questo caso si trattava di veri e propri organi sindacali con alla testa il Capo lega e i suoi braccianti (o mezzadri) socialisti. In altri paesi le lotte per o su la terra nascono quasi apolitiche, come il laburismo inglese che nasce addirittura nelle chiese protestanti; l’Italia è l’unico paese dove si verifica questo fenomeno di lotta politicizzata. 

I primi del ‘900 son pieni di correnti, non c’è un socialismo unico: c’è il gruppo di Turati, sempre più forte in parlamento, si hanno poi altre correnti che si fanno guerra fra loro e la punta estrema è caratterizzata dai massimalisti, coloro che erano indifferenti alle finalità dei minimalisti, ovvero quelle di cambiamenti concreti all’interno della vita quotidiana, e si caratterizzavano per appoggiare la lotta finale e la presa del potere. Altra corrente diversa che tralascio ne dettagli, poiché non più esistente, è quella dei sindacalisti rivoluzionari: nel film Novecento, girato nei dintorni di Parma, il contesto era dominato non dai socialisti riformisti, né dai sindacalisti, bensì dai sindacalisti rivoluzionari che volevano un futuro organizzato come un organo sindacale, dove le strutture avrebbero rappresentato i nuovi organi di governo. Queste correnti si fanno guerra reciproca, ma nessuno alla base è pacifista: vengono organizzate forme di lotta completamente radicali: una di queste è il boicottaggio, che prevedeva che nessun boicottato avesse dei rapporti sociali, nessuno poteva esser servito nei negozi, parlare a chicchessia. Una specie di “embargo” sociale che determinava un isolamento totale dalla vita della società. 

Una volta resa fertile l’Emilia Romagna, arricchita, i braccianti riescono ad acquisire posizioni sempre più forti- A un certo punto appare una parola d’ordine, “l’imponibile di manodopera”, ossia tutto fa a capo non più a colui che a mezzanotte suonava la tromba, bensì agli uffici di collocamento dei sindacati. Quest’ultimi potevano valutare quanti braccianti dovevano essere usati in certe tenute e fornivano essi stessi la manodopera: una rivoluzione per quelle regioni. Nasce quasi una guerra aperta, nascono correnti più violente come i giovani socialisti (il segretario era Amadeo Bordiga). 

Con la Prima guerra mondiale le cose cambiano ulteriormente, il ruolo delle donne è sempre più di protagonista, non si parla più di veli, le donne prendono in mano le loro sorti: i mariti sono in guerra e loro devono portare avanti l’agricoltura, per cui si occupano dei lavori che tradizionalmente erano maschili. Questo cambia molte, forse troppe cose dal punto di vista del padronato, che porta al noto fenomeno dopo la guerra dei fascisti. Sono circa 200 gli omicidi attribuiti ai fascisti negli anni ’20-’21. dopo che l’occupazione delle fabbriche e i vari esperimenti nelle campagne, nei due anni precedenti, avevano rafforzato le posizioni dei socialisti e dei lavoratori.

Ciò avvenne, ma non senza reazioni: nella Prima Guerra Mondiale, aveva lottato un corpo speciale, chiamato de “gli arditi“, di impronta non proto-fascista, come è stato scritto: erano una cosa assai più complessa. I primi Arditi erano presi dalle carceri  erano perseguitati politici, spesso socialisti o anarchici e venivano spediti in prima linea (sovente alla morte) con un trattamento completamente diverso rispetto a quello riservato agli altri soldati, nel senso che costoro vestivano in maniera diversa, venivano alimentati meglio, non venivano mandati in trincea ma stavano alla base delle montagne che ospitavano le trincee e avevano una serie di favori finalizzati a nascondere il fatto che erano stati “condannati a morte” con quella spedizione. 

Curioso il contrasto tra arditi e carabinieri, quest’ultimi si trovavano anch’essi alla base della montagna per contrastare qualsiasi tipo di disobbedienza dei soldati semplici, 10’000 soldati furono, infatti, fucilati da parte dei carabinieri. Gli arditi, per dimostrazione della loro diversa natura, di notte andavano a bastonare i carabinieri e qualche volte li uccidevano. Una parte di questi arditi formarono poi un gruppo armato chiamato gli arditi del popolo, di orientamento socialista, che combattevano i fascisti con armi da fuoco. Costoro furono per un po’ di tempo l’avanguardia della lotta antifascista, anche se oramai era troppo tardi. Qualsiasi reato, anche minimo, di un antifascista veniva represso con grande violenza, mentre qualsiasi reato non fascista veniva totalmente trascurato dalla polizia: possedere dunque un coltellino poteva comportare la galera per un numero imprecisato di anni per un antifascista, mentre possedere un fucile non comportava nulla per il fascista.

Gli arditi del popolo sembravano essere la creatura adatta per la nuova forza dei Giovani socialisti, che erano poi diventati comunisti. Nel 1921 si verificò una scissione drammatica del movimento operaio, in cui i socialisti si divisero dai comunisti, che formano un loro partito molto più agguerrito. I comunisti non ne vogliano che sapere degli arditi del popolo, poiché non erano comunisti: tra le fila troviamo socialisti, cattolici, anarchici etc. Vengono, quindi, creati degli organismi esclusivamente comunisti – come gli arditi comunisti- e l’unico esercito popolare che ci fosse stato fino quel momento e che potesse occasionalmente contrastare i fascisti, gli arditi del popolo, viene lasciato a se stesso. L’istituzione e la nascita del Partito Comunista implicò una posizione settaria, ma possedeva delle virtù, a parte quella di avere tra i capi personaggi come Antonio Gramsci, che tra l’altro prese le difese degli arditi del popolo e che contrastò la separazione tra comunisti e arditi.

Negli anni del fascismo l’unico partito di sinistra che in qualche modo si muoveva in Italia, era per l’appunto il Partito Comunista. I socialisti si dissolsero, in gran parte andarono all’estero, sempre mantenendo la separazione tra riformisti e massimalisti, mentre i comunisti svolgevano un’attività capillare distribuendo una stampa per quelle condizioni copiosa, pubblicavano giornali clandestini per gli operai, per le donne, per i bambini addirittura. Rimasero quindi sul terreno della lotta e come soggetti di contropotere; gli errori che aveva compiuto il loro partito furono pian piano riparati. Ma il soggetto trasformatore nelle campagne, ossia i lavoratori della terra, in questo contesto in parte si rassegnarono; Nullo Baldini, pur di mantenere in piedi le cooperative ,si compromise in maniera molto grave con i fascisti una volta che questi divennero regime. Nelle campagne rimase però il dissenso e anche embrioni di lotta clandestina. Il proletariato trasformatore, privato da qualsiasi potere di trasformazione, ridotto in condizioni pessime, con salari minimi, tuttavia, cercava di mantenere le antiche strutture, seppure la gran parte fossero state prese dai fascisti e governate in maniera fittizia. 

Qualcosa però continuava a vivere, e lo si vide quando iniziò la guerra civile, ossia la lotta partigiana che cominciò anche prima della caduta vera e propria del fascismo. Le regioni in cui queste classi sociali erano presenti e avevano avviato grandi processi di trasformazione furono quelle in cui la resistenza era composta da veri e propri eserciti: per esempio la provincia di Ravenna. Aveva ormai cambiato aspetto, non vi erano più boschi, cespugli o briganti, era divenuta un terreno piatto eppure, in questo piattume, prolifera un vero e proprio esercito fatto in maggioranza di braccianti e altre categorie contadine. Riuscirono a sopravvivere e ingannare i tedeschi sottraendosi alle loro ricerche, muovendosi con un’abilità estrema in questi terreni spogli grazie all’ aiuto degli abitanti. C’erano ovviamente i romagnoli che detestavano i partigiani poiché li accusavano di attirare le rappresaglie tedesche, ma c’erano anche coloro che aiutavano senza essere neppure militanti: le donne, ad esempio, per comunicare l’arrivo dei tedeschi o dei fascisti mettevano un certo tipo di biancheria alla finestra, cosicché i partigiani capivano che dovevano andarsene. Furono tantissimi gli episodi di questo genere e solo ora si riscopre il ruolo delle donne all’interno della resistenza, parte di un complesso enorme: addirittura sebbene fossero quasi tutti comunisti, i partigiani ravennati furono inglobati nell’esercito inglese, con la divisa dell’esercito britannico e il fazzoletto rosso, così numerosi da costituire un reggimento. 

Finita la guerra, questi braccianti non rimasero alla coltivazione della terra, ma divennero operai o anche operai specializzati nelle stesse campagne. Da qui è l’inizio di una storia del tutto diversa, la storia degli operai urbani con la loro connessa complicata vicenda spesso dalle tinte molto tristi. Intanto le campagne erano in via di industrializzazione e, seppur presentassero una prosperità maggiore rispetto agli anni antecedenti la riforma agraria, i braccianti preferirono lasciare i campi piuttosto che trovarsi in una condizione mezzadrile, o quasi. I braccianti li troviamo dunque alla testa e mescolati alla classe operaia, una componente che lascia ancora un’eredità che prima o poi qualcuno possa raccogliere, ispirandosi a questi esempi, come tanti altri, in cui la civiltà è stata costruita attraverso la lotta di classe, con vicende alterne tra sconfitte vittorie. Se termina la lotta di classe anche lo sviluppo economico ne risentirebbe, poiché senza opposizione non c’è né democrazia né progresso.

Dialogo con Luciano Vasapollo

L.V. Caro Valerio è un po’ la fine del tuo intervento, io cerco di dare un’interpretazione degli anni ’70 che ci hanno visti un po’ “testimoni del tempo”, io non mi sento testimone del tempo come non lo sei neanche tu, noi siamo attori del nostro tempo, non bisogna mai mitizzare nulla. La storia si fa, si costruisce e quindi anche quello che avviene negli anni ’70 e anche l’involuzione successiva, deriva tutto dal Dopoguerra ma io direi, deriva da ciò che tu ci hai descritto con il tuo intervento, cioè che tipo di unità di Italia si è fatta, che tipo di costruzione di uno Stato plurinazionale si è fatto. Valerio se vuoi dire qualcosa su questi dieci minuti di intervista e poi andiamo avanti. Mi interessa far capire ai ragazzi che anche quando sentono anni ’70-’80, la storia non va mai letta come momenti, è una lumaca che fa la sua strada, è un divenire e quindi probabilmente anche gli anni ’70 si interpretano non solo come tali, ma facendo riferimento anche al dopoguerra.

V.E. Io dopo aver visto il documentario, non è che abbia molto da aggiungere, hai detto tutto, mi ha anche commosso questa tua storia, che poi rivendica tante altre storie, io venivo da una condizione meno disagiata, i miei erano maestri elementari, io ero nato in una casa in cui la stufa era una specie di grosso barattolo dove avevano tagliato una sorta di sportellino per accenderla. Cosa mi spinse a un certo punto a ribellarmi a tutto questo? Intanto l’Italia di allora era qualcosa di terribilmente arretrato, basti pensare che fino gli anni ’60 se un uomo uccideva la moglie per gelosia, veniva assolto; era assolutamente previsto il delitto d’onore dal Codice Penale e questo lo si vedeva in tutti i minimi dettagli, lo si vedeva anche nell’educazione che ricevevamo, mi ricordo tantissimi aspetti come il fortissimo sessismo, che seppur erano state introdotte le scuole miste da qualche anno, uomo e donna erano considerati due specie assolutamente differenti, mi ricordo ingiustizie spacciate per legge naturale. Ad un certo punto -c’era anche un bisogno che non va taciuto, nel mio caso avevo bisogno di gente che avesse la mia stessa, o perlomeno simile, visione filosofica del mondo. Arrivarono prima i maoisti, “servire il popolo”, due giorni dopo ero anche io di fronte la scuola con un fazzoletto che raffigurava Mao, la bandiera rossa ma non funzionavano molto bene. Andai ad una manifestazione era il 1969, ero lì con questi maoisti, c’erano dei giapponesi turisti che ci fotografavano, e tutti a dire “i cinesi, i cinesi, ci sono i cinesi” e tutti a salutarli con il pugno chiuso, mentre alla fine erano giapponesi. Ero lì che perdevo tempo in questa maniera, eravamo vicino piazza maggiore al centro di Bologna, quando sento un grido possente “Lotta continua! Potere Operaio!”, proveniente da un altro corteo che neppure ci considera, ovviamente. Erano dei giovani che più che camminare, correvano. Io e un compagno di scuola, consegnai il fazzoletto con Mao e la bandiera, e andai dietro al loro corteo. Lì trovai un altro mondo di valori che scoprì coincidere con il mio, quindi dalle esperienze personali e sociali, tutto spingeva in qualche modo verso una rivolta generalizzata. Non mi sono mai pentito poiché non ne vedo il motivo, non solo fu un periodo ed una lotta utile per la stessa società italiana, ma fu qualcosa di un’importanza sconfinata dal punto di vista esistenziale, qualcosa di bellissimo. Io ho dispiacere per coloro che non ha vissuto quegli anni e che senza la testimonianza della vita dell’epoca non potrà forse capirli. Era una cosa bella, manifestavamo odio ma era in realtà un atto d’amore. 

Una piccola curiosità, nel filmino di Novecento, ad un certo punto si vedono alla stazione dei bambini con delle bandiere rosse, era uno sciopero contadino di sindacalisti e rivoluzionari a Parma del 1909, dato che non lavoravano e neppure mangiavano, decisero di mandare i bambini presso famiglie operaie di altre città, partirono con questi treni e trovarono ad attenderli folle gigantesche. Massimo Gorki era spettatore di uno di questi fatti, vide arrivare il treno con i bambini che gridavano “viva il socialismo!”. La folla alla stazione stava invece in silenzio e i bambini si misero paura. Un bambino ebbe il coraggio di mettere piede sulla banchina e un gigantesco portuale gli corse addosso, il piccolo fece per ripararsi, il portuale lo prese e lo sollevò in aria e tutti cominciarono a gridare “viva il socialismo! viva il socialismo!”. Aldilà del socialismo reale, questo era lo spirito socialista vero, quello è il destino che nell’ipotesi migliore potrebbe avere la società.

L.V. Grazie Valerio in effetti, anche il titolo che mi hai suggerito di dare a questo ciclo seminariale, Costruttori di civiltà, vale la pena sottolineare che la civiltà vera è quella che crea, e non che distrugge, umanità. Noi pensiamo di essere nel nostro piccolo Valerio di essere costruttori di civiltà perché con un atto d’amore come lo chiamava Gramsci ma anche gente come Che Guevara, Martí, Bolivar: diamo noi stessi per costruire progetti e processi di civiltà, per mettere in atto umanità che cammina.

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La terra degli uomini con la capparella https://www.carmillaonline.com/2022/07/31/la-terra-degli-uomini-con-la-capparella-2/ Sat, 30 Jul 2022 22:01:08 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=73114 di Valerio Evangelisti

[Questo articolo è apparso per la prima volta, in francese, sul quotidiano Le Figaro, il 27 settembre 2004. L’autore lo definì “una dichiarazione d’amore” per la sua regione, l’Emilia Romagna.]

A prima vista, l’Emilia Romagna ha poco per attirare i turisti. Questi ultimi, del suo paesaggio molto vario, conoscono quasi solo Rimini e la costa adriatica. Le zone appenniniche sono luogo di vacanze soprattutto per gli indigeni venuti dalle città. Tra queste, Bologna è poco visitata (soffre molto la concorrenza di Firenze). Gli altri centri importanti della regione sono quasi ignorati, [...]]]> di Valerio Evangelisti

[Questo articolo è apparso per la prima volta, in francese, sul quotidiano Le Figaro, il 27 settembre 2004. L’autore lo definì “una dichiarazione d’amore” per la sua regione, l’Emilia Romagna.]

A prima vista, l’Emilia Romagna ha poco per attirare i turisti. Questi ultimi, del suo paesaggio molto vario, conoscono quasi solo Rimini e la costa adriatica. Le zone appenniniche sono luogo di vacanze soprattutto per gli indigeni venuti dalle città. Tra queste, Bologna è poco visitata (soffre molto la concorrenza di Firenze). Gli altri centri importanti della regione sono quasi ignorati, salvo forse Ravenna e un po’ Ferrara.

Ciò si può capire. Le arterie principali della mia regione non offrono altro panorama che pianure molto estese, in cui l’agricoltura ha conosciuto una precoce industrializzazione. Dunque si transita fra campi di grano, tenute agricole che somigliano un poco a delle officine e allevamenti che sprigionano, oltre a odori naturali buoni e cattivi, altri stomachevoli di origine chimica.
Ebbene, è proprio questa parte dell’Emilia, adagiata sul corso del Po, quella che amo di più. Ricordo di avere percorso, quand’ero bambino e l’A1 era ancora in costruzione, le sue strade bruciate dal sole. Mio padre era direttore di scuole elementari, all’inizio di continuo trasferito, e comunque adorava viaggiare per la regione. Sulla sua utilitaria incontravamo paesi dalla piazza centrale squadrata (normalmente chiamata Piazza Garibaldi, e molto spesso ornata dalla statua dell’Eroe), nella quale, soprattutto la domenica, gli uomini si radunavano davanti alla chiesa. Pochi di loro partecipavano alla messa, riservata alle donne. Stavano là per discutere dei loro affari e delle due grandi passioni regionali di quel tempo: la politica (di sinistra) e il ciclismo, in ordine d’importanza. Calcio e automobilismo sarebbero venuti in seguito.

In quegli anni (fine ’50, inizi ’60), la maggior parte dei contadini e della gente di campagna, soprattutto se anziana, portava ancora l’abito tipico: il mantello (o “capparella”), nero oppure grigio. Piuttosto pesante, teneva il posto del cappotto o della giacca. Sotto non c’erano che il panciotto e la camicia. Ed era curioso vedere tutte quelle figurine vestite di nero, con larghi cappelli neri anch’essi, ammassate sotto i raggi di un sole feroce.
Viene naturale collegare quelle popolazioni alle “genti padane” che abitano le pianure ai lati del Po. Forse è vero da un punto di vista antropologico e culturale, nel più largo senso del termine, ma sul piano storico l’itinerario degli uomini dal mantello nero, in Emilia e in Romagna, è stato differente da quello di ogni altra regione italiana.
Nel 1880, durante una delle grandi alluvioni del Po, drammaticamente frequenti fino ad anni recenti, gli operai agricoli rifiutavano i soccorsi: preferivano lasciarsi annegare, piuttosto che tornare alla vita che conducevano. In quelle campagne vaste e malsane regnavano lo sfruttamento e la miseria, e non c’era lavoro che dalla primavera all’autunno, quando l’agricoltura chiedeva braccia. Anche quando il contadino possedeva il suo campo, o ne era proprietario in parte, come il mezzadro, spesso conosceva la fame, ed era obbligato a mandare le sue figlie a lavorare come mondine nelle paludi della Lombardia.

Ciò che avvenne in seguito lo si legge nel ritratto del mio nonno materno, che non ho mai conosciuto e che morì quando mia madre era ancora piccola. Un uomo bruno dallo sguardo fiero, con baffi enormi e un fiocco nero che gli pendeva dal collo al posto della cravatta. Nato a Imola, la cittadina che unisce l’Emilia alla Romagna, aveva aderito giovanissimo alle ultime propaggini dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori che si ispiravano a Bakunin. In seguito, sull’esempio del deputato imolese Andrea Costa, aveva lasciato l’anarchismo e si era avvicinato al socialismo legalitario, senza per questo rinunciare al cravattone nero.
Soprattutto aveva fatto parte, con i fratelli, del movimento cooperativo, che si proponeva di sottrarre i lavoratori alla miseria attraverso la proprietà collettiva dei mezzi di produzione. Una delle vie per le quali, grazie all’impulso del partito repubblicano e del partito socialista, la sorte degli operai emiliani e romagnoli sarebbe cambiata completamente — mentre più a nord o a sud della Toscana, dove queste esperienze avvenivano su scala minore o erano più primitive, la trasformazione fu molto più lenta.
Questa impronta ha segnato profondamente la regione e ne ha modificato, molto rapidamente, il paesaggio. Non più paludi e zone malsane; al loro posto vaste coltivazioni, fattorie in cui l’abitazione centrale è antica ma la dotazione tecnica è modernissima, canali artificiali e piccole fabbriche per la trasformazione dei prodotti del campo, oppure per la costruzione di beni strumentali.

E’ esagerato dire che tutto ciò lo si deve al movimento cooperativo? Credo di no.
Fino al termine del XIX secolo l’Emilia Romagna era una regione quasi immobile. In Emilia, l’enorme estensione delle proprietà non stimolava né l’innovazione, né la mobilità sociale. Nei campi alcune grandi famiglie o, talora, delle potenti società bloccavano ogni spinta verso la nascita di una borghesia di tipo moderno, mentre i lavoratori si concentravano nei paesi, dove potevano trovare migliori soluzioni alla loro miseria. Quanto alla Romagna, era considerata una terra quasi barbarica, in cui il destino di molte famiglie era l’emigrazione (soprattutto verso l’America Latina) e in cui i duelli con il coltello o il revolver erano frequenti quanto nel Far West.
Unico limite alla barbarie era la vita politica, soprattutto per impulso iniziale del partito repubblicano. Furono i seguaci di Mazzini i primi a promuovere le Società di mutuo soccorso e le Camere del lavoro. Fu per questo che le prime statue collocate nelle piazze, di fronte alla chiesa affollata dalle donne e disertata dagli uomini, furono quelle di Mazzini. Le statue di Garibaldi, più amato dai socialisti, vennero immediatamente dopo. Si dovette a questi due partiti il coinvolgimento attivo delle masse nella politica, prima riservata alle élites e ai ceti privilegiati.
Strappando uomini e donne alla disoccupazione, era tutto il paesaggio che cambiava. La più potente società cooperativa nata in Romagna, quella dei braccianti di Ravenna, si incaricò della bonifica di una delle zone più malsane; altre, sorte sullo stesso modello, costruirono dighe capaci di contenere la forza distruttiva delle acque del Po; i municipi assicurarono lavori pubblici che convertirono le paludi in campagna fertile. Il fascismo cercò di distruggere il movimento operaio e contadino organizzato, ma fu un successo effimero. In poche altre regioni vi fu una Resistenza così accanita, talora persino selvaggia, come nelle pianure e sulle montagne emiliano-romagnole. Un intero popolo intuiva bene cosa gli si voleva strappare.

La riforma agraria del secondo dopoguerra completò il processo. Parte degli operai agricoli e dei mezzadri si trasformarono in piccoli proprietari, altri in lavoratori urbani, altri ancora in padroni di officine e di fabbrichette. Sia in campagna che in città. Per molto tempo i campagnoli hanno conservato il ricordo di ciò che erano stati i loro padri e, fino a qualche decennio fa, le antiche abitudini. Per esempio quella di ritrovarsi la domenica mattina, con la loro capparella e il sigaro tra le labbra, a discutere sulla piazza principale di un borgo cotto dal sole.
Tutto ciò può sfuggire facilmente a un turista, che senz’altro preferirà le colline verdi e piacevoli dell’Italia centro-meridionale. Ma per un emiliano, uno vero, è una storia di sudore e di civilizzazione che, nella sua regione, tiene il posto delle bellezze naturali, esistenti però nascoste. Ciò che conferisce alla monotonia apparente dei campi di grano un fascino che solo lui può cogliere per intero.

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Economia e crimini di guerra: il capitale getta la maschera https://www.carmillaonline.com/2020/04/09/economia-e-crimini-di-guerra-il-capitale-getta-la-maschera/ Thu, 09 Apr 2020 18:30:11 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=59320 di Sandro Moiso

“Lì dove cresce il pericolo, cresce anche ciò che salva” (Friederich Holderlin)

Ci aspetta un bagno di sangue. In tutti i sensi. In un mondo che si intendeva pacificato, se non per contrasti locali e distorsioni dovute a dittatori e scelte errate o mirate di qualche deus ex-machina individuato di volta in volta con Trump o Putin, siamo tornati, grazie alla pandemia da Covid-19, a leggere titoli e articoli che parlano di guerra e di “economia di guerra”. Come si è già detto, però, ad aggirarsi per l’Europa e [...]]]> di Sandro Moiso

“Lì dove cresce il pericolo, cresce anche ciò che salva” (Friederich Holderlin)

Ci aspetta un bagno di sangue.
In tutti i sensi.
In un mondo che si intendeva pacificato, se non per contrasti locali e distorsioni dovute a dittatori e scelte errate o mirate di qualche deus ex-machina individuato di volta in volta con Trump o Putin, siamo tornati, grazie alla pandemia da Covid-19, a leggere titoli e articoli che parlano di guerra e di “economia di guerra”. Come si è già detto, però, ad aggirarsi per l’Europa e per il mondo, in realtà, non è il fantasma del virus, che pure contagia e uccide, ma quello della catastrofe economica del modo di produzione attuale.

Nonostante il fatto che i politici, gli economisti e gli opinionisti pongano l’accento sul “nemico invisibile”, da un punto di vista di classe lo stesso è in realtà sempre più visibile. Così come le sue autentiche malefatte. Peccato, però, che i primi parlino esclusivamente dell’invisibile virus, mentre nel secondo caso in realtà l’avversario abbia dimensioni gigantesche e pervasive di ogni tratto della vita sociale della nostra specie. Si tratta infatti, come i lettori avranno già capito, del modo di produzione capitalistico nell’età della sua globalizzazione.

Come ha affermato Frédéric Neyrat nel suo libro “Biopolitique des catastrophes” (2008), «le catastrofi implicano una interruzione disastrosa che sommerge il presunto corso normale dell’esistenza. Nonostante il suo carattere di evento, si tratta di processi in marcia che mostrano, qui e ora, gli effetti di qualcosa che è già in corso. Come segnala Neyrat, una catastrofe sempre si origina da qualche parte, è stata preparata, ha una storia.»1

Nel suo libro l’autore indica infatti una maniera di gestire il rischio che non mette mai in questione le cause economiche e antropologiche, precisamente le modalità di comportamento dei governi, delle élite e di una parte significativa delle popolazioni mondiali, affermazione particolarmente vera in relazione alla pandemia attuale.
Un atteggiamento, purtroppo, che ancora troppo spesso è adottato involontariamente anche da molti di coloro che, pur facendo parte di movimenti apparentemente volti alla contestazione dell’esistente, si soffermano ancora e soltanto su singoli aspetti della catastrofe che sembra aver travolto la società mondiale e, soprattutto, quella che siamo usi a definire come più avanzata e moderna.

Si puntualizzano specifiche responsabilità politiche, partitiche o individuali, nella affannata gestione sanitaria della crisi; si sottolinea la perdita di libertà individuale legata alla militarizzazione della vita pubblica e delle strade; si immagina che le cose sarebbero andate diversamente se diversa fosse stata l’organizzazione della spesa pubblica o la gestione dell’ambiente oppure, ancora, se una politica di nazionalizzazioni ed intervento statale avesse preso per tempo il posto della gestione liberista dell’economia e dei suoi risvolti sociali o la speculazione azionaria e la ricerca di nuovi prodotti farmaceutici da parte di Big Pharma non avesse liquidato quasi del tutto l’indipendenza della ricerca scientifica.

Sono di per sé tutte affermazioni e supposizioni che contengono parti anche importanti di verità ma, tralasciando il discorso sulla possibilità di giungere ad una autentica e unica verità assoluta generalmente condivisa, hanno nel loro insieme l’evidente difetto di volersi limitare ad affrontare elementi parziali del quadro che la realtà ci offre. Come se si volesse intuire la grandiosità di un’opera o di un mosaico antico a partire dalle sue singole parti o da qualcuno dei suoi sparsi tasselli costitutivi.

Come sanno gli appassionati di puzzle è invece possibile giungere alla ricostruzione completa e corretta di un’immagine soltanto se si ha già sotto gli occhi, oppure a mente, la raffigurazione nel suo insieme. Far combaciare i pezzi e trovare la loro giusta collocazione sarà comunque difficile e appassionante, e questo dipenderà anche dalle dimensioni della stessa e dal numero dei pezzi che occorrerà far combaciare, ma sarebbe del tutto impossibile farlo senza una immagine o delle linee guida. Marx avrebbe semplicemente affermato che nell’indagine scientifica del modo di produzione corrente e dei suoi aspetti sociali occorre procedere dal generale al particolare e non viceversa per giungere al disvelamento della sua reale essenza. Al fine di rivelare l’arcano, o gli arcani, del modo di produzione capitalistico e delle sue conseguenze di classe.

Ecco allora che si rende necessaria una prospettiva, una visione d’insieme, una teoria generale o una linea di condotta: lasciamo per ora ad ogni singolo lettore la definizione che più gli aggrada.
Per questo motivo è importante stabilire, fin da subito, che la guerra è già stata dichiarata.
Una guerra di classe e senza quartiere che il capitale, nelle sue varie funzioni finanziarie e industriali, ha già scatenato contro la sua, spesso ancora inconsapevole, controparte: la specie nel suo insieme, dal punto di vista biopolitico generale, e la classe operaia e il proletariato internazionale nello specifico attuale della crisi economica che ha preceduto, accompagna e seguirà con violenza estrema l’attuale pandemia.

Ogni crisi può rappresentare un’opportunità e talvolta, come in questo caso, enorme.
I rappresentanti degli imprenditori e i funzionari del capitale l’hanno immediatamente compreso e si apprestano a celebrare nel minor tempo possibile la loro “Pasqua di sangue”.
Non si tratta di fare qui del banale complottismo, ma sicuramente in una fase di crisi economica in cui la militarizzazione e le norme repressive erano già in aumento in vista di una futura e più ampia sollevazione sociale, la scusa offerta dall’esplodere della pandemia ha rappresentato immediatamente un’occasione potenzialmente favorevole per giungere a una ulteriore e ancora più drastica ridefinizione del comando sul lavoro, della limitazione dei diritti sindacali, del costo del lavoro stesso e della ristrutturazione tecnologica e procedurale di tutte le attività produttive.

Accanto a ciò si sta già scatenando un’autentica corsa al rilancio delle grandi opere inutili e dannose, al rinvio al futuro più lontano possibile di qualsiasi norma riguardante la tutela dell’ambiente e al finanziamento pubblico delle ristrutturazioni o conversioni industriali, spacciate per miglioramento o sopravvivenza delle aziende necessarie, ma in realtà destinate soltanto a portare nelle tasche degli imprenditori denaro fresco, a interesse basso o nullo2, con cui i maggiori imprenditori attueranno in tutti i modi possibili un’autentica politica di aggressione economica e repressiva nei confronti dei salariati, dei disoccupati e di tutte le categorie sociali più deboli e ricattabili.

Assisteremo nel più breve lasso di tempo ad un autentico assalto a ciò che rimane delle garanzie sociali e lavorative, ai salari, all’orario di lavoro e ad una sua sempre più intensa parcellizzazione (smart working e telelavoro). I rappresentanti delle imprese del Nord (già aperte in numero impressionante proprio nei territori più colpiti dal Coronavirus, settemila soltanto tra Brescia e Bergamo) minacciano già di non poter più pagare gli stipendi a breve se le imprese non riapriranno al più presto (qui).

Dopo aver versato lacrime di coccodrillo sulle sorti dei morti per la pandemia, per i medici e gli infermieri “eroi” e per i lavoratori che, a milioni, potrebbero perdere il posto di lavoro3, le aziende gettano la maschera e rivelano il loro vero volto. Direttamente, davanti a tutti, dichiarando apertamente ciò che già tutti dovremmo sapere ovvero che i governi rispondono e devono rispondere soltanto alle esigenze del capitale e dei suoi esecutori incarnati. Con un ricatto tanto vile quanto spietato. Davanti al quale non solo il governo, ma anche i sindacati confederali chineranno ancor una volta il capo. Senza nemmeno la finzione pietosa di uno sciopero generale che mai nessuno ha voluto veramente dichiarare.

Confindustria ha in mano le redini della partita4 e vuole dirigere il gioco senza dovere più nascondersi dietro a uomini di pezza o prestanome ancora troppo impastoiati dai giochi della politica istituzionale. Al massimo, dietro al virus.
Ha mandato avanti gli scagnozzi leghisti per un po’, facendo pagare loro il costo di una zona rossa dichiarata con due settimane di ritardo dalla Val Seriana alla bergamasca, come ha dovuto ammettere lo stesso assessore alla sanità lombarda Giulio Gallera.

“Ora è costretto ad ammetterlo anche l’assessore Giulio Gallera: «Ho approfondito e effettivamente c’è una legge che lo consente». La zona rossa ad Alzano e Nembro, i due comuni della Val Seriana che già a fine febbraio avevano fatto segnare un picco di contagi, poteva essere decisa dalla Regione Lombardia. Ma le pressioni fortissime a partire da Confindustria per evitare l’isolamento hanno fatto attendere due settimane, aumentando a dismisura la trasmissione dell’infezione con numeri dimorti altissimi in tutta la provincia di Bergamo […] A conferma c’è anche un video del 28 febbraio che Confindustria Bergamo guidata da Stefano Scaglia pubblica in inglese per tranquillizzare: «Le nostre imprese non sono state toccate eandranno avanti, come sempre» e pochi giorni dopo l’hashtag #yeswework.”5

Mentre Marco Bonometti, presidente di Confindustria Lombardia, in un’intervista ha apertamente dichiarato: «Ai primi di marzo con la Regione ci siamo confrontati, ma non si potevano fare zone rosse , non si poteva fermare la produzione. Per fortuna non abbiamo fermato le attività essenziali perché i morti sarebbero aumentati». E ancora: «Le polemiche le facciamo alla fine».6

Sfacciataggine? Dissennatezza? No, soltanto la tranquilla sicurezza, per ora, di poter fare ciò che si vuole per chi sta al comando. Dell’economia, dello Stato e delle sue amministrazioni locali.
Ma è solo un piccolo esempio, poiché come avevamo già annunciato pochi giorni or sono (qui) i balletti del governo intorno alla data della riapertura assomigliano sempre più alle cosiddette guerre barocche durante le quali i generali muovevano le truppe mercenarie come su una scacchiera, ben sapendo che un preventivo accordo tra i comandanti aveva già stabilito chi avrebbe vinto la battaglia.

Il trucco era già compreso nel Dpcm del 22 marzo, quando si era di fatto accettato che fossero le imprese a presentare un’autocertificazione per la riapertura in deroga, inserendosi in una delle filiere produttive ritenute essenziali e attendendo una risposta prefettizia che, visto il grande numero di richieste, non poteva di fatto pervenire nei tempi stabiliti.

Ecco allora che l’autentico bombardamento di richieste pervenute ai prefetti ha funzionato come una sorta di autentico mail bombing che ha fatto sì che tutte, o quasi tutte, le aziende che ne facciano richiesta possano alla fine riaprire per “mancato diniego”.
Settemila aziende erano già aperte fino a martedì 7 aprile nelle province di Bergamo e Brescia, mentre nella sola Brescia, soltanto per dare l’idea del fenomeno, le richieste di riapertura in deroga aumentano al ritmo di 350 al giorno7.

Ma 70.000 almeno sono quelle che hanno condiviso la richiesta per una riapertura immediata, dopo Pasqua. Mentre tra mascherine, alcol e panico molti operai sono già rientrati al lavoro nel corso di questi ultimi giorni, da Cuneo al Veneto8 . In aziende che rivendicano tutte una indiscutibile utilità sanitaria e sociale del loro prodotto, anche là dove, ancora in questi giorni, il prodotto realmente utile per le finalità che giustificano la deroga costituisce lo 0,1% della produzione complessiva.

Sono le imprese della Lombardia, del Veneto, dell’Emilia Romagna e del Piemonte a tirare la volata, ma è chiaro che una volta saltato il cancello a tornello opposto da un governo asservito non ci sarà più modo di frenare la corsa alla riapertura. Soprattutto con l’avvicinarsi dell’estate e la necessità dell’industria del turismo di riaprire i battenti. Alla faccia della salute pubblica, dei medici, della scienza e di qualsiasi altra considerazione che non sia quello del rilancio della produzione, dei consumi e del profitto.

Sia ben chiaro, anche per il nostro avversario è una partita disperata. Le cose non vanno bene e in Europa non molti hanno l’intenzione di allentare cordoni e aprire borsellini per finanziare o rifinanziare il debito pubblico italiano. Debito che, occorre ricordarlo sempre con buona pace dei nazionalisti di sinistra e dei polli keynesiani, crescerà ancora ma soltanto per sostenere gli interessi privati e che sarà ripagato col sacrificio collettivo di chi lavora, studia o ha soltanto qualche misero risparmio. Come già è stato fatto qui in Italia a partire dal 2011 o, peggio ancora, come in Grecia con un ulteriore taglio dei servizi pubblici, delle pensioni, della sanità e dei salari. Unico percorso che finanzieri e impresari ritengono perseguibile per rilanciare la competitività perduta.

In un paese in cui mai nessun tipo di calmiere dei prezzi è stato applicato in tempi di crisi, dalla prima guerra mondiale in poi (qui), e dove l’affaire delle mascherine e dei supporti sanitari per medici, personale sanitario e cittadini ha scatenato una autentica corsa alla truffa e alla speculazione sui prezzi, saranno molte le aziende che vorranno accedere ai fondi proposti dal governo per riconversioni o ristrutturazioni che poi non avverranno mai. Altre invece ristruttureranno, e come se lo faranno, dopo decenni di mancati investimenti, ma soltanto per ridurre ancora la manodopera impiegata ed aumentare la produttività oraria di quella che rimarrà al lavoro in condizioni peggiori e salari immobili o ridotti in nome della solidarietà nazionale.

Insomma, mentre gran parte dell’attenzione dei social e dei militanti antagonisti si concentra ancora sui problemi della sanità (pubblica o privata? Leghista o in mano alle cooperative e ai partiti di sinistra? E su molto altro ancora) certamente ineludibili e un’altra parte, altrettanto grande e numerosa, continuerà a volgere la propria attenzione ai problemi della libertà individuale violata, della corsetta e del rimanere blindati in casa, l’impressione è che la vera partita si stia già giocando intorno al lavoro. Che in questa fase, grazie soprattutto alle mobilitazioni spontanee degli operai nelle ultime settimane, ha ripreso la sua posizione centrale in un mondo in cui ogni accumulo di ricchezza può provenire soltanto dal suo iper-sfruttamento.

Ancora una volta saranno le fabbriche e i luoghi di lavoro e i lavoratori costretti ad ‘abitarli’ a svolgere un ruolo centrale, non solo nello scontro tra capitale e lavoro, ma tra capitale e vita della specie, tra disciplina di regime e libertà collettiva, tra militarizzazione dei territori e delle fabbriche (proprio come in guerra) e libertà di autorganizzazione e di libera espressione.
Com’è giusto che in regime capitalistico ancora sia. Anzi, com’è inevitabile che sia.

Simone Weil ebbe a scrivere: ”Davanti ai pericoli che la minacciano, la classe operaia tedesca si trova a mani nude. Ovvero, si è tentati di chiedersi se per essa non sarebbe meglio trovarsi a mani nude; gli strumenti che essa crede di tenere in pugno sono manipolati da altri, i cui interessi sono contrari, o quanto meno estranei ai suoi.”
L’anno era il 1932 e il testo è tratto da una corrispondenza dalla Germania della stessa Weil, pubblicata in La Révolution prolétarienne dell’ottobre dello stesso anno. Da lì a poco il nazismo sarebbe andato al governo.

Per questo non possiamo ripetere gli stessi errori e lasciare i lavoratori soli, mentre i movimenti continuano ad avventurarsi sul terreno scivoloso della ricerca di nuovi soggetti politici o di nuove cause parziali e locali. Soprattutto oggi, dopo che il fallimento di qualsiasi politica di ‘solidarietà’ europea avrà stroncato qualsiasi speranza di collaborazione tra stati canaglia e resuscitato con forza i fantasmi del nazionalismo e della collaborazione interclassista. A solo vantaggio del nostro unico vero nemico, il capitale.

Proprio perché, come scriveva Friedrich Engels nel 1844-45:

”Se gli autori socialisti attribuiscono al proletariato un ruolo storico mondiale, non è perché considerino i proletari degli dei. E’ piuttosto il contrario. Proprio perché nel proletariato pienamente sviluppato è praticamente compiuta l’astrazione di ogni umanità, perfino dell’apparenza dell’umanità; proprio perché nelle condizioni di vita del proletariato si condensano nella forma più inumana tute le condizioni di vita della società attuale; proprio perché in lui l’uomo si è perduto ma, nello stesso tempo, non solo ha acquisito la coscienza teorica di questa perdita, ma è anche direttamente costretto a ribellarsi contro questa inumanità dal bisogno ormai ineluttabile, insofferente di ogni palliativo, assolutamente imperiosa espressione pratica della necessità: proprio per ciò il proletariato può e deve liberarsi. Ma non può liberarsi senza sopprimere le sue condizioni di esistenza. Non può sopprimere le sue condizioni di esistenza senza sopprimere tutte le inumane condizioni di esistenza della società attuale, che si condensano nella sua situazione. Non si tratta di ciò che questo o quel proletario, o perfino l’intero proletariato s’immagina di volta in volta come il suo fine. Si tratta di ciò che esso è, e di ciò che sarà storicamente costretto a fare in conformità a questo essere.”9

Il capitale ha dichiarato e iniziato la sua guerra. Ma potrebbe ancora perdere tutto e a breve vedere i suoi rappresentati sul banco degli imputati in assemblee pubbliche e tribunali composti da lavoratori, medici, scienziati, famigliari delle vittime e molti altri soggetti espropriati ancora.
Tutti lucidi, tutti determinati. Per condannarlo una volta per sempre denunciandone e dimostrandone tutte le responsabilità nella distruzione delle vite di milioni di persone, attraverso omicidi non sempre preterintenzionali.
Vogliamo forse perdere questa occasione? Soltanto per guardare ancora una volta ad un mondo passato e a rapporti sociali di sottomissione, formale e giuridica, e di trattativa istituzionale che già il nostro avversario considera morto, in nome della sua dittatura eterna?
Sarebbe un grave e fatale errore. Probabilmente senza possibilità di ritorno.


  1. Ángel Luis Lara, Covid-19, non torniamo alla normalità. La normalità è il problema, il Manifesto 05.04.2020  

  2. Anche se a tutt’oggi non si sa ancora da dove arriveranno i soldi (una parte probabilmente dall’utilizzo dei fondi europei del Mes con cui si impiccheranno lavoratori e cittadini italiani nonostante le fasulle e buffonesche prese di posizione del premier Conte nei confronti dell’UE. Come sembra confermare anche un articolo odierno di Stefano Fassina qui), i rappresentanti degli imprenditori già avanzano l’ipotesi di rendere i prestiti nell’arco di 12 o 15 anni invece dei 5 o 6 ipotizzati dal governo  

  3. Secondo l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL), che in un primo momento aveva stimato in 195 milioni i posti di lavoro che sarebbero andati persi quest’anno a livello globale a causa della crisi scatenata dalla pandemia, la perdita vera di posti di lavoro su scala mondiale si aggirerebbe in realtà intorno agli 1,25 miliardi. “«Le scelte che facciamo oggi influenzeranno direttamente il modo in cui questa crisi si svilupperà e la vita di miliardi di persone», dice il direttore generale dell’Oil, Guy Ryder.”, Pietro Del Re, Il coronavirus produrrà effetti devastanti sul lavoro, la Repubblica, 7 aprile 2020  

  4. Almeno quella del Nord, che sembra in aperta rottura con quella nazionale guidata da Vincenzo Boccia (qui)  

  5. Massimo Franchi, Zona rossa nel Bergamasco, Gallera ammette: «Potevamo farla», il Manifesto, 8 aprile 2020  

  6. M. Franchi, cit.  

  7. Paola Zanca, Nord al lavoro: 350 deroghe al giorno soltanto a Brescia, il Fatto Quotidiano, 7 aprile 2020  

  8. Teodoro Chiarelli, Aziende, è corsa alla riapertura. “Servono a garantire i beni essenziali”, La Stampa, 7 aprile 2020  

  9. K.Marx—F.Engels, La sacra famiglia, cap.IV, Nota marginale critica  

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Il grande nulla * https://www.carmillaonline.com/2020/02/04/il-grande-nulla/ Tue, 04 Feb 2020 22:01:53 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=57755 di Sandro Moiso

Qui mira e qui ti specchia, Secol superbo e sciocco, Che il calle insino allora Dal risorto pensier segnato innanti Abbandonasti, e volti addietro i passi, Del ritornar ti vanti, E proceder il chiami. (La ginestra – Giacomo Leopardi)

Mentre tutto il mondo sta bruciando, sia metaforicamente nelle lotte diffusesi su scala globale nel corso degli ultimi mesi sia materialmente dall’Australia all’Indonesia passando per le Canarie a causa degli incendi che stano devastando ogni angolo del pianeta, qui nel paese del grande nulla, dove il fascismo è nato e [...]]]> di Sandro Moiso

Qui mira e qui ti specchia,
Secol superbo e sciocco,
Che il calle insino allora
Dal risorto pensier segnato innanti
Abbandonasti, e volti addietro i passi,
Del ritornar ti vanti,
E proceder il chiami.
(La ginestra – Giacomo Leopardi)

Mentre tutto il mondo sta bruciando, sia metaforicamente nelle lotte diffusesi su scala globale nel corso degli ultimi mesi sia materialmente dall’Australia all’Indonesia passando per le Canarie a causa degli incendi che stano devastando ogni angolo del pianeta, qui nel paese del grande nulla, dove il fascismo è nato e non è mai morto, l’informazione mainstream, le frange superstiti di partiti ormai morti o in via di estinzione e anche alcuni siti che si vorrebbero antagonisti hanno esultato per la vittoria elettorale dell’”antifascismo”.
Una sorta di rivincita da campionato regionale su un avversario (le cui miserabili imprese politiche ed iniziative securitarie sono state già abbondantemente raccontate e vivisezionate sulle pagine di Carmilla da Alessandra Daniele) che come tattica elettorale, oltre al discorso securitario cucinato in ogni possibile salsa, ha avuto quella di baciare salumi e formaggi e andare a suonare i citofoni degli stabili di periferia, come un monello destinato prima o poi ad essere preso a sberle da qualche inquilino indispettito.

Ma si gongola anche qui e là per la vittoria del rappresentante di un partito che da anni ha fatto del mantenimento dell’ordine pubblico e della stabilità finanziaria la sua unica ragione di vita (e che senza vergogna sta al governo con chi ha precedentemente avvallato tutte le mosse di cui oggi il leader della destra è accusato). Si festeggia, inoltre, la scomparsa di un movimento (fondato da un comico e finito in farsa) nel quale molti dei critici odierni avevano precedentemente creduto, rivelando così, complessivamente, una cecità politica e una visione perbenista della realtà che non sa più assolutamente distinguere il grano dalla pula, la realtà dalla fantasia, il risotto dalla merda e, soprattutto, ciò che serve a liberare il pianeta e la specie dall’oppressione del modo di produzione più vorace e distruttivo che sia mai esistito.

Sì, cari lettori e compagni, perché ancora una volta non è stato l’antifascismo a vincere. Quello è stato sapientemente sbandierato da sardine e soci soltanto per nascondere il fatto che la scelta elettorale era tutta all’interno dello stesso campo.
Il campo giustizialista e securitario di chi suona ai citofoni e minaccia i migranti e quello di chi chiede un’identità digitale per accedere ai social e il daspo per chi non rispetta le regole del dialogo civile definite dall’ordine borghese.
Il campo della violenza organizzata delle squadre fasciste e delle ronde anti-migranti e della violenza di Stato che garantisce il dis/ordine pubblico nelle piazze e nei centri di detenzione attraverso la militarizzazione dei territori e del tessuto urbano.
Il campo della “giustizia” che reprime i sindacati di base e i lavoratori in lotta, i difensori della terra e delle comunità locali e sulla quale gli “antifascisti” vincitori non hanno nulla da dire, ma con il quale hanno molto da condividere (scusate se non ricordo, ma chi era il sindaco di Bologna definito lo sceriffo e a quale partito apparteneva?).

Il campo delle grandi opere inutili e dannose al Nord come al Sud (la prima dichiarazione della candidata del centro destra, dopo la vittoria in Calabria, ha riguardato la necessità di portare anche lì l’alta velocità ferroviaria, confermando così di fatto gli interessi della ‘ndrangheta nelle grandi opere, dalla Valsusa al resto del paese).
Il campo di chi reprime i migranti internandoli nei campi libici oppure negando loro lo sbarco sulle nostre coste oppure, ancora, trasformandoli in schiavi per il lavoro nero (soprattutto nell’edilizia e nei campi).
Il campo degli interessi incrociati tra aziende private, cooperative e finanza ed imprese edili di origine illegale.
Il campo dell’estrattivismo dichiarato, a favore delle trivelle nell’Adriatico e degli interessi dell’ENI.
Il campo di chi si affanna ad equiparare la violenza verbale a quella fisica, salvo poi voltarsi dall’altra parte quando i manganelli scendono pesantemente sulle schiene e sulle teste dei manifestanti contrari all’ordine esistente. Oppure di chi non sa cogliere nemmeno lontanamente l’enorme ingiustizia e la violenza insite nei licenziamenti individuali e di massa e nei rapporti di lavoro definiti dalle aziende, multinazionali o nazionali che siano, in nome del profitto e dell’estrazione selvaggia di plusvalore.
Il campo di chi non sta con le lotte, ma con gli imprenditori.
Il campo di chi si crede il mare, ma è soltanto una palude.

Ho sentito parlare di buon governo della regione “rossa”: certo il buon governo del capitalismo ben temperato di prodiana memoria1, in cui dalla collaborazione tra privato e pubblico può sorgere il “radioso avvenire” di una società capitalistica avanzata e magari green.
Il buon governo della triplice sindacale che vota favorevolmente per le grandi opere in nome del lavoro salariato e degli interessi delle azienda e delle coop rosse e bianche oppure, ancor meglio, della Nazione. Buon governo che, però, non sembra aver toccato o convinto tutti allo stesso modo (qui).

No, non è così che si vince il fascismo. Come già sapevano i migliori compagni comunisti, anarchici e antifascisti negli anni ’20 e ’30,2 la cui esperienza fu cancellata dalla controrivoluzione staliniana e dalla carneficina del secondo conflitto mondiale, il fascismo si batte soltanto vincendo sul capitalismo e superando proprio i limiti del dettato nazionale, aziendale, produttivistico e lavoristico su cui fonda il suo discorso. Di cui però gli attuali, momentanei, vincitori della schermaglia elettoralistica sono tra i migliori ed agguerriti rappresentanti.

Un vecchio comunista italiano, Amadeo Bordiga, affermava che chi vuol essere progressista dovrebbe avere almeno il coraggio di dichiararsi fascista, poiché proprio l’idea di progresso, tipica di questo modo di produzione oggi fallimentare in tutti i campi, fin dalle sue origini ha avuto come corollari il rafforzamento degli stati nazionali, il governo dei loro confini, lo sfruttamento in casa e fuori della manodopera schiavizzata nelle fabbriche e nei campi. Qualunque fosse il colore della pelle e a qualsiasi latitudine appartenessero gli imprenditori e i governanti.

Il capitalismo industriale è nato in carcere3 e il fascismo ne ha sempre esaltato le funzioni. Sia dell’uno che dell’altro.
Nazionalizzare le masse, questa la funzione del fascismo (il razzismo, che non può essere ridotto al solo anti-semitismo che è molto più antico, ne costituisce solo uno dei corollari, non il fondamento, poiché nacque con il colonialismo che avrebbe posto le fondamenta dell’attuale immondo modo di produzione)4. Rendere i cittadini tali in quanto orgogliosi del proprio (buon) governo e solidali con gli interessi del capitale e dell’imperialismo.
Non membri di una comunità umana, la marxiana gemeinwesen, di eguali sia dal punto di vista sociale che economico, ma partecipi di una comune fortuna di cui pochi, sempre meno visto che gli italiani più abbienti oggi detengono il 72% della ricchezza nazionale mentre a livello mondiale 26 individui possiedono la ricchezza di 3,8 miliardi di persone, la metà più povera della popolazione mondiale5, detengono i rubinetti e il patrimonio globale.

Esaltare il lavoro produttivo e la “vittoria” sulla Natura sono altri due aspetti immarcescibili del fascismo e sono entrambi, ullallà, derivati dall’idea di progresso figlia dell’Illuminismo ben pensante e moderato.
Atteggiamenti moderati nei rapporti politici tra le classi, ma smoderati nel consumo di risorse, territori, merci e forza lavoro. Tanto da dimenticare sempre più spesso, nell’attuale gozzovigliare alla tavola della shoa, che i lager nazisti come i gulag staliniani furono sempre e prima di tutto campi di lavoro forzato. In cui “naturalmente” milioni di individui di qualsiasi fede, etnia, nazione, genere ed età sarebbero morti prima di tutto per la fatica, la fame e le malattie. Esattamente come capita ancor oggi, a cielo aperto e senza SS a far la guardia, in tante, troppe parti del mondo.

Esaltare l’ordine e zittire le voci “altre”, contrarie oppure solo critiche del regime è l’altra pratica del Fascismo, che affonda però le sue radici in tutta la Storia di un mondo diviso in classi fin dall’avvento della proprietà privata e che fa delle maggioranze silenziose il proprio ideale di partecipazione politica. Esattamente come possono esserlo le folle che cantano inni patriottici e inneggiano alla figura del Capo nelle adunate di piazza a sostegno di un regime (o di un movimento che ha nel non aver nulla da dire sulla realtà delle contraddizioni economiche e sociali reali la sua unica arma di distrazione di massa).

Pesci in barile, citofonatori e mortadelle benedette non rappresentano dunque altro che le due facce di una stessa medaglia, di uno stesso ordine. Così come lo erano i 5 stelle di qualche anno fa (con l’unica differenza che oggi la rabbia non deve essere nemmeno manifestata o sussurrata, per rispetto del borghesissimo bon ton).
Non vale neppure la pena di far nomi in queste considerazioni, non per timore di denunce o intimidazioni, ma soltanto perché tutti questi miserrimi soggetti, che nascondono la realtà di contraddizioni e di lotte che ci circondano in ogni dove e che in alcuni casi si affannano a definire come “ondata di destra a livello mondiale” (mescolando insieme gilets jaunes e Orban, lotte sociali ed ignobili episodi di razzismo delle periferie che sono in subbuglio senza neanche comprendere appieno il perché) le lotte, spesso sanguinose, che si sviluppano in ogni dove, sono già destinati all’oblio anche se oggi, dando per un momento ragione a Andy Warhol, hanno avuto modo di brillare come meteore per un istante o ancor meno.

I tempi della Storia, invece, sono molto lunghi. Il capitalismo non è stato mai ben temperato se non sulla pelle di qualche popolo o continente dominato e sfruttato per qualche decennio. In questa fasulla modernità la sua anima resta fascista e oggi, ancora una volta, sia in Calabria che in Emilia Romagna, ha comunque vinto il nostro peggior nemico. Quello con cui non possiamo esser altro che in guerra. Perché il dovere di combatterlo ci apparterrà sempre.
Fino alla morte o alla vittoria.

Non io
Con tal vergogna scenderò sotterra;
Ma il disprezzo piuttosto che si serra
Di te nel petto mio,
Mostrato avrò quanto si possa aperto:
Ben ch’io sappia che oblio
Preme chi troppo all’età propria increbbe.
Di questo mal, che teco
Mi fia comune, assai finor mi rido.
(G. Leopardi – La ginestra)

* In omaggio a James Ellroy e alla sua nerissima e spietata Storia degli Stati Uniti dal secondo conflitto mondiale agli anni ’70. Una tecnica letteraria (l’abbinamento tra crimine e storia americana) perfetta per raccontare efficacemente la contemporaneità e i suoi sottoprodotti sociali, politici e culturali.


  1. Romano Prodi, Il capitalismo ben temperato, il Mulino, Bologna 1995  

  2. Si veda almeno Arthur Rosenberg, Il fascismo come movimento di massa. La sua ascesa e la sua decomposizione (1934), Circolo Internazionalista Francesco Misiano – Pagine Marxiste, 2019 che sarà recensito nei prossimi giorni su Carmillaonline  

  3. Si veda Michael Ignatieff, Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione industriale inglese (1750-1850), Oscar Studio Mondadori, 1982  

  4. Per un’analisi delle origini del razzismo moderno e della cultura che lo ha fondato, basati entrambi tanto sull’ammirazione acritica della cultura greco-romana quanto sull’idea, mai dimostrata, dell’esistenza di una comune radice indoeuropea “bianca”, si veda Martin Bernal, Atena Nera, il Saggiatore, Milano 2011  

  5. “Alla fine del primo semestre del 2018 la distribuzione della ricchezza nazionale netta (il cui ammontare complessivo si è attestato, in valori nominali, a 8.760 miliardi di euro, registrando un aumento di 521 miliardi in 12 mesi) vede il 20% più ricco degli italiani detenere il 72% della ricchezza nazionale, il successivo 20% controllare il 15,6% della ricchezza, lasciando al 60% più povero appena il 12,4% della ricchezza nazionale. Il top-10% (in termini patrimoniali) della popolazione italiana possiede oggi oltre 7 volte la ricchezza della metà più povera della popolazione.” (qui)  

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La Primadonna barbuta https://www.carmillaonline.com/2020/02/02/la-primadonna-barbuta/ Sun, 02 Feb 2020 21:00:38 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=57800 di Alessandra Daniele

Matteo Salvini è il prodotto finale del berlusconismo, di quella politica-spettacolo nella quale le due categorie s’identificano completamente. Più che alla famiglia sovranista, Salvini appartiene alla famiglia Kardashian del reality omonimo. È una Kardashian barbuta. Il suo fallimento in Emilia Romagna non è un incidente di percorso, è l’effetto inevitabile del suo limite strutturale. Capace d’una sola modalità espressiva, Salvini è quello che si definisce “one-trick pony”, un cavallo da circo che sa fare un solo numero, un solo trucco. Quindi, se il suo trucco fallisce, se il suo numero davvero ha [...]]]> di Alessandra Daniele

Matteo Salvini è il prodotto finale del berlusconismo, di quella politica-spettacolo nella quale le due categorie s’identificano completamente. Più che alla famiglia sovranista, Salvini appartiene alla famiglia Kardashian del reality omonimo. È una Kardashian barbuta.
Il suo fallimento in Emilia Romagna non è un incidente di percorso, è l’effetto inevitabile del suo limite strutturale.
Capace d’una sola modalità espressiva, Salvini è quello che si definisce “one-trick pony”, un cavallo da circo che sa fare un solo numero, un solo trucco.
Quindi, se il suo trucco fallisce, se il suo numero davvero ha rotto i coglioni, il suo declino è irreversibile, perché non sa e non può cambiarli senza cancellare la sua stessa identità.
Un Salvini “moderato” è impossibile, com’è impossibile una Kardashian sobria e riservata.
E un Salvini perdente alla destra non serve più. Fratelli e Forzisti stanno già affilando i lunghi coltelli, se il Capitone dovesse perdere anche Toscana, Puglia, Campania, sarà lui a finire sul menù.
Se Matteo Salvini è in crisi come acchiappavoti, è però ancora efficiente come spaventapasseri, come spauracchio. La sua campagna elettorale in Emilia Romagna è stata infatti molto efficace nello spingere la maggioranza degli astensionisti, degli elettori grillini superstiti, nonché di quelli berlusconiani a votare il renziano Bonaccini, aggiornando il classico appello di Montanelli in un “Tappatevi il naso e votate PD”.
La reazione di Salvini finora è stata cercare di usare l’epidemia in Cina contro i migranti africani.
È irrecuperabile.

L’effetto Salvini-citofono-casa però non basta a spiegare la totale disfatta del Movimento 5 Stelle, sparito anche dalla Calabria dove nel 2018 aveva superato il 40%.
Perché è strutturale anche il crollo del M5S, un castello di carte costruito su iperboliche false promesse di cambiamento epocale completamente tradite, e ormai ridotto a una poltiglia trasformista annidata negli interstizi del potere, a sostegno dell’ennesimo governo PD.
Meno di due anni dopo le elezioni politiche del 4/3/18, della “grande ondata sovranista” è rimasta solo una risacca catramosa, che sta riportando a galla proprio quei polpi renziani e berlusconiani che prometteva di affondare.
Buon due febbraio, il Ģiorno della Marmotta continua.

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Parmageddon https://www.carmillaonline.com/2020/01/27/parmageddon/ Mon, 27 Jan 2020 07:00:08 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=57668 di Alessandra Daniele

Matteo Salvini ha fatto di tutto per vincere le elezioni in Emilia Romagna. S’è ingozzato per mesi di prosciutto e parmigiano, e poi ha chiesto ai suoi fans un digiuno di solidarietà. S’è proclamato martire della giustizia sommaria, e poi è andato a fare il vigilante ai citofoni. Ha imposto come candidata Lucia Borgonzoni e poi se l’è mangiata, trattandola da valletta di Sanremo. Ha chiesto il voto ai cittadini di Bibbiano e dintorni dandogli del branco di pedofili. Matteo Salvini ha fatto di tutto per vincere le elezioni [...]]]> di Alessandra Daniele

Matteo Salvini ha fatto di tutto per vincere le elezioni in Emilia Romagna.
S’è ingozzato per mesi di prosciutto e parmigiano, e poi ha chiesto ai suoi fans un digiuno di solidarietà.
S’è proclamato martire della giustizia sommaria, e poi è andato a fare il vigilante ai citofoni.
Ha imposto come candidata Lucia Borgonzoni e poi se l’è mangiata, trattandola da valletta di Sanremo.
Ha chiesto il voto ai cittadini di Bibbiano e dintorni dandogli del branco di pedofili.
Matteo Salvini ha fatto di tutto per vincere le elezioni in Emilia Romagna. E soprattutto per questo le ha perse.
Perché ha stufato. E schifato.
Ha rotto i coglioni.
Come Matteo Renzi, ha preteso un referendum ad personam, e come Renzi lo ha perduto.
Ha fallito nell’unica cosa che sapeva fare. È stato sconfitto, in Emilia Romagna dal PD, e in Calabria dal PD e persino da Forza Italia.
Perché come Renzi, Matteo Salvini ha rotto i coglioni.
La pacchia è finita.
È finito l’Anno del Maiale.

Se il PD è riuscito così a schivare il meteorite dell’apocalisse elettorale, il Movimento 5 Stelle invece l’ha preso in pieno.
L’anti-parlamentare M5S è ormai un partitino che esiste soltanto in parlamento.
Fondato da un comico, affondato nel ridicolo, il M5S oggi muore dov’è nato e com’è nato: con un sonoro Vaffanculo, stavolta ricevuto.
Per quanto precipitosa, la fuga pre-elettorale di Luigi Di Maio è stata pateticamente tardiva.
Nel suo discorso delle dimissioni, così renziano nel suo dare tutte le colpe ai “nemici interni” al partito senza riconoscere nessuna delle proprie, Di Maio ha inserito anche il classico “Ho visto cose che voi umani”. In realtà, la citazione di Blade Runner adatta al M5S è un’altra: “I topi abbandonano la nave che affonda. E poi la nave affonda”.
L’Anno del Topo è cominciato.

[Secondo l’Oroscopo Cinese, il 2019 è stato l’Anno del Maiale, il 2020 è l’Anno del Topo]

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Segnali di Fumo: Amianto di Alberto Prunetti https://www.carmillaonline.com/2016/09/13/segnali-fumo-amianto-alberto-prunetti/ Mon, 12 Sep 2016 22:01:55 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=33084 2di Jacopo Frey e Nicola Gobbi

Amianto di Alberto Prunetti è un libro che ha già avuto da parte dei lettori un’accoglienza meritata e sentita, e l’autore ha nel frattempo ripreso a girare per l’Italia con nuovi compagni di viaggio, come l’oste anarchico e altri proletari della Maremma. Perché, riprendere ora, a fumetti, una riflessione su questo libro?

Chi scrive è un docente precario dell’Emilia Romagna che attende da qualche mese i risultati del concorso per entrare in ruolo bandito dalla ministra Giannini: un’abile mossa propagandistica del governo che offre miglioramenti reali a pochi lavoratori, mantenendo immutata [...]]]> 2di Jacopo Frey e Nicola Gobbi

Amianto di Alberto Prunetti è un libro che ha già avuto da parte dei lettori un’accoglienza meritata e sentita, e l’autore ha nel frattempo ripreso a girare per l’Italia con nuovi compagni di viaggio, come l’oste anarchico e altri proletari della Maremma. Perché, riprendere ora, a fumetti, una riflessione su questo libro?

Chi scrive è un docente precario dell’Emilia Romagna che attende da qualche mese i risultati del concorso per entrare in ruolo bandito dalla ministra Giannini: un’abile mossa propagandistica del governo che offre miglioramenti reali a pochi lavoratori, mantenendo immutata l’ansia dei tanti precari, resa più aspra dal miraggio lasciato intuire dal concorso.

Sull’onda di questa attesa e della precarietà costante, quando chiacchiero con qualche sconosciuto in autobus o con i vicini di casa a proposito del futuro, tendo a scivolare nella nostalgia di una fantomatica epoca di sicurezza economica e professionale: «Ah, se fossimo ancora negli anni Ottanta», che mi avrebbe visto sicuramente già in ruolo.

Allargando la portata analitica di queste mie elucubrazioni, tendo a spiegare l’impietoso scarto fra quest’epoca di incertezza professionale e quei lontani anni del “posto fisso”, con la spirale negativa avviata dal progressivo smantellamento dell’industria dal nostro paese. «Se ancora producessimo l’acciaio qui da noi come una volta» dico «tanti problemi non ci sarebbero e saremmo tutti, in un modo o nell’altro più sereni». E a corollario di questo ragionamento finisco per decantare anche la tranquillità del clientelismo della Prima Repubblica rispetto alla mannaia della meritocrazia.

È quasi retorico chiedersi quali fondamenti possano avere questi ragionamenti. Il problema è che qualcuno ci pensa sul serio a queste cose; alla fine per me sono una risposta ad un malumore del lunedì.

Ecco, Amianto è proprio lì a ricordarci il vero volto di quell’epoca d’oro che chiamiamo Les Trente Gloreuses: lo scambio, consumato alle spalle dei lavoratori o con la conscia accettazione del rischio sotto il ricatto dell’occupazione e del premio, fra benessere e salute.

Amianto però ci racconta anche, usando la lingua del lavoro e della tecnica, un altro dramma: quel sacrificio di due generazioni di lavoratori e lavoratrici covava il sogno del miglioramento per i propri figli. Studiare, finalmente, e costruire autonomamente il proprio futuro. Oltre alla salute, alla generazione dei padri e della madri è stato portato via anche la realizzazione di quel desiderio. Come quando si va a pescare, quindi, e ci si ritrova l’amo portato via da un pesce.

Ne vale la pena? Alla fine, come il pesce veloce che acchiappa la mosca e strattona, il filo -tenuto con fatica- viene strappato di mano. E un altro non c’è [J.F.]

amianto 1amianto 2

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Il paese regale https://www.carmillaonline.com/2014/11/30/il-paese-regale/ Sun, 30 Nov 2014 21:33:56 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=19093 di Alessandra Daniele

OTPIl tanto strombazzato 40% renziano è un record farlocco quanto le sue promesse. Calcolata la massiccia, maggioritaria astensione, il presidente PD dell’Emilia Romagna è stato in realtà votato solo dal 17% degli elettori. Questo significa che 9 emiliani e romagnoli su 10 saranno governati da qualcuno che non hanno eletto. Il vero record è questo. Il vincitore di X Factor avrà una legittimazione popolare maggiore. Diventa sempre più evidente quanto la cosiddetta democrazia italiana sia in realtà una monarchia da operetta, al momento rappresentata da un petulante reuccio [...]]]> di Alessandra Daniele

OTPIl tanto strombazzato 40% renziano è un record farlocco quanto le sue promesse. Calcolata la massiccia, maggioritaria astensione, il presidente PD dell’Emilia Romagna è stato in realtà votato solo dal 17% degli elettori. Questo significa che 9 emiliani e romagnoli su 10 saranno governati da qualcuno che non hanno eletto. Il vero record è questo.
Il vincitore di X Factor avrà una legittimazione popolare maggiore.
Diventa sempre più evidente quanto la cosiddetta democrazia italiana sia in realtà una monarchia da operetta, al momento rappresentata da un petulante reuccio che mentre l’Italia letteralmente sprofondava nel fango, ha passato tutto l’autunno fra cene di lusso, inaugurazioni, e vertici internazionali.
L’Italia è una satrapia pataccara il cui precedente kaiser sòla Berlusconi ha semi-abdicato per convenienza in favore di quello dei suoi principini ereditari che gli somigliava di più, cioè, come spesso succede, quello “bastardo”, cresciuto in un’altra famiglia, ma col suo stesso DNA politico e culturale.
La corte del Bastardo consiste essenzialmente in una schiera di principesse-immagine incaricate di rappresentarlo ripetendo pedissequamente i suoi slogan in tutti i talk show che non ha tempo e voglia d’occupare di persona, e di affiancarlo alle cene come accompagnatrici.
Intanto la rabbia degli sfruttati viene convenientemente dirottata verso gli immigrati da Salvini, la nuova opposizione funzionale che i media monarchici hanno costruito apposta a questo scopo dandogli quasi più spazio televisivo che allo stesso Renzi.
”Salvini e Camusso sono due facce della stessa medaglia” ha sentenziato di recente il reuccio: in realtà sono Salvini e Renzi a essere due facce dello stesso culo.
Il M5S sta mutando con la stessa velocità con la quale s’era sviluppato. L’arbitraria investitura regale del rampante Di Maio e degli altri quattro marchesi del Grillo sputtana definitivamente lo slogan ”Uno vale Uno” per quella cazzata che è sempre stato.
L’Italia è una monarchia, e neanche una di quelle moderne, europee, costituzionali, è una satrapia da terzo mondo nella quale una famiglia di spocchiosi parassiti consuma tutte le risorse, mentre al suddito viene additato come nemico il vicino di casa più sfruttato di lui, e le elezioni sono una farsa da mostrare alle telecamere e della quale chiacchierare inutilmente in Tv. Mentre la politica estera si stabilisce all’estero. E tutto il resto lo decide il mercato.

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