Edoardo Bennato – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 30 Apr 2025 21:35:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 La fine dei tempi e la nave che verrà https://www.carmillaonline.com/2018/07/10/la-fine-dei-tempi-e-la-nave-che-verra/ Mon, 09 Jul 2018 22:01:15 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=46685 di Sandro Moiso

Alessandro Portelli, Bob Dylan, pioggia e veleno, Donzelli editore, Roma 2018, pp. 178, € 18,00

Per una volta va detto chiaramente e subito, in apertura della recensione: per chiunque sia interessato a Bob Dylan o, più in generale, alla popular music il testo di Alessandro Portelli si rivelerà come una lettura indispensabile. Condotto con attenzione certosina al particolare e costruito su più piani, tutti perfettamente incastrati tra di loro, il libro permette di compiere un viaggio esperienziale attraverso l’opera poetico-musicale del menestrello di Duluth, il mistero del suo successo a [...]]]> di Sandro Moiso

Alessandro Portelli, Bob Dylan, pioggia e veleno, Donzelli editore, Roma 2018, pp. 178, € 18,00

Per una volta va detto chiaramente e subito, in apertura della recensione: per chiunque sia interessato a Bob Dylan o, più in generale, alla popular music il testo di Alessandro Portelli si rivelerà come una lettura indispensabile.
Condotto con attenzione certosina al particolare e costruito su più piani, tutti perfettamente incastrati tra di loro, il libro permette di compiere un viaggio esperienziale attraverso l’opera poetico-musicale del menestrello di Duluth, il mistero del suo successo a livello planetario che sembra aver superato le barriere dello spazio e del tempo, la diffusione della ricezione delle sue canzoni in Italia fin dai primi anni sessanta, il collegamento con la tradizione folklorica e musicale non soltanto anglo-sassone e, infine, l’immancabile richiamo al testo biblico.

A tutto questo, che già potrebbe costituire un materiale enciclopedico intorno alla figura di Dylan, si va ad aggiungere un puntuale e coltissimo riferimento alle origini e ai richiami della tradizione delle ballate popolari all’interno delle sue canzoni e una definizione, credo, finalmente esaustiva di ciò che costituisce una ballata e che la differenzia da altri generi musicali quali, ad esempio, la canzone politica.

Il tutto si articola intorno ad una singola canzone, la celeberrima A Hard Rain’s A-Gonna Fall che, come afferma Portelli, fu anche la prima canzone di Dylan ad essere trasmessa da una radio italiana nel 1964. Affermazione avvalorata dal fatto che fu proprio lo stesso Portelli a trasmetterla nel programma Rotocalco musicale di Adriano Mazzoletti che andava in onda, sul secondo programma della RAI, ogni mercoledì alle 17.

Un legame di antica origine e di lunga durata è quello che lega quindi l’autore del libro, oggi uno degli americanisti e studiosi di storia orale e di cultura e musica popolare più importanti (forse il più importante) d’Italia, al cantautore e poeta statunitense. Legame lungo, appassionato e serio che permette a Portelli di sviscerare autenticamente la canzone, le sue origini e tutti i suoi possibili significati e, allo stesso tempo, fare altrettanto con i suoi riferimenti culturali e musicali.

Se il viaggio con l’opera e il successo di Dylan inizia infatti in Italia nel 1964, esso poi continua nel deserto del Sahara dove una guida tuareg, nel 1969, fa ascoltare al fotografo Mark Edwards la voce di Dylan, attraverso un vecchio mangiacassette a batteria, mentre interpreta proprio Hard Rain. Per continuare poi, nel tempo e nello spazio, fino al festival che si tiene annualmente a Shillong, ex-capitale dell’Assam, in India in occasione del compleanno di Dylan il 24 maggio. Festival rock cui partecipano gruppi e spettatori di mezza India, pur non essendo mai andato il destinatario di quella manifestazione ad esibirsi in quel paese. Oppure a Calcutta nel 2016, dove cantautori locali, giovani o meno, continuano ad interpretare ed inventare canzoni tradizionali sulla base della musica o della poetica dylaniana.

Un viaggio che in Italia ha visto avvicinarsi fin dagli inizi alla medesima poetica, per trarne ispirazione, cantautori ed artisti quali Fabrizio De André, Edoardo Bennato, Francesco De Gregori, il Nuovo Canzoniere Italiano e molti altri ancora. Ma, come si è già detto, questo viaggio non è soltanto nel tempo delle canzoni di Dylan e della loro ricezione, ma anche nelle radici popolari e storiche delle stesse.

Per fare ciò Portelli utilizza la ballata che maggiormente sembra avere influenzato la struttura di Hard Rain: si intitola Lord Randall, di cui sono state individuate dagli studiosi «versioni e varianti tedesche, olandesi, svedesi, danesi, ungheresi, wendish, irlandesi, americane, boeme, catalane; ma la coesione più stretta e fra le versioni italiane e quelle anglofone».1

Ed è esattamente a questo punto che la storia di Hard Rain/Lord Randall torna ad incrociarsi con la canzone popolare italiana, si potrebbe dire con l’autentica canzone popolare; quella trasmessa oralmente attraverso i secoli, da un esecutore all’altro, e di cui si trovano tracce fin dal 1629. La versione italiana, che potrebbe essere addirittura la prima e la più antica, si intitola Testamento dell’avvelenato ed è ricordata da «un certo Camillo detto il Bianchino, in una raccolta di testi pubblicata a Verona ».2

L’antica ballata, che inizia in media res, racconta la vicenda di un giovane che allontanatosi da casa per trovare la sua bella, tornerà a morire tra le braccia della madre e dei famigliari dopo essere stato avvelenato dalla stessa donna di cui si era innamorato. Non vi sono spiegazioni sui motivi dell’omicidio, ma la metafora dei rischi legati all’abbandono dei luoghi conosciuti e famigliari è potentissima. Infatti, come afferma Portelli

“la pulsione verso il conosciuto, stabile, famigliare in tempi di trasformazioni tempestose ha anche una risonanza con il senso del tempo storico: la sensazione che il «nuovo» possa essere portatore non solo di speranza ma anche di pericolo.
Gli anni in cui fiorisce in Gran Bretagna la ballata epico-lirica sono quelli delle enclosures e delle leggi anti-vagabondaggio, in cui la modernizzazione consiste nella privatizzazione dei beni comuni e nella cancellazione degli usi civici, impoverendo le famiglie rurali o trasformandole in poveri urbani itineranti e vagabondi illegali. Non sempre, per le classi non egemoni, il nuovo ha voluto dire progresso, miglioramento.[…] La canzone popolare è una delle forme che esprimono, per dirla con Vito Teti, antropologo del mondo rurale del Sud, «l’inquietudine di popolazioni mobili rese costitutivamente precarie, melanconiche, ma anche creative e resilienti dall’esperienza prolungata delle catastrofi naturali e dagli stravolgimenti storico-economici, dalla fame e dalla ricerca di un paradiso altrove»”.3

La canzone di Dylan, cantata in pubblico per la prima volta nel 1962 ed uscita per la prima volta su disco il 27 maggio 1963, nel suo primo album di canzoni originali The Freewheelin’ Bob Dylan, parla in realtà del pericolo di un fall-out nucleare destinato a distruggere il nuovo mondo di cui il blue eyed young man protagonista della canzone è andato in cerca incontrando soltanto morte e distruzione, compresa la sua. La canzone riprende i toni apocalittici ereditati dalla Bibbia da blues, gospel e spiritual.

Non è la sola nel disco poiché con essa è presente anche Talkin’ World War Blues che riprende il tema della possibile distruzione nucleare del mondo con versi ora drammatici ora ironici. Ma l’anno è importante poiché si tratta del 1962 e la crisi dei missili di Cuba ne è diventata il simbolo. Il senso del vivere sul limite di una catastrofe nucleare pervade le folk songs, i primi movimenti di protesta giovanili anti-militaristi e precederà di poco lo sviluppo dei movimenti per i diritti civili e di lì a poco il 1968.

Ma Dylan può affermare, a ragione, di non aver mai scritto una canzone politica, anche se molt, ieri e ancora oggi sono state accolte e sono ancora interpretate come tali. In questa affermazione l’autore americano non solo conferma la sua volontà di non essere mai inquadrato in un cliché, ma rivendica indirettamente il suo essere scrittore ed interprete di ballate epico-liriche tipiche della cultura popolare.

Infatti, ci spiega Portelli

“La ballata si occupa di quelle opposizioni in cui schierarsi non è possibile. Ciascuna ballata, o il sistema delle ballate nel suo insieme, enuncia un dilemma ma non lo risolve perché, come nella tragedia, le ragioni sono divise, sono tutte sia giuste, sia fatali: il nuovo è minaccioso ma come possiamo rinunciare al futuro? […] Ascoltare le ballate e prenderle sul serio ci aiuta a conoscere meglio Bob Dylan e a capire anche perché non sia solo il Dylan giovanile ma anche quello più recente a esserne intriso, come se quelle canzoni che esplorava come riproposta tornassero decenni più tardi, interiorizzate in forma di memoria.”4

L’argomento delle ballate, scrive ancora l’autore, sono le domande, non le risposte e questo può spiegare la loro sopravvivenza nel tempo e nello spazio poiché spesso fanno riferimento ai grandi temi e ai grandi archetipi dell’agire umano e dell’inconscio collettivo. Potendo essere di volta utilizzate e riutilizzate in contesti sempre nuovi, sempre diversi e allo stesso tempo costanti.
Cosa che le avvicina alla lirica e alla poesia e che in Dylan vede accumularsi, insieme alla tradizione folk, blues, gospel, biblica e tradizionale, elementi della poesia moderna dal Bateau ivre di Rimbaud a Howl di Allen Ginsberg, passando per la ribellione giovanile dell’autentico drop out quattrocentesco François Villon. Ed è stato proprio questo approccio che ha, di fatto, contribuito all’assegnazione del Nobel a Dylan proprio nell’anniversario della morte di un altro premio Nobel, questa volta italiano, che dell’unione tra colto e popolare aveva fatto il centro del suo Mistero buffo: Dario Fo.

Poiché un viaggio deve per forza concludersi con una nave che entra in porto, se nella canzone Hard Rain a trionfare può essere l’apocalisse, in un’altra canzone famosissima la speranza può arrivare con una nave, un’arca della salvezza oppure carica di angeli sterminatori per i malvagi: When The Ship Comes In. Inserita in The Times They Are A-Changin’, del 1964 e terzo lp del giovane Dylan, in essa si afferma che

“Tempo verrà; non se ma quando arriverà la nave.[…] When The Ship Comes In è un’altra profezia che rovescia e bilancia A Hard Rain’s A-Gonna Fall. Siamo in quel momento sospeso in cui la pioggia sta per cadere, ma stavolta non è la fine del tempo: è un prodigioso tempo nuovo, un avvento liberatore che apre l’oceano e scuote la sabbia; persino i pesci e i gabbiani sorrideranno, persino le rocce si ergeranno orgogliose sulla riva, il sole finalmente non brucerà più i visi dei naviganti e le parole usate per confondere la nave si riveleranno in tutta la loro incomprensibile insensatezza. E’ una canzone intrisa di echi biblici. Ma quelle catene che si spezzeranno fanno pensare anche ad un altro testo sacro […] Quando arriva la nave non è più il tempo dei compromessi, delle mediazioni, delle concessioni; dalla prua della nave grideremo (ai nostri potenti nemici) «your days are numbered», i vostri giorni sono contati. «We’ll shout from bow» – Noi grideremo dalla prua; la nave non è un prodigioso deus ex-machina che viene a salvarci; sulla nave ci siamo noi; siamo noi, tutti insieme, la nostra salvezza”.5

Sarebbero ancora tantissimi i temi, le canzoni, i collegamenti contenuti nel libro, ma credo sia giusto chiudere qui, con un messaggio che è allo stesso tempo di vendetta e di speranza, esattamente come fa l’autore, che rinvia più ai drammi dell’odierno Mediterraneo colonizzato e insanguinato dall’imperialismo europeo che ai versi tratti dalla Madama Butterfly di Giacomo Puccini: «Un bel dì, vedremo levarsi un fil di fumo, sull’estremo confin del mare. E poi la nave appare. E poi la nave appare».


  1. A. Portelli, Bob Dylan, pioggia e veleno, pag. 29  

  2. A.Portelli, op.cit., pag. 27  

  3. ibid. pp.120-121  

  4. ibid. pp. 124-125  

  5. ibid. pp.143-144  

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Divine Divane Visioni (Cinema di papà 07/08) – 63 https://www.carmillaonline.com/2014/10/23/divine-divane-visioni-cinema-papa-0607-63/ Thu, 23 Oct 2014 20:25:44 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=17722 di Dziga Cacace

Questa sera il montaggio analogico mi ha completamente sconvolto!

ddv6300687 – Sbaglierò: Michael Clayton, di un ciuco, USA 2007 Vedo troppi pochi film, ultimamente, per non imbestialirmi di fronte a una roba come questa, già vista millemila volte: l’avvocato carogna ma con gli occhioni da giuggiolone che – ingorgato in un casino senza vie d’uscita – ha il finale sussulto di coscienza. (Se ci penso bene, però, no: quali film conosco così? Nessuno. Vabbeh, non è importante). Sono di cattivo umore – lo so – e solo io, a differenza di critici e pubblico, ho trovato il film [...]]]> di Dziga Cacace

Questa sera il montaggio analogico mi ha completamente sconvolto!

ddv6300687 – Sbaglierò: Michael Clayton, di un ciuco, USA 2007
Vedo troppi pochi film, ultimamente, per non imbestialirmi di fronte a una roba come questa, già vista millemila volte: l’avvocato carogna ma con gli occhioni da giuggiolone che – ingorgato in un casino senza vie d’uscita – ha il finale sussulto di coscienza. (Se ci penso bene, però, no: quali film conosco così? Nessuno. Vabbeh, non è importante). Sono di cattivo umore – lo so – e solo io, a differenza di critici e pubblico, ho trovato il film borghese, ipocrita e consolatorio, con gli attori da botteghino e la trama senza sorprese. Ma perché – scusate – Clayton (Clooney, fichissimo, ça va sans dire) non poteva essere stronzo fino in fondo, giacché lo è quasi fino in fondo? E fate uno sforzino, eddai! E poi ‘sto ritmo blando, con inserti narrativi che allungano la broda in un thriller giudiziario già immobile, avvincente come un discorso di Lamberto Dini. La regia si atteggia anche ad autoriale, ma se mi date il regista Tony Gilroy lo interrogo come si deve e ve lo faccio confessare in dieci minuti. Inoltre c’è Tilda Swinton: per me da sempre un autentico mistero qui premiato addirittura con l’Oscar. È espressiva come un calco pompeiano in gesso, ha lo stesso colorito e – per rimanere in campo artistico – un fisico picassiano, periodo cubista. Però due secoli fa la Swinton ha fatto un film che ha colpito gli stramaledetti cinéphiles segaioli di mezzo mondo e lei continua ad essere considerata un’icona del cinema “alto”. Boh. Abbiamo visto ‘sta cosaccia perché Barbara riteneva di aver affittato Good Night, and Good Luck: la gravidanza fa brutti scherzi. (Dvd; 23/3/08)

ddv6301688 – Adrenalina pura con 24 – Season 3 di Joel Surnow e Robert Cochran, USA 2004
Allora: faccio un riassuntino per chi si fosse sintonizzato solo ora. Lo show funziona così: 24 ore in tempo reale, in un giorno che più di merda non si può. Vittima della fatale giornata il povero Jack Bauer (Kiefer Sutherland), agente operativo della CTU, Counter Terrorists Unit di Los Angeles, agenzia (fittizia nel mondo reale, ma forse no, chissà) che si occupa di antiterrorismo. Una volta all’anno, arriva quel giorno in cui il malcapitato protagonista capisce che saranno cazzi amarissimi: userà un cellulare con la batteria magica per 24 ore filate (deve avere un abbonamento molto vantaggioso), non mangerà, non si farà mai una sana pisciata, figuriamoci una cagata come si deve leggendo la Gazzetta. Ovviamente la giornata infame vede sempre coinvolta in qualche casino anche quella cretina della figlia. In questa terza serie, tra le altre cose, Bauer sta anche smettendo di drogarsi, cosa che sembra la parodia de L’aereo più pazzo del mondo. Fortuna che queste benedette ultime 24 ore non fossero anche l’ultimo giorno per pagare i contributi alla domestica, l’Iva trimestrale e che non ci fossero visite dentistiche improrogabili in programma. Però – diciamo – la materia narrativa non manca: nella prima serie troviamo dei balcanici efferati (serbi, ovviamente), che ce l’hanno precisamente con Bauer e, per vendetta, vogliono fargli ammazzare il candidato alla Casa Bianca dato per vincente, Palmer, un nero buonissimo, onestissimo e democraticissimo. Solo che c’è una talpa alla CTU e tutta la serie vive del dubbio. Nella seconda tornata, il nero buonissimo etc. è diventato ovviamente presidente (sembrava fantascienza 4 anni fa, ma chissà se adesso questo Obama dell’Illinois…) e Bauer deve fronteggiare una minaccia atomica su Los Angeles, orchestrata da degli arabi pazzi furiosi, mentre nel palazzo presidenziale c’è praticamente un colpo di stato. Niente di meno. Diventa tutto un po’ isterico: meno intrighi, molta azione, gran divertimento. Nella terza stagione – che ho visto dopo la quarta causa pesante rincoglionimento da paternità – l’attacco è batteriologico ed è condotto da un occidentale già al lavoro con gli yankee e ora deciso a fare giustizia vera. Dura poco, chiaramente (per l’appunto: 24 ore). Nella quarta serie c’è un nuovo presidente (il rivale del solito nero dei primi tre episodi) che viene fatto secco da uno Stealth rubato all’uopo; anche qui dietro al complotto stanno degli arabi vagamente incazzati. La crisi sembra indistricabile e il vecchio presidente Palmer torna a dare una mano e, siccome è superlativo come sappiamo, mette tutto a posto. Fino alla prossima stagione. 24 è un serial ottusamente geniale (è una combinazione possibile, l’ho deciso adesso), un thriller fantapolitico ad orologeria a tratti fascistissimo (tipico interrogatorio: “Se non dai una cosa a me, io do…” – agitando una mannaia – “…una cosa a te”) ma anche con insospettabili afflati democratici, probabilmente dovuti al caos mentale da sedicenne con l’ormone impazzito tipico degli sceneggiatori di queste cose: branchi di nerds miliardari che vestono in bermuda e magliette di gruppi metal. E poi ti inventano ‘sto popò di roba. (Dvd; aprile ‘08)

??????????????????????????????????????????689 – L’inguardabile Billy, perché l’hai fatto? di due bestie, Volker Schlondorff e Gisella Grischow, Germania 1992
Freddie Mercury e Jimi Hendrix insegnano: è proprio vero che da morto non puoi più difenderti da nessuno, neanche da chi pensa di ripubblicare questa porcata micidiale, un documentario allucinante che – una volta tanto d’accordo – Barbara e io abbiamo mollato dopo quaranta minuti. La schifezza è l’ignobile mix di una vecchia intervista al maestro Wilder e da inserti recenti di Schlondorff che cuce e rappezza. Senza chiarire niente: chi sia Billy (e la sua vita vale quanto i suoi film) e perché sia stato un genio. L’intervista storica, oltre ad avere una qualità da videotape smagnetizzato, è ottusa ai limiti dell’idiozia, con il petulante Schlondorff che chiede con fervore maniacale soluzioni di regia e sceneggiatura a un Wilder infastidito da questo fan inopportuno. Le risposte son sempre sopra le righe (ma se sono sbagliate le domande è logico che poi siano sbagliate anche le risposte) e mai Billy avrebbe pensato che da quel colloquio sarebbe potuto uscire alcunché. Ahinoi si sbagliava, il mercato sdogana qualunque cosa e c’è sempre chi ci casca (non ricordo chi mi abbia regalato questo prezioso prodotto Feltrinelli che ora puntella il tavolo della cucina). Tornando all’abominio che non troverebbe spazio in palinsesto neanche su una tivù satellitare della Val Brevenna: il commento a posteriori del regista teutonico è freddo come un ghiacciolo in culo, con luci da obitorio, verve cimiteriale e chiarezza narrativa pressoché nulla. Questa schifezza di film non è un omaggio, è un insulto alla memoria. E se non avete visto i film di Wilder è pure pieno di spoiler. (Dvd; 2/4/08)

ddv6303690 –Il blues di Feel Like Going Home di Martin Scorsese, USA 2002
Esco il precedente dvd dal lettore e ne metto subito un altro, tanto il destino della serata è segnato e la gravida Barbara si addormenterà a breve al mio fianco. Scelgo per cui a mio gusto e mi scoppio un bello Scorsese: il vecchio Martin si riserva, nell’ambito della serie di documentari dedicati al blues da lui coordinata, il compito più impegnativo e ambizioso. Però, siccome non è un presuntuoso come Wenders o un mestierante come Figgis – autori in questo ciclo di due autentiche bestemmie su pellicola –, si fa scrivere il film da Peter Guralnick che è un giornalista e uno scrittore che sa, e molto bene, ciò di cui parla. L’unica pecca, non da poco, è la totale mancanza di didascalie, per cui i personaggi che incontriamo durante la narrazione rimangono per lo spettatore medio degli assoluti carneadi, né sono chiari i rapporti tra chi parla e di cosa. Siamo alla solita mancanza di comunicazione che mi parrebbe marchiana in un esordiente, figuriamoci in un maestro come Scorsese. Ma è inutile che mi ci incazzi: all’Autore lo spettatore, in realtà, fa schifo. Un po’ come a Veltroni e D’Alema dan fastidio gli operai, per intenderci. Ad ogni modo nel racconto c’è una prospettiva storica, c’è un percorso e una chiara intenzione narrativa. Inoltre a farci da Cicerone, nella (ri)scoperta del blues del Delta c’è un musicista nero sconosciuto ai più, Corey Harris, che suona la chitarra in maniera eloquente e comprende ciò di cui si parla. Dal Delta del Mississippi fino al Mali, a recuperare le radici della musica più bella che esista, pura, intensa, dolorosa, carica di storia. Si vedono Son House (eccezionale), John Lee Hooker, Muddy Waters, Ali Farka Toure e altri personaggi minori ma anche loro con una storia da raccontare. Film più che discreto, ma fruibile solo da una percentuale della popolazione con almeno due lauree, in musicologia e folclore. Cioè quasi nessuno. Tutti gli altri che se ne dicono entusiasti, mentono, anche perché – a differenza che con Buena Vista Social Club – il disco non se l’è comprato proprio nessuno. Ma nessuno nessuno, perché il blues non si danza nelle balere come quel ritmato scassamento di minchia della musica cubana. M’è scappata, eeeeh. (Dvd; 2/4/08)

ddv6304692 – Il pacifismo guerrafondaio di Kingdom of Heaven di Ridley Scott, USA, Gran Bretagna, Spagna 2005
Sceneggiato col martello pneumatico e montato come se fosse Salvate il soldato Ryan, Kingdom of Heaven è un film ambiguo come spesso capita alle ultime cose di Ridley Scott. Ma la sua non è un’ambiguità ricca, bensì subdola, cinica, a buon mercato. Come da titolo italiano (Le crociate, non sia mai che ci si confonda) siamo in Terra Santa a liberare i luoghi sacri. Ci sono i saraceni buoni e il fanatico guerrafondaio che identifichi subito con uno di Al Qaeda. E ci sono i cristiani saggi e disponibili e quelli teo-con che vogliono la guerra a tutti i costi. Il messaggio generale vorrebbe essere di tolleranza, pace e comprensione, però poi la cinepresa indugia piacevolmente sulle scene di battaglia che – detto tra noi – sono anche la cosa migliore di un film che – ridetto tra noi – sembra adatto, nella sua semplice consequenzialità, all’età mentale di un dodicenne. E infatti – seppur turbandomi ideologicamente l’unico neurone funzionante – m’ha divertito. Girato con consueto stile grafico, purtroppo a Ridley scappa la cafonata di qualche modernismo di troppo: l’impressione che ogni paesaggio o scena di massa siano digitalizzati toglie molta magia a una messa in scena che fa (o dovrebbe fare) della grandiosità la sua cifra distintiva. Il belloccio Orlando Bloom se la cava, Eva Green – diamante splendente in The Dreamers del Maestro Bertolucci – mi sembra già appassita. Bravini gli altri e anche i costumi sgargianti. Suvvia: me lo son goduto (Barbara no, era indignata e sicuramente ha ragione lei). (Dvd; 11/4/08)

ddv6305693 – Il classico La carica dei cento e uno di Wolfgang Reitherman, Hamilton Luske, Clyde Geronimi, USA 1961
Regalato a Sofia per i suoi tre anni (festeggiati il 26 aprile e non il 25, a sua insaputa; potere del nostro regime autocratico, neanche in Corea del Nord si cambia il calendario!) e visto praticamente subito assieme a lei. Il commento critico della piccina a fine visione è sintetico e straight to the point: “Questo è un film bellissimo!”. E non ha tutti i torti. Prima di questo ha visto, a inizio aprile, solo Le avventure di Barbapapà (di Talus Taylor e Annette Tison, Olanda 1973) che io ho finora evitato in toto e che in realtà sembra l’assemblaggio di una serie di episodi televisivi, per cui non so se possa valere come film “narrativo” vero e proprio (non c’è insomma la consequenzialità delle storie classiche di Barbapapà e lo dico a ragion veduta perché le ho lette tutte. Non per esclusivo piacer mio, s’intende). La Carica è un film molto “familiare” e lineare, anche se con azzeccata struttura ad inseguimento. Giusto per la cronaca: Crudelia De Mon è considerata una delle cattive più cattive del grande schermo di sempre, una zitellaccia ingrigita dal fumo, secca come un’acciuga e che non deve avere partner da decenni. Vuole farsi un pelliccione di pelle di dalmata e ruba 15 cuccioli a una coppia felice di conoscenti (coppia sana, solida, che tromba, seppur con britannica discrezione), ma in realtà, Crudelia, ne aveva già da parte 84 comprati, suppongo, con regolare fattura, e di cui poteva farne il cazzo che voleva, eh. E quando i 101 (99 cuccioli più Peggy e Pongo, genitori dei 15 rapiti) scappano e si salvano, gli 84 di Crudelia sono effettivamente sottratti alla legittima proprietaria. E questo nessuno lo dice! Ci starebbe un seguito politicamente corretto dove i cuccioli vengono restituiti e giustamente scuoiati, perché se non gli insegniamo l’osservanza della legge fin da piccoli, poi ci aspetta l’anarchia, no? (Dvd: 26/4/08)

ddv6312694 – Good Night, And Good Luck di George Clooney, USA 2005
Stavolta Barbara azzecca l’affitto e il film, effettivamente, merita: Clooney ritorna alla regia con le idee chiare (il suo primo film non m’era piaciuto per niente, vulgo faceva cacare). Qui troviamo afflato democratico, impegno rivendicato anche per un mezzuccio come la televisione, e ottima cinematografia, con gusto e classe. Bravo Giorgetto che non dimentica di reinvestire i mijiardi – guadagnati recitando in puttanate – in qualcosa di durevole e onesto. Film ben fatto e necessario, dài. (Dvd; 3/5/08)

ddv6306695 – Altro classicone: Il libro della giungla di Wolfgang Reitherman, USA 1967
I doveri di babbo mi impongono la visione di un film che non vedo dai miei nove anni (al Manin di Genova, con nonna Franca: avevo scazzato con un bambino di quattro perché disturbava. Avevo vinto). È il film Disney con due dei momenti più divertenti in assoluto: l’amicizia di Baloo e Mowgli e l’incontro con l’orango tersicoreo Re Luigi. Per il resto, il percorso di crescita e maturazione del trovatello tra animali buoni e meno buoni (lo spauracchio Shere Khan) scorre facile, tenero e sereno, narrativamente semplice, disegnato bene e animato meglio, con belle caratterizzazioni e sfondi. Semmai il finale, molto dark e coraggioso, lascia un po’ perplessa Sofia. E due giorni dopo nasce Elena. (Dvd; 4/5/08)

ddv6307696 – Man of the World di un cretino, Gran Bretagna 2007
Una tra le più belle storie del rock. E una delle più tragiche: quella di Peter Green. Giovanissimo chitarrista nei Bluesbreakers di John Mayall in sostituzione del dio Clapton, forma poi i primi Fleetwood Mac (quelli blues, che poi diventeranno pop) e i 3 album che produce in meno di due anni, ’68 e ’69, vendono più di Beatles e Rolling Stones assieme. Albatross, Need Your Love So Bad, Black Magic Woman, Man of the World e The Green Manalishi vanno in testa alle classifiche e rendono l’uomo molto ricco e molto infelice. Ma sarà un’infausta serata a Monaco nel 1970 a farlo uscire completamente di cotenna. Già da un po’ Green era insoddisfatto del suo ruolo di rockstar per caso, del successo e dello show-biz. Andava dicendo agli altri della band: “Diamo tutti i soldi alle popolazioni del Biafra, dài!”. Nessuno che gli desse retta: volevano diventare ricchi sfondati e pochi anni dopo ci sarebbero riusciti eccome. Comunque, alla festicciola di Monaco di cui si diceva, a Peter viene somministrato dell’LSD a tradimento che fa il resto: il genio esplode, vuole solo fare jam oceaniche (tipo 40 minuti di improvvisazione), molla il gruppo, pubblica un disco folle e doloroso (e splendido e dal titolo inconsciamente programmatico: The End of the Game) e poi crolla in una depressione che lo fa finire perfino in casa di cura per malati di mente. Le medicine lo annientano, così come l’elettroshock e il musicista più lirico del British Blues finisce per imbracciare un fucile per minacciare il suo commercialista (cosa che in realtà vorremmo fare tutti, credo, quando ti presenta la dichiarazione dei redditi). Non vuole soldi che ritiene maledetti, vuole solo scomparire. Il recupero è lento e non completo. Oggi Green fa compassione: parla impastato, in maniera incoerente, con sprazzi di amarissima lucidità. Ha tentato un ritorno alla musica negli anni Novanta e a Pistoia fui testimone di un concerto a dir poco straziante. Adesso ha mollato del tutto e forse si gode un po’ di pace, dopo alcuni anni di incisioni (più che dignitose e sicuramente dolorose) e concerti che giustifico solo come trattamento terapeutico per questa anima in pena. Il documentario di Steve Graham è pedestre, senza alcuna idea se non quella della consueta biografia scandita cronologicamente, con interviste molto statiche e non particolarmente brillanti (e riprese cazzo canis). Il film lo tiene a galla il simpaticissimo Mick Fleetwood che è una fucina di ricordi. Musica ovviamente magnifica e immagini di repertorio straviste (da me) e riutilizzate più volte per le due ore del film. Gli do 6 perché l’argomento merita 10, ma la regia non va oltre il 2. Occasione persa molto molto male. (Dvd; 15/5/08)

ddv6308697 – Classicone aggiornato: Tarzan di Kevin Lima e Chris Buck, USA 1999
Con la minuscola Elena son giorni di gran daffare e faccio questo regalo a sorpresa a Sofia che lo riceve emozionatissima, giacché sono settimane che chiede senza speranze di averlo. Guarda il film a bocca aperta, non si prende particolari spaventi ed è totalmente presa da una vicenda che in effetti non ha un attimo di respiro e va via veloce. Alla fine del film si gira verso di me e sentenzia: “Bello, eh?”. Divertente, ritmato, animato da dio ibridando tecniche tradizionali con quelle più moderne (gli sfondi sembrano statici e molte volte vengono esplorati in 3D), con tentazioni moderne (Tarzan che surfa tra i rami) e concessioni classiche (il cattivone Clayton, molto anni Quaranta), si fa vedere volentieri. Anche più volte, ahinoi, tollerando Phil Collins che canta cose insensate in un italiano degno di Mal. Due giorni dopo Sofia mi chiede se i cattivi esistano anche fuori dai film, nella vita reale. Beata innocenza. (Dvd; 16/5/08)

ddv6309698 – Immagina The U.S. vs. John Lennon di David Leaf e John Scheinfeld, USA 2006
Paratelevisivo, molto lavorato ed effettato, è un discreto racconto della vita politica di John Lennon durante la sua contrastata permanenza negli USA. Parte bene e regge per almeno un’ora, poi si ripete e mostra un po’ la corda anche perché abbiamo capito che John stava sul cazzo a Hoover e non volevano dargli la cittadinanza, però poi non è che sia capitato molto altro. Lennon s’è battuto ancora e alla fine gli han dato la carta verde. Bene, bravo, bis. Oltre a tutto al ripiegamento privato di Lennon e della Ono (che, francamente, nelle scene di repertorio è fuori luogo in maniera evidente e puntualmente sovrastata da Lennon) non corrisponde una virata del racconto, che in troppe parti è meramente cronachistico. Poi, certo, la musica è splendida, Lennon illumina ogni volta lo schermo e i commenti sono interessanti, però si vede che è stato prodotto per la tivù (VH1) e c’è un evidente sentimento agiografico, anche perché la vedova ha collaborato attivamente. Non brutto come avevo letto da qualche parte né neanche lontanamente un capolavoro come molti critici ignoranti di cinema, rock e vita hanno blaterato; mmh. (Dvd; 22/5/08)

ddv6310699 – Non ha bisogno di presentazioni Il secondo tragico Fantozzi di Luciano Salce, Italia 1976
E beh. Secondo shot dopo il successo galattico del primo Fantozzi, uno dei film italiani più visti di sempre come biglietti staccati (non fidatevi delle classifiche degli incassi, vincon sempre gli ultimi!). Qui è evidente come la struttura episodica (e stagionale) non sia sempre riuscita come nel prototipo e viene un po’ a mancare l’evidenza del sottotesto politico, concentrandosi invece più sulla satira grottesca di vizi, manie e sogni dell’italiano medio, un’analisi della sua evoluzione che oggi ha un valore antropologico notevole. Il problema è che Fantozzi siamo noi e chi vede il film preferisce sempre credere che sia qualcun altro diverso da sé, confondendo inoltre il padronato e la sua rappresentazione grottesca con un’esagerazione umoristica. Qui – comunque – abbiamo la corazzata Potemkin imposta dal prof. Guidbaldo Maria Riccardelli, il varo a Genova con cena tra i potenti (con i pomodorini “dentro palla di fuoco a 18mila gradi”), la notte brava di Calboni, Filini e Fantozzi, la seguente fuga d’amore del ragioniere e della signorina Silvani a Capri e anche la clamorosa gita del Duca Conte Semenzara al casinò di Montecarlo. Ci sono pure la fiacchissima battuta di caccia e la truffaldina malattia di Fantozzi con visita al circo, due parti che sembrano outtakes, con umorismo scarico e pure delle scopiazzature (alcune che risalgono addirittura al Chaplin muto… che chissà dove le aveva fregate lui, però). Detto questo, io Fantozzi non lo contesterò mai. Mai. (Diretta tv su Retequattro; 31/5/08)

ddv6311700 – Pensa: Le avventure di Peter Pan di Clyde Geronimi, Hamilton Luske e Wilfred Jackson, USA 1953
Sofia l’ha preteso e, da genitore fermo nelle sue convinzioni pedagogiche, ho ceduto subito. Ma al momento non è sembrata particolarmente impressionata salvo poi diventarne fanatica. Io l’ho sopportato, anche se poi, alla quarta visione, ho cominciato ad affezionarmi (coi bambini la visione ripetuta è d’obbligo: o impazzisci o t’innamori). Disegnato benissimo, musicato con belle canzoni, ci presenta un cast eterogeneo e ben congegnato e noto subito che Capitan Uncino è praticamente Willy DeVille mentre Spugna sembra il Baciccia marinaretto della Sampdoria; assortito anche il cast femminile, con la virginale Wendy, la molto hot Giglio Tigrato e infine la lolita da tasca, Trilli. Il protagonista Peter Pan è invece un’odiosa faccia da cazzo con le orecchie a punta, un coglione dispettoso che non vuol crescere e il povero Capitan Uncino è la sua vittima frignona (pure con l’incubo di un coccodrillo… marino?! Sì, esistono). Il film me lo vedo, ma tutte le menate sulla fantasia, sul rimanere bambini… boh, mica lo so se sono d’accordo. Poi io son cresciuto con Bennato (e il suo layer politico alla vicenda) piuttosto che con questo Disney, per cui tutta la faccenda mi risulta confusa, anche se evidentemente il confuso sono io. E già che ci sono: il Bennato Peter Pan libero contro il movimento giovanile massa di pecoroni, rivoluzionari coi soldi di papà etc. etc. m’è sempre sembrato troppo egocentrico e qualunquistico, anche se non dubito che Edoardo abbia incontrato tanta gente così nella sua carriera. Però il disco era bellissimo: Bennato, quando non gli parte la brocca e il tono profetico/apocalittico, è (stato) un genio. Ma tornando al film: a me sarebbe piaciuto che quelli per cui tenere fossero i pirati, ecco. Cioè, posso farlo lo stesso, ma vallo a spiegare a Sofia, eh. (Dvd; 31/5/08)

ddv6313701 – L’orrendo The Grand Finale, di due pelandroni, Gran Bretagna 2006
Michael Apted, già responsabile di film più che dignitosi come Gorky Park o Gorilla nella nebbia, di serial goduriosi come Rome e di documentari celebratissimi (il militante – e menoso – Incident at Oglala o il kolossal televisivo Up series) si macchia assieme a tale Pat O’Connor di questo documentario che dovrebbe raccontare il campionato mondiale di calcio del 2006, disputato in Germania. Ne viene fuori una minchiata catatonica, per nulla coinvolgente, col gioco più bello del mondo (in un campionato in effetti non esaltante) raccontato come sarebbe capace di fare solo un appassionato di shangai. Le interviste fanno letteralmente schifo sia come domande poste ai calciatori (all’attaccante Thierry Henry: “Come mai tanti talenti in Francia?”… ma come si può soltanto pensare di porre una domanda così stupida?) che come regia (Cannavaro è ripreso in una palestra, con un audio soffocato e delle luci degne di un’emittente uzbeka). Il commento è spesso fuori luogo e il montaggio e l’impianto generale del film sono disastrosi: non solo manca la cronaca spiccia (l’Italia sembra capitare in finale a Berlino per caso), ma non c’è proprio calore, umanità, curiosità; è un film celebrativo surgelato, con le interviste realizzate dopo, senza avere a disposizione materiali pensati e realizzati prima e durante. Mancano vitalità, ritmo e invenzione; e mancano soprattutto un’idea del cinema e – cosa gravissima e incomprensibile – un’idea del calcio. Oltre a tutto c’è anche uno smarrone clamoroso: dell’arbitro della finale Elizondo (pure intervistato e senza motivo) si sbaglia il nome. Immagino che Apted sia stato locupletato dalla Fifa a suon di milionate di euro e poi non ci abbia perso granché tempo, tanto il committente era quella blatta di Sepp Blatter. Vabbeh, ancora grazie che il film non sia stato affidato al tedesco Wenders: almeno abbiamo evitato l’ennesima colonna sonora modaiola, tipo vecchietti tirolesi che fanno lo yodel e tutti a perderci le bave. (Diretta tv su La7; 1/6/08)

(Continua – 63)

Qui le altre puntate di Divine divane visioni

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World War Zombie https://www.carmillaonline.com/2014/08/22/world-war-zombie/ Thu, 21 Aug 2014 22:04:33 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=16855 di Sandro Moiso papa1

Ogni volta che vedo un Papa non posso fare a meno di pensare ad una vecchia canzone di Edoardo Bennato: “Affacciati affacciati / coi tuoi gesti larghi / e con i tuoi vestiti bianchi…/ Affacciati affacciati / e facci uno dei tuoi discorsi / sulla pace universale…/ Affacciati affacciati / dicci che va a finire male”. Era il 1975 e uno dei più radicali e sottovalutati cantautori italiani coglieva in pochi versi e con molta ironia la “sostanza” delle comparsate papali: “Affacciati affacciati / non ti stancare…/ tanto sono quasi duemila anni / che stai a guardare...”

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di Sandro Moiso papa1

Ogni volta che vedo un Papa non posso fare a meno di pensare ad una vecchia canzone di Edoardo Bennato: “Affacciati affacciati / coi tuoi gesti larghi / e con i tuoi vestiti bianchi…/ Affacciati affacciati / e facci uno dei tuoi discorsi / sulla pace universale…/ Affacciati affacciati / dicci che va a finire male”. Era il 1975 e uno dei più radicali e sottovalutati cantautori italiani coglieva in pochi versi e con molta ironia la “sostanza” delle comparsate papali: “Affacciati affacciati / non ti stancare…/ tanto sono quasi duemila anni / che stai a guardare...”

Le recenti esternazioni di Papa Francesco pertanto non mi hanno colpito più del dovuto, anche se, a dire il vero, il papa argentino ha avuto il pregio di anticipare almeno una parziale verità, costantemente rimossa dai governi e dai media, soprattutto a casa nostra: la Terza guerra mondiale si avvicina a passi da gigante. Nella più completa incoscienza dei politici, dei popoli e anche, bisogna dirlo forte e chiaro, di vasti settori dell’antagonismo sociale occidentale.

Ora, Papa Francesco non ha fatto una gran scoperta e non è uscito nemmeno troppo dal canone vaticano perché, se proprio si vuol guardare alla situazione internazionale senza preclusioni o bende ideologiche sugli occhi, dentro ai prodromi di un nuovo conflitto mondiale ci stiamo almeno fin dai tempi della prima guerra del Golfo. Dal 1991, da ventitre anni. Eppure, eppure…

Poiché la scuola ha insegnato a tutti che la Seconda Guerra Mondiale si è svolta dal 1939 al 1945, quasi nessuno osa pensare che le campagne africane del Duce, l’espansione giapponese in Estremo Oriente, le annessioni territoriali tedesche, la guerra civile spagnola, le politiche economiche degli stati dopo la Grande Crisi fossero già, di fatto, guerra mondiale. Così come oggi nessuno sembra voler intendere che dalla riunificazione tedesca in avanti, e non soltanto per colpa della Germania, le guerre prima già ampiamente diffuse nel mondo si sono riavvicinate sempre più pericolosamente a quello che era, e per certi fatti rimane, il cuore del capitalismo e, soprattutto, alle aree e alle situazioni irrisolte dei due precedenti conflitti globali.

Oltre a ciò va sottolineato che, da un punto di vista generale, soltanto una certa scarsa conoscenza della storia e dei processi economici reali può far sì che ancora si creda in alcuni ambienti che siano state le manovre keynesiane di intervento statale a far uscire il capitalismo dalla grande crisi degli anni ’30 e non, al contrario, le distruzioni, i massacri e l’intensificazione dello sforzo bellico-economico che lo accompagnò, insieme allo sfruttamento più che intensivo della manodopera dell’industria, coatta e/o schiava durante il conflitto e oltre. Per esempio durante i “gloriosi anni della Ricostruzione” (oggi assai più santificata della Resistenza anti-fascista). guerra_morte

La guerra oggi riparte esattamente da lì, dove il secondo conflitto mondiale l’aveva lasciata. Dai problemi irrisolti di allora (la spartizione territoriale dell’area centro-europea e del Medio Oriente), dalla necessaria ed inevitabile ridistribuzione in ambito imperialista dei ruoli economici e politici oltre che dei mercati (finanziari e commerciali) e delle materie prime (prima tra tutte, come allora, il petrolio). Con alcune aggravanti dovute all’indebolimento storico degli attori principali di allora (USA, Russia, Germania, Gran Bretagna, Francia, Giappone e Italia) e al sorgere di nuovi ed agguerriti competitori economico-militari e diplomatici che al tempo contarono,invece, ben poco (prima di tutto la Cina, seguita però dall’India, dalle monarchie del Golfo, dalla Turchia, dall’Iran e da un sempre più agguerrito, seppur apparentemente defilato, Sud Africa, solo per citarne alcuni).

Ripercorrere ancora una volta, qui, tutti i motivi di conflitto locale dal Nord Africa all’Ucraina sarebbe soltanto un noioso e ripetitivo esercizio scolastico, ma il viaggio del nostro Pinocchio fiorentino in Iraq rende obbligatorie alcune considerazioni legate nello specifico, ancora una volta, al Medio Oriente e al Nord Africa.
E proprio qui su Carmilla si è già accennato in tempi recenti ad un prevedibile e farsesco, oltre che pericoloso, esercizio muscolare di stampo mussoliniano che il governo degli incapaci avrebbe dovuto mettere in atto per far vedere all’Europa e al mondo (oltre che al tremebondo elettorato interno) le proprie capacità di iniziativa.

D’altra parte, dovremmo saperlo bene tutti, le guerre sono spesso state anche delle momentanee uscite di sicurezza per regimi e governi in difficoltà. Naturalmente la nostra genia di incapaci (con una Ministra della Difesa che afferma che uno scontro tra due caccia-bombardieri Tornado in volo si è svolto tutto “rispettando gli standard di sicurezza” e una ministra degli Esteri che parla alle Camere più per convincere se stessa di essere una candidata accettabile per una poltrona europea più che per esporre fatti e propositi dotati di un minimo di coerenza) non poteva far altro che infilarsi, a caccia di onori e gloria, in uno dei peggiori gineprai del pianeta. Quello siro-curdo-iracheno con contorno di jihad islamica finanziata dalle monarchie del Golfo e dall’Arabia Saudita.

Roba che fino ad ora ha fatto tremare i polsi a gente poco pratica di guerra come americani, francesi, inglesi; incapaci di decidere quale scelta possa essere la meno costosa ed errata per l’imperialismo occidentale dopo i clamorosi passi falsi fatti nel corso degli ultimi anni dalla Libia alla Siria ( come ha dovuto velatamente ammettere pochi giorni or sono lo stesso David Cameron).
Continuare a chiudere un occhio sull’invasiva presenza saudita dalla Libia all’Iraq oppure mandare a carte quarantotto gli equilibri raggiunti in quell’area grazie, anche alla spartizione del Kurdistan tra Turchia, Siria, Iraq?
Continuare a trattare come demone l’Iran oppure cogliere l’occasione di attrarlo nei giochi occidentali inimicandosi, però, Israele e Arabia Saudita? E, soprattutto, aprendo una diversa trattativa sul nucleare di Teheran?1
Inviare armi, soldati e ulteriori “aiuti” economici nell’area ( e a fianco di chi poi, visto che fino a qualche mese fa il principale nemico era il regime di Assad in Siria) oppure astenersi pilatescamente ed aspettare di vedere chi potrebbe essere il candidato più forte a cui affidare il governo di una delle aree del pianeta più ricche di petrolio?

Ma, come nella classica barzelletta in cui all’idiota di turno viene detto: “Vai avanti tu che a me vien da ridere”, il Sindaco d’Italia si è fatto perniciosamente avanti e, come per altre mille questioni irrisolte o aggravate dai perentori interventi del suo esecutivo, ha deciso che avrebbe smosso le acque…bisogna fare in fretta! L’Italia, l’Europa, il Mondo ce lo chiedono!!

Mancano solo i milioni di baionette promesse da Mussolini, sostituite però dalle migliaia di kalashnikov sequestrati ad una nave ucraina durante le guerre balcaniche. Come dire: poca spesa, molta resa! annuncio_guerra
E infatti c’è da chiedersi quale sarà la “rendita” a cui mira l’improvvida ed avventuristica uscita del nostro presidente del consiglio. Recuperare in Iraq le forniture di petrolio perse con l’affaire libico? Affermare che la diplomazia italiana, e quindi la Mogherini, è degna di rappresentare gli interessi europei su scala internazionale? Ma, quali sono gli interessi europei? Siamo proprio sicuri che dalla Germania al Regno Unito passando per la Francia gli interessi siano davvero comuni?

Oppure solamente aprire la strada ad un intervento occidentale che, per ragioni di equilibrio interno ed internazionale, Obama può soltanto indicare ma non garantire e definire di più?
Basta guardare ad alcuni dei principali quotidiani nazionali degli ultimi giorni per capire la confusione in cui versa tutta l’iniziativa politica italiana. La Stampa, come al solito filo-israeliana ed imbeccata dai servizi del Mossad, indica nel Qatar il principale finanziatore dello Stato Islamico e per fare ciò ricollega questo sia ai Fratelli Musulmani che ad Hamas, nel tentativo di suggerire una fragile equazione in cui il progetto dei jihadisti siriaco-iracheni è parallelo a quello di Hamas e quindi, quest’ultima formazione politica deve essere bombardata ed annichilita insieme a tutti i Palestinesi, nemici di Israele.2

Posizione il cui primo risultato sembra essere quello delle rivelazioni derivanti dalla desecretazione dei documenti riguardanti i legami e i patti intercorsi tra l’OLP di Arafat, il Sismi e la Dc.3 Una “tempestiva” iniziativa che rompe definitivamente con la tradizione politica seguita per decenni nell’area mediorientale e mediterranea dai governi italiani e che consegna definitivamente ogni iniziativa politica di Roma nelle mani dei servizi anglo-americani ed israeliani.

La Repubblica, invece, tende a cogliere nel coacervo di rivalità e mire espansionistiche, almeno dal punto di vista finanziario, petrolifero ed anti-iraniano, presenti tra gli stati del Golfo (Arabia Saudita e Kuwait in testa) l’origine dell’attuale situazione in Medio Oriente e in Nord Africa ed indica nell’Egitto uno degli “attrattori fatali” degli attuali contrasti. Ma ha almeno il buon gusto di far risalire l’attuale groviglio medio orientale all’arroganza coloniale espressa, dopo il primo conflitto mondiale, dall’Asia Minor Agreement firmato e voluto dal francese Francois Georges-Picot e dall’inglese Mark Sykes che ridisegnò i confini dei territori dell’ex-impero ottomano.4 Mentre uno strano incidente, verificatosi a Parigi nei giorni scorsi e riferito da Repubblica il 18 agosto, sembra avvallare una certa attenzione dei servizi segreti di varie nazioni nei confronti di possibili trame saudite. Infatti un corteo di automobili di un principe saudita è stato attaccato da un commando armato di kalashnikov a Parigi. Non vi sono vittime, ma sono stati rubati almeno 250.000 euro in contanti e documenti definiti “sensibili” dalla polizia francese. Il corteo aveva lasciato l’ambasciata saudita e si stava dirigendo verso l’aeroporto di Le Bourget. Si è trattato, ha riferito una fonte della polizia, di “un modo di agire inusuale e raro. Sicuramente erano ben informati” sulla composizione del corteo e sul contenuto stipato nelle auto che lo formavano.

L’unica cosa certa è che la questione non si risolverà troppo in fretta, che non sarà poco costosa e che chi si sta attualmente precipitando disordinatamente nel centro dell’arena rischia soltanto di anticipare i tempi di apertura delle porte dell’inferno. Sembra rendersene conto perfino Lucia Annunziata che in un recente articolo sull’Huffington Post afferma: “Le decisioni che l’Europa e l’Italia stanno maturando in queste ore contengono un passaggio tremendamente nuovo e definitorio: dare armi ai curdi significa infatti oggi rientrare appieno, sia pur indirettamente per ora, nel conflitto iracheno e mediorientale in generale. Spero che le nostre classi dirigenti vorranno parlarcene senza veli[…] Ma ci diranno tutti loro questa verità? Intervenire in Medio Oriente (e sulla Russia, e in Libia,dove operiamo già con nostre operazioni “segrete”) è più che mai urgente […] Ma sicuramente non rimandabile è un chiarimento con le nostre opinioni pubbliche sulle conseguenze delle decisioni che la classe dirigente sta prendendo“.5

Gli appelli a salvare cristiani e yazidi nascondono soltanto le mire imperialistiche diverse dei vari attori. I civili, ci dispiace ancora una volta per tutte le anime belle che, dalla Serbia all’Afghanistan al Kurdistan di oggi, hanno sempre giustificato come “umanitari” i bombardamenti e gli interventi militari occidentali, non interessano realmente a nessuno. Dalla striscia di Gaza a Mosul, passando attraverso tutta la storia delle guerre del XX e del XXI secolo, nessuno si preoccupa realmente di loro o della loro sorte. Tutti potenziali ostaggi della guerra, degli imperi e degli scoop mediatici.
Perché, oggi, la crisi economica e politica internazionale grida: “Guerra!”
Mentre i nostri politici irresponsabili sanno soltanto rispondere: “E così sia”.

ROUSSEAU - La guerraLa guerra si avvicina a passi da gigante.
Il capitale deve rigenerarsi come un vampiro attraverso le distruzioni, i massacri e le ricostruzioni in grande scala, ma
l’antagonismo di classe non può che avere una posizione anti-imperialista e anti-bellicista.
Ma se ho parlato a lungo delle irresponsabili scelte italiane è soltanto perché il nostro vero nemico è, prima di tutto, qui. In casa.

Una classe dirigente acefala, in grado soltanto di straparlare tenendo le mani in tasca e di cercare di trarre profitto dalle sofferenze altrui, sia che si tratti di lavoratori, giovani e pensionati italiani soffocati dalla crisi, sia che si tratti dei palestinesi o dei popoli soffocati dalle guerre, dai nazionalismi e dalle religioni in ogni parte del mondo.

La guerra potrebbe servire a prolungare ancora una volta (altro che keynesismo!) la vita di un morto vivente chiamato capitale. Trasformiamola, con le nostre lotte, in una guerra contro gli zombie del profitto e dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, di una classe su un’altra e di alcune nazioni (qualsiasi esse siano) su tutte le altre. Fino alla loro definitiva scomparsa dagli orizzonti futuri della specie.


  1. cfr.Iraq, Iran: “Pronti ad agire contro Isis in cambio di progressi sul nucleare”, Huffington Post 21 agosto 2014  

  2. Maurizio Molinari, Ecco chi finanzia il califfato del terrore, La Stampa 21 agosto 2014  

  3. Andrea Palladino, Si apre una breccia nel muro di gomma. I rapporti inconfessabili tra palestinesi e Sismi, L’Espresso 21 agosto 2014  

  4. Bernardo Valli, L’inganno feroce del califfato, La Repubblica 21 agosto 2014  

  5. Lucia Annunziata, Dare armi ai curdi è un’operazione militare, parliamone senza ipocrisia, Huffington Post 19 agosto 2014  

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