Emil Cioran – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 30 Apr 2025 21:35:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Alcune ipotesi sul suicidio in Emil Cioran https://www.carmillaonline.com/2024/05/19/alcune-ipotesi-sul-suicidio-in-emil-cioran/ Sun, 19 May 2024 21:55:57 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=82675 di Francisco Soriano

“Vi sono notti in cui l’avvenire si abolisce”, dice Emil Cioran, discorrendo sul suicidio con la consapevolezza che non si è vissuti nel possibile, ma nel concepibile. Nessuna assurdità dunque può assolvere alla funzione di delucidare gli spazi del vuoto e del niente, inconsolabile dimensione dell’essere umano che sente l’esistenza come un cumulo di “orizzonti crollati”.

Il gesto è certamente negazione, “una liberazione folgorante” dell’io che ne ha abbastanza di essere se stesso. Senza cedere alla banale idea dell’infelicità come motore pulsante dell’autoannientamento, per Cioran al contrario è ancor più la felicità che spinge al suicidio per la [...]]]> di Francisco Soriano

“Vi sono notti in cui l’avvenire si abolisce”, dice Emil Cioran, discorrendo sul suicidio con la consapevolezza che non si è vissuti nel possibile, ma nel concepibile. Nessuna assurdità dunque può assolvere alla funzione di delucidare gli spazi del vuoto e del niente, inconsolabile dimensione dell’essere umano che sente l’esistenza come un cumulo di “orizzonti crollati”.

Il gesto è certamente negazione, “una liberazione folgorante” dell’io che ne ha abbastanza di essere se stesso. Senza cedere alla banale idea dell’infelicità come motore pulsante dell’autoannientamento, per Cioran al contrario è ancor più la felicità che spinge al suicidio per la sua dimensione “amorfa”, “improbabile” ed esigente di “uno sforzo di adattamento estenuante”. L’idea di darsi la morte, scrive Cioran, quando ci afferra, apre invece davanti a noi uno spazio al di là del tempo, dell’eternità e della morte stessa, uno spazio dove gli “altrove” tanto decantati e mai finalmente compresi possono essere con una buona dose di probabilità attraversati, speculati, abitati.

Il rapporto che si crea con la morte è nel caso del suicidio una forma di affrancamento, liberazione, esaltazione di un rivaleggiare con le stesse armi che si è così puntualmente desiderato rifiutare, addirittura nascondere. Chi ha provato il senso di autoannientamento sa quanto ogni funzione vitale, in quel preciso istante, trovi una olimpica condizione di serenità, nell’armonica considerazione che ogni cellula è tornata al proprio posto e ogni pulsazione che sia sangue o altra essenza necessaria alla sopravvivenza sono in inequivocabile condizione di autoallineamento. Quello che invece sembra impossibile spiegare, seppure in questo furore che si tramuta in esultanza nell’istante che è finalmente in grado di “sospendere l’insieme degli istanti”, è la soluzione del dilemma. Questo stato di perenne condizione interrogativa si concreta in una dimensione esistenziale drammatica, dove le risposte più semplici sulla nostra origine e funzione non trovano alcun riferimento di credibilità e di realtà. Intanto si comprende che aspettare la morte significa subirla, trasformarla in processo, in una sequenza di episodi che ci condannano a una sorta di accettazione. E da questo si deduce la differenza ontologia fra la morte e il suicidio: quest’ultimo libera sempre, “è culmine, è parossismo di salvezza”, la morte naturale invece “non è sentita necessariamente come liberazione”.

Cioran narra di una millenaria cospirazione contro il suicidio che rappresenta “la causa dell’ingombro e della sclerosi nelle società”. Niente di più lapalissiano eppure sfuggente alla moltitudine, che percepisce nella propria fine una atavica paura di non essere, non rappresentare, non manifestare. Altrettanto vera nel suo significato la citazione che Cioran fa di Leopardi, con l’aneddoto che il poeta di Recanati rivolgeva all’attenzione del lettore: “quando dopo molti anni ritroviamo una persona conosciuta nell’infanzia, la prima impressione che ne ricaviamo è che sia stata colpita da una disgrazia”. Se ne deduce che durare la vita significa sminuirsi: “l’esistenza è perdita d’essere”. La decadenza è un fattore ineluttabile e inarrestabile, e dunque l’idea stessa della propria cancellazione ha un effetto calmante, una pacificazione che trasmette libertà: per paradosso, più si è coscienti della marginalità ad ogni istante della propria vita e più ci si “reincorpora nell’esistenza”.

La debolezza risiede totalmente in chi non si uccide, al contrario di quanto invece viene più comunemente sostenuto accusando chi compie il gesto di voler sfuggire al dolore o alla vergogna. Niente di più falso e incoerente, perché nel suicidio non vi è adattamento o fuga, e vince “su un pregiudizio antico quanto l’uomo o almeno quanto le religioni”. La realtà è che la Chiesa ha sempre favorito l’alienazione, riservando a chi ne accettava la condizione un regime di privilegio. Impossibile non condividere l’intuizione che “fra lo stoicismo antico e il libero pensiero moderno, fra Seneca e Hume, il suicidio subisce una lunga eclissi”.

Una verità che affascina da sempre sin dall’antichità, narrata dal mito o cantata in versi su una rupe in procinto di crollare sui marosi che sia, il “bel suicidio” appartiene al novero dei gesti puri, di quei gesti cioè che appaiono insensati, senza possibilità di calcoli ed elucubrazioni, “senza ragione”: è questo gesto una “sfida a tutte le maiuscole – che umilia e schiaccia Dio e la Provvidenza, e anche il Destino”. Dunque vittoria su ogni fronte in una sorta di intollerabile lucidità, quando la “chiaroveggenza eccessiva” paragonabile a uno stato simile alla follia “oltrepassa i limiti della ragione”. È proprio vero – a questo punto – asserire che “gli idioti non si uccidono praticamente mai”, perché impossibilitati a comprendere che suicidarsi vuol dire riappropriarsi di se stessi “in istantanea padronanza di tutti i propri mezzi”.

Noi, in modo diametralmente opposto agli antichi, non siamo invece più in condizione di sopprimerci “a freddo”, avendo disimparato quest’arte. I nostri gesti sono quelli dettati dalla passione, compiuti dall’esagitazione. Perduta è l’imperturbabilità, usurpata dalla Provvidenza che “è venuta a sloggiare il Fato da ogni dove”. Non è da tutti elaborare l’idea dell’autoannientamento: vi è una necessità che risiede nell’avidità d’assoluto, una visione totalizzante e sintetica. Nella ricerca d’assoluto, il dubbio assume la connotazione dell’“inverso di una ricerca, la conclusione negativa di una grande impresa, di una grande passione. L’assoluto è inseguimento; il dubbio, una ritirata”. Proprio in questa ritirata non vi è nulla di fragile o vile, è un “inseguimento all’incontrario”, perché va a sbattere contro quelle “estremità inaccessibili a ogni percorso razionale”. Diviene presto vertigine perché in questo cono in cui tutto sembra essere inglobato, risucchiato, annientato non c’è niente altro che una insolita capacità estrema e profonda di inoltrarsi oltre se stessi. Retrocedere verso i limiti significa tentazione all’autodistruzione:

“Quando si è capito che niente è, che le cose non meritano neanche lo status di apparenze, non si ha più bisogno di essere salvati, si è salvi, e infelici per sempre”.

Cioran confessa forse una sua debolezza citando Jean-Paul Sartre, che affermava di aver compreso nella “sera più importante della sua vita” che “non vi era differenza fra il morire l’indomani o trent’anni dopo”. Ragionamento ritenuto inutile perché “nell’immediato la differenza in questione appare a ognuno di noi irriducibile, e perfino assoluta: esistere è provare che non si è capito fino a che punto sia la stessa cosa morire adesso o chissà quando”. È anche il momento per Cioran di confessare che “a furia di rimuginare il pro e il contro dell’unico gesto che conti, si finisce con la cattiva coscienza d’esser ancora vivi”.

Che cos’è, dunque, il cosiddetto spirito di conservazione? È testardaggine e necessita di essere combattuto, bisognerebbe addirittura denunciare le sue “devastazioni”. Combatterlo significherebbe ristabilire l’eccellenza del suicidio, la sua accessibilità a tutti. Questo ci renderebbe consapevoli che l’esistenza non ha alcuna sacralità e che, al contrario, il suicidio “riscatta e trasfigura gli atti già compiuti”. La vita è un accidente che gli esseri umani possono convertire in fatalità. Non a caso nella visione religiosa viene considerato come un misfatto, un’insania, ma la portata del gesto suicidario non è per niente misteriosa perché potrà consumare il prestigio dell’anatema con l’annientamento della fede. Cioran definisce i suicidi come precursori, “al pari di coloro che, sensibili alla sovranità del male, incriminarono la Creazione: i manichei all’inizio dell’èra cristiana, e segnatamente i loro tardivi discepoli, i catari”. I settari erano inoltre erano disgustati dall’aspetto utile della sessualità, “che fa parte del loro rimettere in causa la Creazione: perché moltiplicare i mostri?”. Il catarismo, se fosse sopravvissuto e fosse rimasto fedele a se stesso, sarebbe sfociato in un suicidio collettivo.

Per togliersi la vita è necessaria una dose di crudeltà verso se stessi. Chi infatti è interamente buono sarà incapace di affermare il gesto. Il suicidio è forma raffinata e complessa, e gli uomini che hanno compromesso il loro spirito con la bontà sono incapaci di intervenire sul proprio destino e non possono aspirare a costruirsene un altro. La modestia è un freno inibitore all’idea di affrontare la propria fine. In realtà ogni essere umano è insensato, così “il vivo in quanto tale è un demente e per di più cieco: inadatto a discernere il lato illusorio delle cose, scorge dovunque il solido, il pieno. Non appena, per miracolo, ci veda chiaro, si apre alla vacuità e ci prospera. Più ricca della realtà ch’essa sostituisce, tiene luogo di tutto senza il tutto, è fondamento e assenza, variabile abissale dell’essere”.

Infine, Cioran si confessa: “qualsiasi cosa io tenti, non sarà mai altro che la manifestazione di un decadimento, patente o camuffato. Per quanto tempo ho teorizzato dell’uomo-fuori-da-tutto. Quell’uomo ora lo sono diventato, lo incarno. I miei dubbi sono giunti al traguardo, le mie negazioni hanno preso corpo. Vivo ciò che prima mi figuravo di vivere. Mi sono trovato un discepolo, finalmente”.

Nella profonda disamina di Cioran, tuttavia, si nota una assenza. È la parola “amore”. La consapevolezza del suo intimo più profondo, ontologicamente tragico e burrascoso, vertiginoso, ci fa sprofondare nell’incomprensibile vuoto di ogni possibile dissertazione. Rappresenta senza ombra di dubbio l’unità, l’unicità, la sintesi di una dimensione altra incomparabile e racchiusa forse in uno spazio paragonabile soltanto a un “giardino nella voce”. Ci rende in vita coscienti della dimensione liberatoria del suicidio in ogni infinitesimo istante, se “solo” un’idea di mancanza o di cancellazione della condizione amorosa più pura e cristallina ci assalisse. In questo caso non si tratterebbe di passione, dell’estemporaneo superficiale gesto di un esagitato, ma di una scelta vile nell’incapacità di varcare la soglia dell’assoluto. È dunque in un solo caso, e soltanto in questo, che la vita vale la pena di essere vissuta.

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In bicicletta al tempio di Delfi https://www.carmillaonline.com/2023/01/21/in-bicicletta-al-tempio-di-delfi/ Sat, 21 Jan 2023 21:00:34 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=75581 di Neil Novello

Emil Cioran, Taccuino per stenografia (1937-1938), Mimesis, Milano-Udine 2022, pp. 66, euro 8,00

È il 1937. Un uomo di ventisei anni ritorna a Parigi. È romeno. Nella capitale francese è già stato nel 1935. A quell’epoca, a un amico scrive da profonde regioni dell’anima. E da una insolitamente funerea estasi vissuta in tutta solitudine. Confessa infatti che nella città francese «non ti mancano le cose che muoiono» e che comunque la capitale «non produrrà più vita». Afflitto da siffatto ferale sentimento, da una così amara inquietudine religiosa, quest’uomo [...]]]> di Neil Novello

Emil Cioran, Taccuino per stenografia (1937-1938), Mimesis, Milano-Udine 2022, pp. 66, euro 8,00

È il 1937. Un uomo di ventisei anni ritorna a Parigi. È romeno. Nella capitale francese è già stato nel 1935. A quell’epoca, a un amico scrive da profonde regioni dell’anima. E da una insolitamente funerea estasi vissuta in tutta solitudine. Confessa infatti che nella città francese «non ti mancano le cose che muoiono» e che comunque la capitale «non produrrà più vita». Afflitto da siffatto ferale sentimento, da una così amara inquietudine religiosa, quest’uomo sa però una cosa, vuole restare in città. E, tempo un paio di anni, tra il 1935 e il 1937 – non si saprà mai bene come – ottiene una borsa di studio. L’ente finanziatore è l’Istituto francese di Bucarest, mentre l’impegno del beneficiario è scrivere una tesi di dottorato.

Non scriverà nulla. Anzi, fin da subito sa che nulla avrebbe mai scritto. Voleva Parigi, voleva solo la Francia. Con una parte di soldi della borsa, sul boulevard Saint-Germain, da un connazionale compra una bicicletta da corsa. Nella mente, un disegno folle dietro cui scorge addirittura una personale e sovrumana possibilità: guarire. E così pedalare lontano, andare in bicicletta, non è proprio voler visitare la Francia. Correre nella vastità del territorio in realtà richiama solo un desiderio: continuare a pedalare. Decine, centinaia di chilometri battuti al mero fine di sudare, di faticare, di stancarsi fino allo sfinimento. In stato di veglia, quest’uomo pensa. Non è un sollievo né un privilegio: pensare l’ammala. Dalla sua “patologia” prova a difendersi. È possibile, ma solo attraverso una sorda, incessante attività. E c’è di più. Nottetempo, quando il sonno porterebbe requie, non dorme. Soffre acutamente d’insonnia. E in stato coatto di veglia continua a pensare. La coscienza è vigile e lui ne è tormentato.

Prima di approdare in Francia ha scritto un libro astralmente tragico, Al culmine della disperazione. In quest’opera così tenebrosamente luminosa leggiamo che «sono felici solo coloro che non pensano mai, vale a dire coloro che pensano giusto il poco che basta per vivere». Ecco perché pedalare per un centinaio di chilometri al giorno cancella l’atto di pensiero e stimola il sonno notturno. Perché pedalando si stanca e stancandosi dorme. Condannato dunque a uno sfinente, attivo nomadismo, e non solo per guarire ma per sperare una qualche quiete, il finalmente non pensante ciclista doma il compulsivo, bulimico pensatore. E il languente melanconico, il cervello alacremente all’opera, si perde nella vertiginosa corsa di un viaggiatore frenetico. Per pedalare, è ovvio, sacrifica tutto. Diserta le aule della Sorbona, non legge né scrive, non si dedica al lavoro per l’Istituto francese di Bucarest. La sua premura in fin dei conti è di natura auto-soteriologica. Sulle vie di Francia, lungo i litorali, ovunque è in bicicletta. Il suo è un mero mulinare di gambe. Talvolta, è vero, sosta, ma il meno possibile. Quando non è in sella, in azione, lo è altrimenti per mangiare e bere, visitare cimiteri o dormire tra i campi.

Quest’uomo è Emil Cioran. E non è del tutto vero, soprattutto nel suo autotelico tour giovanile, scriva proprio nulla. Qualcosa in verità appunta. Sono per lo più frammenti, aforismi, note filosofiche, brevi scritture liriche. E così, parola dopo parola, va componendo un esilissimo Taccuino per stenografia (1937-1938) in romeno. Per scrivere si affida alla lingua madre. L’opera, o meglio le tracce scritte di questi lampi brucianti non sono destinate alla pubblicazione né concepite come brogliaccio per uno studio futuro. Cioran scrive solo per tentare disperatamente, accanto allo sforzo fisico, un esercizio intellettuale di auto-terapia. Azione, scrittura e guarigione puntellano l’orizzonte di una condizione umana patita al presente e buia al futuro. Essa è anzitutto l’intima e incomunicabile realtà umana di chi scrive. Ma nel Taccuino è anche il tema fondamentale, l’ubi consistam di un pensiero certamente negato ma altrettanto inconfessabile. Chi appunta non oblia, traccia idee e tracciandole brandisce un rasoio contro tutto ciò da cui fugge: «Gli uomini sono degli idioti con sprazzi di stupidità. L’umanità è dovuta partire dal basso per non giungere neppure allo stato di idiozia!».

La nuance sociopatica di Cioran è solo apparente. Forse è del tutto falsa. Qui parla un nichilista. Non è, per quanto paradossale paia la relazione tra nichilismo e filantropia, un odiatore di umanità. E a dire il vero non vi è nulla di radicalmente patologico. La società, la vita sociale richiama al pensiero di Cioran un’immagine topica. È l’occasione di abdicare alla ricerca, di tradire o anche di sfuggire lucidamente all’illusione, ritenuta debole, dell’alterità umana. Il male dell’altro e la domanda di solitudine in Cioran richiamano una mera traiettoria autotelica. Quando confessa che «L’uomo fugge dagli uomini per poter incontrare se stesso», lo scrivente ripercorre idealmente – giusto per fissare due ante culturali – il cammino tra il «conosci te stesso» del tempio di Apollo e il concetto di «persuasione» in Carlo Michelstaedter. Guardare all’essere vuol dire decontaminare l’io, mondare anzitutto il se stesso sociale.

Nello Zibaldone di Leopardi, cui Cioran dedica grandi pagine in Fascinazione della cenere, leggiamo che l’«esser uomo buono» significa «guastarsi necessariamente nella società». Quando il romeno appunta che «L’universo non mi si addice», in realtà compie l’atto doloso di chi genera un incendio filosofico da un innocuo fuoco creaturale. Perché ciò che esiste, tutto ciò che ha esistenza, al di là della società è quella cosa che chiamiamo vita anche se essa appare un’«assurdità danzante». Per Cioran, la vita è nient’altro che uno «scheletro», l’ipostasi di un fantasma. Chi ha colto il non senso esistenziale (pagine della Fascinazione sono dedicate anche a Beckett), quella indipanabile massa che è l’assurdità di vivere, è anche uno che la lingua della vita l’ha intuita con tutto il suo feroce genio speculativo. È uno che ne ha compreso, per restare a Michelstaedter, l’immedicabile, coercitiva, tanatopolitica natura rettorica. La voce e la parola di vivere, per Cioran sono armate contro la beatitudine del silenzio. E il dolore del mondo, il patimento dell’uomo nasce e si perpetua dalla sua stessa natura vocale, dall’essere l’uomo linguaggio vivente e producente, dal non essere il mondo un muto deserto. Solo il «Silenzio» è «(sublime)» scrive Cioran. E il silenzio, prima di ogni cosa, è l’assenza dell’uomo all’uomo. Qui si sfiora qualcosa che fa pensare a un’idea contro-creaturale: «Se fossi stato Dio, avrei fatto tutto di me, tranne che un uomo».

Nulla si può realizzare per risolvere la condizione di essere un uomo. La «grazia» di cui Cioran parla in Al culmine della disperazione non è terrestre. Vi si fa accenno come a qualcosa che richiama l’«emancipazione dalla gravità», il gran sogno di darsi la possibilità, tutta ideale e immaginaria, di levitare, per non essere più un “peso”. E ciò per accertare, questo sì con sgomentante dolore, l’inutilità, la velleità di un tale desiderio: «Perché non volo, perché non mi spuntano le ali?». Avere coscienza di «non essere fatto per la vita» è esattamente sapere di non poter volare mai, esattamente metà della coscienza tragica cioraniana. L’altra metà, quella lucidamente intravista nella faglia di un pensiero ancora più assurdo, appare come una legge.

Dietro il piano soggetto-mondo, Cioran intravede un’altra forma negativa, il suo correlato spettrale: la linea mondo-soggetto. Si è e irriducibilmente si sta sulla terra. Per questo Cioran scrive che «in realtà è la vita a non essere fatta per me», è il mondo così com’è a essere straniero. Offuscando il presente, tale non condizione è una fiamma, un annientamento anche del tempo a venire. Come Mark Fisher lettore di Derrida, da uomo caduto nel tempo Cioran patisce un presagio, la nullità del presente terrestre come nostalgica testimonianza anche di un perduto futuro. Al culmine della disperazione come il Taccuino è scritto circa a vent’anni, gli stessi di Michelstaedter quando scrive La persuasione e la rettorica.

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Agonia di una civiltà https://www.carmillaonline.com/2015/02/28/plaidoyer-pour-la-france/ Fri, 27 Feb 2015 23:01:03 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=20898 di Sandro Moiso

Cioran-sulla-FranciaEmil Cioran, Sulla Francia, Voland 2014, pp. 110, € 13,00

Non è un autore molto frequentato Emil Cioran, soprattutto negli ambienti della sinistra antagonista. Ed è facile capirne il perché: amico di personaggi come Mircea Eliade aveva fatto parte, negli anni che avevano preceduto il secondo conflitto mondiale, della Guardia di ferro di Corneliu Zelea Codreanu, un movimento anti-semita, filo-nazista e ultra-reazionario che si era sviluppato tra gli anni venti e trenta nel suo paese d’origine, la Romania.

Però, il libro in questione, prima traduzione italiana a cura di Giovanni Rotiroti di un manoscritto del 1941 dimenticato per [...]]]> di Sandro Moiso

Cioran-sulla-FranciaEmil Cioran, Sulla Francia, Voland 2014, pp. 110, € 13,00

Non è un autore molto frequentato Emil Cioran, soprattutto negli ambienti della sinistra antagonista.
Ed è facile capirne il perché: amico di personaggi come Mircea Eliade aveva fatto parte, negli anni che avevano preceduto il secondo conflitto mondiale, della Guardia di ferro di Corneliu Zelea Codreanu, un movimento anti-semita, filo-nazista e ultra-reazionario che si era sviluppato tra gli anni venti e trenta nel suo paese d’origine, la Romania.

Però, il libro in questione, prima traduzione italiana a cura di Giovanni Rotiroti di un manoscritto del 1941 dimenticato per decenni tra le carte depositate presso la Bibliothèque Jacques Doucet, può rivelarsi molto interessante ed utile per rivedere alla luce di un suo importante teorico la teoria della decadenza della civiltà e coglierne tutte le subdole conseguenze ideologiche e politiche. Soprattutto1 in momenti, come l’attuale, in cui i rischi connessi all’esplodere di crisi economiche e militari sempre più virulente e devastanti sembrano aver messo in crisi gli equilibri raggiunti nel secondo dopoguerra e l’opulenza e la sicurezza delle società europee.

Una nazione raggiunge la grandezza solo se guarda al di là delle sue frontiere, odiando i propri vicini e volendo soggiogarli. Essere una grande potenza significa non ammettere valori paralleli, non sopportare vita accanto a sé, imporsi come senso imperativo e intollerante […] Un tempo, dai villaggi francesi scaturivano energie debordanti, forze avide di gloria… Oggi, l’aratro è noioso, le fattorie intorpidite, il lavoro senza fascino” (pp.79-80)

Mentre scriveva queste righe, Cioran si trovava a Parigi, che aveva raggiunto nel 1937 ufficialmente con una borsa di studio per approfondire gli studi su Bergson, e nella primavera del 1941 aveva fatto parte della Legazione romena di Vichy. Tra il 1940 e il 1941 era anche ritornato tempestivamente in patria per onorare alla radio di Bucarest la memoria del “Capitano” Codreanu, ucciso dal governo di re Carlo II di Romania nel 1938.2

Da un anno le truppe tedesche avevano invaso e sottomesso la Francia, marciando per i viali di Parigi nel giugno del 1940. E’ chiaro il raffronto che passa nella testa del trentenne Cioran: le nazioni giovani e forti sono quelle che invadono e sanno soffrire, che sanno donarsi ad una causa. Come affermerà nella sua “esaltazione di uno scettico” in memoria di Codreanu: “Dinanzi al Capitano nessuno restava indifferente. Il paese era stato attraversato da un nuovo brivido […] La sofferenza diventa il criterio della dignità e la morte quello della chiamata. In pochi anni la Romania ha conosciuto una tragica pulsazione, e la sua intensità ci consola della vigliaccheria per mille anni di non storia”.3

Sacrificio, morte e rigenerazione stanno alla base del pensiero di Cioran e dove questi elementi non convivono allora, sembra dire, non vi è che il non senso e la decadenza. Non ci sono alternative: conquista e morte oppure decadenza e mancanza di vitalità. Ipotesi che avvicina il pensatore rumeno non soltanto ai fanatici del sacrificio e del massacro operanti nell’ISIS, ma un po’ a tutti coloro che nel sacrificio per la nazione, sia essa borghese o socialista o nazionalsocialista, vedono l’unica possibilità di rigenerazione della società.

Ma, anche, a coloro che, come Michel Houellebecq, guardano con timore alla perdita di identità della Francia o dell’Europa a favore dei nuovi venuti, di religioni diverse e culture altre che non tengono conto dei valori affermatisi nel vecchio continente fin dalla Grande Rivoluzione e dalle conquiste (guarda caso) napoleoniche. “Due volte – nella sua storia- la Francia ha raggiunto la grandezza: all’epoca della costruzione delle cattedrali e al tempo di Napoleone” (pag.31)

Le basi della Grandeur per Cioran stanno tutte lì: nel cristianesimo e nelle conquiste territoriali. Religione ed espansione. D’altra parte anche Codreanu, prima di dare vita alla sua Legione, aveva contribuito a fondare, nel 1923, la Lega per la Difesa Nazionale Cristiana. Il sogno nazionalista è già tutto racchiuso in quei due fattori.

La veduta delle grandi dissoluzioni ci intossica e ci indurisce. Il veleno abbatte la nostra fiera costituzione, ma la volontà di non perire provoca la reazione” (pag.87) Così che gli avversari di oggi o di ieri assomigliano sempre di più ad immagini specularmente rovesciate e riflettentisi l’una nell’altra. Ed è proprio questo che si tarda a capire, da troppo tempo. Anche se un’attenta lettura del breve testo di Cioran ci può aiutare a comprenderlo un po’ di più.

Il compianto del filosofo rumeno, ancora fresco di ferree emozioni, per una Francia che successivamente gli permise di riciclarsi negli ambienti esistenzialisti ed intellettuali, sta quasi tutto all’interno del pensiero borghese, perbenista e nazionalista, che rimpiange le proprie origini “eroiche”. Così, prima di procedere oltre, almeno questo occorre rilevare: Céline fu odioso per il suo antisemitismo, ma mai smise di denunciare, anzi di gridare, il suo odio per la guerra, il militarismo, il colonialismo e la doppiezza della borghesia e della sua presunta cultura ed intellettualità. Mentre Cioran, nel compiangere il tramonto di una civiltà e di una cultura ne esalta sia le forme accademiche e distaccate che il ben più rozzo sogno militarista di conquista .

Il primo non fu mai perdonato, pur essendo uno dei più grandi scrittori francesi del ‘900, mentre il secondo, insieme ai suoi compari, poté facilmente riciclarsi, nella cultura della Francia dei decenni successivi, in qualità di “filosofo del tragico”. Una questione, insomma, non solo di di forma, ma anche, come spesso accade, di sostanza.4

Si confronti “Cosa ha amato, la Francia? Gli stili, i piaceri dell’intelligenza, i salotti, la ragione, le piccole perfezioni. L’espressione precede la Natura. Siamo di fronte a una cultura della forma che ricopre le forze elementari e che, sopra ogni impulso passionale, stende la vernice elaborata della raffinatezza” (pag.24) con “Napoleone […] ha saputo dare un contenuto imperialista alla loro vanità, chiamata anche gloria” (pag.33). Ecco il rimpianto vero per la Francia: quando sapeva e poteva essere imperialista.

E l’impressione è che, ancora oggi, nelle pagine del libro ultimo di Houellebecq come nelle piazze d’oltralpe del dopo Charlie, la questione vera sia quella, così come per l’identità vera di cui buona parte dei francesi che votano per Marine Le Pen sente l’assenza. “La decadenza non è altro che l’incapacità di creare ancora, nella cerchia di valori che la definiscono” (pag.33) I valori borghesi su cui la Francia ha costruito la sua identità nazionale e perciò formale non trovano più riscontro nella realtà. Si finge che siano altri a negarli, quando in realtà si sono negati da sé…ammesso che siano mai stati davvero universali.

L’eguaglianza formale sul piano del diritto, la generica libertà individuale…già i cartisti inglesi del primo ottocento, preceduti da Rousseau, avevano capito che tali diritti non sarebbero mai stati di sostanza finché fosse sussistita la diversità sostanziale tra chi ha e chi non ha. Discorso saltato a piè pari oggi sia da chi afferma l’unità della umma5 come da chi dà per scontato che i diritti siano già uguali per tutti (di parola, di stampa, di espressione, di lavoro, di scelta, etc.), là dove manca l’uguaglianza reale: quella economica.

Inoltre “La Francia – come l’antica Grecia – […] sono gli unici due paesi che hanno utilizzato il concetto di barbaro, come caratterizzazione negativa dello straniero – esprimendo, in fondo, nient’altro che il rifiuto di una civiltà ben definita di aprirsi al nuovo” (pag.34) Qui Cioran, probabilmente, vuole sentirsi barbaro, così come lo dovevano sentirsi orgogliosamente i conquistatori dell’antica Roma o di Parigi nel giugno del 1940. Ma ciò non toglie che quel sentimento faccia parte, in questo caso per i francesi e dei loro ammiratori e sostenitori, della nostalgia per l’identità perduta. Quella che permetteva di distinguersi dai barbari appunto.

Decadenza significa […] non avere più anima. E’ il caso della Francia” (pag.48) Qui è ancora il barbaro Cioran, fascista tutt’altro che pentito, che guarda alla patria di Cartesio e si compiace della sua decadenza, a favore della novella barbarie nazista. ”Dopo aver verificato l’utilità o l’inutilità dei principi della Rivoluzione, quale nuovo contenuto potrei ancora attribuirle? […] La più grande rivoluzione moderna finisce come una paccottiglia dello spirito […] Potrebbe ancora servire alla patria? ” (pag. 46)

Una rivoluzione che non serva alla patria è inutile. Ecco il punto. Per questo i senza patria non hanno nulla a che spartire con le rivoluzioni che esaltano gli stati, le religioni e i partiti nazionalisti; anche con quelle che volevano costruire il socialismo in un solo paese, trasformando così anche il sogno proletario in una nuova e categorica religione nazionale. Forse è giunta l’ora di abbandonare l’ideale rivoluzionario statalista e giacobino, che ha erroneamente fondato tutte le rivoluzioni socialiste del ‘900, trasformandole, tutte indistintamente, in null’altro che ripetizioni, spesso mal riuscite, della rivoluzione nazionale borghese.

Cosa che ci costringe a riflettere su un’altra questione: se saltano i valori borghesi e della rivoluzione che li ha fondati esiste davvero solo la decadenza? Oppure la specie umana dovrà promuovere valori altri, rispetto a quelli fondati dalle religioni, dai nazionalismo, dagli imperialismi, dal capitale e dalla sua classe dirigente? Non dovrà forse il comunismo o l’organizzazione sociale futura distruggere anche i valori del pensiero e della società borghese, promuoverne e curarne la decadenza, per liberare davvero l’umanità intera?

Per un reazionario nichilista ed ultra-conservatore come Cioran la fine dei valori della società borghese per una nazione come la Francia, una volta finita l’epoca “eroica” delle conquiste, poteva significare soltanto due cose: l’ergersi all’orizzonte di una nuova potenza (la Germania di Hitler) oppure la decadenza e la fine della civiltà, in una visione totalitaria e tutt’altro che dialettica del divenire storico.

Mentre per chi crede nel superamento della società basata sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e sull’accumulazione di profitti, anche il superamento del diritto formale borghese e delle sue illusioni, comprese quelle religiose, è inevitabile e necessario. Cosicché spiarne l’agonia significa anche individuare i fattori del suo tramonto.

Poiché, per la maggior parte dell’umanità e sempre più per i lavoratori, oggi non esiste ancora libertà d’espressione. Non esiste uguaglianza davanti alla legge (basta confrontare i procedimenti giudiziari contro chi lotta con quelli a carico di coloro che hanno contribuito ad uccidere, come nel recentissimo caso della Eternit, migliaia di lavoratori). Non esiste sicurezza del lavoro, della proprietà e del futuro per i propri figli. Non dobbiamo scegliere tra uno e l’altro o l’altro ancora dei contendenti attuali. Dobbiamo scegliere un mondo altro e forme altre di espressione e di lotta, perché, come Rosa Luxemburg ci ha insegnato ormai da più di un secolo, la scelta futura non sarà tra civiltà (borghese) e barbarie, ma tra barbarie e socialismo. Hic Rhodus, hic salta.

C’è però da dire che , almeno, l’ambiguo o sincero Cioran del 1941 sapeva ancora riconoscere due cose: “La Rivoluzione del 1789 ha fatto il suo tempo, e la borghesia pure […] Essa ha solo una riserva sociale: il proletariato. E una sola formula: il comunismo” (pag.54) e “La vita esiste solo in banlieue. Una Francia proletaria è ormai l’unica possibile” (pag.79). Con buona pace di chi oggi volesse ancora soltanto demonizzare tout court i casseur o i loro sottoprodotti politici e militari.

In realtà Cioran non dava troppo credito a tale ipotesi. Anzi, la utilizzava proprio come paradosso per dimostrare l’irreparabile decadenza della società borghese francese, ma almeno aveva ancora la capacità di porla sul piatto, mentre oggi nel dibattito intellettuale e, anche se non lo vorrei dire, soprattutto a sinistra la lotta di classe e le sue conseguenze sono ormai totalmente rimosse a favore di discorsi che tengono conto dell’etica e delle idee, ma non della effettiva realtà sociale e di tutte le sue esplosive e spesso terribili contraddizioni.

In questo senso, leggere e riflettere sul piccolo testo di Cioran può essere utile. Non solo perché contiene al suo interno ancora numerosi altri spunti,6 ma anche perché, a volte, ci “insegna” di più un nemico sicuro che un alleato incerto e, proprio per questo, potenzialmente infido. Cosa che il testo rivela, mostrando la sottile o quasi invisibile linea di demarcazione che separa il pensiero conservatore, se non reazionario, da quello genericamente progressista, là dove l’autonomia politica di classe viene a mancare per appiattirsi invece sulle formule più scontate del pensiero dominante.


  1. Come ha già sottolineato Mario Andrea Rigoni, anche se con finalità diverse da chi scrive, in una recensione comparsa sul Corriere della sera: Cioran anticipò Houellebecq, 16 gennaio 2015  

  2. Sul “passato” fascista di Cioran, Eliade e sul più che contraddittorio Ionesco si consulti Alexandre Laignel-Lavastine, Il fascismo rimosso: Cioran, Eliade, Ionesco. Tre intellettuali rumeni nella bufera del secolo, UTET 2008  

  3. cit. da Giovanni Rotiroti nella sua introduzione a Cioran, Sulla Francia, pp.9-10  

  4. Anche se l’antisemitismo di Cioran, pur non manifestandosi in maniera violenta negli scritti francesi come in quelli rumeni prima del suo arrivo a Parigi, si manifesta sporadicamente ed incontenibilmente anche nel corso del testo qui trattato. Un esempio per tutti: “Tutti i paesi falliti hanno qualcosa dell’equivoco del destino giudaico; sono erosi dall’ossessione dell’implacabile incompiutezza” (pag.71) Là dove, per l’appunto, l’essere ebrei coincide con l’essere individui o popoli incompiuti, non completi, mancanti di qualcosa, sostanzialmente inferiori.  

  5. Nell’Islam è la comunità dei fedeli, al di sopra delle barriere sociali e nazionali  

  6. Basti per tutti, in un’epoca di cuochi televisivi e ricette gastronomiche presenti in ogni dove, la seguente riflessione: “Il fenomeno della decadenza è inseparabile dalla gastronomia [… ]l’atto di mangiare si è elevato al rango di rito. Ciò che è rivelatore, non è il fatto di mangiare, ma di meditare, di speculare, di intrattenersi per ore e ore su questo argomento”(pag.67)  

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