donna – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 30 Apr 2025 21:35:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il mostruoso femminile nell’immaginario giapponese https://www.carmillaonline.com/2023/06/30/il-mostruoso-femminile-nellimmaginario-giapponese/ Fri, 30 Jun 2023 20:00:52 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77491 di Gioacchino Toni

Al di là delle molteplici forme con cui si manifesta – siano esse quelle di demoni dal ghigno spaventoso, di orribili fantasmi o di antropofaghe vecchie arcigne – e dai linguaggi che lo raccontato – dall’oralità alla scrittura, dal mito al folclore, dalla fiaba al teatro, dal cinema alla televisione e alla cultura pop –, sin dai tempi più remoti il mostro che si aggira per il Giappone è la donna. Di ciò intende dar conto il volume di Rossella Marangoni, Onibaba. Il mostruoso femminile nell’immaginario giapponese (Mimesis, 2023), proponendo [...]]]> di Gioacchino Toni

Al di là delle molteplici forme con cui si manifesta – siano esse quelle di demoni dal ghigno spaventoso, di orribili fantasmi o di antropofaghe vecchie arcigne – e dai linguaggi che lo raccontato – dall’oralità alla scrittura, dal mito al folclore, dalla fiaba al teatro, dal cinema alla televisione e alla cultura pop –, sin dai tempi più remoti il mostro che si aggira per il Giappone è la donna. Di ciò intende dar conto il volume di Rossella Marangoni, Onibaba. Il mostruoso femminile nell’immaginario giapponese (Mimesis, 2023), proponendo un affascinate e inquietante viaggio alla ricerca del mostruoso femminile che popola l’immaginario giapponese dall’antichità ai giorni nostri cogliendone la messa in discussione dell’idea di normalità e del concetto di identità che strutturano le miopi comfort zone immaginarie in cui ci si illude di trovare rifugio.

Spesso nel mostro è possibile scorgere un corpo che, sottraendosi alla sottomissione, si manifesta come minaccia. I mostri femminili che attraversano la cultura giapponese, al di là della forma con cui si presentano, tendono ad assumere il volto dell’irriducibile Altra. «Un essere femminile che non si piega a un modello imposto, a uno schema previsto» (p. 10). Insomma, nel mostro aleggia un essere fuori controllo che, estrinsecando il suo furore, si trasforma in qualcosa di spaventoso che non può essere imbrigliato. Se di certo tutto ciò non è prerogativa esclusivamente nipponica, ricorda infatti Marangoni come in molte culture si guardi alla donna come fonte di contaminazione e impurità, come a un corpo che attrae e al tempo stesso intimorisce anche per il suo potere riproduttivo, in ambito nipponico assume caratteristiche del tutto peculiari.

Secondo la studiosa, i presupposti culturali della mostruosità femminile in Giappone vanno ricercati nell’ambito del sacro, nel corpus di credenze dell’universo arcaico, contadino, prebuddhista che, a partire dall’epoca moderna, si è soliti denominare shintō, la cui spiritualità ha nella purezza e nella contaminazione due temi fondamentali. Nel mondo arcaico giapponese gli elementi di contaminazione sono soprattutto la morte e il sangue e se quest’ultimo in un primo tempo riguarda indistintamente uomini e donne, lentamente, ma inesorabilmente, con l’affermarsi nel IX secolo di una società sempre più patriarcale, che ha letteralmente espulso le donne dalla ritualità religiosa e dal potere politico, ha preso piede un’idea di contaminazione legata esclusivamente al corpo femminile.

Durante la seconda metà del X secolo, il kegare, la contaminazione del sangue che riguardava, tra l’altro, il parto e le mestruazioni, si trasformò gradualmente in un concetto generale di impurità nelle donne e, dapprima limitato a momenti specifici nel corso della loro esistenza, passò a segnare una totale, definitiva impurità. […] E fu proprio quando i guerrieri presero il potere, alla fine dell’era Heian, che la nozione del kegare femminile si diffuse a livello popolare. Così, in un dato momento della storia giapponese, la donna si ritrova marginalizzata (p. 18).

Di ciò che è stata la donna nello shintō antico sono via via restati soltanto depotenziati ruoli di comparsa e lo stesso buddhismo, nelle molteplici sfacettature con cui si è sedimentato in Giappone, pur avendo nel corso del tempo attribuito anche ruoli importanti alle donne, ha contribuito, secondo la studiosa, al loro sostanziale annichilimento. Se, ad esempio, nel buddhismo primitivo la teoria dei Cinque Ostacoli limita la mobilità spirituale ascendente delle donne, a partire dal IX secolo, nel buddhismo giapponese medievale, con l’interdizione delle donne dai luoghi sacri, si giunge di fatto alla loro esclusione totale dalla buddhità realizzata.

A partire dal VII secolo, i due principali percorsi spirituali che attraversano il Giappone tendono a fondersi in una sorta di sincretismo shintō-buddhista, protrattosi sino almeno alla metà del XIX secolo, che si mescola con gli stereotipi di genere tradizionali.

Se, ad esempio, nel sutra apocrifo di origine cinese Bussetsu daizō shōkyō ketsubon kyō o Il sutra corretto del Buddha sulla ciotola di sangue – tradotto anche come Sutra della Piscina di Sangue – il “problema del sangue” tocca indistintamente donne e uomini, nella versione giapponese, dal momento in cui sono i guerrieri a comandare, viene posta maggiore enfasi sulle mestruazioni e sul parto piuttosto che sul sangue in generale. Insomma le donne vengono ritenute colpevoli, impure per la loro stessa natura. È, secondo la studiosa, proprio dall’affermarsi del concetto di impurità intrinseco alla natura della donna che occorre partire per comprendere la costruzione della sua mostruosità nella cultura giapponese.

Il mito che si sedimenta agli albori della civiltà nipponica si rapporta con la presenza nell’area di elementi della cultura cinese e del confucianesimo dando luogo a un’immagine ambivalente delle figure femminili: potenti e coraggiose ma anche soggette al volere maschile che le riduce al silenzio. Dal momento in cui sono gli uomini a narrare i miti e le storie, la figura femminile tende a essere via via annichilita dalle religioni e dalla civiltà del Giappone: «la donna è estromessa dal potere, allontanata dalla possibilità di compiere azioni di mediazione fra mondo dei vivi e mondo dei morti (ricordo che le prime regine erano anche sciamane) per ritrovarsi relegata a un ruolo decorativo, subordinato, ruolo che è ancora ben presente nel Giappone contemporaneo» (p. 35).

Un personaggio paradigmatico dell’indole femminile secondo la visione maschile che struttura il mito giapponese, presente anche nelle fiabe e nel folclore, è quello della donna dall’indole mutante e ingannatrice che irretisce l’uomo attraverso la sua bellezza nascondendo la sua vera personalità e, in definitiva, la sua mostruosità. Non sono rari i casi in cui la donna si trasforma in animale o si rivela tale. Altro elemento ricorrente nell’immaginario giapponese è quello della donna inafferrabile, costantemente in fuga, come nei casi della yukionna, “donna di neve”, e della kuwazu nyōbō, la “moglie che non mangia”.

La yukionna, diffusasi soprattutto nel Giappone nord-orientale, è una sorta di creatura la cui bellezza cela un essere vampiresco che succhia la vita degli uomini.

Nel personaggio della yukionna si rivela ancora una volta la duplicità della donna, una duplicità che si ravvisa, anche se in modi diversi, un po’ in tutte le storie che possiamo prendere come esemplari in un discorso sul mostruoso femminile. L’incapacità di definire questo Altro che è la donna, la sua inafferrabilità, la sua ostinazione a non voler sottostare alle regole, al controllo, infine l’impossibilità di capirla perché “è lei che non vuol farsi capire”, così come non vuole farsi catturare, imbrigliare in una rete: tutto ciò la rende fonte perenne di preoccupazione, di ansietà, di malessere (pp. 62-63).

Il personaggio della kuwazu nyōbō è presente in numerose varianti in tutto il Giappone: una donna ambita come moglie perché sembra non nutrirsi mai, una donna non problematica, che lavora alacremente senza consumare, ma che poi, osservata di nascosto, si mostra invece una divoratrice insaziabile che, vistasi scoperta, si rivela spietata nei confronti del marito.

L’onibaba, demone femminile vivente, non proveniente dall’aldilà, compare in numerose storie nipponiche sotto forma di donna in preda al risentimento e ad un insopprimibile desiderio di vendetta nei confronti dell’uomo. Spesso questo demone si rivela come una vecchia dall’aspetto spaventoso.

Altro demone ricorrente nelle favole giapponesi è quello della yamauba, la “vecchia della montagna”, a volte benevola, altre molto meno tanto da rivelarsi un essere mostruoso stupido e crudele, che si ciba di carne umana e incline a bere il sangue dei neonati, spesso descritta come una creatura che vive rintanata nelle montagne a metà tra l’animalesco e l’umano, dai lunghi capelli bianchi scarmigliati, con piedi ferini, denti aguzzi e unghie lunghissime. Quando viene a contatto con gli uomini può avere con loro un atteggiamento passivo (soprattutto quando li riceve nel proprio territorio) o attivo (quando è lei a recarsi nelle abitazioni altrui) rivelandosi antropofaga.

Che si tratti di mostri o divinità, sono frequenti i casi in cui le figure femminili che popolano le storie giapponesi mostrano la loro duplicità, si rivelano indefinibili e mutanti, a volte benevole, altre spietate. La rōjo, ad esempio, è una presenza spettrale di vecchia dai lunghi capelli bianchi che indossa un kimono bianco, diafana, spesso intenta a filare, una figura isolata e liminale in bilico fra la vita e la morte. In alcune fiabe è presente la figura della donna vecchia che, considerata ormai improduttiva, viene abbandonata dai famigliari o dalla comunità; quasi a ricompensarla dell’accantonamento vine dotata del potere di produrre ricchezza materiale che solitamente dispensa a sconosciuti mostratisi compassionevoli nei suoi confronti.

Ricorrenti nelle storie giapponesi sono situazioni in cui la donna si rivela – “per sua natura” – in preda a un sentimento incontrollabile di gelosia che può renderla un essere demoniaco, oppure situazioni in cui la donna soggetta a fantastiche trasformazioni rivela l’incapacità di domare il proprio corpo, di conformarsi al modello di donna deciso per lei dal patriarcato, da tale inadeguatezza deriva il suo allontanamento dalla comunità.

Le forme di spettacolo e di letteratura popolare che si sono sviluppate in Giappone in epoca Edo, spiega la studiosa, hanno le radici tanto nelle antiche forme di religiosità popolare quanto in forme di devozione di derivazione buddhista.

Una delle convinzioni più diffuse e rintracciabili ancor oggi è quella riguardante i goryō, “spiriti inquieti” (o onryō, “spiriti irati”). È, questa, una credenza che sta alla base di molte storie di fantasmi. Alle radici della credenza negli spiriti inquieti è la preoccupazione generalizzata circa la contaminazione da varie fonti di impurità quali la morte, la nascita, il sangue e la presenza delle relative pratiche culturali che circoscrivevano l’impurità (p. 117).

A differenza di quanto accade nel Giappone antico, in epoca moderna, soprattutto nel teatro e nell’arte della stampa dal XVIII in poi, gli spettri sono esclusivamente donne che manifestano una rabbia di tipo interiore derivata dalla gelosia e dal risentimento. Spesso sono rappresentati con con un kimono bianco privo di cuciture, sul modello della veste funeraria, fluttuanti nell’aria accompagnati da fuochi fatui blu, verdi o violacei.

Tradizionalmente, nella cultura nipponica i capelli hanno tanto una connotazione positiva, legata alla forza e alla fertilità, che negativa, rinviante al selvaggio, al corpo incontrollato, dunque alla sessualità. Nel corso del tempo la lunga capigliatura nera spettinata diviene ricorrente dapprima nel folclore, poi nel teatro, dunque nel cinema manifestando la perdita del controllo del corpo e il tormento o il furore delle passioni. I fantasmi femminili che popolano l’inizio del periodo moderno sono dunque in buona parte legati a risentimenti privati derivati da tradimenti o amori non corrisposti.

A partire dal XIX secolo i nuovi personaggi mostruosi femminili non sono più, come accadeva precedentemente, intenti a ritrovare la pace o a riconciliarsi con il passato, quanto piuttosto ad agire nel presente per vendicarsi scatenando la rabbia che li anima contro chi viene individuato come nemico. Ciò che anima questi spiriti femminili è dunque «un desiderio di vendetta per la soddisfazione di veder trionfare la propria rabbia» (p. 126).

L’idea e l’immagine del dèmone spaventoso come la yamanba o la yukionna resta una costante nell’immaginario giapponese, ma alla fine del XIX secolo, con l’ingresso in Giappone di motivi legati ai movimenti letterari e filosofici europei e con il desiderio del Giappone di modernizzarsi anche dal punto di vista culturale smarcandosi dal feudalesimo di periodo Edo, muta velocemente la visione della donna: da dèmone spaventoso a bella e crudele, bella senz’anima. La belle dame sans merci, che si trasformerà in questo periodo di passaggio fra un secolo e l’altro in femme fatale, in dark lady, inizia a comparire nelle pagine della letteratura, dapprima accompagnata, da una vena di esotismo, poi riforgiata come personaggio giapponese (pp. 139-140).

Nel Giappone moderno, tra la seconda metà del XIX e l’inizio del XX secolo, alla donna brutta che popola gli incubi maschili si sostituisce la donna bellissima e seducente che conduce alla perdizione: «bella ma crudele, bella ma glaciale, bella ma priva di morale. È la donna-vampiro, la dark lady, la femme fatale» che, secondo Marangoni, si contrappone

alla donna orripilante delle epoche precedenti perché, in passato, aspetto fisico e aspetto interiore si saldavano in un’unica visione spaventosa, mentre nella modernità si assiste a una separazione fra aspetto fisico – che in generale è di grande bellezza, una bellezza quasi sovrumana o comunque non-umana – e la natura della personalità, inquietante, crudele, malvagia, priva di sentimenti, e quindi capace di grande seduzione ma incapace effettivamente di amare. Una separazione, appunto. Vediamo che la donna è malvagia perché è corruttrice in quanto rende succube l’uomo al potere dell’erotismo, lo porta alla perdizione, a uno smarrimento non solo fisico ma ideale, a perdere di vista i suoi obbiettivi, i suoi schemi morali, per precipitarlo nell’inferno, un inferno di immoralità, di depravazione, di lussuria e così via (p. 141).

Tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo emerge un inedito desiderio di sovvertire le regole sociali, politiche e sessuali.

si attesta la visione di una nuova donna demoniaca, crudele nella sua arte della seduzione condotta con spietatezza, un personaggio che si sostituisce alle figure femminili del folclore. Non è però meno spaventosa né meno minacciosa di chi l’ha preceduta nell’immaginario fiabesco, poiché rappresenta una nuova sfida nei confronti del patriarcato e soprattutto del nuovo modello di femminilità imposto alle donne del nuovo stato Meiji, donne che devono fare la loro parte nell’avanzata verso la modernità, verso l’industrializzazione, verso la crescita bellica del nuovo Giappone. E il modello è quello, ricordiamolo, della buona moglie e madre saggia (p. 148).

Nel cinema giapponese il personaggio della femme fatale manifesta alcune caratteristiche ricorrenti strettamente collegate tra di loro: erotismo, morte, conflitto di genere. L’uomo, presentato come preda, subisce l’attrazione di una donna altera e sensuale a cui non può resistere ritrovandosi così intrappolato in preda a un erotismo distruttivo che si traduce in morte. In tale rapporto distruttivo l’uomo tende ad essere trascinato verso il baratro da una femme fatale dissimulatrice che, in preda a un desiderio di rivalsa di genere, «gioca, lucida e spietata, con il suo burattino, lo solleva, lo blandisce e in un moto di dispetto, lo abbatte. E trionfa» (p. 162).

Ovviamente, sottolinea la studiosa, in un contesto come quello giapponese, in cui «alle donne era stato imposto un ruolo subordinato non solo nella realtà, ma anche nell’immaginario» (p. 163), un personaggio come quello della femme fatale non può avere fortuna: troppo inquietante per l’immaginario maschile e pericolosa fonte di immedesimazione femminile.

Così la dark lady, che nella cinematografia hollywoodiana è caratterizzata da una potente sessualità e da un potere distruttivo, diventa nel cinema giapponese qualcun altro. Qualcos’altro. Un mostro, un fantasma, una creatura soprannaturale dalla vita breve: incanta l’uomo, lo innamora, lo seduce, e poi se ne va come era arrivata. Scompare come un sogno o, se mostro, viene placato con riti e incantesimi e infine, pacificato, reso inoffensivo, fatto scomparire. Un incubo notturno che la luce del mattino allontana (p. 163).

Le femme fatale fanno la loro breve comparsa nel cinema giapponese non come donne reali ma come fantasmi. Ben altri sono «i personaggi femminili accettabili: l’amante “bambina”, capricciosa e inoffensiva, la moglie diligente e devota, la nuora preziosa e filiale» (p. 166).

Nella cultura giapponese i mostri femminili sono una presenza costante; hanno saputo adattarsi alle epoche esprimendo nuove paure e lo hanno fatto occupando i nuovi media man mano disponibili. Dalle pagine sono via via passati ai cinema, ai manga delle edicole, ai videogiochi fino ai parchi a tema. «I contenuti dell’immaginario si rinnovano e alcuni mostri nuovi escono allo scoperto, rivelando, se ce ne fosse ancora bisogno, che le certezze del nostro tempo hanno piedi d’argilla, che le donne giapponesi faticheranno ancora a lungo prima di brillare. Il XXI secolo, in questo, non sembra molto diverso dal XX» (p. 169).

Sul finire degli anni Settanta del Novecento, nelle campagne della prefettura di Tochigi, a nord-est di Tōkyō, per poi diffondersi nel resto del Giappone, si diffonde una sorta di leggenda metropolitana che rivela inquietanti avvistamenti, riportati dai media, di un altro mostro femminile: la kuchisake onna, “la donna dalla bocca spaccata”, una donna dotata di una bocca spaventosamente larga.

La sua iconografia classica è quella tipica della office lady, indossa un completo da ufficio d’ordinanza (giacca, camicia e gonna), ma presenta a prima vista un elemento discordante. I suoi lunghi capelli neri, infatti, sono scomposti, spettinati in un turbine che già in sé rivela un che di mostruoso. La bocca va da un orecchio all’altro, spalancata, rivela denti aguzzi e un sorriso che più che amichevole è minaccioso (p. 170).

A caratterizzarla è inoltre il ricorso a una mascherina chirurgica, con cui cela la bocca spaventosa, e il possesso di una lama di grandi dimensioni (falce, forbici o  coltellaccio).

Ennesimo mostro femminile capace di terrorizzare. «Cosa c’è di così inquietante in un volto dalla bocca spropositatamente grande? La consapevolezza che non si tratta di un essere umano, ma dell’ennesima espressione femminile della minaccia» (p. 171). Variamente interpretata all’epoca, in questa mostruosità si è preteso vedere una denuncia dei guasti della chirurgia estetica – in voga soprattutto nel corso degli Ottanta –, oppure «una denuncia della kyōiku mama, o educational mama, un comportamento materno sempre più invadente sulla scolarizzazione dei ragazzi, competitivo e castrante» (p. 171). Nella simbologia della bocca larga vi è anche chi ha individuato

un chiaro riferimento alla femme castratrice, quella vagina dentata che è manifestazione delle paure maschili più nascoste. Una donna disposta a tutto pur di mantenersi giovane e bella. Una madre che si trasforma in un mostro malvagio e inibente. Una office lady che nasconde il desiderio delle donne di far carriera, spodestando gli uomini dal mondo del lavoro, dalla vita aziendale. Sostituendosi a essi. Una minaccia terribile. E quanto lontana dalla verità, verrebbe da aggiungere (p. 172).

Insomma, secolo dopo secolo, la donna sembra essere sempre associata a fenomeni empi, disordinati, subumani e sgradevoli, come se contenesse in sé qualcosa che la rende nemica dell’umanità (maschile), estranea alla sua civiltà.

Lo abbiamo visto, un lungo e sottile filo, rosso come il sangue, collega gli yōkai femminili, dalla rabbia esteriorizzata, dalle fauci spalancate e dalle corna minacciose, con le altrettanto – sottilmente ma inesorabilmente – pericolose dark lady delle pagine letterarie di fine XIX, inizio XX secolo. Ma non finisce qui, perché nuovi mostri si creano e la filiazione, dalle yomotsu shikome del mito alla kuchisake onna e oltre, prosegue lungo le linee dell’immaginario (maschile) giapponese (p. 173).

Marangoni conclude riflettendo sulle “cattive ragazze” che attraversano le megalopoli a ridosso del cambio di millennio sfrontate nell’infrangere il modello della “ragazza perbene”, la ojōsama, di buona e abbiente famiglia, istruita senza necessità di lavorare, sfoggiante un dress code classico, dal comportamento composto, cortese, non assertivo. È a tale modello che si contrappongono ragazze moderne, disinibite, spesso proveniente da famiglie di classe medio-bassa, caratterizzate da trucco appariscente, abbronzatura, abbigliamento trasgressivo e atteggiamento attivo, assertivo; una galassia di mutevoli tribù urbane (kogyaru negli anni 1995-1998, ganguro negli anni 1998-2000, yamanba dal 2000, manba dal 2003 ecc.). Sono forse mostri queste ragazze? Diverse letture sociologiche di tali fenomeni giovanili vi hanno individuato una volontà di sfida lanciata verso gli uomini, soprattutto anziani.

Queste sottoculture scardinano l’idea che noi abbiamo del Giappone, di una società omogenea: è quello che ci hanno fatto credere; ce l’hanno fatto credere per tutti gli anni Ottanta, ce l’hanno fatto credere studiosi che hanno voluto presentarci una società che nei loro intendimenti era totalmente armonica, in cui non c’era posto per la diversità, in cui non c’erano elementi fuori posto. […] Mi piace vedere come le ragazze anche quando non sono in gruppo non smettono di manifestare la propria unicità anche con piccoli particolari, lottando contro la sessualizzazione ancora fortissima del corpo femminile, contro la sua mercificazione (pp.175-176)

In comune con i mostri della tradizione queste cattive ragazze hanno il rigetto della società che sta loro attorno. Ma, in definitiva, conclude Marangoni, in cosa consiste la mostruosità della donna?

Creature ambigue, che suscitano in noi sentimenti ambivalenti, contraddittori: orrore/meraviglia, attrazione/ repulsione. Creature liminali, in bilico fra due dimensioni (e, a volte, fra due generi): noi/l’altro, bene/male, passato/presente, questo mondo/l’altro mondo. Creature che mettono in discussione la nostra idea di normalità e il nostro concetto di identità. Queste ragazze che creano la propria moda per le strade delle megalopoli continuano a dirci che i mostri siamo noi, siamo noi nel nostro rifiuto, nella nostra incapacità di comprensione, nella nostra incrollabile fede nel giudizio degli altri e nel nostro desiderio di puntare l’indice contro gli altri senza tentare di capirli (p. 177).

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Dalla Madre Terra alla Landa selvaggia passando per il Leviatano https://www.carmillaonline.com/2021/05/12/dalla-madre-terra-alla-landa-selvaggia-passando-per-il-leviatano/ Wed, 12 May 2021 21:00:51 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=65879 di Sandro Moiso

Fredy Perlman, Contro la storia, contro il Leviatano, Bepress Edizioni, Lecce 2013, pp. 360, 18 euro

Ancor prima di parlare di questo libro, uscito ormai da diversi anni ma ancora disponibile presso l’editore e nella distribuzione on line, occorre parlare dell’autore: Fredy Perlman. Autentico Phileas Fogg1 del mondo della critica radicale della nostra civiltà, ancor più che del solo modo di produzione attuale, Perlman, nel corso della [...]]]> di Sandro Moiso

Fredy Perlman, Contro la storia, contro il Leviatano, Bepress Edizioni, Lecce 2013, pp. 360, 18 euro

Ancor prima di parlare di questo libro, uscito ormai da diversi anni ma ancora disponibile presso l’editore e nella distribuzione on line, occorre parlare dell’autore: Fredy Perlman.
Autentico Phileas Fogg1 del mondo della critica radicale della nostra civiltà, ancor più che del solo modo di produzione attuale, Perlman, nel corso della sua breve ma intensa esistenza (Brno, 20 agosto 1934 – Detroit, 26 luglio 1985), è stato influenzato da Guy Debord, Jacques Camatte, dal ’68 parigino cui ebbe modo di partecipare e dall’esperienza di contestazione, in loco, del socialismo titoista.

Ognuna di queste esperienze lasciò sicuramente un segno profondo nel suo pensiero e nelle numerose opere che ne derivarono ma, allo stesso tempo, nessuna di esse fu di per sé definitiva per l’autore, scrittore ed editore di origini ceche ma naturalizzato statunitense, oggi considerato uno dei padri ed ispiratori dell’anarchismo primitivista. Anche se certamente lo stesso avrebbe rifiutato, in vita, questa definizione insieme a tutte quelle che finissero in ista, a meno che non si trattasse, come ebbe a dire una volta, di violoncellista (da suonatore di violoncello quale era).

I suoi scritti e le sue opere sono state tradotte fuori dagli Stati Uniti in diverse lingue e in molti paesi ma questa, scritta nel 1983 e che pur rappresenta una sintesi della sua ricerca, è una delle poche tradotte in italiano. E ciò costituisce una grave pecca su cui torneremo alla fine di questa recensione/riflessione.

Contro la storia contro il Leviatano è un libro affascinante dal quale, una volta iniziata la lettura è difficile staccarsi. Rapisce l’attenzione e la mente nel suo delineare l’evoluzione della comunità umana da quella primitiva, non ancora ossessionata dal possesso e dalla produzione di plusvalenze, alla “civiltà” con l’imposizione di regole, norme e zek (il nome definirebbe i lavoratori coatti dei gulag staliniani e post-staliniani, ma l’autore in spregio alla fallimentare esperienza sovietica lo utilizza per tutti i lavoratori coatti o schiavi) destinati ad arricchire la stessa di beni in eccesso destinati a nutrire e mantenere prima i re e i monarchi, poi i sacerdoti e, susseguentemente, gli scribi e gli Ensi ovvero coloro che già in età sumerica rappresentavano gli interessi del monarca per godere a loro volta di privilegi.

E’ una narrazione che ci spiega come la Storia, nata al maschile con l’utilizzo della scrittura, soppianti poco alla volta la narrazione mitica condivisa del passato. Una narrazione orale che passava di generazione in generazione fondando orizzontalmente la comunità, diversamente dalla narrazione verticale e autoritaria che si imporrà con la nascita delle cronache scritte, destinate a narrare soltanto le verità del potere. Nel fare ciò Perlman usa un registro narrativo che sembra uscire, da un lato, dalla voce degli antenati e dalle loro forme, dimenticate e spesso “al femminile”, di memorizzazione e, dall’altro, dalle riflessioni sul discorso di “verità” su cui si fonderebbero la conoscenza e la memoria moderna così come lo analizzò Michel Foucault a partire dagli anni ’70.

E’ il registro preciso e semplice, ma allo stesso tempo immaginifico, usato dall’autore a coinvolgere il lettore, nonostante le contraddizioni o le semplificazioni in cui incorre nel corso della ricostruzione dell’avvento del Leviatano, destinato a sostituire la comunità umana con lo Stato, le leggi scritte (a beneficio di pochi e a garanzia della miseria dei più), le religioni rivelate e soprattutto la Madre Terra con quella ostile Landa Selvaggia, destinata ad essere combattuta e sottomessa, che sembra affermarsi con la visione del mondo apportata dal cristianesimo, ma non solo.

E’ un assalto selvaggio, radicale, incessante quello che Perlman conduce invece contro tutte le forme di potere istituzionalizzato, contro le religioni che hanno abbandonato l’animismo per rendere l’Uomo (si proprio lui, al maschile) nemico e dominatore della Natura (e conseguentemente della donna creatrice di vita); tanto contro il pensiero liberale del Capitalismo quanto contro la formalizzazione e la razionalizzazione della condizione umana “moderna” avvenuta non solo con l’Illuminismo ma anche attraverso il marxismo e lo stesso pensiero anarchico tradizionale.

Non si fanno sconti e la campagna promozionale del riciclaggio costante dell’esistente come unica forma di vita e di organizzazione viene mostrata per quella che è: una truffa, forse millenaria.
Iniziata quando le donne e, soprattutto, gli uomini iniziarono a perdere quel contatto con l’essenza del mondo che aveva caratterizzato per migliaia di generazioni l’esistenza della nostra specie sul pianeta. Quella sorta di silenzio/assenso nei confronti dell’universo che le circondava che era determinante ai fini di un equilibrio tra specie e Natura oggi definitivamente perso.

Era una coscienza convinta della nullità del singolo di fronte alla Natura, di cui la morte è parte integrante, che è abitata però da forze vive e potenti destinate a riflettersi nelle azioni degli esseri umani finché questi non accettino, per forza, costrizione o convinzione di diventare zek, molle e ingranaggi di una macchina che procede distruggendo tutto quanto la circonda nella finzione del benessere assicurato per tutti. E di cui anche i monarchi, i potenti, i borghesi di oggi e di ieri non sono altro che ubbidienti meccanismi che, in ogni caso, possono essere rapidamente sostituiti con ricambi dello stesso tipo.

Una forma di conoscenza collettiva che obbligava le comunità umane a compiere riti e sacrifici propiziatori destinati a ingraziarsi e rabbonire le forze che le sovrastavano e le divinità che le rappresentavano; oggi sostituiti dal rito del consumo, destinato a celebrare ed eternizzare il capitale nel tempio del mercato, di cui i primi celebranti sono i lavoratori schiavizzati/zek succubi della sua forza e del suo fascino pestifero. Un rito crudele e insensato in cui il prodotto del lavoro in eccesso viene riacquistato e consumato dagli schiavi contenti di ciò. Schiavi ridotti ormai soltanto a contendere ai padroni, e a contendersi tra di loro, un ulteriore surplus di prodotto in cui affogare le proprie vite. Sia nei grandi centri commerciali o cittadini, sia nel mondo virtuale della new economy globalizzata.

Ci mostra Perlman una società che, convinta di essere creativa e fantasiosa, ha in realtà perso gran parte della creatività e della fantasia collettiva che avevano caratterizzato quelle legate alla Natura, finendo col produrre un immaginario individuale e collettivo sempre più miserabile e ristretto. Una società che ha chiamato “luce” la cecità e ha finito col definire ignoranza ogni forma di sapere e conoscenza precedente. Non c’è simpatia per il Rinascimento e i suoi “uomini” in Perlman e tanto meno ne avrebbe oggi nei confronti degli apprendisti scienziati-stregoni che si muovono autoritariamente intorno al Covid, più simili ai bianchi che distribuivano coperte infettate con il vaiolo tra i nativi americani che non ai medici che vorrebbero essere (almeno a parole).

Quello dell’autore americano è un discorso che stride e ancor più spesso urta con le nostre convinzioni, anche con quelle che si pensano più radicali, ma, sia ben chiaro, che non può essere nemmeno digerito in qualsiasi contesto new age o politically correct. E’ un discorso altro, non privo di debolezze intrinseche, ma con cui vale la pena di fare i conti. Anche oggi, mentre la vita viene pian piano spenta dal dio morto del denaro e del profitto. Così come in altre epoche gli dei vivi e vivaci, burloni, feroci e rissosi legati alla Natura furono sostituiti da un dio tetro e morto crocifisso.

Un Dio morto che proclamava «Io sono la vita e la luce» nello stesso momento in cui diffondeva la paura della vita e dei suoi istinti, per rimandare il tutto ad una vita incorporea dopo il buio della Morte della carne, unica vera depositaria della nostra vitalità materiale ed intellettiva.
Non sembri fuori luogo, a questo punto, contrapporre con insistenza Vita e Morte all’interno del discorso sull’evoluzione della società umana e delle sue istituzioni statali, poiché tra le fonti di ispirazione di Perlman vi è proprio l’opera di Norman Brown (La vita contro la morte) che ha segnato, insieme ad Eros e civiltà di Herbert Marcuse, il pensiero anti-repressivo degli anni Sessanta2.

Questa ricerca della vita spinse lo stesso Perlman non solo a girare il mondo in compagnia della moglie Lorraine Nybakken, attuale custode delle sue memorie e continuatrice della sua opera editoriale3, a caccia di esperienze e conoscenze, ma anche a far parte per un periodo del Living Theatre, durante il quale scrisse The New Freedom, Corporate Capitalism e la pièce teatrale dal titolo Plunder.

Ma Perlman fece anche parte del gruppo che fondò la Detroit Printing Co-op e le pubblicazioni della Black and Red, di cui fu l’editore, furono stampate lì, insieme ad altri progetti che andavano dai volantini ai giornali ai libri. Per diversi anni, Perlman fu membro degli Industrial Workers of the World e negli anni Settanta lavorò a diversi libri, sia originali che traduzioni, tra cui la Storia del movimento machnovista di Pëtr Andreevič Aršinov, La rivoluzione sconosciuta di Volin e testi di Jacques Camatte.

Contro la storia contro il Leviatano è un libro da leggere e meditare, anche nelle parti che meno potrebbero convincerci ad una prima lettura (e magari anche ad una seconda), che rivela un autore che forse varrebbe la pena di pubblicare in maniera più consistente anche qui da noi. Numerose sono infatti le sue opere derivate dalle esperienze colte nel suo girovagare e riflettere intorno al mondo e alla vita. Tra tutte, potrebbero essere di interesse per il pubblico italiano: La riproduzione della Vita Quotidiana (The reproduction of daily life,1969) e Il fascino ininterrotto del Nazionalismo (The continuing appeal of Nationalism, 1984), entrambe pubblicate in Italia per Chersi libri nel 2006 con il titolo L’eterna seduzione del nazionalismo. In particolare nella seconda l’autore sostiene che qualsiasi tipo da nazionalismo, sia di destra che di sinistra, è indirizzato al controllo della Natura e delle persone e destinato a sfociare, sia quand’è progressista che conservatore, nel razzismo, nella guerra e nel genocidio.


  1. Phileas Fogg è il protagonista del romanzo d’avventura Il giro del mondo in 80 giorni di Jules Verne.  

  2. Norman O. Brown, La vita contro la morte. Il significato psicoanalitico della storia, Adelphi, Milano 2002 (prima edizione italiana 1971)  

  3. Autrice anche della biografia del marito: Lorraine Perlman, Having Little Being Much. A Chronicle of Fredy Perlman Fifty Years’s, Black and Red, Detroit (Michigan) 1989.  

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Don’t cry for me Babylonia https://www.carmillaonline.com/2020/05/08/dont-cry-for-me-babylonia/ Fri, 08 May 2020 21:04:44 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=59898 di Franco Pezzini

Claudia Salvatori, Semiramide, Epika, Loc. Castello di Serravalle, Valsamoggia BO 2020

“Sembra necessario un vasto assortimento di menzogne per arrivare a comporre una specie di verità su qualcuno”: così l’autrice spiega la scelta quasi teatrale di quattro voci e punti di vista differenti per narrare la storia di un personaggio che sfugge a ogni presa certa. Fino a lasciarsi percepire nella messe di citazioni (classiche e non) solo in forma parziale, deformata, e tra infiniti distinguo come riflesso in frantumi d’uno specchio anamorfico. Cioè quella leggendaria regina assira Semiramide che [...]]]> di Franco Pezzini

Claudia Salvatori, Semiramide, Epika, Loc. Castello di Serravalle, Valsamoggia BO 2020

“Sembra necessario un vasto assortimento di menzogne per arrivare a comporre una specie di verità su qualcuno”: così l’autrice spiega la scelta quasi teatrale di quattro voci e punti di vista differenti per narrare la storia di un personaggio che sfugge a ogni presa certa. Fino a lasciarsi percepire nella messe di citazioni (classiche e non) solo in forma parziale, deformata, e tra infiniti distinguo come riflesso in frantumi d’uno specchio anamorfico. Cioè quella leggendaria regina assira Semiramide che sgomita nei panni di ogni preciso modello storico: e parlare della quale non si riduce a un dato di erudizione archeologica o alla trattazione di un qualunque capitolo – il che sarebbe divertente ma un po’ facile – dell’infinita galleria delle vamp. In sostanza c’è qualche buon motivo in più.

Ma iniziamo con ordine (e un cicinin di spoiler, il lettore è avvisato). Claudia Salvatori non è una scrittrice di romanzi storici qualunque, di quell’“usato sicuro” – ce n’è in ogni genere narrativo – che confeziona con giuliva soddisfazione stereotipi per un pubblico in cerca di sicurezze: i suoi protagonisti sono sempre fuori dagli schemi, persino dagli schemi della classica provocazione, sempre scomodi fino a sfidare la comprensibilità a uno sguardo moderno. O meglio a uno sguardo indisposto a inseguirli tra categorie del loro tempo e che insieme lo varcano, restando non scontate.

Ed è un’autrice che queste scelte le ha pagate di persona, oltretutto senza giocare su un proprio personaggio (che pure potrebbe avere, Sergio Altieri era affascinato dalla visionarietà della sua scrittura) ma tenendosi nell’ombra di una vita appartata. Sceneggiatrice di più di un centinaio di fumetti con grandi case editrici – incluse Disney e Bonelli –, storyliner per la Dino de Laurentiis Company, autrice di thriller convincenti ma anche di saggi raffinati, ha prodotto per Mondadori una serie di romanzi storici dai climi febbricitanti, di ricca cultura ma anche (non scontata) eleganza stilistica: tra i quali Il mago e l’imperatrice dove rilegge la figura della malfamata Messalina (2010), il torbido e bellissimo affresco Il sole invincibile su Eliogabalo (2011), e Il cavaliere d’Islanda nell’Europa allucinata della crociata contro i catari (2012).

Non stupisce dunque la scelta di misurarsi ora con un’altra figura dai mitici eccessi. Se l’abbinata tra un Femminile fascinoso e temibile (soggetto a infiniti tentativi di addomesticamento nonché stigmatizzazione di cattivi esempi) e un Oriente stereotipico corre nella letteratura occidentale fin dagli inizi attraverso un’intera categoria di volti eccellenti – cfr. qui e qui –, proprio Semiramide sembra incarnarne l’ambiguità al massimo livello. Di Medea, Cleopatra, Zenobia, Angelica, Salomè, Salammbô, Turandot, eccetera possiamo disporre di ritratti, sfuggenti quanto si vuole, ma dai connotati canonizzati almeno attraverso singoli filoni interpretativi. Per Semiramide, al contrario, che pure è stata oggetto di non poche opere (liriche in particolare, ma non solo), la gran massa dei richiami si consuma in citazioni che di lei raccontano qualsiasi cosa, in positivo come in negativo, purché nel segno dell’eccesso. Una sorta insomma di personaggio-sciame – interessante anche la sua associazione ai più vari luoghi dell’Oriente, quasi a mapparlo tutto – che persino più di altri interpella paradigmaticamente le nevrosi e i tic, i pregiudizi e le fantasie di un Occidente ancora al tempo dei social largamente patriarcale.

Parlare insomma di una simile figura di donna volitiva e dotata di ambizioni in un mondo largamente gestito dagli uomini (almeno su ciò non sussiste equivoco) avrebbe potuto condurre un’autrice meno colta e problematica a inventare un profilo facilmente romantico, idealizzato e convenzionale di eroina, in cui le lettrici pop potessero riconoscersi senza sforzo. Claudia Salvatori non fa nulla del genere: e, beninteso, non perché non si possa avvertire una solidarietà con la sua protagonista. Ma perché questa – capace di grandezze e fantasie visionarie di genio, ma anche errori e limiti – non è un bozzetto di maniera, e il personaggio viene costruito tenendo conto delle maschere paradigmaticamente contraddittorie che ne sono state offerte. Maschere collazionabili alla grossa nei tre filoni del mito, della storia – che identifica l’eroina in Sammuramat, reggente dell’Assiria nel periodo 811-808 a.C. – e delle biografie romanzate antiche: anche se attraverso esse si ricerca in chiave almeno possibile un quarto volto, di donna concreta che sfida i paradigmi di un’epoca. Ecco il perché dei quattro testimoni che a turno, in più passaggi, salgono in palcoscenico.

Anzitutto la nuora-rivale Tasbe, che attraverso una lettura demonizzata della donna Semiramide – che detesta e invidia – ne coglie anche qualche più sottile e umanissima ambiguità:

 

Ma lei non godeva soltanto la bellezza. Ricordavo bene con quale piacere riceveva postulanti assiri, babilonesi e stranieri e si faceva baciare i piedi. Era quella la sua debolezza, era quello il suo difetto. Voler essere come un Faraone d’Egitto.

Mi sono fatta avanti, forte di questa scoperta, e le ho parlato guardandola negli occhi.

«Perché dovresti possedere qualcosa, se sei una dea e già ogni cosa è tua, in cielo come in terra? Tuo è il potere e la gloria. Il po­tere è un’idea, la gloria è un’idea. E tu sei la Regina delle idee!»

Lei ha mantenuto tutta la sua dignità, ma per un istante ho visto un dubbio, un cedimento, una piccola ferita nelle sue pupille.

Avevo riportato finalmente una vittoria. (p. 144)

 

A Tasbe sono affidate la prima scena, un felicissimo esordio con il ritmo solenne delle iscrizioni assire, e poi anche l’ultima, una sorta di epifania che illumina il mistero del personaggio Semiramide senza esaurirlo.

Quindi la sacerdotessa e veggente Inanna, votata all’omonima Grande Dea, amica e casta innamorata per tutta la vita della sua regina. Inanna vede in lei una dimensione divina, e la riconosce abitata stabilmente dai Quattro Spiriti in mirabile armonia:

 

Per noi ilu è la parte maschile della persona umana, e lamassu quella femminile. Mentre sedu è la parte maschile del divino nell’anima, e ishtaru quella femminile. I quattro spiriti sono presenti in tutti noi, ma non contemporaneamente e insieme, se non forse in tarda età, per sag­gezza finalmente raggiunta o per una rivelazione al momento della morte.

Nel corso della vita ne prevale uno, a seconda se si sia più ma­schio o più femmina, o più legati alle attività terrene o a quelle spi­rituali. […]

Sono rarissime le creature in cui i quattro spiriti sono presenti e possono essere disciplinati come cavalli che conducono un unico carro.

E Semiramide era una di queste creature. (p. 32)

 

Ancora, il guerriero Samsilu, comandante in capo delle armate assire, unico – tra i quattro testimoni – a essere un personaggio storico documentato. Dove di nuovo l’autrice si smarca dalla vulgata (che abbiamo assorbito fin dai banchi di scuola), sugli Assiri protonazisti dell’antichità, sforzandosi insieme di mostrare un possibile punto di vista loro su tanta ferocia, e insieme il diverso stile di Semiramide e del suo comandante, l’ex-bambino ingegnoso che davanti ai generali basiti aveva suggerito un piano brillante per sconfiggere il nemico. Per lui Semiramide è la grande regina capace di spiazzarlo affrontando in singolar tenzone i re avversari, ma anche – lei che ama la pace – organizzando un’assurda spedizione contro l’India che finirà malissimo.

E infine (anche se formalmente appare per terzo) un vero e proprio trickster, testimone della finzione, del caos e insieme di quel senso che il caos può garantire in un kósmos più ampio. Mutarris è l’uomo seguito tutta la vita del demone ker della follia e della morte, e dunque destinato a una sorte peculiare (“I soli mestieri che può esercitare uno seguito dal demone ker, infatti, sono il sacerdote [ma solo i nobili], la prostituta, il cantante, il ballerino, l’acrobata, il buffone, se proprio non vuole occuparsi di funerali e sepolture”, p. 52): e, visto che è capace di imitare animali e uomini, s’inventa, sulla base delle voci sugli aedi del mondo egeo, qualcosa prima ignoto tra gli Assiri, cioè il mestiere di attore. Mutarris è colui che in battaglia s’era affiancato alla regina imitando i suoi movimenti come un’ombra, un mimo assurdo e paradossalmente efficace; e in seguito la imiterà paludato e truccato come lei in spettacolini lubrichi dove prende forma (immagina l’autrice) la maschera della Semiramide dalle mille e una notte di vizi.

 

Da quando infatti ho cominciato a imitarla sono diventato, se posso osare dichiararlo, il suo quinto spirito. Donna, uomo, dea e dio. Mancava a tanta perfezione uno spirito oscuro, quello che Semiramide vince ogni giorno e spedisce agli Inferi per apparire sempre radiosa: un mostro.

Lo sa bene anche lei, e per questo mi ha lasciato vivere. Sono stato l’unico disertore nella storia dell’Assiria a cui non abbiano infilato un palo dal buco del culo per farlo uscire dalla bocca. (p. 111)

 

Samsilu non capisce, come può Mutarris comportarsi così, lui che ama la regina? Ma è la funzione del trickster, e ancora alla fine si rivelerà prezioso.

L’immagine è dunque riflessa come in frammenti di specchio, che il lettore tra fratture, deformazioni e polverizzazioni di storie cerca di recuperare. A suggerire qualcosa di una vertiginosa complessità di narrare il Femminile in una realtà che comunque resta sbilanciata su un altro polo; ma insieme la complessità di narrare una qualunque vita tra testimonianze difformi e silenzi fitti. E questa può rappresentare senz’altro una prima chiave di provocazione.

A cui però se ne lega strettamente un’altra. In tutto il romanzo il tema della fictio è continuo: la suggestione teatrale di testimoni diversi in palcoscenico, le maschere sociali con cui Semiramide gioca, il travestimento/travestitismo di Mutarris che entra in una dinamica di critica politica, e la finzione spesa persino sul campo (gli elefanti finti, teatrali, che purtroppo gli Indiani sgamano per il tradimento di qualcuno). Dove poco importa una plausibilità materiale, storica, dato invece il profondo senso simbolico.

Semiramide si muove così nello spazio mai e sempre – a livelli diversi – innocente della fictio, che gronda sottotesti immaginali; ma insieme della provocazione radicale sull’Homo fictus, “la grande scimmia con la mente narrativa” (Jonathan Gottschall, The Storytelling Animal, 2013: in Italia L’istinto di narrare, Bollati Boringhieri, 2018). Il romanzo storico – soprattutto quello che riguarda periodi lontani – è sempre finzione, nell’apparente traduzione delle nostre categorie in altri contesti, e che tuttavia continuano a parlare di noi. Ma la narrazione stessa della nostra vita, nell’ambito di quello sforzo di sensemaking (come lo definiva negli anni Settanta Karl E. Weick) teso a costruire qualunque storia come “collante sociale che unisce le persone attorno a valori comuni”, usa il linguaggio della fiction narrativa. Possiamo essere più o meno onesti nel conservare o tacere i grovigli irrisolti, nell’interpretare il tutto secondo coscienza, alla luce di categorie via via maturate e che ci sembrano buone. Ma la natura stessa ci impone di definirci identitariamente in termini narrativi, con quanto di costruzione/finzione e – perché no? – di visionarietà ciò comporti: non è un caso se le storie ci illuminano, ci curano o ci fregano, agiscono nel nostro profondo a livello personale e persino collettivo. Di tutto questo irresolubile e affascinante groviglio Semiramide (che “possedeva una capacità di immaginare, di disegnare col pensiero e realizzare quello che vedeva dietro agli occhi che nessuno di noi aveva”, p. 32) appare coi suoi quattro – o mille – volti un’icona efficace, provocatoria. E scusate se è poco.

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Ideologie del corpo. Sesso, Genere e Potere (1/2) https://www.carmillaonline.com/2016/02/03/ideologie-del-corpo-sesso-genere-e-potere/ Tue, 02 Feb 2016 23:00:24 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=28421 di Raùl Zecca Castel

1558_ 0161 – Mito

È parte costitutiva di un thesaurus mitografico pressoché universale l’idea che alle origini del creato, in un tempo coevo o immediatamente successivo all’atto cosmogonico, la natura umana fosse sessualmente indifferenziata, o, almeno, che oltre al maschile e al femminile, esistesse un essere qualitativamente androgino, che partecipasse dunque sia del carattere maschile che di quello femminile. A titolo esemplificativo, nel quadro di uno tra i vari miti d’origine fondativi dell’immaginario occidentale, si pensi al racconto che Platone affida ad Aristofane nel Simposio, [...]]]> di Raùl Zecca Castel

1558_ 0161 – Mito

È parte costitutiva di un thesaurus mitografico pressoché universale l’idea che alle origini del creato, in un tempo coevo o immediatamente successivo all’atto cosmogonico, la natura umana fosse sessualmente indifferenziata, o, almeno, che oltre al maschile e al femminile, esistesse un essere qualitativamente androgino, che partecipasse dunque sia del carattere maschile che di quello femminile. A titolo esemplificativo, nel quadro di uno tra i vari miti d’origine fondativi dell’immaginario occidentale, si pensi al racconto che Platone affida ad Aristofane nel Simposio, dove il celebre commediografo greco narra di primordiali tipi umani dotati di quattro braccia, quattro gambe, due volti, due organi sessuali, e così via lungo la descrizione di un essere morfologicamente bisessuale, successivamente diviso in due metà complementari a colpi di saetta da Zeus, preoccupato da quella che considerava una potenziale minaccia alla superiorità sua e degli dèi tutti.

Altrettanto diffusa nel mito, inoltre, sembra essere quella che Gabriella D’Agostino ha definito “una situazione di diseguaglianza a favore del femminile ribaltatasi successivamente a causa di un comportamento scorretto o incapace da parte delle donne”[1]. Si ha qui l’irrompere sulla scena mitografica del tema della colpa [2] – e del conseguente castigo – quale espediente ideologico per legittimare la Storia: allo stesso tempo giustificazione ancestrale di una gerarchia sociale fondata sulla subordinazione del femminile al maschile e sorta di esorcismo nei confronti della paura che accompagna il pensiero di un originario assetto ginecocratico della società.

Relativamente a quest’ultimo aspetto, un altro mito classico, poi declinato in diversi ambiti geografici e storici, accorre in nostro aiuto. Si tratta del mito delle Amazzoni, donne guerriere che sia Omero che Erodoto collocano ai margini delle terre civilizzate, oltre i confini del mondo greco, “figure – afferma D. Bigalli – che abitano le zone liminari, si insediano nei confini, denunciano la ambiguità della frontiera, insieme baluardo, gesto di esclusione, e il luogo dell’attraversamento, del passaggio”[3]; attraversamento e passaggio che non si realizzano esclusivamente lungo i confini di mondi territoriali diversi e contrapposti, ma che interessano soprattutto i confini rassicuranti delle identità di genere. Ecco che l’amazzone esita su questa soglia pericolosa a metà strada tra il maschile ed il femminile: priva di un seno (a-mazós), ella si dedica al virile mestiere bellico, stretta in un’armatura da guerra che ne cela, annullandola, l’identificazione sessuale. L’amazzone rappresenta il simbolo di una sfida che costantemente rievoca e rinnova “la consapevolezza della presenza di un arcaico femminile, terribile soprattutto perché si esprime nell’assunzione, da parte delle donne, di una funzione squisitamente maschile, quella guerriera; questa presenza, che muove dagli abissi del tempo, è venuta delineando il quadro dell’Ecumene classica, nella quale l’espansione ellenica assume insieme i contorni di un processo di civilizzazione e di un processo di sostituzione del regime maschile, patriarcale, a quello matriarcale, dove l’amazzonismo, giusta la interpretazione bachofeniana, si vuole la forma estrema della ginecocrazia”[4].

Allo stesso modo, la trasposizione del mito amazzonico in terra d’America associa la figura autorevole e minacciosa della donna combattente ad un luogo ostile e in-definito come quello della foresta pluviale – foresta amazzonica, per l’appunto -, densa di pericoli e misteri insondabili che assumono da un lato le sembianze orrorifiche di una fauna mostruosa dedita a pratiche antropofaghe, ma che dall’altro alimentano la leggenda di El Dorado, l’ambita città d’oro e diamanti. Ancora una volta, dunque, la figura sfuggente e ambigua della donna-uomo che sovverte le presunte identità di ruolo stimola l’immaginario umano – maschile – evocando allo stesso tempo le paure e i desideri più reconditi. Per quanto la maggior parte delle volte il femminile venga associato esclusivamente al polo negativo di ogni formulazione dicotomica, tale ambivalenza trova ad ogni modo una sua spiegazione nel fatto significativo per cui “nell’immaginario classico la figura del popolo amazzonico si venisse a inserire in una costellazione di coppie oppositive, a partire da quella fondamentale maschile/femminile, per coniugarsi ad altre, quali giorno/notte, barbarie/civiltà, stabilità dell’insediamento umano/nomadismo”[5]. A tal proposito risulterà proficuo il riferimento al saggio del 1974 di Sharry Ortner dall’eloquente titolo Is Female to Male as Nature is to Culture?[6]. In questo scritto, difatti, l’autrice osserva come sia comune a tutte le culture l’idea per cui la donna è ritenuta più vicina alla natura di quanto lo sia l’uomo. Ciò a causa delle funzioni riproduttive proprie della fisiologia femminile che avrebbero imposto alla donna ruoli sociali di ambito esclusivamente domestico, lasciando agli uomini la possibilità di occuparsi della politica, qui intesa nella sua accezione più ampia di res publica. Ecco allora che la varietà delle coppie oppositive più sopra menzionate può ricondursi alla dicotomia fondamentale tra natura e cultura. Sempre lungo tale prospettiva si colloca dunque anche il discorso di M. Rosaldo[7] che si esprime nella divisione tra privato e pubblico, dove il primo definirebbe evidentemente il raggio d’azione delle donne ed il secondo quello degli uomini. È a partire dalla constatazione di tale universale associazione della donna alla natura e dell’uomo alla cultura, infine, che secondo entrambe le autrici avrebbe origine la gerarchizzazione dei sessi.

Un altro aspetto significativo per il discorso che si viene qui delineando rispetto all’amazzone, ma più in generale rispetto all’immagine simbolica di un corpo monosessuato, androgino o sessualmente ambiguo, riguarda il tema del travestimento. Per un verso, la pratica di abbigliarsi secondo i canoni di riferimento del sesso opposto, in particolar modo per le donne, ha storicamente assunto un valore che si potrebbe definire di tipo politico in quanto costituiva ed organizzava un’occasione eversiva nei confronti del nomos. Le donne andavano così ad occupare “uno spazio altro, quello della liberazione e della fuga. La foresta, il mare, il deserto, il monastero, la città, la corte, i luoghi della separazione conclamata o del contratto, della solitudine o del consorzio civile, assecondano questo processo di metamorfosi mutando anch’essi insieme all’identità in movimento delle foemine masculiate”[8]. Si rende di nuovo evidente, così, il forte nesso che unisce l’ambiguità sessuale, ora espressa attraverso il sovvertimento delle regole d’abbigliamento relative all’identità di genere, all’immagine del transito, del passaggio, anche geografico. Introducendo una distinzione tra il fenomeno del travestitismo temporaneo e quello permanente, G. D’Agostino ha rilevato come nel primo, caratteristico di particolari situazioni rituali, si attui una “sospensione circoscritta al tempo del rito, dell’ordine biologico, sociale e culturale su cui una comunità fonda il proprio equilibrio, che finisce con il ribadire l’identità tra fatto biologico e fatto sociale”[9]. Così, l’assumere provvisoriamente le sembianze del sesso opposto indossandone gli abiti ed accettandone il significato, costituirebbe in questo caso un espediente sociale teso a confermare e rafforzare la propria vera identità sessuale, oltre che a ribadire l’ordine complessivo dell’esistente.  Di contro, nel travestitismo permanente, tale dimensione sospensoria dell’ordine biologico e cosmico si traduce in una condizione definitiva che trova il suo scopo nell’affermazione di una nuova identità personale e che, parallelamente, attua una sovversione dell’ordine politico prestabilito.

Per altro verso, il travestitismo rimanda a quella concezione mitico-religiosa del corpo ermafrodito tipica delle speculazioni cosmogoniche cui si faceva più sopra riferimento e che evoca la dimensione del divino quale perfezione assoluta, intesa etimologicamente nei termini di ciò-che-è-compiuto, completato, o meglio, che ha raggiunto il suo scopo: in questo caso la presunta unione primordiale del maschile e del femminile, quell’unione così idealmente pericolosa agli occhi di Zeus. Rispetto alle diverse forme di travestimento rituale, dunque temporaneo, lo storico delle religioni Mircea Eliade ha scritto che la loro funzione consiste infatti nel “ripristinare una situazione originaria, trans-umana e trans-storica perché anteriore alla costituzione della società umana […] onde restaurare, anche per un solo istante, la totalità iniziale, la sorgente intatta della sacralità e della potenza”[10]. Non a caso, simbolo per eccellenza del travestimento, è la maschera. Questa, lungi dal ridursi semplicemente all’accezione negativa del termine quale sinonimo di nascondere ed occultare, esprime invece, come ha avuto modo di osservare Károly Kerényi, il segno arcaico della soglia tra natura e cultura: evocando il pre-umano evoca il divino[11].

All’interno del quadro concettuale del travestitismo e più in generale dell’ambiguità androgina quale indizio della perduta unità divina può essere significativo anticipare ora come nella tradizione indigena nordamericana la figura del travestito omosessuale (berdache) goda di uno status sociale particolarmente beneficiato in quanto la sua condizione ambivalente – maschile e femminile – è ritenuta espressione di un’umanità superiore, più vicina all’essenza degli dèi[12].

Ciò che preme qui mostrare, infine, è che l’idea di una sessualità umana ambigua, difficilmente riconducibile al paradigma binario del maschile e del femminile, ha attraversato i tempi e le culture, incarnandosi non solo nei più diversi miti d’origine e nelle varie leggende storiografiche, ma anche nel pensiero scientifico, specialmente in campo medico, e, ben più concretamente, in alcuni resoconti etnografici divenuti ormai celebri per aver dato luogo ad accesi dibattiti tra e biologi ed antropologi.

1.1 – Scienza

Hermaphroditos_anasyromenos_statuetteIn un noto saggio di Thomas Laqueur dato alle stampe nel 1990 e intitolato Making Sex: Body and Gender from Greeks to Freud[13], il sessuologo americano ha inteso ripercorre la storia relativa al mutamento della rappresentazione del corpo e della sessualità in Occidente a partire dalla Grecia antica sino al diciottesimo secolo, quando, a tal proposito, si sarebbe verificato un radicale cambiamento di paradigma: se fino a questo momento vigeva difatti una concezione del corpo che Laqueur ha definito come one-sex model, vale a dire come di un corpo anatomicamente monosessuato, che trovava le sue radici teoriche da un lato nella filosofia aristotelica e dall’altro nella medicina galenica, ora si imponeva invece la nuova visione di un corpo bisessuale – two-sex model -, che si appropriava della teoria dimorfistica come di un’arma ideologico-clinica contro le deviazioni della presunta natura umana. Si veda qui l’indagine circa la figura dell’ermafrodita condotta da Foucault rispetto proprio all’avvento di una scienza del corpo quale dispositivo politico-giuridico: “gli ermafroditi furono dei criminali, o dei figli del crimine, poiché la loro disposizione anatomica, il loro stesso essere confondeva la legge che distingueva i sessi e prescriveva la loro unione”[14]. Come dimostrano le strane confessioni di Herculine Barbin, le conseguenze di tale prospettiva sono inevitabilmente traumatiche e talvolta anche drammatiche, tanto da trovare, in questo caso, i loro ultimi effetti in un tragico suicidio. Sempre Foucault ha notato come solo una lettura mitica del proprio destino abbia in qualche modo consolato la tormentata adolescenza di Herculine per oscillare continuamente “tra uno stato di immedicabile scoramento e l’orgogliosa affermazione della preminenza connessa a una duplice e perciò più ricca e privilegiata natura. […] diversità che è al tempo stesso destino e elezione […], oscura reminiscenza della sferica perfezione dell’essere primordiale che, riunendo in sé i caratteri e le facoltà dell’uomo e della donna, aveva nel cosmo una posizione di semindivina autorità e potenza”[15].

Nel merito del discorso circa il valore ideologico che sottende qualsivoglia espressione concettuale (sapere-potere), è significativo notare come già con Galeno (129 – 216), nonostante l’idea di un corpo sostanzialmente monosessuato, fosse comunque in atto una forte discriminazione gerarchica tra il maschile ed il femminile. Si fa riferimento qui alla tesi per cui la donna fosse un uomo mancato, vale a dire un corpo imperfetto. Sulla scorta della teoria tetraumorale formulata da Ippocrate, Galeno postulò che fosse una minore presenza di calore vitale la causa della non fuoriuscita del pene nelle donne. Questo perché l’anatomia umana era intesa in termini di unicità sessuale, dunque la differenza tra il corpo femminile e quello maschile consisteva unicamente nel fatto che il primo era il rovescio, l’inversione, del secondo. Di qui la logica possibilità per le donne che per via di qualche movimento eccessivamente energico o calorico si verificasse l’insorgenza dei genitali maschili. Possibilità avvalorata peraltro da due testimoni d’eccellenza come il chirurgo Ambroise Paré e il filosofo Michel de Montaigne, i quali riportano – quest’ultimo nel suo Journal de voyage – il caso di tale Marie improvvisamente divenuta Manuel. Ancora in epoca tardo-rinascimentale, dunque, vigeva una rappresentazione sessuale del corpo di tipo unitaria, ma soprattutto, come dimostra l’esempio appena accennato, si riteneva che il genere potesse agire un forte influsso sul sesso, tanto che agli uomini e alle donne era richiesto di prestare molta attenzione alle proprie attitudini e al proprio stile di vita, al fine che si conformassero il più possibile con quelli che erano ritenuti i rispettivi codici di comportamento ideale previsti dalla società del tempo. A ragione Massimo Rizzardini scrive che “di fronte al rischio di un’identità in perenne movimento, almeno fino al 1600 era fondamentale esercitare un controllo sul genere a garanzia del mantenimento di un ordine sociale prestabilito. La politica dei ruoli investiva di conseguenza la sfera della sessualità”[16].

È perciò ancora una volta evidente come non solo il mito, ma anche il pensiero filosofico-scientifico, facciano parte di un più vasto sistema ideologico funzionale alla Storia, teso a legittimarne, più o meno implicitamente, l’ordine arbitrariamente gerarchico e discriminatorio che, fino ad oggi, ne ha scandito il ritmo e il destino.

1.2 – Etnografia

Che la rappresentazione del corpo e della sessualità risulti variabile e mutevole a seconda dei diversi contesti culturali è un concetto antropologico ormai acquisito, anche se comunemente ancora troppo spesso trascurato, almeno per quanto riguarda le implicazioni filosofiche che ne procura l’emergenza e che inviterebbero a riflessioni molto più profonde e problematiche sia rispetto al tema generale dell’adeguatezza e della validità dei vari metodi relativi all’indagine gnoseologica, dunque riguardo alla questione circa la condizione di possibilità della stessa, che rispetto alla tema particolare, nonché qui di nostro interesse, dell’assenza di un universale umano, di una natura umana data. Come hanno documentato i casi etnografici che ci apprestiamo a menzionare, il significato che il corpo e la sessualità rivestono, o hanno rivestito, al di fuori della cultura occidentale sono estremamente rivelativi a proposito della riflessione qui in corso.

È così che tra gli Inuit dell’Artico vige la credenza per cui ogni nuovo nato è la reincarnazione dell’anima di un progenitore. Spetta allo sciamano il compito di annunciarne pubblicamente l’identità affinché l’individuo sia allevato in conformità a tale rivelazione. Non è cosa insolita dunque che un bambino anatomicamente maschio venga vestito con abiti femminili ed educato a comportarsi secondo i principi ed i valori che sono ritenuti propri delle donne. Viceversa per una bambina la cui anima si crede appartenga ad un antenato maschio. È dunque evidente come in tale sistema culturale non sia la biologia a determinare l’identità di genere dell’individuo quanto piuttosto una concezione della metempsicosi significativamente profonda ed incisiva. Il fatto che una volta raggiunta l’età puberale gli individui debbano provvedere ad assecondare il loro sesso biologico riadattando il proprio ruolo di genere alla ritrovata identità anatomica, non toglie che la questione del rapporto sesso-genere, così come vissuta tra gli Inuit, stimoli una più ampia riflessione sui temi della natura e della cultura. A maggior ragione se si tiene conto, come dimostrato dalle ricerche condotte da Bernard Saladin d’Anglure presso le popolazioni Inuit, che taluni individui, detti sipinik, non accetteranno di riadeguare il proprio stile di vita al sesso biologico che è loro peculiare e continueranno così la loro esistenza nei panni del progenitore reincarnato.

inuit child 1927A parte il caso dei sipinik, tuttavia, l’omosessualità non è pratica comune tra gli Inuit. Al contrario: “il sesso biologico è associato alla riproduzione e al matrimonio, e pertanto all’eterosessualità”[17]. Non è così invece per molte popolazioni indigene che abitano le diverse isole della Melanesia. Qui, infatti, è diffusa la credenza che la responsabilità del sesso, del genere e del carattere degli individui sia da ascrivere a una serie di sostanze corporee quali soprattutto il sangue e lo sperma. Così, tra i Bimin-Kuskusmin della Nuova Guinea, “lo sperma maschile, i fluidi fertili femminili e il sangue mestruale formano gli elementi basilari con cui si costruisce l’essenziale natura psicobiologica della persona. Il genere è una parte invariabile di questa costruzione. La natura dei maschi e delle femmine si differenzia non soltanto in relazione alle caratteristiche morfologiche, ma anche in relazione alle capacità di ricevere, trasformare e trasmettere le sostanze stesse che li formano, così come di raggiungere equilibri distinti tra queste sostanze”[18]. Lo sperma in particolare è ritenuto veicolo privilegiato al fine di trasmettere la virilità alle generazioni più giovani da parte di quelle più anziane. Il ricorso alla fellatio omosessuale e la successiva inseminazione orale, dunque, è una consuetudine tesa a sancire la formazione della mascolinità. Per tale motivo, l’età più propizia è considerata quella che va dalla tarda infanzia sino alla pubertà. Tra i Sambia, popolazione papuense studiata da G. Herdt, la pratica dell’inseminazione orale ha inizio intorno ai sette anni e si protrae fino ai quattordici-quindici, età che segna il passaggio alla vita adulta. Da questo momento, i maggiori di quindici anni, ormai uomini, potranno a loro volta dedicarsi ad iniziare alla mascolinità i più giovani; almeno finché non prenderanno moglie ed avranno dei figli. Dopodiché le relazioni omosessuali saranno loro interdette. Alla stregua dei sipinik inuit, tuttavia, alcuni individui continueranno a prediligere i giovani maschi alle donne[19].

Per concludere, innumerevoli comunità indigene del Nord America hanno contato – e in alcuni casi continuano a contare ancora oggi – sulla presenza di una figura dall’ambigua identità di genere che è stata sommariamente definita con il termine di berdache, dal francese bardache (omosessuale passivo). Nota anche come due-spiriti o uomini-donna, si tratta, nella maggior parte dei casi[20], di individui che dal punto di vista anatomico dovrebbero appartenere alla categoria maschile, ma che, assecondando una diversa inclinazione psicologica, indossano abiti femminili e, con sufficiente approssimazione, svolgono mansioni che ad essi si confanno. Con sufficiente approssimazione, si diceva, poiché molto spesso, in realtà, la figura del berdache è interpretata quale espressione di uno status privilegiato: se per un verso non è né uomo né donna, per un altro è qualcosa di più sia dell’uno che dell’altra. Viene a configurarsi così per il berdache la peculiarità di riunire in sé qualità e virtù che gli consentono di accedere a ruoli straordinari e di grande prestigio[21] preclusi al resto degli individui della comunità.

I tre casi qui passati in rassegna, per quanto rappresentino validi esempi etnografici circa il carattere di costruzione socio-culturale dell’identità di genere, screditando così l’assunto principe del determinismo biologico per il quale il genere non sarebbe altro che una diretta conseguenza del sesso anatomico, lasciano tuttavia integra la teoria del dimorfismo sessuale. Resiste ancora, in qualche modo, l’idea che effettivamente viga una natura binaria del sesso anatomico. Paradossalmente, le specificità culturali appena sopra menzionate, ne costituirebbero in ultima analisi un’ulteriore prova, confermandone la verità. La nozione di “terzo sesso”, utilizzata di frequente per riferirsi ai trasgressori di genere[22], ed impiegata anche in riferimento al caso degli Inuit così come a quello del berdache indigeno nordamericano, non risulta perciò del tutto corretta. Ciò proprio per il fatto che il discorso è relativo al genere e non al presunto dato biologico, il sesso anatomico, che invece non viene messo in discussione. A titolo esemplificativo valgano qui le parole con cui H. Whitehead si è espressa rispetto a tale questione in merito al berdache nordamericano: “Nella maggior parte del continente, non si riteneva che il ‘parte-uomo, parte-donna’ fosse donna nelle ‘parti’ fisiologiche né che fosse costretto a fingerlo. Era sufficiente che facesse ciò che facevano le donne riguardo a occupazione, abbigliamento e contegno. Ciò determinava la componente femminile della sua identità proprio come l’anatomia determinava quella maschile e la mescolanza delle due dimensioni dava origine al suo status speciale”[23].

CONTINUA….(sabato 6 febbraio)

Note

[1] D’AGOSTINO, G., Introduzione, in ORTNER, S. B. & WHITEHEAD, Sesso e genere. L’identità maschile e femminile, Sellerio, Palermo, 2000, p. 13.

[2] Sul tema generale dell’individuazione nei termini di colpa cfr. CARBONE, M. et al., Divenire innocente, Mimesis, Milano, 2006.

[3] BIGALLI, D. et al., Amazzoni, sante, ninfe. Variazioni di storia delle idee dall’antichità al Rinascimento, Cortina, Milano, 2006, p. 4.

[4] Ivi, p. 6

[5] Ivi, p. 7

[6] ORTNER, S., “Is female to male as nature is to culture?”, in ROSALDO, M. Z. et al., Woman, Culture and Society, Stanford University Press, Stanford, 1972, pp. 67-87.

[7] ROSALDO, M. Z., “Woman, Culture and Society: a Theoretical Overview”. In ROSALDO, M. Z. et al., Woman, Culture and Society, Stanford University Press, Stanford, 1972.

[8] RIZZARDINI, M., “Dietro la maschera. Simbolo e metafora della donna mascoliata”, in BIGALLI, D. et al., op. cit., p. 121.

[9] D’AGOSTINO. G, Introduzione, in ORTNER, S. B. & WHITEHEAD, op. cit., p. 16.

[10] ELIADE, M., Mefistofele e l’androgine, Mediterranee, Roma, 1989, p. 103.

[11] Cfr. KERÉNYI, K., Miti e maschere, Einaudi, Torino, 1950.

[12] Vedi paragrafo 1.3.

[13] LAQUEUR, T., L’identità sessuale dai Greci a Freud, Laterza, Bari, 1992.

[14] FOUCAULT, M., Storia della sessualità. Vol. 1: La volontà di sapere, Feltrinelli, Milano, 2001, p. 38.

[15] FOUCAULT, M., Nota introduttiva, HERCULINE, B., Una strane confessione. Memorie di un ermafrodito presentate da Michel Foucault, Einaudi, Torino, 2007, pp. XI-XII.

[16] RIZZARDINI, M., “Dietro la maschera. Simbolo e metafora della donna mascoliata”, in op. cit., p. 125.

[17] BUSONI, M., Genere, sesso, cultura. Uno sguardo antropologico, Carocci, Roma, 2000, p. 23.

[18] POOLE, F. J. P., “La trasformazione della donna ‘naturale’. I capi rituali femminili e l’ideologia di genere presso i Bimin-Kuskusmin”, in  ORTNER, S. B. & WHITEHEAD, op. cit., p. 251.

[19] Cfr. HERDT, G. & STOLLER. R. J., Intimate communications: erotics and the study of culture, New York, Columbia University Press, 1990.

[20] In realtà non è una questione di statistica, quanto di status: “In gran parte del Nord America, non vi era una controparte femminile riconosciuta del berdache maschio. Eppure non sembra che le donne disposte e capaci di attraversare i confini sessuali siano state di numero limitato”, WHITEHEAD, H., “L’arco e la cinghia del fardello. Uno sguardo sulla omosessualità istituzionalizzata nel Nord America indigeno”, in ORTNER, S. B. & WHITEHEAD, op. cit., p. 187.

[21] “[…] come mediatore matrimoniale, mago in affari d’amore o guaritore di malattie veneree […] capo della sua casa natale, dal momento che la famiglia nutriva l’idea che la sua presenza garantisse loro ricchezza […] Si riferisce anche di funzioni rituali specializzate, come il taglio di un particolare palo di tenda rituale (Crow), o officiare alle danze degli scalpi (Papago e Cheyenne)”, ivi, p.185.

[22] Nell’accezione etimologica di “passare” e “attraversare” il genere cui fa riferimento H. Whitehead, dunque priva di connotazione morale. Cfr. ivi, p. 178.

[23] Ivi, p. 187.

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