Elia – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 13 Sep 2025 04:55:51 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 La coscienza di Gustav (appunti meyrinkiani) 8 https://www.carmillaonline.com/2025/02/22/la-coscienza-di-gustav-appunti-meyrinkiani-8/ Sat, 22 Feb 2025 21:00:49 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=86852 di Franco Pezzini

(Per le parti precedenti, cfr. qui)

Rinascite e apocalissi (1916-17)

Il capitolo XIII inizia con Sephardi, Swammerdam e Pfeill che discutono di temi arcani a casa del primo. Eidotter è stato liberato ed è tornato al suo spaccio di alcolici, mentre Haberrisser dovrà affrontare il giorno seguente la dura prova della sepoltura di Eva. Swammerdam spiega però di non preoccuparsi che la strana serenità dell’ingegnere lo abbandoni: “Eidotter direbbe che i lumi in lui sono stati spostati”. Turbati dalla serenità di Swammerdam, gli amici ricordano le frasi che il calzolaio assassinato aveva detto prima di morire, prevedendo [...]]]> di Franco Pezzini

(Per le parti precedenti, cfr. qui)

Rinascite e apocalissi (1916-17)

Il capitolo XIII inizia con Sephardi, Swammerdam e Pfeill che discutono di temi arcani a casa del primo. Eidotter è stato liberato ed è tornato al suo spaccio di alcolici, mentre Haberrisser dovrà affrontare il giorno seguente la dura prova della sepoltura di Eva. Swammerdam spiega però di non preoccuparsi che la strana serenità dell’ingegnere lo abbandoni: “Eidotter direbbe che i lumi in lui sono stati spostati”. Turbati dalla serenità di Swammerdam, gli amici ricordano le frasi che il calzolaio assassinato aveva detto prima di morire, prevedendo la propria fine con gran lucidità: il mistico spiega che proprio il ricordo di tale verace estasi spirituale gli permette di rileggere quella notte in modo sereno. Del resto la vita dopo la morte spettante alle due vittime è una condizione, non un luogo, così come la vita sulla terra. Sephardi è chiamato nell’altra stanza da una telefonata, e il mistico continua a bassa voce, per il solo Pfeill: a suo dire in paradiso ci sarebbero solo le immagini di persone e cose amate, non quelle reali – ma sa che Sephardi aveva amato Eva e dunque non vuole strappargli l’illusione di un incontro con lei nell’aldilà. Il dottore rientra, e manifesta al mistico il suo stupore che riesca a “dominare il dolore attraverso la pura conoscenza”, mentre lui con argomentazioni filosofiche non ci riesce: Swammerdam ribatte che Sephardi parte dal pensiero, di cui in segreto diffidiamo, non dalla “Parola Interiore” – che pur avendogli parlato di rado ha illuminato la sua intera esistenza. In qualche volta gli ha offerto profezie: anzitutto, per suo

 

intervento una giovane coppia avrebbe avuto accesso a una via spirituale rimasta sepolta per millenni e destinata a rivelarsi a molti nel tempo a venire. È la via che dà alla vita il suo reale valore, e un senso all’esistenza. Questa promessa è divenuta l’essenza della mia vita.

 

Della seconda profezia preferisce non parlare, lo prenderebbero per matto, ma potrebbe riguardare Eva, mentre la terza non interesserebbe loro. Su queste tre nutre tale certezza da non essere in grado di dubitarne, pur non avendo mai goduto di visioni. Sente comunque la presenza di Qualcuno accanto a sé, “immenso e onnipotente”, non spera di vederlo ma spera in Lui. E aggiunge: “So che un futuro terribile, sconvolgente si sta avvicinando; prima arriverà una tempesta come non se ne sono mai viste”. Non gli importa se ne sarà coinvolto anche lui, ma è felice che quel tempo giunga. Gli amici rabbrividiscono. Non poteva sapere dove Eva fosse, ma solo che sarebbe venuta: e così sa che non è morta, “La mano di Lui la protegge”. Gli amici possono ribattere sconvolti che il feretro è già in chiesa e l’indomani verrà sepolta: ma se persino fosse sepolta mille volte, o se lui tenesse in mano il teschio di lei, sa che non è morta… Così, quando il mistico se ne va, Pfeill commenta che è matto.

Sfuggendo al poliziotto appostato in seguito agli ultimi fatti, Usibepu penetra in chiesa dal lucernario della sagrestia. In chiesa, Eva giace composta e coperta di rose bianche, attorniata da alti ceri. Usibepu si aggira colpito dalle statue, fino a fermarsi triste accanto alla defunta, stordito dalla sua bellezza, e le accarezza timidamente i capelli. Non capisce perché davanti a lui si fosse spaventata così tanto: le altre donne, nere o bianche, “che aveva desiderato erano sempre state orgogliose di appartenergli” e con nessuna aveva dovuto ricorrere alla magia Vidû – “Lei sola no!”. L’aveva cercata invano notte dopo notte, e prende a ricordare la lunga strada seguita fin lì dall’Africa, dove un commerciante inglese l’aveva attirato a Città del Capo promettendogli di farlo diventare re degli Zulù, poi la nave su cui era giunti ad Amsterdam, la troupe del circo dove era stato arruolato per sfruttarlo, “la città di pietra in cui il suo cuore si consumava di nostalgia; e nessuno che capisse la sua lingua”. Carezza un braccio di lei con espressione desolata, per amore di lei ha perso il suo dio: “Perché fosse sua aveva invocato il terribile Souquiant, l’idolo serpente dal volto umano, e così aveva messo in gioco e… perso il potere di camminare sulle pietre incandescenti”. Scacciato dal circo e senza un soldo, sul punto di essere rispedito in Africa, aveva vagato cercandola: e il dio serpente “gli era apparso un’unica volta in sogno, e con un ordine atroce: evocare Eva nella casa di un rivale. E soltanto ora riusciva a rivederla, in chiesa, morta”.

Non capisce peraltro il senso delle statue all’intorno, divinità bianche di cui ignora i nomi segreti per poterle invocare: ma devono anche loro saper fare risorgere i morti, altrimenti Zitter Arpád da chi ha ottenuto la capacità di conficcarsi i pugnali in gola? Non riesce a entrare in collegamento neppure con una Madonna nera, e si rannicchia ai piedi del catafalco intonando il canto funebre degli Zulù. Alla fine si alza e avvolge l’oggetto più prezioso che ha, una piccola collana fatta di vertebre di regine strangolate – un feticcio sacro portatore d’immortalità – attorno alle mani giunte della morta. Tanto, “Eva non poteva entrare nel cielo dei neri né lui nel paradiso dei bianchi!”. Ma poi avverte un rumore, un tremolare delle candele e si nasconde dietro la colonna.

Al posto del cero è ora apparso un trono di pietra, dove siede, di altezza sovrumana, un dio egizio con la corona piumata. Di fronte a lui un uomo con la testa di ibis, e ai lati della bara due figure con teste rispettivamente di sparviero e di sciacallo. “Lo zulù intuì che erano venuto a giudicare la morta”. Poi appare la dea della verità con un copricapo a forma di avvoltoio e prende il cuore della giovane ponendolo su una bilancia: le figure ai lati gestiscono la pesa, il cuore di Eva risulta pesare molto più della statuetta di bronzo sull’altro piatto, la figura con testa d’ibis scrive su una tavoletta di cera e il giudice dei morti stabilisce che “ha raggiunto la terra della verità e della discolpa”, per cui “Si desterà quale Dio vivente”. Poi le divinità scompaiono ed Eva scende dal feretro: i ceri si mutano in figure brune con fiamme alte sul capo, e richiudono la bara vuota.

L’inverno ha percorso l’Olanda, ma la primavera non giunge, come la terra non riuscisse a ridestarsi. In un clima sempre più angosciato, si blatera di fine del mondo. Hauberrisser si è trasferito in campagna in una casa isolata che forse era in origine una tomba megalitica, e che ha adocchiato al ritorno dal funerale di Eva. Il concetto di dolore dell’anima gli è divenuto incomprensibile e prova quasi orrore di sé.

Una sera, mentre medita sulla possibilità che l’umanità risorga dalle ceneri come una Fenice, pensa all’apparizione di Chidher Grün che ha detto di essere rimasto sulla terra per “dare”: lui, al contrario, si tiene gelosamente le proprie acquisizioni interiori, al punto che gli amici lo pensano lì intento a piangere. Esclude di tornare in città e mettersi a predicare, la gente non capirebbe: e decide di proseguire il manoscritto con gli insegnamenti e rimetterlo nella nicchia della propria precedente abitazione.

Lo indirizza dunque “Allo sconosciuto che verrà dopo di me!”. Mentre, dubitoso sullo sviluppo del testo, cerca la custodia fatta confezionare in argento per il medesimo, gli capita tra le mani il teschio di cartapesta comprato più di un anno prima alla “Bottega delle Meraviglie”: il mondo gli appare come un gran negozio pieno di cianfrusaglie. Persino di fronte al corpo di Eva gli era parso si trattasse di una statua di cera, una completa estranea. Ma il se stesso inginocchiato davanti al letto era solo un’ombra sorridente: gli stessi amici e le persone al funerale gli erano apparsi ombre, così come il carro, le corone, il cimitero… Da allora sa di aver superato la soglia della morte: resta sveglio vedendo il suo corpo dormire, ma se riprende a vedere coi suoi occhi tutto gli pare triste. Se poi torna a staccarsene, vive una situazione singolare:

 

Supponi di trovarti in un cinematografo – col cuore esultante per una gioia recentissima – e di vedere sullo schermo la tua immagine che passa di dolore in dolore e crolla al capezzale di una donna amata – e tu sai che non è morta bensì a casa ad aspettarti; supponi inoltre che quell’immagine, con la tua propria voce prodotta da un apparecchio sonoro, lanci grida disperate di dolore. Questo spettacolo ti coinvolgerebbe?

Certo, il paragone è debole; ti auguro di farne esperienza personalmente.

Sapresti allora, come lo so io, che esiste una possibilità di sfuggire alla morte.

 

Nuovo riferimento al cinema nell’opera di Meyrink, il passo la dice lunga sul gusto melodrammatico della produzione espressionista…

Se poi non può ancora vedere Eva, sa che non è morta e li separa un altro piccolo passo, una parete sottile. E ammonisce di guardarsi dagli insegnamenti degli spiritisti: “Per fortuna non sanno chi sono realmente quelli che accorrono ai loro richiami. Se lo sapessero ne proverebbero orrore”.

Per giungere dagli Invisibili, occorre diventare invisibile, e chi è partito cieco dalla terra non raggiunge l’aldilà ma vaga in una dimensione di sogno popolata da ombre. Immortale è solo chi si è risvegliato, “Sopra di lui non c’è nessun Dio”: per questo la loro via è detta pagana, e considera come una semplice condizione in cui trasformarsi quel Dio che i devoti adorano. Dunque le preghiere andrebbero rivolte al proprio Sé invisibile…

Scritto tutto quello, Hauberrisser si alza, ripone in fretta i fogli nella custodia, e nella luce dell’alba si avvia per portarli al vecchio alloggio – però poi decide di seppellirli lì intorno, sotto un melo in fiore. Solo allora corre verso la città, preso da una grave preoccupazione per i propri amici. L’aria è calda, calma e asciutta come prima di un temporale. Ma col far del giorno il cielo muta aspetto, le nubi si torcono come vermi giganteschi; “Incubi vorticanti con le punte verso l’alto, simili a immensi calici rovesciati, dondolavano appesi nel vuoto; volti di animali si avventavano l’uno contro l’altro”. Un lungo triangolo nero si leva veloce da sud e per alcuni minuti oscura la luce solare: sono cavallette giunte dall’Africa. La simbolica è quella dell’Apocalisse: le coppe al cap. 16, le cavallette al 9…

Durante il percorso non ha incontrato nessuno, ma alla curva gli appare l’enorme figura di un vecchio ebreo, dai contorni incerti e alla fine quasi trasparente; lo oltrepassa silenzioso e diventa un nugolo di formiche volanti, che può ricordare la forma di un uomo ma poi si dilegua all’orizzonte. È una manifestazione di Chidher Grün? Gli sembra strano.

Ma nel frattempo ha raggiunto il Wester Park e si dirige verso il Damrak in direzione di casa di Sephardi. Ma a causa della folla agitata deve imboccare la Jodenbuurt: e trova una sfilata rumorosa dell’Esercito della Salvezza, poi una quantità di fanatici flagellanti, sbavanti, convulsivi… Neanche i vicoli sono praticabili, e passando davanti alla “Bottega delle Meraviglie”, Hauberrisser trova che è stata rimossa l’insegna e alzata un’impalcatura per il trono del ciarlatano Zitter Arpád. Questi, in mantello d’ermellino e diadema aureolante, getta tra la folla in estasi monete di rame con la sua effigie e invita a gettare “le donnacce nel fuoco” e portare a lui “il loro oro peccaminoso”.

Infine Hauberrisser incontra Pfeill, e continuamente ostacolati dalla folla puntano verso casa di Swammerdam. Ora Pfeill non è più così estasiato dal cialtrone che si fingeva un conte polacco: “Un tipo orribile quello Zitter”, la polizia è impotente contro le sue malefatte, si spaccia per il profeta Elia e si fa adorare: ha portato cortigiane straniere al circo, e fatto aizzare tigri contro di loro, con “la follia del dittatore. Come Nerone…” (consideriamo che queste pagine vengono scritte parecchio prima dell’ascesa di Hitler). Ha sposato una donna e poi per depredarne le sostanze l’ha avvelenata, poi si è giocato i soldi di lei e in seguito ha fatto il medium con gran successo – si tratta in sostanza del solito Tiranno manipolatore d’anime che tante volte incontreremo nel cinema espressionista, e insieme di una Bestia da Apocalisse. Intanto il corteo di devoti eccitati rischia sempre di separare i due amici.

Sephardi però è partito, è “cambiato parecchio” trascorrendo molto tempo con Eidotter, e dice che finalmente ha una missione: in seguito a un’apparizione dell’uomo dal volto verde è andato a fondare uno stato sionista in Brasile, dove sono confluiti quasi tutti gli ebrei d’Olanda. (Va ricordato che alla fine del Golem Hillel partiva per la Palestina, verso Gad, ma il filantropo barone Hirsch vagheggiava a fine ottocento una grande emigrazione ebraica nelle Americhe, e il finanziamento di colonie agricole in Argentina, Brasile e Canada, saldando così il sogno della Terra Promessa con l’utopia rurale americana.) Come “unico popolo internazionale” gli ebrei “sono chiamati a creare una lingua che pian piano diventi il mezzo di comunicazione fra tutti i popoli della terra e in tal modo li avvicini”. Eidotter, quasi sempre in estasi, proclama profezie che si avverano regolarmente, di recente quella “di una terribile catastrofe sull’Europa che aprirà una nuova epoca”, felice di esserne travolto anche lui per poter “condurre nel Regno dell’Abbondanza i tanti che trapasseranno”. Un’idea non così assurda, in città si attende “il diluvio universale… L’umanità è impazzita… Le ferrovie sono interrotte da tempo”. Ma anche a Pfeill sono capitati fatti incredibili…

Quanto a Swammerdam, è in pena per loro, “crede che solo vicino a lui possiamo essere al sicuro”. Una delle tre profezie della sua Parola Interiore gli ha annunciato che lui sopravvivrà alla chiesa di San Nicola: probabilmente spera così di salvare anche loro dalla catastrofe. Ma a un tratto il clamore si fa assordante di voci che gridano al miracolo, “La nuova Gerusalemme è comparsa nel cielo!”, da un abbaino all’altro oltre i tetti, fino alla più remota periferia. Vengono separati e trascinati via dalla fiumana, mentre nell’aria continuano a vorticare “quelle strane figure di vapore azzuffandosi come giganteschi pesci alati”, ma tra le nubi a forma di montagne innevate ecco apparire “il miraggio di una città straniera del Sud”, e se ne vede persino la gente dal volto scuro. Il miraggio dura più di un’ora prima di impallidire: resta nel cielo per un po’ un sottile minareto che infine si dilegua.

Raggiungere casa di Swammerdam è impossibile, e Hauberrisser decide di tornare indietro, in un panorama silenzioso, secco e polveroso percorso da schiere di topi. Nell’aria senza vento che via via si oscura, i canali sono corsi da strisce infuocate, formano gorghi fangosi; ma a un tratto prendono a sorgere come spettri trombe d’aria, dirette verso la città. Madido di sudore, Hauberrisser rientra in casa, non tocca cibo e si getta sul letto.

E arriviamo all’Epilogo, con una notte che sembra non voler finire, il cielo nero anche all’alba, una striscia di luce sulfurea all’orizzonte, le torri lontane di Amsterdam fiocamente illuminate. Hauberrisser punta il binocolo in quella direzione. Lo scampanio ansioso da laggiù ammutolisce, un rombo attraversa l’aria e il pioppo più prossimo alla casa si piega scricchiolando fino a terra. il vento turbina a frustate, poi un’enorme nube di polvere inghiotte il paesaggio, le pale strappate dai mulini vorticano nell’aria: la tempesta geme sulla landa fino a formare un urlo ininterrotto, sempre più violenta. Travi, macerie, muri volano come proiettili davanti alla finestra: e Hauberrisser sta già credendo che l’uragano passi con l’oscurità – il cielo si è fatto grigio argento – quando dal pioppo abbattuto e ormai senza fronde prende a staccarsi persino la corteccia. E lontano, verso Amsterdam, prendono a spezzarsi e cadere prima le alte ciminiere a sud-ovest del porto, poi i campanili. Il vento trascina in volo persino lapidi e croci del cimitero; le travi del solaio gemono, ed è impossibile anche solo abbassare la maniglia della porta della stanza per evitare che la corrente riduca la casa in macerie. Si salva solo perché protetta dalla collina e le stanze sono divise da porte chiuse. Attorno la tempesta soffia via l’acqua dai canali e la sparge nell’aria. Se, come mi faceva notare un’amica, Usibepu è idealmente imparentato con Calibano, La tempesta è qui alla fine e non all’inizio dell’opera, con il ruolo di Prospero suddiviso tra Swammerdam e Hauberrisser. Per contro, una chiesa di San Nicola c’è anche nel Castello d’Otranto, pur non venendo distrutta dal crollo dell’edificio eponimo.

L’ingegnere fissa l’imposta coi chiodi, ma quando osa guardare in direzione di San Nicola dove devono trovarsi gli amici la vede ancora indenne su un’isola di macerie. Si chiede quante città d’Europa siano ancora in piedi, una “civiltà ormai fatiscente si è disfatta in macerie sparse ovunque”. E alla fine recupera abbastanza lucidità da poter capire, domandandosi se abbia dormito fino a quel momento. Inspiegabilmente il melo fiorito vicino a casa sua è ancora intatto: ai suoi piedi aveva sepolto il rotolo di fogli, si tratta forse di Chidher, “l’albero in eterno ‘verdeggiante’”. E un’aria di primavera aleggia sul mondo devastato… Sente la Fenice in sé pronta a spiegare le ali, ricorda quando ha baciato Eva ma ora non avverte più la morte ma un presentimento di vita futura indistruttibile. Ricorda la promessa di Chidher Grün di dare l’amore eterno anche a lui come a Eva…

Certo, molti sono periti nella catastrofe ma non riesce a provare dolore: risorgeranno a una forma diversa fino a raggiungere quella definitiva di “uomo risvegliato”. Anche la natura, come la Fenice, ringiovanisce ogni volta… e a un tratto, avvertendo un lieve respiro carezzargli il volto, si chiede se Eva non sia vicino a lui. “Quale cuore poteva battere così vicino al suo se non quello di lei?”. Mentre avverte nuovi sensi destarsi in sé, supplica sottovoce Eva per un segno, e con emozione immensa sente mormorarne la voce: “Che misero amore sarebbe mai questo se non potesse superare lo spazio e il tempo!” – ora lei attende il risveglio di lui… Tutto, attorno, gli sembra ingannevole e si chiede cosa accadrà al proprio risveglio spirituale.

Il tempo passa, i canali sono vuoti, l’aria è immobile. Ma con il binocolo, nota che in città infuriano ancora dei cicloni, e i due campanili di San Nicola vacillano, poi uno crolla e l’altro è proiettato in aria “vorticando come un razzo” per poi schiantarsi. Hauberrisser atterrito pensa ai propri amici, ma poi realizza che Chidher deve averli protetti. La campana della chiesa si frantuma in distanza, lo spostamento d’aria giunge fin lì (ovviamente la scena non va letta in termini naturalistici) e si ode nella stanza la voce di Chidher Grün. “Le mura di Gerico sono cadute […] Egli si è destato dal regno dei morti”. Poi silenzio, il pianto di un bambino e infine alle pareti disadorne della stanza – sorta di tomba per una morte simbolica – si sovrappongono come coesistendo in un’altra dimensione quelle di un tempio egizio con figure di divinità. I sensi si risvegliano potenziati:

 

A poco a poco capì di aver toccato quel traguardo che è lo scopo segreto di ogni esistenza umana: essere cittadino di due mondi.

Di nuovo il pianto di un bambino.

 

Eva non aveva detto di voler essere madre al suo ritorno? Trasalì per lo spavento.

La Dea Iside non teneva forse in braccio un bambino nudo e vivo?

Levò lo sguardo su di lei e la vide sorridere.

La Dea si mosse.

 

E mentre l’immagine del tempio si fa sempre più nitida, Hauberrisser riconosce Eva in Iside, è lei “madre del mondo” e gli appare nel suo sembiante terreno. Chiamando il nome dell’amata, nella stanza che torna a emergere la stringe a sé e le copre il viso di baci. Restano abbracciati davanti alla finestra guardando verso la città morta, e nella testa di Hauberrisser echeggia la voce di Chidher Grün, forse profetica della nascita di un figlio alla coppia ricongiunta: “Aiutate le generazioni future, come faccio io, a costruire un nuovo regno sulle rovine del vecchio, […] affinché giunga il momento in cui anch’io potrò sorridere”.

 

La camera e il tempio erano ormai ugualmente nitidi.

Come Giano bifronte, Hauberrisser poteva ora guardare contemporaneamente nel mondo dell’aldilà e in quello terreno, distinguendone ogni più piccolo dettaglio:

 

adesso era “di qua” e “di là”,

un uomo vivo.

 

Permettendo alla coscienza di raggiungere il punto d’illuminazione e cancellare i limiti, l’iniziato dovrebbe cioè operare il passaggio da dualità e separazione di opposte polarità a un’unità profonda, con il trionfo di “Nozze chimiche” tra Re e Regina. Questo finale, che riconduce idealmente al racconto coevo La visita di Johann Hermann Obereit nel Paese delle Succhiatempo e alla dignità di poter porre l’epitaffio “Vivo” sulla propria tomba, dice parecchio delle riflessioni che Meyrink sviluppa all’epoca.

Qualche appunto merita il tema del “verde”, di antica tradizione simbolica e alchemica in associazione con la figura misterica che conduce un gioco allegro nella pagine dell’opera. Il volto verde che qui vediamo figurare sul corpo di un uomo o invece di un serpente richiama anzitutto il Chidher (o Chadir, El-Chidr, Al Khadir, Al Khidr) della tradizione islamica, citato nel Corano (sura 18, 58-91).

 

Benché servitore di Dio, egli è protagonista di diversi misfatti, e quando Musa (Mosè) gliene chiede la ragione, Al Khidr gli risponde: “Tu non puoi insistere con me; quel che faccio, non è di testa mia. Dio mi ha dettato queste azioni biasimevoli per evitarne di peggiori”. Nell’enciclopedia dell’Islam (1913) vengono riportati altri dettagli quantomeno inquietanti: “È tuffandosi nella sorgente della vita che egli avrebbe acquisito il colore verde e di conseguenza il nome…”l

“Egli era seduto su di una pelliccia bianca e questa divenne verde”. La pelliccia è la Terra quando fa maturare i germi e diventa verde dopo esser stata disseccata. Secondo Umara è stato detto ad Al Khadir presso la sorgente di vita: “Tu sei Chadir e là dove i tuoi piedi la toccheranno la terra diverrà verde”. [Jean-Jacques Mathé, Il simbolismo ermetico, in AA. VV., Meyrink scrittore e iniziato, cit.]

 

Questo Chidher, chiamato anche Huzur nelle tradizioni esoteriche dell’Islam, è sempre stato assimilato all’Ermete Trismegisto egiziano. Nel romanzo di Meyrink, il parallelismo viene espressamente stabilito col profeta Elia e l’evangelista Giovanni, ed anche con l’immagine dell’“Ebreo errante”; ed il possessore della Faccia Verde viene così designato come “l’uomo archetipico”, o come il solo essere veramente vivente.

Come il profeta “verde” dell’Islam ha bevuto dell’acqua della vita e morirà solo al suono della tromba del Giudizio Universale, così il colore simbolico di San Giovanni è il verde e, secondo una tradizione, egli deve restar vivo sino al ritorno del Messia. Ma anche Elia può comparire in qualunque momento quale invitato alla sera del Seder e, come San Giovanni con la sua Apocalisse, viene ritenuto l’annunciatore di un grande Giudizio di Dio prima del regno del Messia.

Tuttavia, è particolarmente importante il fatto che Chidher sia sempre considerato come il compagno e lo ierofante di un atto di resurrezione mistica, mentre San Giovanni, autore del Vangelo esoterico [sic], svolge un ruolo corrispondente nelle tradizioni gnostiche; infine, la letteratura cabalistica della mistica ebraica fa differenza tra gli autori ai quali il profeta Elia sarebbe apparso e quelli i cui scritti si baserebbero sul solo intelletto umano.

Per ragioni di atmosfera poetica più che per il suo sapore esoterico, Meyrink ha aggiunto a questo personaggio di Chidher-Elia-San Giovanni quello dell’Ebreo errante. Le descrizioni talvolta dettagliate dell’apparenza esteriore dell’Ebreo errante lo hanno aiutato non soltanto a fornire un’immagine precisa del possessore della Faccia Verde sin dalla sua prima apparizione, ma gli hanno anche conferito la possibilità di distinguerne convenientemente gli aspetti positivi e negativi: l’aspetto positivo risalta quando la Faccia Verde si presenta, come nella rappresentazione classica dell’Ebreo errante, con una banda nera sulla fronte sotto cui si cela, secondo Meyrink, il segno della vita. Nell’aspetto negativo, il volto è velato e la fronte si rischiara della luce di una croce verde. L’attrazione poetica del personaggio dell’Ebreo errante è stata così forte per Meyrink che egli in origine voleva intitolare il suo romanzo L’Ebreo errante.

La Faccia Verde del primo uomo immortale, cui Meyrink aggiunge anche alcuni tratti del culto del serpente Vidu degli Zulù, le concezioni di un circolo di mistici cristiani, un simbolismo cosmico della natura e le tradizioni egizie, svolge in effetti un ruolo essenziale nel romanzo, perché come in tutti i romanzi di Meyrink non è l’evento esteriore ad esser descritto, bensì l’evoluzione interiore dell’eroe, e questo con un rigore idealistico caratteristico di Meyrink in particolare e dell’espressionismo tedesco in generale. Uno dei personaggi espone la sua dottrina: dobbiamo porre il pensiero al di sopra della vita; l’evoluzione intellettuale dell’eroe principale sin dalla prima intuizione e dalla prima percezione e fino a compimento della propria realizzazione mistica costituisce l’idea direttrice. [Joseph Strelka, “La faccia verde”, cit.]

 

[…] in ogni opera, Gustav Meyrink identifica un essere vivente con un personaggio che ha cessato di esistere, che è vissuto in un tempo passato e tutte queste vite, per quanto un po’ diverse l’una dall’altra, formano un’entità spirituale appartenente ad un essere unico, che ci si rivela sotto molteplici sfaccettature.

Ed infatti, il cosmo non è forse formato, in un preciso istante, di presente, passato e avvenire? In questo rigido blocco, l’avvenire è costituito di elementi già vissuti. [Jean-Pierre Bayard, Aspetti del pensiero iniziatico di Gustav Meyrink, in AA. VV., Meyrink scrittore e iniziato, cit.]

 

Fuori da mille equivoci, l’esoterismo del Volto verde sta in questo, e non assomiglia in nulla ai corti orizzonti di piccoli razzisti in cerca di potere magico-politico, ma guarda a un’esperienza di crescita interiore. Mistica cristiana, ebraica, islamica; yoga; sapienza egizia, africana – il risultato è una grande avventura esistenziale sincretista, aperta a varie “sofie” e con un inatteso rispetto – inatteso data l’epoca e il contesto – di mondi e profili altri come quello di Usibepu.

Per Pfeill il Volto verde è uno spartiacque della coscienza umana, e la stessa esperienza interiore viene condivisa da quanti siano maturi per riceverla; per Sephardi non è importante che si tratti di un essere e una forma di comunicazione provenienti dall’esterno o invece di qualcosa di totalmente interiore, per la difficoltà di discernere tra pensiero e comunicazione. Ma è con il povero Eidotter che si capisce meglio come il Volto verde – Elia –permetta di conoscere il più alto grado di iniziazione e una vera modificazione della personalità. Negli ultimi capitoli, poi, diverse prospettive illuminano spiegazioni ai processi evolutivi in scena, con una spiegazione quasi junghiana sul risveglio e la realizzazione dell’Io invisibile e una prospettiva profetica di apocalisse e rinnovamento. Il numero e la densità delle metafore e delle espressioni immaginose, ma soprattutto la loro profondità, offrono a questo romanzo una connotazione molto particolare. Fondamentale è l’accettazione della legge della mortalità, e merita su tema citare le parole di Marcel Béalu:

 

Che l’accettazione sia puntellata o no dalla credenza in una problematica vita eterna, è proprio a questa sola speranza terrestre che alla fine si accosta Meyrink. […] Certo, vi è confusione, farragine, ebollizione verbale in questi libri, il cui intreccio tende talvolta al melodramma. Spesso ci troviamo più vicini all’autore de L’Ebreo errante [inteso qui come feuilleton di Eugène Sue] che a Kafka (che pure ne subì, a quanto si dice, l’influenza). Questo genere di letteratura non è certo adatto ai raffinati. Non sono tanto le qualità dello scrittore […] che ammiro in Meyrink, bensì la gravità, la serietà delle preoccupazioni, l’essenza del pensiero. Se non siamo sicuri di trovarci di fronte a uno “scrittore” così come lo intende la crema intellettuale di questo paese, siamo certi di essere alla presenza di un uomo che possiede un’“anima”, il che è mille volte più raro. Intendo con “uomo che possiede un’anima” chi non ha vergogna di provare sentimenti comuni a tutti gli esseri e conserva uno spirito inquieto per i propri destini ultraterreni, non limitato alla preoccupazione di farsi valere o di assicurarsi una reputazione nel Landornau letterario dell’epoca. Di quest’anima, che raggiunge qui facilmente il patetismo, conserverò soprattutto il bagliore di speranza che compare nell’ultima pagina de La Faccia verde, dopo che gli amanti si sono ritrovati e vi è stata la promessa della futura nascita del figlio […]. [Marcel Béalu, L’angelo è apparso in un calore insopportabile, in AA. VV., Meyrink scrittore e iniziato, cit.]

 

Il nodo rilevato da Béalu è particolarmente evidente in un romanzo piuttosto ostico come Il volto verde, letterariamente più povero del Golem e di altri dell’autore a dispetto della lussureggiante ricchezza simbolica, mitica e mistica. Che pure ha i suoi pregi narrativi: l’Amsterdam postbellica richiama in modo suggestivo la Germania dell’espressionismo, e la catastrofe finale che la colpisce – con quella che è stata talora giudicata una soluzione narrativa eccessiva e non felice – mostra non solo una potenza visionaria, ma un nesso suggestivo con tutta un lunga storia del linguaggio fantastico (i crolli del castello d’Otranto, del palazzo Metzengerstein e di casa Usher, quello del castello Dracula previsto nella prima versione del romanzo di Stoker…).

Del resto a scenari apocalittici Meyrink torna molto presto, con un romanzo letterariamente più godibile e di grande potenza visionaria dell’anno successivo, La notte di Valpurga (Walpurgisnacht. Phantastischer Roman) apparso per i tipi Kurt Wolff Verlag, 1917. Praga, 1885 (la Triplice Alleanza tra Germania, Austria-Ungheria e Regno d’Italia è stata siglata da tre anni): in un clima sovreccitato e decadente che suggerisce l’incombere della fine dell’impero asburgico, la notte fatale in cui “si scatenano le forze dell’‘altra sponda’” (come presentava il romanzo la vecchia edizione La Bussola) diventa metafora espressionista di una crisi epocale, apocalittica ma anche propriamente sociale. Già le scene iniziali potrebbero, per giochi d’ombra e di livide luci, per personaggi dal gesticolare grottesco e dagli occhi caricati col trucco a enfatizzare una teatralità isterica e burattinesca, arrivare direttamente da un film d’epoca.

Tutto inizia con un cane – Brock – che abbaia nella notte e un gruppo di vecchi riuniti attorno a un mazzo di carte da whist. Ci sono il barone Costantino Elsenwanger, la contessa Zahradka, l’allampanato medico di corte Taddeo Flugbeil detto il Pinguino dagli studenti dello Hradscin, e ipotizzano che l’abbaiare del cane annunci l’arrivo del Consigliere Gaspare di Schirnding molto occupato a giocare di giorno con i bambini dell’istituto Khoteke – o meglio con le bambine, osserva Flugbeil; “con la gioventù, e basta” ribatte severa la contessa. In effetti il Consigliere arriva, ma il cane continua ad abbaiare. Il gruppo va a cena, commentando con stupefazione che il Consigliere sia sceso in città, varcando il ponte – e se fosse crollato (come nel Golem)? – in toni sovraeccitati che ben rendono un certo clima onirico ed espressionista: il Hradscin, la Città Alta attorno al Castello, è vista come qualcosa di totalmente diverso, letteralmente un’altra città, rispetto a Praga (intesa come Città Bassa). Mentre è quasi surrealistica la confusione della contessa tra le dita dei guanti troppo lunghi della cameriera Bozena – a piedi nudi, secondo il costume dei domestici dei palazzi patrizi di Praga – guanti che dunque pendono nel brodo, e le salsicce della medesima zuppa. In città non scendono mai, come la contessa ancora stizzita che i suoi antenati vi fossero stati giustiziati durante la Guerra dei trent’anni, o molto di rado come il barone, discesovi l’ultima volta un ventennio prima. Ma ormai i prussiani, spiega il Pinguino, da tre anni sono loro alleati contro i russi, la situazione è cambiata…

Terminano cena e si apprestano ad affrontare la solita partita a whist, quando il cane in giardino riprende a ululare. Il Pinguino allora prende a occhieggiare dalla porta sulla veranda e vede un uomo camminare rigido sul cornicione del muro di cinta del parco. All’improvviso la figura sparisce, precipitando tra la vegetazione, e la situazione – sarà un assassino? – scatena il panico: ma il Pinguino mantiene sangue freddo diramando ordini ai domestici, e alla fine lo sventurato ritrovato i piedi del muro viene trasportato privo di sensi nella sala dei ritratti. Lì, tra immagini più o meno inquietanti di antenati nelle tele, la contessa annuncia lugubre che Flugbeil non potrà più salvarlo – come quello con un pugnale nel cuore, e al medico di corte occorre un attimo per ricostruire che lei pensa al figlio trovato pugnalato tanto tempo prima (episodio che non troverà sviluppi diretti). L’infortunato presenta labbra illividite e guance imbellettate in rosso vivo, tali da far pensare a una figura di cera (di nuovo): e la cameriera riconosce in lui Zrcadlo, “lo Specchio”, che vive presso Lisa la boema, in passato “una famosa etera” (spiega il medico) ormai anziana. Vive nella Totenstrasse, la via delle ragazze perdute, e la contessa ordina di chiamarla. Poco a poco l’uomo riprende i sensi e si alza: secondo il Pinguino, si tratta di un caso di sonnambulismo scatenato dal plenilunio. Prova dunque a parlargli: Zrcadlo si sente abbastanza bene da tornare a casa?

Il sonnambulo non risponde, volge lentamente il capo e lo fissa, mentre il Pinguino si chiede dove mai l’abbia visto. È alto, magro, di pelle scura, con capelli lunghi e grigi, il viso lungo e glabro… non proprio il Cesare del Gabinetto del dottor Caligari (1920, solo tre anni dopo, difficile non pensare a un nesso), ma ci andiamo vicini. Ha guance imbellettate e un mantello di velluto nero, e fa pensare non tanto a un uomo vivo ma alla sensibilizzazione di un’immagine onirica, o a una mummia di faraone travestita da commediante. A detta della contessa, considerando le pupille tanto contratte, il tipo è morto – ed esorta sarcastica il barone Costantino e il consigliere bloccati sulla soglia a venire avanti, “non morde”. Ma udendo il nome Costantino, il sonnambulo è scosso da un tremito e il volto – come per effetto di ossa molli e plastiche – si rimodella via via assumendo i tratti familiari del barone, e cancellando quelli precedenti fino a sembrare un uomo completamente diverso. Come (torniamo al tema espressionista del Wachsfigurenkabinett) fosse rimodellato nella cera. A quel punto si alza e prende a camminare attorno al tavolo, interpellando poi il barone terrorizzato con i toni e la voce del defunto fratello Bogumil – noto peraltro anche al resto dei presenti. A quel punto, come un mimo, Zrcadlo smuove oggetti immaginari per la stanza in modo tanto preciso che gli altri credono di percepirli (fischietta e offre becchime a un uccello invisibile, attinge a una tabacchiera che non c’è, mostra di scrivere una lettera e la depone in un cassetto nascosto – stavolta reale, e ignoto al barone – nella parete, che poi richiude…

Ma dalla porta Bozena, allontanata con il resto della servitù, chiede se possano entrare e introduce una figura femminile alta e snella dall’abito di buon taglio ridotto a uno straccio: appunto Lisa la boema. Settantenne, ma un tempo bella e per nulla imbarazzata, fissa i tre uomini che l’hanno ben conosciuta in gioventù e non la contessa, chiedendo educata il motivo della convocazione. La contessa intuisce i motivi di imbarazzo dei tre amici e, ancora colpita dagli eventi di poco prima indica Zrcadlo: chi è e cosa vuole, è forse malato? Interviene anche il medico, pensa sia un sonnambulo e le chiede di riportarlo a casa con l’aiuto dei domestici. Lisa risponde che sa soltanto che si chiama Zrcadlo e sembra faccia l’attore, gira la notte per osterie a rappresentare qualcosa per la gente. Ma non è chiaro se abbia coscienza di sé, e lei non ficca il naso nella vita degli inquilini. Poi lo richiama con garbo e le prende per mano conducendolo abulico verso la porta: la somiglianza con il defunto barone Bugumil è sparita, sembra tornata una normale coscienza di veglia eppure il tipo non nota i presenti, quasi fosse ipnotizzato. Il medico comprende trattarsi di un essere che può assumere di volta in volta forme del tutto diverse, una sorta di cadavere non decomposto e in balia di influenze invisibili, che si chiama ed è autenticamente uno “specchio”. Poi, fuori dalla stanza avvicina Lisa: andrà a trovarla l’indomani, intende capire qualcosa di più di Zrcadlo. Quindi con gli altri, tutti turbati, riprende a giocare a whist.

Taddeo Flugbeil, celibe impenitente detto il Pinguino, è l’ultimo della sua dinastia di medici di corte: e la sua vita regolatissima è scossa dalle emozioni della serata e dai ricordi giovanili in cui Lisa la boema, al tempo giovane e bellissima, ha avuto parte rilevante. Col risultato di alzarsi troppo presto: ma come ogni anno sarebbe il momento di recarsi in carrozza a Karlsbad (oggi Karlovy Vary) per le cure termali. Di solito parte il primo giugno, ora è il primo maggio e dunque è tempo per prepararsi: il viaggio a piccole tappe, con lo sfiancato cavallo Carletto, può durare settimane. Stavolta Flugbeil non si è curato di staccare dal calendario il foglietto del giorno precedente, 30 aprile, con la dicitura “Notte di Valpurga”: va invece a recuperare l’enorme diario su cui i maschi di famiglia a partire dal suo bisnonno sono usi scrivere, per cercare nelle pagine della propria gioventù il nome di Zrcadlo. Ha iniziato a annotarvi fatti quotidiani tutti i giorni a partire dal suo venticinquesimo anno, e i passi sulla vita amorosa – in realtà pochini – sono cifrati. Ma nulla emerge, e in compenso gli resta un senso di disagio, di fronte alla monotonia grigia della propria esistenza, della cui regolarità altre volte era andato fiero. Ora l’evento della sera precedente ha smosso fastidiosamente qualcosa in lui: come Pernath e Hauberrisser, insomma, un altro uomo in crisi, alle prese con il senso dell’esistenza.

Da un terrazzo dei suoi alloggiamenti a Palazzo Reale prende a scrutare Praga con il suo potente cannocchiale, cercando qualche immagine di buon auspicio: e all’improvviso salta indietro perché si è trovato davanti il volto sogghignante di Lisa la boema, quasi l’avesse visto e riconosciuto. Dopo un attimo di forte impressione, torna a guardare ma gli pare che tutte le persone occhieggiate – tutte estranee – mostrino caratteri di strana agitazione, che gli arriva addosso. Sembra si sia formato un assembramento di popolo… Allora cambia obiettivo e si trova davanti una finestra di soffitta, dove una madre consunta con un bimbo scheletrico gli pone davanti le conseguenze della guerra. Mutando ancora direzione, verso quel che pare l’ingresso posteriore di un teatro, nota il trasporto di un quadro enorme con Dio Padre benedicente.

Rientrato, viene avvisato che il cocchiere Venceslao è pronto e sale in carrozza; ma un tratto ricorda che intendeva recarsi da Lisa la boema. Fatta fermare la carrozza tra le beffe dei ragazzini che a suo beneficio mimano dei pinguini, comunica la cocchiere la deviazione: però no, non verso Totenstrasse – lo corregge il brav’uomo imbarazzato – ma nella zona Nuovo Mondo dove Lisa si è trasferita, una delle vie attorno all’Hirschgraben, con sette casette separate e un muro circolare fitto di disegni sconci. Per non attirare l’attenzione, la carrozza si ferma parecchio prima della casa, e nell’aria primaverile profumata di fiori il vecchio medico sente di aver tradito la propria anima. Le casette sono segnate dall’abbandono e dall’impoverimento legato alla guerra: e giunto all’ultima da cui si alza un filo di fumo, trova infine Lisa alle prese con una zuppa di pane, che gli dà il benvenuto in una stanza lurida e caotica che funge insieme da cucina, soggiorno e camera da letto. Lei lo accoglie cordiale terminando di mangiare ed esprimendo il piacere di vederlo, ma a un tratto abbandona la lingua forbita e passa confidenzialmente al dialetto praghese. Commenta che Flugbeil è rimasto un bel tipo e un vero accidente, sprofonda nei ricordi e raccoglie un ritratto – un dagherrotipo con l’immagine di lui, regalatole più di quarant’anni prima – che copre di baci, e condisce con un balletto. Paralizzato, il vecchio medico osserva tra sé che si tratta di una sorta di danza macabra: e, mentre passato e presente si compenetrano confusamente in lui, si chiede se non sia tornato giovane o invece non lo sia stato mai, e la fanciulla davanti non si sia trasformata una larva raccapricciante… può essere davvero la stessa persona che lui aveva amato? Ma dopo il momento euforico Lisa torna lucida e singhiozzando nasconde il viso tra le mani, così lui torna a perdere la padronanza di sé. Le chiede con gentilezza se le cose vadano così male e se lui non possa aiutarla, ma lei scuote il capo cercando di soffocare i singhiozzi; allora il medico, vincendo il disgusto per quei capelli luridi, le carezza timidamente il capo, cercando di spiegare che è la guerra, porta a tutti la fame… e si sente in imbarazzo, perché il suo tenore di vita non è invece compromesso. Certo, realizza, Lisa non è più un grado di guadagnare… Ma alla sua promessa di aiuto, lei grata gli bacia silenziosamente la mano e rifiuta il denaro, lasciandolo perplesso: è felice che l’antico amante non abbia orrore di lei, trova spaventoso ricordare il passato. Poi gli spiega che vedendolo entrare le è parso che lui fosse ancora giovane e l’amasse – e le succede spesso, e anche quando va in giro dimentica di essere diventata vecchia. Ma poi i ragazzi la deridono… lui la invita a non curarsene, ma Lisa spiega che l’aspetto terribile è dato dallo svegliarsi ogni volta come da un bel sogno. Non riesce neppure più a riordinare la casa, nulla può essere più come un tempo. Gli altri non possono capire… e lì, in quella melma, un giorno forse potrà dimenticare. Quando a Zrcadlo, vorrebbe avere la forza di cacciarlo via.

Flugbeil spiega di esserne interessato in quanto medico, e le chiede cosa sia: lei ribatte che a volte pensa sia il diavolo, salvo poi correggersi con un riso isterico, il diavolo non esiste e quell’uomo è un pazzo o un attore o entrambe le cose. Comunque non è mai in sé, neanche quando gira le bettole; ed è stato lei a truccarlo, per farlo riconoscere quale attore ed evitargli la galera. Il medico riflette tra sé che non può essere il suo amante, e si domanda se lei non viva dei guadagni di lui: la pietà scompare e lo riprende il disgusto. Tanto più che Lisa si è fatta arcigna: lui si congeda, e lei lo saluta acida non chiamandolo Taddeo col suo nome, ma Pinguino.

(8-continua)

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La coscienza di Gustav (appunti meyrinkiani) 7 https://www.carmillaonline.com/2025/01/25/la-coscienza-di-gustav-appunti-meyrinkiani-7/ Sat, 25 Jan 2025 21:00:54 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=86372 di Franco Pezzini

(Per le parti precedenti, cfr. qui)

Dov’è Eva? (1916)

Il cap. VII del Volto verde (che merita sgranare con una certa puntualità per decostruire i soliti giudizi grossi e strumentali sull’autore) vede Hauberrisser raggiungere l’amico barone che si stupisce del suo viso assorto. Apprende però che è arrivato – presentandosi come mandato da lui – anche l’imbroglione sedicente conte polacco Ciechonski, risultato molto simpatico a Pfeill. Lo trovano intento a corteggiare una vecchia dama, e il barone conduce Hauberrisser in una camera dedicata al relax e rivestita di sughero. La difficoltà principale nel riassumere questa storia sta [...]]]> di Franco Pezzini

(Per le parti precedenti, cfr. qui)

Dov’è Eva? (1916)

Il cap. VII del Volto verde (che merita sgranare con una certa puntualità per decostruire i soliti giudizi grossi e strumentali sull’autore) vede Hauberrisser raggiungere l’amico barone che si stupisce del suo viso assorto. Apprende però che è arrivato – presentandosi come mandato da lui – anche l’imbroglione sedicente conte polacco Ciechonski, risultato molto simpatico a Pfeill. Lo trovano intento a corteggiare una vecchia dama, e il barone conduce Hauberrisser in una camera dedicata al relax e rivestita di sughero. La difficoltà principale nel riassumere questa storia sta nella quantità di densi dialoghi sui temi alla base del romanzo.

Così, dopo un po’ di scherzi lievi, Pfeill chiede all’amico se non senta

 

che c’è qualcosa nell’aria, qualcosa che forse non è mai stato così forte da quando la terra esiste […] è un compito ingrato profetizzare una fine del mondo, è stata annunciata troppo spesso nel corso dei secoli perché la cosa possa avere ancora una qualche credibilità.

Eppure penso che questa volta la ragione stia dalla parte di chi crede di percepire l’imminenza di un simile evento. Non deve essere necessariamente la distruzione della terra: anche il declino di una vecchia visione del mondo è una fine del mondo.

 

Che si tratti di catastrofi naturali, di epidemie spirituali o d’altro, il quadro sembra questo.

 

Finora gli uomini si sono scannati in nome di certi sospetti esseri invisibili che per precauzione non si chiamano spiriti, bensì “ideali”. Credo che a questo punto sia giunta finalmente l’ora della guerra contro questi esseri invisibili – e non vorrei mancare. Da anni vengo addestrato a essere un combattente in senso spirituale, lo so bene, ma non mi è mai stato chiaro come ora il fatto che si prepara una grande battaglia contro questi spettri maledetti. […] Il contrario di quel che fa la grande massa è già di per sé la cosa giusta.

 

Teorizza perciò uno Stato ideale senza necessità di organizzazioni e di doverlo imporre ad altri. D’altra parte, i “pensieri si propagano anche se non li si esprime. Forse soprattutto se non li si esprime”, dunque è certo che il suo Stato conquisterà il mondo. Anche perché al contrario “certe parole d’ordine […] trasmettono malattie ben più gravi [di virus e batteri], per esempio: odio razziale e odio di classe”, e dunque richiederebbero una sterilizzazione. Ovviamente qui a parlare è un personaggio, non l’autore in quanto tale, però il contesto del romanzo e il suo modo di narrare sembrano richiamare posizioni di Meyrink. Contraddizioni comprese, perché i suoi accesi racconti contro le gerarchie militari, i suoi attacchi alla borghesia e a fasce sociali più alte e moralmente decadute o contro certo populismo, l’intransigenza critica delle sue riflessioni non vanno troppo lontani dall’odio di classe. Se sull’odio razziale non sussistono dubbi interpretativi (con buona pace dei tentativi dei razzisti evoliani di annettersi Meyrink), è probabile che odio di classe qui vada inteso semplicemente come un rifiuto del marxismo: a dispetto delle sue bordate e, come si è detto, con qualche contraddizione nel rapporto con la borghesia, Meyrink resta politicamente un moderato. Quanto al nazionalismo,

 

sembra essere una necessità per la maggior parte delle persone, lo riconosco, ma è giunta l’ora che si formi finalmente uno “Stato” in cui i cittadini non siano tenuti insieme dai confini e da una lingua comune, bensì dal modo di pensare, e dove possano vivere come vogliano.

 

Badiamo che simili affermazioni nel contesto della Prima guerra mondiale, sotto il fuoco di attacchi a Meyrink da parte dell’ultradestra nazionalista, sono molto più forti di quanto sembri a noi: in passato e in altri contesti ha potuto essere più tranchant, ma qui rischia l’incriminazione per scarso patriottismo e dunque usa una formula più “morbida” (“sembra essere una necessità per la maggior parte delle persone, lo riconosco, ma”…).

Il cambiamento radicale anche di una persona sola, argomenta il barone, basterebbe: “la sua opera non può morire – che il mondo ne venga a conoscenza o meno. Costui apre nella realtà una breccia destinata a non richiudersi mai più, non importa se gli altri se ne accorgono subito o dopo un milione di anni”. E l’opposizione del singolo Meyrink al nazionalismo prenazista acquista dunque un valore concreto.

Le grandi catastrofi non sono tanto la causa dei mutamenti di pensiero, quanto un presagio, “il mondo in cui viviamo è un mondo di effetti. Il regno delle vere cause è occulto; se riusciremo a spingerci fin là, potremo fare miracoli”. Tra questo sarebbe eminente il saper diventare realmente padroni dei propri pensieri: e a quel punto l’ingegnere riesce a buttargli lì la domanda se abbia qualche “segnale per affermare che siamo di fronte a una… chiamiamola svolta”. Il barone ammette che sì, ma “(p)iù che altro è una sensazione”. C’entra l’incontro casuale con una certa signorina van Druysen, che gli presenterà tra poco, e il racconto da lei offerto: una “pietra miliare” dello sviluppo interiore si rivela “nella coscienza di tutti coloro che sono maturi per viverla con una uguale esperienza interiore […], la visione di un volto verde”. Che, come detto, questo romanzo flirti con l’esoterismo (e ben più che Il golem), non toglie che occorra riflettere su quale sia l’esoterismo in questione. A partire dall’ottica visionaria, mitica e onirica con cui è giocato il motivo del Volto verde: e il prosieguo della storia permetterà di uscire dal generico.

A quel punto l’ingegnere, stravolto dalla sorpresa, afferra il braccio dell’amico e racconta eccitato cos’abbia vissuto. Molto colpiti, iniziano a parlare fitto e non si accorgono dell’arrivo degli ospiti – in particolare Eva van Druysen e il dottor Sephardi, presto coinvolti nel racconto. Sulla propria esperienza alla “Bottega delle Meraviglie”, Hauberrisser lascia al barone il compito di sintetizzare ed Eva aggiunge solo qualcosa sulla visita a Swammerdam: nessuno dei due è in imbarazzo, ma entrambi faticano a parlare. Il fatto è che c’è stato un inatteso colpo di fulmine: di Hauberrisser che pure di donne ne ha amate tante, e ora travolto da “un sentimento di comunione così sincero e intimo da far impallidire quanto fino ad allora aveva chiamato passione”. Ma anche della giovane, e la reciprocità non sfugge all’occhio acuto di Pfeill. Che coglie anche una sofferenza negli occhi di Sephardi (scopriremo solo più avanti che si era innamorato di Eva, ma già ora possiamo sospettarlo). Quando però paragona la piccola comunità di mistici del calzolaio veggente a un gruppo di sventurati pellegrini ingannati da un miraggio e condotti a morire di sete nel deserto, Eva ribatte che ciò non vale per Swammerdam, “destinato a trovare anche le cose più elevate che sta cercando”. L’ebreo ortodosso Sephardi resta scettico.

Dibattono un po’ sul tema dei messaggi “sovrannaturali”, e Hauberrisser chiede conto della definizione di “uomo primordiale” usata per la fantomatica figura dal volto verde che entra ed esce dalle loro giornate. Preferisce “credere che sia la medesima creatura entrata nelle nostre vite” con un caleidoscopio di manifestazioni, ed Eva si dice d’accordo. Sephardi ipotizza che si tratti di una forza spirituale – forse un essere con una autonomia identitaria – fiorito in epoca remota e che ora voglia ridestarsi, manifestandosi a pochi eletti. Del resto se un uomo diventa immortale, “continua a esistere quale pensiero eterno” in grado di accedere in modo diverso alla mente altrui. Se poi lui, come ebreo, accoglie una religione della debolezza che si basa sull’attesa del Messia, esiste anche una strada della forza – l’importante è che, per coerenza, il debole non scelga la forza o viceversa.

L’ingegnere lo interpella allora sul tema del dominio dei propri pensieri – che non è il semplice autocontrollo, e Sephardi ribatte atterrito che si tratta di “un antichissimo sistema pagano per giungere al vero superomismo”, il cosiddetto “ponte della vita”. Però sia chiaro, non c’entra con Nietzsche: è penetrato in Europa dall’Oriente, e pochi lo conoscono. È bastato a far perdere il senno a chi mirava a quel tipo di magia, “soprattutto inglesi e americani” con ciarlatani che si spacciano per iniziati e schiere di pellegrini in India e Tibet, senza sapere “che lì il segreto si è spento da tempo”. Legittimo domandarsi se Meyrink non stia facendo qui il contropelo al Fa’ quel che vuoi di Crowley, molto attivo nel traghettare a ovest – tra brividi e critiche degli occultisti occidentali, che non amano simili ibridazioni contrarie a una tradizione – una serie di spunti esoterici dall’Oriente.

Sephardi prosegue: questi appassionati di scarsa preparazione confondono con altre tradizioni che portano quel nome, ma i testi antichi sull’argomento restano privi di chiavi interpretative. Del resto un “ponte della vita” è esistito anche nella cultura ebraica, con tracce indietro fino all’XI secolo e un suo antenato, Salomon Gebirol Sephardi, ne ha parlato nei propri scritti finendo ucciso da un arabo. In Oriente una piccola comunità erede di emigrati europei discepoli di antichi Rosacroce, i Paradâ, “coloro che hanno toccato l’altra riva”, custodirebbero ancora il segreto… Beninteso, sarebbe una fortuna per il mondo intero se qualcuno giungesse all’altro capo del “ponte della vita”. Da solo, un uomo non può riuscirci, ha bisogno di una compagna e qui sta il senso più profondo del matrimonio, “che l’umanità ha smarrito da millenni”. Poi si avvicina alla finestra per nascondere il viso e prosegue: “Se un giorno le mie misere conoscenze in questo campo potessero tornare utili a voi due, disponete pure di me liberamente”.

Eva resta colpita. Anche ammettendo che i sintomi di un suo innamoramento per l’ingegnere siano così evidenti, cosa ha spinto Sephardi a un’uscita tanto poco discreta da gaffeur? Tradisce l’eroismo di chi l’ha amata in silenzio? O piuttosto c’entra il discorso sul “ponte della vita” e un improvviso – come diceva Swammerdam – partire al galoppo del destino? in fondo Eva, seguendo il consiglio del mistico, aveva parlato con Dio… a quel punto, cogliendo l’imbarazzo di Hauberrisser, lo tranquillizza: non deve provare disagio, si tratta di parole di un amico e nessuno può sapere ciò che la sorte riserva. L’indomani tornerà ad Anversa e per un po’ non si vedranno. Si congeda affettuosamente anche da Sephardi.

Intanto il barone nota casualmente sul giornale una notizia di cronaca nera, su un assassinio consumatosi nello Zee Dyk. Legge così i punti principali ai presenti: Swammerdam che trova il corpo della piccola Katje, il calzolaio scomparso con la grossa somma che aveva ricevuto, i primi sospetti su un commesso poi rilasciato, il costituirsi dell’assassino – che ha probabilmente ucciso anche il calzolaio. Il cui corpo, buttato probabilmente nel fango del canale, non è stato ritrovato. La confusa testimonianza dell’assassino che avrebbe sottratto il denaro permette di parlare di omicidio a scopo di rapina. Perché a uccidere non sarebbe stato “Quell’orribile negro” (qui in apparenza gli stereotipi si sprecano, ma ci saranno sorprese) come ritiene Eva, bensì “un vecchio ebreo russo di none Eidotter, che gestisce uno spaccio di liquori nello stesso edificio” – quello cioè con il nome rituale di “Simone il crocifero”. La ragazza, che l’ha conosciuto, non crede alla sua colpevolezza, neppure in stato di incoscienza. Circa l’improbabile confessione di lui, Sephardi ipotizza che l’adozione di un nome sacrificale come quello del crocifero, per la forza stessa insita in esso, abbia indotto un soggetto isterico a immolarsi per qualcun altro; mentre per lo stesso motivo la bambina è stata probabilmente uccisa da Klinkherbogk in un attacco di follia religiosa, a imitazione del sacrificio di Isacco, dopo essersi dato da solo, imprudentemente, il nome “Abram”.

Alla fine Eva esce di lì con Hauberrisser: lui domanda se non potrebbe andare qualche volta a trovarla ad Anversa, lei preferisce uno scambio di lettere: “Ho pensato sovente che ci deve essere qualcosa di innaturale nel fatto che un uomo si leghi a una donna. Ho come l’impressione che le ali gli si spezzino”. Lui ribatte che la barriera tra loro è il risultato delle inavvedute parole di Sephardi, dovranno sforzarsi di abbatterla. Ma lei vagheggia un’unione speciale, ben più intensa di un matrimonio “ridotto a un’odiosa istituzione che sottrae all’amore la sua bellezza e costringe l’uomo e la donna a un degradante opportunismo”. A un tratto Eva si stringe a lui, sussurrandogli che lo desidera “come la morte. Sarò la tua amante, lo so, ma quel che la gente chiama matrimonio ci sarà risparmiato”. Lui, stordito dalla gioia, coglie a malapena le parole, ma poi un alito di gelo li avvolge entrambi, come portati via alla gioia eterna dall’angelo della morte. Si riprende poco a poco, mentre una carrozza porta via lei e lui si scopre straziato dall’angoscia di non rivederla mai più.

Accertato che la zia beghina non voglia incontrarla – ha mal di testa, poverina, dopo gli ultimi traumatici fatti… – Eva si appresta a partire per il Belgio. Come trovare l’accesso a quel sentiero regale per la donna citato da Sephardi? Non vuole ridursi a donare all’amato solo la propria bellezza… e farebbe per lui qualunque sacrificio, pur di puntare al di là di quegli orizzonti umani che restano davvero troppo poco. Prega intensamente che qualcuno da oltre il fiume della morte le appaia per indicarle la strada. E dal cielo squarciato ha una visione, una tavola di vegliardi come in attesa: il “loro superiore aveva i lineamenti di una razza straniera, e un segno luminoso fra le sopracciglia; dalle sue tempie partivano due raggi abbaglianti come le corna di Mosè”, ma lei non riesce a formular loro la propria richiesta e lo squarcio nel cielo si sta ormai richiudendo, lei cerca di trattenere l’uomo con il segno fiammeggiante… però all’improvviso vede “una figura su un cavallo bianco sfrecciare al galoppo dalla terra al cielo, e riconobbe Swammerdam”, che smonta, impreca contro il vegliardo, lo afferra e gli indica Eva. La scena le ricorda le parole evangeliche sul fatto che il Regno dei Cieli vada conquistato con la forza. A quel punto lei ordina – come aveva sollecitato il mistico – di essere innalzata

 

verso la meta più sublime che una donna possa attingere – senza pietà, sordo alle sue preghiere se le avesse formulate per debolezza, sempre avanti, più veloce del tempo – attraverso gioie e felicità, senza concederle tregua, senza un attimo di respiro, costasse anche mille volte la vita.

 

(Nel contesto d’epoca può non colpirci un certo angelicato ministero della figura femminile.) Eva capisce di dover morire di fronte alla luce abbagliante del segno sulla fronte dell’uomo che le brucia la mente, ma continuerà a vivere perché ne ha visto il volto. Sente le catene della schiavitù spezzarsi in lei, mentre le sue labbra mormorano lo stesso ordine… Quando recupera il senso della realtà, sa che non tornerà ad Anversa: tutto le sembra piccolo di fronte all’indicibile beatitudine del prossimo futuro, e sta per giungere “l’ora che le donerà la vista – seppur tardi e a prezzo di terribili sofferenze”. Guardandosi allo specchio, i tratti del volto le risultano estranei: non riesce neppure a scrivere una lettera al proprio amato.

Ma avendo accettato di lasciarsi spingere dal Maestro del Destino verso lo scopo più elevato possibile, per poter offrire all’amato un rapporto speciale e non un matrimonio borghese, Eva scatena un meccanismo psichico di recettività, di lasciarsi agire: e in primo momento di questa mistica passività beneficia una forza oscura. Infatti come dal fondo dell’orecchio le perviene un sussurro, che poi diventa una lingua selvaggia e straniera. Deve obbedire a un ordine estraneo, ostile, ed esce; giunta alla piazza della Borsa di Amsterdam è trascinata bruscamente a destra. Sospetta di essere diretta a farsi uccidere ma non vi si oppone – tutto è un passo ulteriore verso la meta. Cammina fino a imbattersi nella casa sghemba – alla Caligari – in cui è stato assassinato il calzolaio. E sul parapetto alla confluenza dei due canali siede l’uomo la cui forza demoniaca l’ha attirata lì: è il terribile Usibepu, e lei atterrita che non riesce a chiamare aiuto, vede se stessa fermarglisi davanti. Lui dorme a palpebre aperte con le pupille rivolte in su, lei – inerte – ne teme il risveglio e subisce la “magica coercizione” del “selvaggio sangue africano” di cui aveva sentito parlare (torniamo a stereotipi razzisti diffusi in tutto l’Occidente):

 

L’abisso in apparenza insormontabile che separava il terrore dall’ebbrezza dei sensi era in realtà solo una sottile parete trasparente, infranta la quale l’animo di una donna si trasformava senza scampo in terreno di istinti bestiali.

 

Come una sonnambula, non vede vie di scampo: lui la afferra e le tappa la bocca, Eva si aggrappa alla striscia di cuoio rosso scuro che lui porta al collo… riesce a chiedere aiuto, Usibepu la trascina nell’ombra della chiesa di San Nicola, ma due marinai cileni li seguono, uno riesce a ferire il nero che però gli sfonda la testa. Messo KO l’altro, Usibepu bracca Eva nel giardinetto della chiesa, lei si nasconde e vorrebbe uccidersi per non cadere nelle sue mani. Poi però si accorge che la propria immagine riflessa è apparsa in mezzo al giardino, Usibepu le parla terrorizzato… quindi ricade nel precedente stato di incoscienza. La forza a cui ha scelto di affidarsi la indirizza verso la salvezza. Eva si arrischia ad abbandonare il nascondiglio e giungono voci dal vicolo: lei grida, gli inseguitori di Usibepu si lanciano su di lui che però riesce a farsi strada e arrampicarsi sul tetto della chiesa (inevitabile pensare alla fuga dell’evaso, impazzito Knock nel Nosferatu, 1922). Eva perde conoscenza e ne perdiamo le tracce: e questa sua scomparsa resterà circonfusa di mistero iniziatico.

Intanto Hauberrisser si intrattiene con Sephardi e il barone: continua a pensare a Eva, ma ad Amsterdam – a parte la compagnia dei due cari amici – si sente solo. Medita dunque di trasferirsi ad Anversa, dove potrebbe incontrare Eva almeno casualmente, ma è angosciato dal cattivo presagio gravante sul loro congedo. Quando poi scopre che è partita dall’albergo ma le valigie non sono state ritirate, si agita e prende a cercarla disperatamente, nella notte, fino allo Zee Dyk – ma lì Swammerdam gli spiega che non è tornata da loro. Comunque lo tranquillizza sul fatto che Eva sia viva, “Perché altrimenti la vedrei”: ma sì, è capitato qualcosa di grosso, la tiene in suo potere “uno di fronte al quale noi due non siamo nulla”. Eva si è incamminata su una strada simile a quella percorsa da Klinkherbogk, per cui lui pure aveva pregato tanto, però le preghiere risvegliano “con violenza forze in noi sopite”. E il senso di quanto accade nella sfera esteriore è di spingere avanti: poi tutto avviene “nel momento giusto e nel modo migliore” – così, non si preoccupi, sarà per Eva.

 

Il difficile sta nell’invocare lo spirito che deve guidare il nostro destino; Egli ascolta solo la voce di chi è maturo, ma il grido deve nascere dall’amore, e per amore di un altro, altrimenti non facciamo che risvegliare in noi le forze delle tenebre.

Gli ebrei della cabbala dicono: “Le creature del buio regno di Ob raccolgono le preghiere che non hanno ali”, e con ciò intendono non i demoni che sono fuori di noi, perché da questi ci difende la muraglia del nostro corpo, ma certi magici veleni dentro di noi che, risvegliati, scindono il nostro Io.

 

Alla preoccupazione di Hauberrisser che Eva sia andata incontro a una triste sorte come quella del calzolaio, il mistico lo rassicura: se l’ha consigliata a una certa ricerca interiore, era perché in quel momento era vicino Colui di fronte al quale loro non sono nulla. Invita piuttosto l’ingegnere a rivolgersi ai marinai della taverna con un’offerta in denaro, perché la trovino. Nel locale giace il corpo del marinaio cileno ucciso da Usibepu, ma il taverniere ne copre la responsabilità.

Eva viene cercata da tutto il quartiere, e la cameriera Antje è molto commossa per Hauberrisser. Alla fine Swammerdam lo esorta ad andare a dormire: provvederà lui a denunciare la scomparsa alla polizia. Il mistico gli racconta un episodio della propria giovinezza: turbato e deluso, considerava il destino un carnefice spietato. Poi aveva visto un purosangue che stavano allenando: continuava a correre in tondo sotto le frustate per non accettare di saltare un ostacolo che lo avrebbe portato a far chiudere la prova – e Swammerdam aveva capito di assomigliargli… Fino a quel punto aveva visto le sventure come punizione, ora la durezza della sorte aveva acquistato un nuovo significato. L’unico consiglio che arriva a dargli è di cercare

 

quella magica forza che in avvenire sarà in grado di evitare altre disgrazie alla sua fidanzata. Altrimenti potrebbe accaderle di trovarla per poi perderla di nuovo, come gli uomini sulla terra si incontrano per poi venire separati dalla morte.

Lei deve ritrovarla non come si trova un oggetto perduto, bensì in un modo nuovo e duplice. […] Non ha detto lei stesso che Eva aveva paura del matrimonio? Proprio per preservarvi da questo il destino vi ha uniti così all’improvviso, e subito dopo vi ha separati. In una qualunque altra epoca che non fosse quella attuale, in cui quasi l’intera umanità si trova di fronte a un terribile vuoto, quel che le è accaduto avrebbe potuto essere solo una smorfia della vita, ma oggi questo mi sembra da escludere.

 

Quanto al misterioso manoscritto pervenuto all’ingegnere, lasciando che gli eventi esteriori seguano il loro corso, è sensato cercare in quelle pagine ciò che è giusto per lui. Ora è nel punto giusto per poterlo fare, “(p)erchè ora agisce per amore, e può impossessarsi senza pericolo delle forze terribili che altrimenti la porterebbero inesorabilmente alla follia”.

Chiaramente Meyrink presenta Swammerdam con simpatia e rispetto: un mistico dal profilo ben più sofferto e in fondo umano dello splendido ma distante Hillel del Golem. E con altrettanta chiarezza il filo importante del Volto verde rappresentato dal mondo di Swammerdam è quello della mistica cristiana di Jacob Böhme (1575-1624) e di altri testimoni avanzati sulla linea tedesca già di Meister Eckhart, passata a innervare il pensiero rosicruciano ma più in generale il pensiero mistico romantico. Quindi la spendita per questa parte fondamentale della categoria dell’esoterico, non impropria per il romanzo in termini assoluti, richiede almeno di essere meglio chiarita.

Tanto più ricordando il rapporto complesso dell’autore con gli esoteristi dell’epoca. In alcuni abbozzi di Il volto verde figurava una figura di ciarlatano poi in gran parte eliminata nella versione definitiva, e modellato su Rudolf Steiner. Se questi in una conferenza a Monaco rende omaggio ai pensieri di Meyrink sulla mistica, Gustav non è altrettanto amichevole nei suoi confronti, stroncando la teosofia come religiosità di gente incolta. Non parliamo poi degli spiritisti, ai quali riserverà nel Volto verde parole durissime.

Va detto che la critica al sistema di Steiner è in parte parallela a quella nei confronti di Mann. Così come in tema di esoterismo Meyrink non si riconosce seguace di una peculiare tendenza, ciò vale anche per il fronte della letteratura. Ma fa parte del carattere di Meyrink una conflittualità ispida, con giudizi tranciati in modo tale da suggerire una certa incomprensione della letteratura del suo tempo (impressione in realtà non fondata, a giudicare dalla sua corrispondenza, in particolare con l’editore Kurt Wolff). Diciamo che, a proposito di Meyrink, qualunque semplificazione classificatoria – a partire da quella di chi cerca di annetterselo – è destinata a scontrarsi con un impianto di pensiero liberissimo, molto originale e ben poco schematizzabile.

Intanto Sephardi si è recato dallo psichiatra legale Debrouwer – considerato da tutti un superficiale – per sapere qualcosa di più sul caso del vecchio correligionario Lazarus Eidotter e intercedere per lui. Sospetta sia un chassidim cabbalista e la sua sorte gli sta a cuore. Anche l’ottuso Debrouwer esclude che il vecchio abbia ucciso (è stato il calzolaio a uccidere la nipote, prima di essere assassinato da qualcun altro e gettato dalla finestra); ma Eidotter conosce troppo bene i fatti e descrive l’uccisione del calzolaio nel dettaglio come avrebbe potuto fare il vero assassino. Oltretutto, alla notizia del delitto, il vecchio è stato ritrovato privo di sensi, “Fingeva, naturalmente”: e se pretende di aver ucciso anche la piccola è solo “per confondere la polizia”. Insomma, un complotto: ecco di nuovo il Meyrink che non ha fiducia nella giustizia dei tribunali, nelle valutazioni di medici spocchiosi e in generale in un sistema. Dal canto suo, Sephardi si rende conto che la sua prima idea di un condizionamento di Eidotter a causa del nome rituale “Simone il crocifero” non regge: vagheggia ora un caso di chiaroveggenza inconscia.

Comunque lo psichiatra concede a Sephardi con sussiegosa benevolenza di parlare al vecchio ebreo russo. Lo trova in condizioni mentali confuse, ripete le parole che lui dice e pare privo di emozioni, benché i tratti rivelino straordinaria forza spirituale. Continua a ripetere di essere colpevole e di aver ucciso per sottrarre i soldi: ma quando Sephardi gli spiega che non avrebbe potuto arrampicarsi sulla catena (come sostiene) per giungere alla stanza del calzolaio, riflette e constata – senza sollievo – che ha senso. La prospettiva che possa essere giustiziato non lo turba, nella vita gli sono “capitate cose più terribili”. Ma curiosamente, a uno stato come privo di vita, il vecchio alterna momenti di profonda comprensione. Sephardi cerca di farlo parlare della famiglia.

 

Si ricordò che fra i chassidim circolava una leggenda secondo la quale, nella comunità, alcuni davano l’impressione di essere folli ma non lo erano affatto: di tanto in tanto, deposto il proprio Io, essi provavano gioie e dolori altrui come se ne fossero toccati in prima persona. L’aveva sempre considerata una favola:

 

sarebbe quello il primo caso che gli tocca vedere. Chiede invano se altre volte abbia creduto di aver commesso qualcosa perpetrato invece da altri. Però qualche giorno prima si comportava diversamente, incalza Sephardi, parlava di cabbala: e a quel punto il vecchio commenta che sì, l’ha studiata a lungo, anche il Talmud babilonese e quello gerosolimitano. Ma, sostiene, ciò che la cabbala dice di Dio è falso, “Nella vita è tutto diverso”. Visto poi che in Vaticano ha dovuto tradurre il Talmud, i greci ortodossi di Odessa credevano fosse “una spia in contatto con i goyim romani”: e a un certo punto, guarda caso, un incendio aveva devastato casa sua. Senza però che ci fossero vittime, grazie al profeta Elia, che più tardi è venuto a sedersi alla loro tavola dopo la festa dei tabernacoli – ma la moglie sosteneva si chiamasse piuttosto Chidher Grün – e a quel nome, dopo i dialoghi con Pfeill, Sephardi sobbalza.

Comunque, continua Eidotter, nella sua comunità dicevano che lui era pazzo, senza sapere che Elia gli “insegnava la doppia legge tramandata da Mosè a Giosuè”. Poi moglie e bambini gli erano stati orribilmente uccisi in un pogrom… Lui narra sorridendo senza emozioni, pare cosciente ma ormai senza dolore: quindi – prosegue – non era più riuscito a studiare la cabbala, “perché i lumi dei makifim erano stati spostati”. Sephardi con delicatezza domanda se intenda che il dolore gli abbia ottenebrato la mente, ma lui spiega che no, è stato come aver bevuto quel filtro degli egizi che porta l’oblio. “Come sarei potuto sopravvivere altrimenti? Per lungo tempo non seppi chi ero”, e al ritorno della memoria gli manca quanto occorre per piangere e parecchio di quanto occorre per pensare. Sa che è accaduto qualcosa che dovrebbe farlo soffrire, ma non prova nulla perché il cuore è salito alla testa, mentre il pensiero è sceso al cuore – quanto all’attività del suo negozio, non serve gran cervello e il suo corpo procede in automatico… Ecco spiegato qualcosa della sua stramba confessione.

Certo con le proprie forze nessuno è in grado di far qualcosa di simile, occorre si muova “uno dell’altro mondo” per spostare i lumi – nel suo caso il profeta Elia. Prima che entrasse nella stanza l’aveva riconosciuto, e il suo arrivo era stato normalissimo come l’ingresso di qualunque altro ebreo – e si rende conto che “non era trascorsa neppure una notte della mia vita in cui non lo avessi visto in sogno”. Tornando poi indietro con la memoria a cercare il loro primo incontro, gli era passata davanti la sua intera giovinezza e poi una vita precedente e così via: e l’aspetto di Elia era sempre lo stesso, di un ospite straniero seduto alla sua tavola, e a un certo punto ha scambiato di posto i due candelieri sul tavolo – cioè li ha spostati in lui. Ma sua moglie sosteneva che l’ospite in persona avesse detto di chiamarsi Chidher Grün…

Elia è rimasto sempre con lui, anche se non può vederlo: e Sephardi capisce che tra sé e il vecchio c’è “un abisso spirituale che non si poteva colmare”. Lui che viveva nel lusso, in solitudine e studio, si è forse perso le cose più importanti. Ha creduto di attendere la venuta di Elia, e leggendo ha capito “che per risvegliare la vita interiore era necessario desiderarla”: ma ora che ha davanti uno che ha appagato il proprio desiderio spirituale, si scopre a dire che non vorrebbe essere al suo posto. Il movimento spirituale non è quello che lui credeva. Quando però spiega a Eidotter che non sarà difficile convincere lo psichiatra che la sua confessione non c’entra col delitto, il vecchio gli chiede di promettergli che invece non dirà niente: non vuole che l’assassino sia arrestato, e detto fra loro è un nero. Sephardi chiede come lo sappia e lui spiega che quando rientra dagli incontri con Elia, ha la sensazione di esser stato parte di eventi nel frattempo avvenuti: se però vi ritorna con pensiero vede la verità. Stavolta, tornando mentalmente ad arrampicarsi per la catena, si è guardato… era un nero vestito di blu, con una cinghia di cuoio rosso attorno al collo. Ma ricorda a Sephardi di tacere, a causa di Elia non dev’essere versato sangue, e poi l’assassino è uno dei nostri, cioè un uomo di fede – selvaggia ma viva. E gli proibisce di parlare: “Se devo morire per lui, lei vorrebbe togliermi un simile dono?”. È evidente che il povero Eidotter ha conosciuto attraverso la frequentazione del misterioso visitatore il più alto grado di iniziazione: e Sephardi torna a casa sconvolto.

Questo dialogo bellissimo e il ruolo perplesso dell’occidentalizzato Sephardi aprono a un filone in qualche modo contiguo a quello menzionato della mistica cristiana. In questione è qui il pensiero di un certo mondo ebraico della diaspora, con tradizioni certamente peculiari tra Balcani, Polonia e Russia: si pensi alla mistica sincretista o non allineata di maestri più o meno eretici come Sabbatai Zevi, 1626-1676, Jacob Frank, 1726-1791 (protagonista del recente I libri di Jakub di Olga Tokarczuk, pubblicato in polacco nel 2014), e soprattutto Baʻal Shem Tov, 1698-1760, fondatore di quel chassidismo cui Eidotter sembra aderire. Dove di nuovo, pur dicendo qualcosa di un certo simbolismo un po’ criptico, la chiave dell’esoterismo tout court sembra impoverente e imprecisa. In questo romanzo c’è molta mistica, che va riconosciuta per tale: l’insistenza rozza sulla chiave esoterica – senz’altre specificazioni – sembra soprattutto frutto di accostamenti superficiali al testo e, a monte, dei soliti tentativi ideologici di annettere Meyrink all’orizzonte degli amanti dell’esoterismo eredi del Gruppo di Ur. Ma tra le riflessioni trombone, sussiegose ed equivoche connotanti un certo sottomondo esoterico di privilegiati lamentosi, tutelatissimi perché contigui a poteri sempre vivi, e la sofferta profondità esistenziale di grandi perdenti come Eidotter corre un enorme divario che va colto: un orizzonte febbricitante e vivido di sincretismi mistici cristiani ed ebraici nel calderone delle fedi tra Mitteleuropa e Oriente che parla di percorsi personali alla fede, di scelte esistenziali sofferte, di violenze patite da chi è (davvero) marginalizzato. Ovviamente la mistica cristiana di Swammerdam e la mistica ebraica di Eidotter non esauriscono il contenuto del Volto verde e il tema del suo esoterismo, ma certamente l’enfasi sul medesimo viene notevolmente ridotta.

Le settimane passano e di Eva non ci sono tracce. Invano il barone e Sephardi cercano di aiutare Hauberrisser nella ricerca, per cui viene offerta una lauta ricompensa. Si mobilitano anche pazzi con lettere anonime, veggenti più o meno improvvisati, in una corsa alla bassezza. Unico balsamo per l’ingegnere sono le visite quotidiane di Swammerdam, che un giorno non riesce più a trattenersi: “una schiera di pensieri estranei si sta avventando ostile su di lei per privarla della ragione” e a quel punto l’ingegnere si ritira in se stesso, facendo circolare la voce d’essere partito.

Cerca di costringersi a leggere il rotolo misterioso, ne accoglie il “tu” come rivolto a sé e si accorge che la voce sembra essere a tratti quella di Pfeill, o di Sephardi, o di Swammerdam, tutti animati dal medesimo spirito per aiutarlo a crescere. E questa del manoscritto è forse la voce più genuinamente esoterica del romanzo.

Vi si annuncia che è l’ultima ora sull’orologio del mondo. Dunque non si faccia sorprendere dal sonno, “restare svegli è tutto”: esiste un equinozio dello spirito, e “la legge interiore è identica a quella esterna, solo di un’ottava più alta”. Chi sogna cogliendo soltanto scorci ingannevoli non sono poeti e sognatori, ma i diligenti uomini del fare, che vivono il loro sogno indipendente dalla volontà. Certo esistono i grandi veggenti che sanno di sognare e si spingono “fino ai bastioni dietro cui si cela l’Io eternamente sveglio”, come Goethe, Schopenhauer e Kant, ma non possono espugnarne la fortezza né svegliare i dormienti. Mentre occorre raccogliere le forze e cercare di svegliarsi – permettendo di respingere i pensieri tormentosi. Trasmettendo al corpo questa veglia, i dolori cadranno di dosso come foglie morte: e le pratiche ascetiche delle diverse religioni mirano a questo, l’occulta dottrina della veglia come la scala celeste del Giacobbe che lotta con l’angelo. Il primo piolo si chiama genio: come andrebbero chiamati i livelli più alti?

Il primo ostacolo sarà costituito dal corpo, ma alla fine sarà debellato e l’universo si troverà ai piedi del vegliante. Non si faccia scoraggiare dal timore di non poter raggiungere la meta in questa vita: le nascite successive saranno sempre più avanzate. Vedrà immagini – persone morte, figure di luce – emanate dal suo corpo: e un giorno, se lo seppelliranno, nella bara non ci sarà alcun cadavere. E solo allora riuscirà a distinguere il reale dall’apparente, e capire se è l’essere più disgraziato o più fortunato della terra. Ma nessuno viene abbandonato dalle proprie guide.

Il manoscritto offre poi una serie di caveat sul tema delle apparizioni, per smascherare predatori d’anima e pensieri divenuti visibili, e non cadere in pii equivoci (una condanna nettissima dello spiritismo, le cui manifestazioni avevano peraltro recato a Meyrink penosi contraccolpi interiori). E prosegue con una catechesi sapienziale per cui non ci sarebbe un paradiso dei buoni e una punizione dei cattivi perché non ci sono Male e Bene ma Falso e Vero; vegliare non significherebbe pregare (come da lettura cristiana) ma risvegliare l’Io immortale; il corpo non andrebbe trascurato in quanto peccaminoso, ma far sì che sublimi in spirito; la solitudine andrebbe sperimentata dallo spirito per trasfigurare il corpo. Posizioni insomma vagamente superomistiche a base di “loro credono, noi sappiamo”, in fondo non particolarmente originali a inizio Novecento, e idealmente collocabili tra Nietzsche e le teo/antroposofie di successo. L’anima esoterica, o se si preferisce mitica, del Volto verde – come in fondo del Golem – sta qui, con le polemiche dell’autore verso devozionismi confessionistici e gnosi d’epoca: dove il sogno dell’immortalità depone i panni romantici del secolo prima per tentare nuove sintesi. E pazienza se il risultato, come spiegava il barone Pfeill, informerà solo lo “Stato” dell’autore attraverso un’opera narrativa.

Comunque il manoscritto invita chi legge a decidere in piena libertà la propria posizione. E una pagina successiva fa pensare che il destinatario abbia effettivamente abbracciato “la via pagana del dominio dei pensieri”: suo mentore sarà dunque qualcun altro che sulla terra resta invisibile, “infinitamente lontano […] e tuttavia vicinissimo”. Il loro simbolo è la Fenice emblema di eterna giovinezza: e i suoi primi passi comporteranno che si separi dal corpo – come le streghe che se ne disgiungono lasciando a casa il corpo rigido e privo di sensi per raggiungere (potremmo dire in astrale, Meyrink non usa questa definizione) il sabba. Ma a domare il corpo nell’immobilità non basta la volontà, occorre lo stato di veglia superiore che deve raggiungere da solo, passando per l’incontro con spettri terribili: però saranno solo pensieri in forma visibile, indicatori di uno stadio di sviluppo spirituale. A quel punto potrà o meno entrare nel regno della pace eterna, ma potrebbe anche conseguire poteri per ben amministrarli, l’umanità ne avrebbe bisogno. E potrebbe riceverli proprio il giorno del “grande equinozio”: “Uno di coloro che detengono le chiavi dei segreti della magia è rimasto sulla terra per cercare e radunare gli eletti”, identificato da alcuni come l’Ebreo errante, da altri Elia, per gli gnostici Giovanni Evangelista. Può manifestarsi in forme varie, figura e volto non sono che immagini, ma potrebbe apparirgli come un essere di colore verde, oppure “com’è realmente – un segno geometrico, un sigillo nel cielo che soltanto tu riesci a vedere”, e a quel punto sappia che sarà chiamato a compiere azioni miracolose. Il narratore delle pagine misteriose ricorda di averlo incontrato in forma umana e ha “potuto mettere la mano nel suo costato”: si chiamava Chidher Grün.

Siamo al cap. XII, quello che si rivelerà il più importante. È passato del tempo, ad Amsterdam il nome di Eva è dimenticato e la considerano morta, solo Hauberrisser pensa ancora a lei – spera ancora, sempre più, ma non osa parlarne, neppure a Swammerdam cui pure lascia intuire qualcosa. Terminata la lettura del manoscritto, ha anche eseguito l’esercizio di immobilità (lì descritto) con curiosità scettica e poi quotidianamente per diletto – e scopre via via che di quell’esercizio ha bisogno. Possiamo vedere in queste scene le pratiche a cui Meyrink per lunghi anni – e, per certi versi, per tutta la vita – si costringe, portatrici ora di alcuni problemi fisici che lui ammetterà onestamente, ora di benessere e di salute. Sia come sia, la dimensione dello yoga mostra nel Volto verde un rilievo autonomo, quasi come la Kabbalah nel Golem.

Certo, la perdita dell’amata porta ad Hauberrisser ancora crisi violente di dolore, e sceglie di non contrastarle con gli esercizi per non sottrarsi al bisogno di lei: ma un giorno che il dolore lo conduce quasi al suicidio, prova a costringersi a uno stato di veglia superiore. Inaspettatamente vi riesce subito, e gli giunge la certezza che Eva sia viva e non corra rischi, anzi lo stia pensando. Quella via tra il dolore e una pace che fa sbiadire il ricordo gli permette di sentire Eva vicina. Comprende così meglio i miracoli della vita interiore, e prende a interrogare quella fonte di verità. Per esempio la sensazione, a un certo punto, di aver dimenticato come dominare il moto dei pensieri corrisponde alla fase dell’incenerimento da cui la Fenice – il simbolo qui più importante dopo il Volto verde – risorge ringiovanita: effimero il metodo, importante la conoscenza sottostante. Migliora così costantemente nella pratica di controllo dei pensieri, che prima lo depredavano e ora lo arricchiscono: e trova queste sensazioni evocate nel manoscritto, in pagine incollate dall’umidità che finalmente il calore del sole ha separato.

 

Negli ultimi anni, prima e durante la guerra, spesso aveva letto o sentito parlare della cosiddetta mistica, raggruppando d’istinto sotto l’etichetta “oscuro” tutto ciò che la riguardava, poiché qualsiasi cosa venisse a sapere sull’argomento aveva sempre un’impronta di vaghezza, come le visioni dei fumatori d’oppio. Non si era sbagliato nel suo giudizio, poiché quanto comunemente si intendeva per mistica altro non era, in realtà, che un brancolare nella nebbia. Ora però si avvide che esisteva anche uno stato mistico autentico – difficile da scoprire e ancor più da raggiungere – il quale non solo teneva il passo con la realtà dell’esperienza quotidiana, ma la superava di gran lunga in vitalità.

In esso niente ricordava le estasi sospette dei “mistici”: nessun umile piagnisteo volto a un’egoistica “redenzione” che, per brillare, ha bisogno del sanguinoso sfondo di empi condannati a eterne pene infernali; grazie a esso anche la rumorosa sazietà di una moltitudine bovina, che solo perché digerisce ruttando crede di trovarsi sul terreno della realtà, era scomparsa come un sogno ripugnante.

 

Meyrink non le manda a dire, anche nell’ambito di quel mondo di spiritualismi – allineati o meno a tradizioni religiose o filosofiche consolidate – che pure ha imparato a conoscere bene. Va ribadito d’altronde che possono ben definirsi mistiche le correnti cristiana ed ebraica che in questa storia idealmente omaggia.

Alla scrivania, Hauberrisser sente che Eva gli è vicina anche se non riesce a vederla. Nei giorni precedenti ha “creduto di essere sulla via giusta per ricongiungersi a lei in una nuova forma spirituale”, però non vuol cadere nell’errore delle allucinazioni streghesche. Più cresce il potere di trasformare i desideri in immagini, più c’è il rischio di perdersi dietro a fantasmi. Tuttavia in qualche momento Eva gli è apparsa come in carne e ossa, e ha dovuto costringersi a evitare di riprodurre l’immagine. Però non riesce a decidersi di andare a letto: ci dev’essere un mezzo, medita, per richiamare Eva in forma viva e reale… Lancia dunque domande, liberando i propri pensieri, ma le idee che pervengono non lo convincono. E intuisce che non basti stimolare la coscienza, ma anche il corpo, dove giacciono sopiti i poteri magici: sono questi da risvegliare, per agire sul mondo materiale. Colto da un’ispirazione, si pone nella posizione delle statue degli dei egizi (già il narrante di Le piante del dottor Cinderella imitava la postura di una statuetta egizia) e costringe il corpo a una quiete assoluta: e poco dopo sente “scatenarsi dentro una tempesta di indicibile violenza”. Voci umane, versi animali e colpi di gong si scatenano in lui, ma anche all’esterno nella stanza esplode un putiferio e la pelle gli brucia, mentre continua a invocare Eva. Non presta ascolto alla flebile voce interiore che consiglia di non giocare con forze di cui ignora la potenza, e che non sa dominare – e neanche quando la voce si fa più forte, gridando di tornare indietro. Se lo scatenare di cieche forze degli inferi, ventila la voce, facesse arrivare lì Eva prima del compimento dell’evoluzione spirituale, ne causerebbe la morte portando a lui un intollerabile dolore… ma non l’ascolta e va avanti. Nonostante la motivazione razionale che se Eva avesse potuto si sarebbe fatta viva, ma continua egualmente a inviargli pensieri d’amore, il desiderio di lui è tale da privarlo della ragione.

All’improvviso il fragore cessa, la stanza s’illumina a giorno e come sorto dal pavimento un palo sormontato da una traversa – come una croce decapitata – raggiunge quasi il soffitto: ne pende la testa di un grande serpente dal verde brillante, la fronte avvolta da un cencio nero e l’aspetto simile a un volto umano mummificato – e ricorda il viso di Chidher Grün. Terrorizzato da quell’epifania, Hauberrisser si sente chiedere in tono sibilante “Che c-os-a vu-oi da me?”. Inevitabile ricordare il demone-cammello che nella scena dell’evocazione di Le Diable amoureux di Jacques Cazotte chiede al protagonista “Che vuoi?”: qui l’animale è diverso, ma sembra possibile un richiamo. Tanto più che l’albero con il serpente presenta un’allusione edenica, così come il nome di Eva: il Nehushtan, serpente sul bastone fatto innalzare in rame da Mosè nel deserto per curare gli Israeliti morsi dai serpenti – e quello terapeutico di Asclepio del mondo greco – si muta nell’iconografia tarda, specialmente ermetica, in un serpente sulla croce, come qui evocato in sincretismo con culti africani.

Paralizzato dall’orrore, sentendo la morte in agguato, Hauberrisser crede “di vedere un disgustoso ragno nero scivolare sulla superficie lucida del tavolo… poi il suo cuore gridò il nome di Eva”. Allora la stanza rimpiomba nell’oscurità, il Nostro raggiunge a tastoni la porta e accende la luce, la croce decapitata e il serpente sono scomparsi… cerca di tranquillizzarsi pensando a un attacco di febbre, ma senza successo, ed è angosciato che il suo esperimento magico abbia posto Eva in pericolo di vita. Cerca di tranquillizzarsi con l’idea che si sia trattato di un’illusione e quando va alla finestra si accorge di scrutare in distanza se Eva non stia arrivando. Nota però che nel punto del pavimento dove è sorta la croce decapitata con il serpente il legno delle assi è marcito; e a un tratto ode bussare al portone, colpi impazienti.

Apre, tirando la corda del saliscendi, non echeggiano rumori per le scale: ma poi si spalanca la porta e compare Usibepu, che, incosciente come un sonnambulo, sembra non vederlo e annusa in giro. Alla fine individua il punto del legno marcito e poi solleva il volto come guardando la croce decapitata della visione e lo stesso serpente (associabile, ricordiamo, a quello del suo culto africano). Sul volto del nero, che pare mormorare, si alternano emozioni, fino a un furore incontenibile: ma poi si accovaccia sul pavimento, impallidendo, con gli occhi rivoltati sotto le palpebre spalancate – e intanto anche l’ingegnere è colto da un’inspiegabile stanchezza. E solo dopo parecchie ore vede Usibepu alzarsi in trance e andarsene.

Hauberrisser sta per tornare indietro dal portone spalancato, quando all’improvviso dalla bruma compare Eva. Sconvolto dalla gioia, la stringe tra le braccia, pare esausta: la conduce a una poltrona e restano abbracciati a lungo, lui in ginocchio e lei intenta a baciarlo. Non è tempo di porle domande, le chiede di non lasciarlo mai più, e lei lo tranquillizza, resterà con lui “anche da morta” – e intanto le mani le sono diventate gelide. Non può più lasciarlo, “L’amore è più forte della morte”: gliel’ha detto lui (scopriremo tra poco di chi si tratti), lei era morta e lui l’ha rianimata e lo farà ancora. Per intere settimane è stata fuori di sé, “sospesa fra il cielo e la terra, aggrappata alla cinghia rossa che la morte porta al collo. Lui le ha strappato il collare! Da allora sono libera! Non sentivi che ti ero sempre accanto? […] Fammi… fammi essere tua! Quando ritornerò da te voglio essere madre”. Si stringono in un impeto d’amore, e quando lui la richiama Eva è morta.

Sconvolto, Hauberrisser vorrebbe uccidersi, ma gli appare Chidher Grün: “Vuoi forse andare nel regno dei morti per cercare i vivi?”. Sappia chi non imparerà a vedere sulla terra non imparerà neppure dall’altra parte… Pensa che Eva non possa resuscitare? “Lei è viva, sei tu che sei ancora morto”. Poi sposta i due lumi: come ora è certo che lui possa mettere la mano nel costato del visitatore, così è certo che si unirà materialmente con lei quando avrà raggiunto la nuova vita spirituale. Il protagonista ha invocato l’amore effimero – Chidher Grün passa il piede sulla traccia di marcio, che scompare – e lui gliel’ha portato: è rimasto sulla terra non per prendere ma per dare… “Nella bottega delle meraviglie del mondo hai desiderato nuovi occhi per vedere le cose della terra in una luce nuova, ricordi? Non ti dissi che prima di avere nuovi occhi avresti dovuto consumare di lacrime i vecchi?”: per questo gli ha fatto pervenire il diario di uno dei suoi discepoli…

 

Eva voleva l’amore eterno: e io gliel’ho dato… e per amor suo lo darò anche a te. L’amore effimero è un amore spettrale.

Quando sulla terra vedo germogliare un amore che va al di là di quello fra spettri, vi stendo sopra le mani come uno scudo di rami per proteggerlo dalla morte che è ghiotta di frutti, poiché io non sono solo il fantasma dal volto verde, io sono anche Chidher: l’albero eternamente verde.

 

La governante al mattino trova il corpo di Eva disteso sul letto e Hauberrisser in ginocchio accanto. Chiama subito Pfeill e Sephardi che lo credono svenuto ma arretrano “spaventati davanti all’espressione sorridente del suo volto e alla lucentezza dei suoi occhi”. Come per Eidotter, l’inversione delle luci l’ha condotto al dominio dei dolori psichici.

Prima di passare alla parte finale, è inevitabile tentare parallelismi tra Il volto verde e il precedente Il golem, letterariamente più solido (e anche più agevolmente avvicinabile per un lettore). Athanasius (“Immortale”) Pernath e Fortunat (“Fortunato”) Hauberrisser presentano punti di contatto in quanto antieroi modernisti, uomini in crisi nella risacca epocale che dovranno conoscere una spiazzante iniziazione per trovare un posto nel mondo. Mirjam ed Eva sono figure omologhe, donne amate e dolcissime di grande profondità interiore: di entrambe si teme siano rimaste vittime di violenza sessuale e verranno recuperate dal protagonista dopo un qualche tipo di morte (anche solo simbolica). Degli iniziatori Hillel e Swammerdam qualcosa si è detto, mentre Zwakh & Charousek e Pfeill & Sephardi strutturano costellazioni amicali che per l’uomo Meyrink hanno evidentemente un ruolo importante. In forme diverse Wassertrum e Usibepu risultano figure dell’Ombra in realtà temperata da scorci di umanità, laddove il pur colpevole Laponder e l’innocente Eidotter mettono alla prova le categorie di giustizia degli uomini. E ancora, con una marcata differenza simbolica, il golem e Chidher Grün ricoprono il ruolo del visitatore soprannaturale che traghetta a un qualche tipo di immortalità. In un caso e nell’altro, a partire dai quartieri ebraici (di Praga e di Amsterdam) che conservano tradizioni e memorie dei viandanti per antonomasia della cultura occidentale: non a caso in entrambi i testi emerge il mito dell’Ebreo errante, portatore di una qualche immortalità fino ai giorni escatologici del Giudizio. Il tutto espresso secondo gli stilemi di un espressionismo che offre maschere e topoi alle crisi del Novecento, ma suscettibile di parlare ancora al secolo successivo, di colpirci e di emozionarci coi suoi appelli a memoria e profezia.

(7-continua)

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