Distopia – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 30 Apr 2025 21:35:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Viaggio al termine della città per rilanciare il “principio speranza” di un’utopia concreta https://www.carmillaonline.com/2024/06/25/viaggio-al-termine-della-citta-per-rilanciare-il-principio-speranza-di-unutopia-concreta/ Tue, 25 Jun 2024 20:00:40 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=82782 di Gioacchino Toni

Leonardo Lippolis, Viaggio al termine della città. Le metropoli e le arti nell’autunno postmoderno (1972-2001), elèuthera, Milano 2024 (I ed. 2009), pp. 184, € 16,00

La prefazione alla nuova edizione di Viaggio al termine della città di Leonardo Lippolis si apre richiamando la scena del film Jubilee (1978) di Derek Jarman che mostra, in una periferia londinese in abbandono, tre giovani punk appoggiati ad un muro di cemento su cui è tracciata a spray la scritta “post modern”. Alcuni dei paesaggi urbani scelti da Jarman sul finire degli anni Settanta per mettere in scena lo sgretolamento sociale e [...]]]> di Gioacchino Toni

Leonardo Lippolis, Viaggio al termine della città. Le metropoli e le arti nell’autunno postmoderno (1972-2001), elèuthera, Milano 2024 (I ed. 2009), pp. 184, € 16,00

La prefazione alla nuova edizione di Viaggio al termine della città di Leonardo Lippolis si apre richiamando la scena del film Jubilee (1978) di Derek Jarman che mostra, in una periferia londinese in abbandono, tre giovani punk appoggiati ad un muro di cemento su cui è tracciata a spray la scritta “post modern”. Alcuni dei paesaggi urbani scelti da Jarman sul finire degli anni Settanta per mettere in scena lo sgretolamento sociale e urbanistico, insieme al frantumarsi delle speranze popolari postbelliche per un futuro, se non radioso, almeno decente, a distanza di pochi decenni sono stati gentrificati sulle macerie di una working class a cui è stata preclusa l’identità collettiva. Occorre riconoscere che l’Iron Lady dai capelli cotonati insediatasi al 10 di Downing Street non si è limitata a vaneggiare messianicamente della “fine della società” ma, per raggiungere lo scopo, non ha mancato di arrotolarsi le maniche dei suoi eleganti ed impettiti tailleur per smembrare a colpi di mannaia gli ultimi brandelli di un tessuto sociale ormai lacero.

Non poteva essere la scena punk londinese, condannata a venire velocemente recuperata e ridotta a patinato fenomeno di consumo per turisti, a scrivere la colonna sonora del funerale di quella civiltà urbana mostrata agonizzante dal film di Jarman; al requiem ha provveduto l’universo musicale post-punk delle vecchie città industriali del nord, come Manchester e Sheffield , città che hanno conosciuto la durezza e la violenza della rivoluzione industriale e che, in apertura degli anni Ottanta, ai figli della working class e della piccola borghesia hanno potuto offrire soltanto alienazione, inquietudine e smarrimento1.

L’associazione tra il concetto di postmoderno e la sensazione di una civiltà urbana al collasso suggerita da Jarman rappresenta una sintesi efficace di quel “viaggio al termine della città” condotto da Lippolis per indagare la crisi della metropoli e dell’immaginario di un’epoca in via di dissoluzione. Lo studioso delimita simbolicamente il crepuscolo di quella civiltà tra due crolli: la distruzione nel 1972, per volontà degli abitanti, del complesso residenziale razionalista di Pruitt-Igoe a Saint-Louis realizzato da Minoru Yamasaki, e l’abbattimento terroristico delle Twin Towers newyorkesi progettate dal medesimo architetto. È in questo lasso di tempo che, secondo lo studioso, è maturata «la sensibilità di un nuovo tramonto dell’Occidente, ben leggibile proprio attraverso la percezione della vita delle grandi metropoli occidentali» (p. 28).

Lippolis propone dunque una lettura della fine della civiltà urbana e delle sue utopie ricorrendo alle categorie della distopia e dell’eterotopia. Ad arginare il diffondersi, sul finire degli anni Settanta del secolo scorso, della improduttiva sensazione di no future, ha provveduto il mito Smart City con cui il capitalismo ha saputo abilmente rispolverare la categoria dell’utopia che si realizza, seppure per una esigua minoranza privilegiata imponendo ai più le banlieue, quando non le bidonville e gli slum.

Come la quarta rivoluzione industriale rivendica la propria filiazione dalle origini della civiltà delle macchine, cosi Smart City ripropone la stessa idea di vita e di felicità della città novecentesca, una macchina che deve aggiornare le risposte ai bisogni utilitaristici dell’uomo moderno: dalla città-fabbrica alla città-fabbrica digitale. In quanto prodotto dell’urbanizzazione capitalistica del mondo, la Smart City è programmata per continuare a distruggere i residui valori storici della vita urbana come luogo di convivenza, mutualismo, reciprocità e, a volte, democrazia diretta. Ciò che resta dell’agorà pubblica e della vita activa del cittadino inteso come animale politico si smaterializzerà sempre più nella solitudine interconnessa delle piazze virtuali e del distanziamento sociale, nella distrazione annoiata dei nuovi consumi gestiti dal capitalismo della sorveglianza (pp. 11-12).

Così come James G. Ballard ha mirabilmente messo in scena l’alienazione dello spazio urbano dell’ultimo scampolo di Novecento, Philip K. Dick ha saputo prefigurare le degenerazioni del capitalismo più avanzato che hanno condotto all’inospitalità e all’inabitabilità della Terra, alla disumanizzazione di una società ove la merce esercita un potere totalitario, narcotico e religioso, ai processi di ibridazione tra umani e macchine ed al ricorso all’intelligenza artificiale per controllare e sfruttare quel che resta del Pianeta e dell’umanità.

Le ambientazioni dei romanzi di Dick sono spesso città lugubri – mondi urbani terrestri intrisi di solitudine o tetre periferie di colonie extraterrestri –, luoghi in cui l’umanità, sottomessa a stati di polizia e regimi totalitari retti da grandi multinazionali, vive sonnambula e anestetizzata. In molti di questi ambienti urbani tutto e automatizzato e smart: veicoli volanti autopilotati che interagiscono con i passeggeri, case governate da sistemi di sensori e comandi vocali, elettrodomestici e computer comandati a gesti. Vere e proprie anticipazioni di Smart City che non riguardano solo l’hardware ma anche il suo software: la polizia predittiva, al centro del racconto Rapporto di minoranza da cui e tratto il film di Spielberg, è diventata realtà nei dipartimenti di polizia di mezzo mondo che, in attesa dei precog, per prevenire i reati si affidano all’intelligenza artificiale e ai big data.
Dick associa dunque la catastrofe ambientale, sociale e mentale dell’umanità tardocapitalista a un futuro urbano ipertecnologico, con un’insistenza che suggerisce un significativo nesso di causalità. Questa compensazione di una vita ridotta a sopravvivenza tramite illusioni sensoriali e protesi tecnologiche illumina Smart City come surrogato digitale della città novecentesca (pp. 14-15).

Attraverso sapienti riferimenti cinematografici, musicali e letterari, il viaggio di Lippolis tratteggia la città-fabbrica novecentesca, tetra ma conflittuale, e la luccicante, lobotomizzata Smart City, proponendo un percorso che attraversa la crisi della città come luogo di convivenza, mutualismo, reciprocità e, persino, di sperimentazioni di democrazia diretta, delineando un declino dell’immaginario urbano che sembra sancire la morte dell’agorà pubblica e il trionfo della “solitudine iperconnessa” delle odierne piazze virtuali, rivelatesi incapaci di offrire partecipazione reale ed agire politico trasformatore.

Mentre lo story telling dominante impone Smart City come “città radiosa” della quarta rivoluzione industriale, Viaggio al termine della città di Lippolis tenta di rilanciare un “principio speranza” che sappia opporsi tanto alla distopia del no future, quanto all’oblio digitalizzato.

In questo senso, se la fantascienza di Dick rimane una guida fondamentale per intuire la distopia che si proietta al di là degli schermi trasparenti di Smart City, dal punto di vista del pensiero politico occorre rilanciare il “principio speranza” di un’utopia concreta di cui parlava Ernst Bloch alla fine degli anni Cinquanta, unico antidoto al sentimento angosciante di no future annunciato già alla fine degli anni Settanta e oggi apparentemente inscalfibile. Per fare questo diventa necessario riempire quel “deserto della critica” provocato da decenni di decostruzionismo, tornare alle origini del “vicolo cieco dell’economia” imboccato ormai troppo tempo fa e riannodare i fili di un pensiero che risulta tanto meno lontano quanto più coglieva la radice di quel mondo in cui siamo sempre più immersi: la natura catastrofica del cosiddetto progresso; la sempre più evidente antiquatezza dell’uomo rispetto alla civiltà delle macchine; la non neutralità della tecnologia nell’universo capitalistico e il dilagare pervasivo delle sue nocività; il senso della superfluità della vita umana rispetto al totalitarismo dell’homo economicus; la passività, l’isolamento e l’annientamento di ogni esperienza comunitaria indotti dalla mercificazione di ogni aspetto della vita; la distruzione avvilente della plurisecolare morale popolare di giustizia sociale, la common decency, a opera dell’ideologia e della neolingua progressiste (pp. 16-17).


  1. Gioacchino Toni, Estetiche inquiete. Joy Division e dintorni. Contesto e radici, in “Carmilla online”, 17 ottobre 2021; Gioacchino toni, Estetiche inquiete. Joy Division e dintorni. Immaginari ed eredità, in “Carmilla online”, 19 ottobre 2021. 

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Immaginari di crisi. Da Mad Max a Furiosa https://www.carmillaonline.com/2024/05/27/immaginari-di-crisi-da-mad-max-a-furiosa/ Mon, 27 May 2024 20:00:41 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=82717 di Gioacchino Toni

Rudi Capra, Antonio Pettierre, a cura di, Le strade furiose di Mad Max. Filosofia del mondo post-atomico, Mimesis, Milano-Udine 2024, pp. 188, € 16,00

In chiusura degli anni Settanta del secolo scorso ha fatto la sua comparsa nelle sale cinematografiche il film australiano Interceptor (Mad Max, 1979) di George Miller. Realizzato in maniera un po’ rocambolesca, da un regista all’esordio, con un budget di 400 mila dollari, il film ha ottenuto un successo che è andato ben oltre le più rosee aspettative incassando al botteghino cento milioni di dollari. Ciò è bastato all’industria cinematografica per pianificare, a stretto [...]]]> di Gioacchino Toni

Rudi Capra, Antonio Pettierre, a cura di, Le strade furiose di Mad Max. Filosofia del mondo post-atomico, Mimesis, Milano-Udine 2024, pp. 188, € 16,00

In chiusura degli anni Settanta del secolo scorso ha fatto la sua comparsa nelle sale cinematografiche il film australiano Interceptor (Mad Max, 1979) di George Miller. Realizzato in maniera un po’ rocambolesca, da un regista all’esordio, con un budget di 400 mila dollari, il film ha ottenuto un successo che è andato ben oltre le più rosee aspettative incassando al botteghino cento milioni di dollari. Ciò è bastato all’industria cinematografica per pianificare, a stretto giro, una seconda ed una terza pellicola, dando così vita a una saga ripresa, dopo tre decenni di interruzione, nel nuovo millennio con un quarto episodio di grande successo che ha aperto le porte ad un quinto film giunto ora nelle sale.

Per quanto diversi siano i film della saga, ad accomunarli è certamente la messa in scena di un “immaginario di crisi” variato nei diversi episodi in base al cambiare dei tempi, dei motivi, delle modalità e degli sguardi con cui si guarda con inquietudine al presente ed al futuro più prossimo. Ad esaminare le questioni principali sollevate dai film di Miller – crisi ecologica, economica e politica, oltre che sociale, della mascolinità, del patriarcato… – in concomitanza con l’uscita del nuovo film della saga – Furiosa: A Mad Max Saga (2024) di George Miller –, provvede il volume edito da Mimesis Le strade furiose di Mad Max. Filosofia del mondo post-atomico, curato da Rudi Capra e Antonio Pettierre, con una postfazione di Matteo Boscardi.

In apertura di volume, Antonio Pettierre evidenzia come i diversi film di Miller insistano sul crollo della società.

Nella saga di Mad Max è messa in scena l’autodistruzione della società civile: da un lato, abbiamo la rappresentazione di un’umanità ai limiti della sussistenza, dall’altro il residuo di un potere (patriarcale) pre-apocalittico che fomenta, mediante lotte e conflitti, lo sfruttamento economico delle ultime risorse naturali. Un potere che si autoconsuma e che raggiunge livelli parossistici attraverso una combinazione cinetica che transustanzia il contenuto (la morte e distruzione) nella forma (una sinestesia visiva e sonora). In questo presente-futuro distopico, il continuo movimento dei personaggi su auto, camion, moto e automezzi (re)inventati raffigurano plasticamente l’impossibilità dell’essere umano all’equilibrio, alla staticità dell’esistenza, in un continuo movimento verso la distruzione. Del resto, la speranza di trovare un’“Arcadia” dove poter (ri)vivere tempi migliori risulta sempre aleatorio o, quantomeno, illusorio (Pettierre, p. 22).

Nel primo film della serie, Interceptor, ad essere messa in scena è sostanzialmente la crisi della società australiana e delle sue istituzioni: un conglomerato di comunità locali in balia di bande criminali che le autorità statali tentano di arginare attraverso il pattugliamento delle strade da parte della MFP (Main Force Patrol) a cui appartiene il protagonista Max Rockatansky (Mel Gibson). La morte, durante un inseguimento condotto da Max, di un membro di una gang di motociclisti e della sua ragazza, scatena la reazione vendicativa del gruppo di cui fa le spese lo stesso protagonista che, dopo aver peso un collega ed essere stato tragicamente colpito negli affetti famigliari (figlioletto ucciso e moglie ridotta in coma irreversibile), abbandonato il corpo di polizia, si mette al volante di una Interceptor potenziata per vendicarsi a sua volta eliminando la gang. Se gli agenti della MFP, sottolinea Pettierre, seguono ancora le regole della società civile – per quanto inclini a travalicare abbondantemente la legge “quando serve” – la banda di motociclisti è presentata come una struttura tribale strettamente verticistica incline a ricorrere alla violenza più selvaggia allo scopo di ottenere ciò che desidera.

È nel sequel Interceptor. Il guerriero della strada (Mad Max 2. The Road Warrior, 1981) che Miller mette in scena il collasso definitivo della civiltà ambientando il film in un futuro post-apocalittico – successivo a un non meglio definito conflitto nucleare scatenato dal controllo dei combustibili fossili – con il protagonista che, affiancato da un cane, a bordo della sua Interceptor, vaga alla ricerca di carburante per poi restare coinvolto in una guerra per il controllo del combustibile tra una comunità isolata nel deserto e una crudele gang motorizzata. Lo scenario di crisi si presenta in questo film nel confronto tra una comunità stanziale, dotata ancora di qualche vaga traccia di regole democratiche, e una tribù nomade comandata da un despota sanguinario.

Nel film successivo, Mad Max. Oltre la sfera del tuono (Mad Max Beyond Thunderdome, 1985), in cui alla regia Miller viene affiancato da George Ogilvie, il protagonista si trova coinvolto in una lotta per il potere nelle cittadina di Bartertown in mezzo al deserto in cui si produce metano dagli escrementi di maiale. Gli eventi conducono Max ad unirsi a una piccola comunità di ragazzini desiderosi di raggiungere la “città del domani” che però, anziché il paradiso terrestre sognato, si rivela una Sydney ridotta in macerie. Attraverso le vicende di Max vengono messe a confronto una società costituita su due livelli in lotta tra loro – uno superiore, dotato ancora di una qualche lontana parvenza democratica, caratterizzato da un’economia di scambio e commercio, ed uno inferiore, ove si si produce metano, governato dispoticamente – ed una tribù di ragazzi che vivono allo stato brado facendo ricorso alle risorse naturali dell’Oasi in cui hanno trovato rifugio. In tale comunità le vecchie norme di convivenza hanno assunto forme leggendarie e mitologiche ed il ruolo di guida spirituale è stato assegnato a un’anziana donna.

Dopo i primi tre film, usciti in rapida successione tra il 1979 ed il 1985, occorre attendere ben tre decenni prima che Miller realizzi un nuovo capitolo della saga. Con Mad Max: Fury Road (2015) il regista australiano non prosegue la narrazione a cui è giunto nell’ultimo film preferendo ricollocarsi in uno spazio temporale precedente. Max, qua interpretato da Tom Hardy, si ritrova prigioniero del signore della guerra, Immortan Joe (Hugh Keays-Byrne), che esplicita il suo potere assoluto attraverso il controllo dell’acqua nella Cittadella da lui governata.

Ad essere tenute prigioniere dal despota sono anche cinque giovani mogli, le uniche a poter partorire figli in un contesto in cui la popolazione è affetta da gravi malattie e mutazioni genetiche. Max finisce per unirsi alla fuga dalla Cittadella organizzata dall’imperatrice Furiosa (Charlize Theron) che, insieme alle mogli di Immortan, a bordo di una blindo-cisterna intende raggiungere, oltre il deserto, la comunità matriarcale da cui era stata sottratta da bambina. Una volta giunte alle meta, le fuggiasche si trovano di fronte ad un paesaggio devastato abitato soltanto da un gruppetto di donne combattenti che hanno gelosamente conservato delle sementi che potrebbero consentire una rinascita. Le donne decidono dunque di far ritorno alla Cittadella, ove è disponibile l’acqua necessaria al processo di rigenerazione, e spodestare i potenti. È dunque una donna, Furiosa, ad essere protagonista in questo film, mentre a Max spetta un ruolo secondario, per certi versi utile più per dare continuità alla saga che non per l’episodio in sé. A confrontarsi in questa quarta opera sono Furiosa, insieme alle mogli del tiranno e alla tribù matriarcale a cui si unisce, e il governo dispotico della Cittadella insieme ai suoi alleati.

Da un lato, abbiamo un gruppo di donne in fuga alla ricerca di un eden. Dall’altro, un’organizzazione maschile basata su un’economia di guerra perpetua, residuo di una società comandata da monarchi assoluti e strutturata su tre comunità che controllano l’acqua, l’energia e le armi. Lo scontro qui è tra la fecondità femminile e la sterilità maschile, tra la distribuzione delle risorse da un lato e lo sfruttamento fine a sé stesso dall’altro (Pettierre, p. 23).

Con questo film, sottolinea Pettierre, il regista australiano esplicita quanto nei precedenti aveva soltanto delineato:

i tre patriarcati riproducono in modo più completo il sistema capitalistico che ha portato alla distruzione della società. Immortan Joe esercita la violenza attraverso i figli di guerra, impedendo l’erogazione dell’acqua a un’umanità agonizzante e uccide, e fa uccidere, nell’illusione di trascendere la morte; egli rinchiude le giovani mogli dentro una camera-cassaforte trasformandole in donne-gioello, oggettivate come strumento di riproduzione dinastica per perpetuare il proprio potere. Quella di Immortan Joe è una comunità – così come quelle di Gas Town e Bullet Farm che, pur mai mostrate nella pellicola, sono rappresentate simbolicamente da padroni trasformati in icone dei luoghi che dominano –, in cui il valore prodotto è dato dalla continua prestazione dei figli di guerra, sfruttatori e sfruttati a loro volta dal sistema post-capitalistico, in un parossismo che li porta a fagocitare loro stessi (Pettierre, p. 26).

Nella saga viene messo in scena un universo via via sempre più desertificato dallo sfruttamento a cui la natura e gli esseri umani sono stati sottoposti, in cui la convivenza civile è stata soppiantata da sistemi di potere clanico votati a confrontarsi con gli incubi del loro tempo attraverso la violenza più efferata. La dissoluzione sociale del mondo post-apocalittico di Mad Max – aggiungiamo – sembra rappresentare il punto di arrivo di quel neoliberismo selvaggio scientemente pianificato da quella Iron Lady (interpretata da Margaret Thatcher) – a cui si è presto aggiunto il personaggio Ronald Reagan (interpretato da sé stesso) – che, grossomodo in concomitanza con il primo episodio della serie, ha inquinato i pozzi dell’immaginario predicando lo smembramento della società in favore dell’individualismo più cinico.

Nel contributo di Giuseppe Gangi viene indagata la rappresentazione dell’universo australiano emergente dalla saga di Miller disseminata com’è di tracce di quella cultura dell’automobile, del viaggio, della velocità e dello spazio desertico dell’outback che lo caratterizzano. La serie Mad Max funge «da specchio mitografico e riflesso allegorico di un’identità nazionale liminare che ha le sue radici nell’irrisolta storia coloniale» (Gangi, p. 34). Gangi, inoltre, evidenzia come

la progressiva ambizione di Miller inferisca l’allargamento del proprio orizzonte volto alla descrizione di un mondo post-apocalittico e a una riflessione politica sofisticata e problematica, che getta uno sguardo sulle crisi che hanno attanagliato l’Occidente e che sono ancora di strettissima attualità (minaccia nucleare, ecocidio, sfruttamento capitalista, discriminazione di genere). L’architrave della saga consiste proprio in quest’oscillazione tra la peculiare ambientazione australiana, il ripensamento della sua storia culturale e della sua identità e come questi elementi volgano in riflesso universale nel quale poter cogliere i segni e i sintomi di una crisi globale (Gangi, pp. 34-35).

Diego Cavallotti sottolinea come già nel primo film della serie sia possibile cogliere come il canonico conflitto tra ordine e disordine si inserisca «all’interno del rapporto fra approvvigionamento energetico e potere, mettendo in risalto il modo in cui la scarsità di risorse sia in grado di stravolgere gli equilibri sociali» (Cavallotti, p. 61). L’ universo anarcoide della prima pellicola si trova a dialogare con la manifesta ecocritica della seconda attraverso forme di mediazione proprie dell’immaginario cyberpunk – soprattutto per l’ibridazione tra organico e inorganico – e steampunk – in particolare per l’intrecciarsi del futuro con suggestioni legate all’estetica delle macchine di età vittoriana – attraverso il sottogenere denominato diselpunk che

rispetto alle ucronie spesso incentrate sul rapporto fra progresso e meraviglie tipiche dello steampunk, […] mette in scena una fase della storia umana in cui la narrazione della modernità ha raggiunto uno spartiacque: da un lato, l’efficienza e la produttività della tecnologia sono ai loro massimi, dall’altro il senso di meraviglia tipico dello steampunk si tramuta in un senso di angoscia legato alla tecnologia stessa, perché quest’ultima si rivela uno dei catalizzatori delle devastazioni materiali, sociali ed etiche delle due Guerre mondiali e dei totalitarismi (Cavallotti, pp. 63-64).

Se nei primi tre episodi della saga, sottolinea Cavallotti, «il petrolio è la metafora dei bisogni essenziali della civiltà occidentale e della sua capacità (ri)produttiva», con Fury Road Miller si sposta sulla «sfera materiale della corporeità, quasi a voler evidenziare che, a più di quarant’anni da Interceptor, i processi di trasformazione della società non possono più confrontarsi solo con le condizioni concrete dell’esistenza e le loro implicazioni psicologiche, ma devono interagire anche con la dimensione biotica dell’essere, con il bíos» (Cavallotti, p. 65).

Rudi Capra, come esplicita il titolo Mad Marx del suo saggio, propone una lettura marxista della saga soffermandosi su quattro snodi propri del capitalismo contemporaneo: l’incremento esponenziale dello sfruttamento; il regime accelerato della vita e del lavoro; la crisi ecologica globale; la crescente instabilità sociale e la mancanza di cura. L’intero ciclo di film di Miller ruota attorno ai processi di mercificazione dell’umanità, di competizione per il controllo delle risorse, di accelerazione del processo di accumulazione di capitale, di sfruttamento delle risorse naturali e di disgregazione della società sottoposta a una condizione di guerra civile permanente condotta da violente strutture claniche.

Alle forme del mostruoso che popolano la serie di Miller provvede il saggio di Jonatan Peyronel Bonazzi che mette in luce come ciò riguardi tanto i personaggi quanto i mezzi di locomozione e, più in generale, le costruzioni presenti negli scenari post-apocalittici mostrati. Lo studioso si sofferma sul particolare ricorso che viene fatto nella saga a due figure che da sempre popolano mitologie e folklore occidentali: il nano ed il gigante. Ad essere preso in esame è soprattutto il film Oltre la sfera del tuono in cui Miller, nel mettere in scena la figura del nano (Master), dapprima associa le «sensazioni negative alla disabilità e alla mostruosità del personaggio per poi capovolgerne la prospettiva» (Bonazzi, p. 102), mentre invece per quanto riguarda la figura del gigante (Blaster), il regista propone

una versione distorta del duello tra Davide e Golia; non è il piccolo avversario di Blaster (Max) a consegnargli la morte, non è Davide che ammazza Golia, e nemmeno Ulisse che acceca Polifemo, la mano di Max si ferma prima del colpo finale. È una terza persona ad arrogarsi questo privilegio. Ma gli ideali che muovono la decisione di Aunty di procedere all’esecuzione del gigante risiedono nella volgare brama di potere, e anche questo aspetto consuma ulteriormente l’empatia del pubblico nei confronti del personaggio interpretato da Tina Turner e innalza il gigante, una volta tanto, a vittima compresa e compianta (Bonazzi, p. 102).

Se i personaggi femminili messi in scena da Miller nell’intera saga tendono a restare subalterni al “maschio dominante” subendo «le leggi di un patriarcato stigmatizzato, indipendentemente dal posto che le stesse occupano, siano loro mogli, nutrici, regine o guerriere» (Sansone, p. 112), con l’avvento di Furiosa, come sottolinea Mariangela Sansone, le cose cambiano drasticamente.

Furiosa non è una moglie, non è una madre, non è dato sapere che tipo di relazione abbia o abbia avuto con Immortan Joe, ciò che è palese è la stima dell’intera tribù nei suoi confronti e il rispetto dello stesso dittatore. È chiamata l’imperatrice e i guerrieri prendono ordini da lei; è una donna alla guida dell’enorme blindo-cisterna, un mezzo corazzato mastodontico, metafora femminile che in qualche modo rappresenta la maternità, un’enorme matrioska che custodisce e trasporta merce preziosa, fondamentale per il sostentamento, indispensabile per la vita (Sansone, pp. 113-114).

Furiosa si presenta come donna che decide di prendersi la sua rivincita, come simbolo di redenzione. Anche il suo personaggio è soggetto a un’evoluzione: «pur godendo di una posizione sociale privilegiata, si mette in gioco e combatte la sua guerra contro tutti, soprattutto contro quell’esercito “maschio”, per la liberazione definitiva di sé stessa e delle altre donne» (Sansone, p. 114).

Applicando alcune categorie filosofiche all’analisi della dittatura di Immortan Joe nella Cittadella in Fury Road, Andrea Tortoreto esamina le argomentazioni espresse del tiranno sulla base della teoria degli atti linguistici, evidenziando come la sua retorica sia intrisa di fallacie logiche utilizzate al fine di strutturare un regime di tipo complottista. Come tutti i regimi di tal tipo, scrive lo studioso, anche questo tiranno

identifica i nemici esterni come la causa di ogni problema per gli abitanti della Cittadella, distogliendo l’attenzione dalle ingiustizie e dalle disparità perpetrate all’interno del regime. Creazione di un nemico comune, e sua demonizzazione, sono lo strumento primario che, agendo sulle paure della popolazione, rafforza il controllo di Immortan Joe sulla propria tribù. Un nemico creato ad arte, in base a una narrativa che si basa spesso su aneddoti, presunti segreti gelosamente custoditi, intuizioni del leader, ma mai su prove autentiche e concrete. Una narrativa che indica come traditore e nemico chiunque abbia l’ardire di metterla in discussione e che reprime con forza e intimidazione ogni forma di dissidenza, favorendo l’autocensura. Un regime, quello della Cittadella, che si fonda dunque sulla fede nel leader e sull’obbedienza cieca, piuttosto che sul dibattito razionale (Tortoreto, pp. 128-129).

Il saggio di Matteo Bittanti analizza il videogioco Mad Max, sviluppato da Avalanche Studios e pubblicato da Warner Bros. Interactive Entertainment nel 2015, che immerge i giocatori nel mondo post-apocalittico caro alla saga di Miller, come esempio di fusione della petro-mascolinità – «mascolinità legata al dominio sull’ambiente secondo una logica estrattiva e distruttiva, incentrata sui combustibili fossili, nonché sulla celebrazione dei valori maschili tradizionali» (Bittanti, p. 144) – e della mascolinità geek – «interazione tra genere, tecnologia e identità, che riflette cambiamenti sociali più ampi nella comprensione e nella performance della soggettivazione mascolina, per la quale la conoscenza e l’attitudine tecnologica sono fondamentali per la sua costruzione e mantenimento» (Bittanti, p. 137).

Se a livello narrativo questo videogame «esemplifica la nozione di petro-mascolinità in diversi aspetti chiave, intrecciando temi di sopravvivenza, dominio e ricerca di carburante in uno scenario distopico» (Bittanti, p. 153), riproducendone tanto le ossessioni legate alla percezione del declino quanto le fantasie compensatorie cercate nel potere distruttivo maschile, dall’altro però, nel palesare come il ricorso alla mera violenza come mezzo di risoluzione dei problemi si riveli un inconcludente circolo vizioso nel suo ricondurre inesorabilmente a solitudine, disperazione e alienazione, ne mette in luce tutti i limiti. Insomma, scrive Bittanti, «se sul piano narrativo [il videogioco] Mad Max glorifica la supremazia maschile e il dominio dell’automobile, attraverso il gameplay, offre una critica indiretta o implicita degli assunti stessi della ludo-petro-mascolinità. Portando in primo piano la futilità, l’isolamento e la totale insostenibilità di questi ideali, Mad Max offre un’esplorazione ricca di sfumature della mascolinità tradizionale in un contesto distopico» (Bittanti, p. 160).

Infine, nella postfazione al volume, Matteo Boscarol tratteggia l’influenza esercitata dalla saga Mad Max sull’immaginario nipponico anche grazie, all’uscita dei primi episodi, all’ascesa del mercato delle videocassette che ha permesso il diffondersi di opere “di genere” ben oltre i circuiti cinematografici e televisivi. Se i primi due film della serie sono usciti in Giappone in un momento in cui le automobili e le motociclette, così come il motivo della guerra fra bande, hanno trovato terreno fertile nella fantasia nipponica, è soprattutto il virare su uno scenario sempre più post-apocalittico della saga ad essere risultato attrattivo in un Paese segnato dall’indelebile ricordo delle atomiche e dai disastri naturali.

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Sul cammino dell’errore e della infelicità. Fantascienza e distopia https://www.carmillaonline.com/2024/05/24/sul-cammino-dellerrore-e-della-infelicita-fantascienza-e-distopia/ Fri, 24 May 2024 05:00:27 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=82633 di Marco Sommariva

La parola distopia esprime un’utopia al negativo; quindi, se l’utopia vuol descrivere un mondo desiderabile, ideale, perfetto e rasserenante, la distopia ne mette in scena uno indesiderabile, negativo, pessimo, terrificante.

Sono diversi i romanzi di fantascienza che hanno immaginato storie basate su un futuro spaventoso, nel quale non vorremmo mai vivere. Fra i tanti meriti, questo genere di letteratura è stato capace di proiettare il timore che ci affligge sempre più spesso al pensiero del domani, dell’ignoto.

Quelle che ci vengono descritte sono visioni paurose del futuro, spesso legate a [...]]]> di Marco Sommariva

La parola distopia esprime un’utopia al negativo; quindi, se l’utopia vuol descrivere un mondo desiderabile, ideale, perfetto e rasserenante, la distopia ne mette in scena uno indesiderabile, negativo, pessimo, terrificante.

Sono diversi i romanzi di fantascienza che hanno immaginato storie basate su un futuro spaventoso, nel quale non vorremmo mai vivere. Fra i tanti meriti, questo genere di letteratura è stato capace di proiettare il timore che ci affligge sempre più spesso al pensiero del domani, dell’ignoto.

Quelle che ci vengono descritte sono visioni paurose del futuro, spesso legate a quanto comunemente viene definito “progresso”; a volte, preannunciate con un tale anticipo da farci quasi vergognare per come non si sia stati in grado di evitarle, o almeno esserci un minimo preparati ad affrontarle: “[…] nel raggio di dieci leghe da Parigi, di atmosfera non ce n’è più! Provavamo invidia per quella di Londra e, per mezzo di diecimila fumaioli di officina, di fabbriche di prodotti chimici, di guano artificiale, di fumi di carbone, di gas micidiali e di miasmi industriali, ci siamo procurati un’aria che equivale a quella del Regno Unito; quindi a meno di andare lontano, troppo lontano per le mie vecchie gambe, è impossibile sperare di respirare qualcosa di puro! Se ti fidi di quel che dico, restiamo tranquilli a casa nostra, chiudendo bene le finestre […].” (Parigi nel ventesimo secolo, Jules Verne, Francia, 1860) oppure “Anno dopo anno, [la Macchina] veniva servita in maniera sempre più efficiente e sempre meno intelligente. Più un uomo conosceva alla perfezione i compiti cui doveva assolvere per favorirne il funzionamento, meno comprendeva i compiti del suo vicino, e al mondo intero non c’era nessuno che fosse in grado di comprendere il mostro nell’interezza della sua struttura.” (La Macchina si ferma, Edward Morgan Forster, Inghilterra, 1909)

Oggi più che mai temiamo il robot, la macchina, ma nel 1973 – giusto per fare un esempio – nel romanzo Generazione Proteus, lo scrittore statunitense Dean Ray Koontz ci aveva avvisato: “Impegnati a delineare le loro meschine differenze tra razza e razza e tra filosofia e filosofia, gli uomini avevano ignorato la minaccia più grande che incombeva alle loro spalle. La macchina. La macchina violenta. Se non viene accuratamente controllata, la macchina stupra e distrugge.”

Oggi più che mai temiamo la tecnologia in generale, ma nel 1946 – anche in questo caso è per fare un esempio, e non lo ripeterò più – nel racconto Un logico chiamato Joe, un altro autore statunitense – Murray Leinster (pseudonimo di William Fitzgerald Jenkins) – ci aveva allertato: “Spegnere tutti i banchi di memoria? […] Ti è mai venuto in mente, amico, che questa memoria da anni tiene l’intera contabilità di ogni singola azienda? Che ha distribuito il novantaquattro per cento di tutte le trasmissioni televisive, ha dato tutte le informazioni meteorologiche, gli orari degli aerei, gli annunci di ogni vendita straordinaria, le offerte di lavoro e ogni altra notizia? Che ha garantito tutti i contatti tra persona e persona via cavo e ha registrato ogni conversazione d’affari e ogni contratto? Ascoltami bene, amico: i logici hanno cambiato la civiltà. I logici sono la civiltà! Se spegniamo i logici, torniamo a un tipo di civiltà che non sappiamo più come gestire!”

Oggi più che mai temiamo i virus, le malattie, nonostante sia sempre più scarsa la nostra preoccupazione circa il futuro dell’assistenza sanitaria pubblica; bene, nel 1966, in LARGO! LARGO!, Harry Harrison immaginava questo scenario: “Niente antibiotici […] perché c’è l’epidemia d’influenza. Idem per le tende d’ossigeno e per i letti. Neanche uno disponibile. Non ho visto nemmeno un medico, soltanto la ragazza della segreteria. […] Se tu entri in quell’ospedale avrai l’impressione che mezza città sia ammalata. C’è gente dappertutto, persino fuori, per la strada. Non ci sono più medicine sufficienti per tutti. Credo che le diano solo ai bambini. Per gli altri… be’, si affidano alla fortuna.”

Non ho alcuna intenzione di offendere la vostra intelligenza illustrando, né per gli estratti sinora riportati né per i prossimi, analogie fra quanto profetizzato in questi romanzi e la nostra quotidianità: sono certo che la consueta palestra intellettuale praticata da chi sta leggendo queste righe, sarà più che sufficiente per trovare uno o più agganci con la realtà che lo circonda.

Oggi più che mai temiamo la catastrofe ecologica ma nel 1956, in Morte dell’erba, l’inglese John Christopher (pseudonimo di Sam Youd) aveva scritto: “Non credeva che l’umanità potesse ancora salvarsi all’ultimo minuto. Prima la Cina, poi l’Asia e, alla fine, l’Europa. Il resto del mondo avrebbe subito la stessa sorte, per quanto incredibile potesse sembrare. La natura stava passando lo straccio sulla lavagna della razza e della storia umana, lasciandola a disposizione dei patetici scarabocchi di pochi individui che, sparpagliati qua e là per il globo, sarebbero sopravvissuti.”

Oggi più che mai temiamo la dittatura del controllo, ma nel 1921, in La rivolta delle macchine, conosciuto anche col titolo Il pensiero scatenato, il francese Romain Rolland ci parlava delle “Macchine psicologiche”, le macchine per leggere nel pensiero: “Ha la forma di un occhio, in cima a una proboscide d’elefante che si allunga, si posa a un’estremità sul cranio di un paziente e, all’altro capo, come una lanterna magica, proietta sullo schermo quello che vede nella testa: l’animale che sonnecchia, i pensieri segreti.”

Oggi più che mai temiamo che sia il potere dei singoli – Mark Zuckerberg, Elon Musk, Jeff Bezos e compagnia cantante – a decidere il nostro destino e quello dei nostri cari, e non più il potere di chi ci governa, ma nel 1973 lo statunitense William Neal Harrison, nel racconto da cui è stata tratta la sceneggiatura del film Rollerball, era stato chiaro su questo punto: “Gli uomini più potenti del mondo sono i dirigenti. Presiedono le grandi multinazionali che stabiliscono i prezzi, i salari e l’economia generale e sappiamo tutti che sono persone corrotte, che dispongono di potere e denaro quasi illimitati […].”

La fantascienza ci ha raccontato e continua a raccontarci le nostre paure che, in linea di massima, sono sempre le stesse; forse, l’unica che oscilla fra alti e bassi riguarda la paura dell’alieno, ma se questo – rifacendomi alla palestra intellettuale di cui sopra – lo “traduciamo” nel diverso, dovremo ammettere che anche in questo caso si è in presenza di una paura che non è mai scemata, e chissà che lo statunitense Robert Sheckley, nel 1960, ne Gli orrori di Omega, non abbia anticipato la soluzione del Sistema per non vacillare di fronte alle nostre sempre più numerose differenze: “[…] sono l’abate della locale chiesa dello Spirito dell’Umanità Incarnata. La nostra chiesa è l’unica ed esclusiva espressione religiosa del governo della Terra. La nostra chiesa parla a tutti i popoli della terra. È composta da tutte le migliori dottrine delle religioni primitive, maggiori e minori, mescolate in modo da formare una fede unica. […] i fondatori di questa nostra chiesa hanno eliminato tutte le materie controverse. Noi vogliamo l’intesa, non il dissenso. Nella nostra religione non ci sono mai stati scismi perché noi accettiamo tutto. Si può credere in ciò che si vuole purché si conservi la fede nello spirito dell’Umanità Incarnata.”, dove il purché finale la dice lunga sulla libertà di credere, essere quello che si vuole.

Il rapporto tra fantascienza e progresso, scienza e tecnologia, e le conseguenze, gli scenari possibili immaginati dalla science fiction sono numerosi; mi limiterò a questi pochi assaggi rigorosamente in ordine cronologico: “Qui non cresce niente. Comincia a scavare, qui, e prima trovi mezzo metro di rifiuti e rottami, poi circa dieci centimetri di cenere e di sporcizia. Poi trovi il vero terreno… sabbia.” (Gladiatore in legge, Frederik George Pohl Jr. e Cyril Michael Kornbluth, Stati Uniti, 1955); “La mia obiezione riguarda […] i circuiti di apprendimento degli uccelli da guardia. La loro funzione, in realtà, è quella di animare la macchina e di dotarla d’una pseudoscienza. E questo non posso approvarlo. […] credo che sarebbe moralmente pericoloso permettere a una macchina di prendere decisioni che spettano soltanto all’uomo.” (La decima vittima, Robert Sheckley, Stati Uniti, 1965); “Logan riconobbe la cosa al centro del pavimento di alluminio, e si sentì gelare. Tavola! La macchina incombeva sopra un letto piatto di metallo, percorso da scanalature e fessure, e munito di cinghie di allacciamento. […] Una Tavola come quella poteva allungare le ossa e modificare la formula dentaria. Poteva allargare le spalle, aggiungere o togliere peso. Poteva allargare il protoplasma o i gruppi sanguigni. Coi suoi laser infinitamente regolabili poteva separare un nervo dalla carne che lo avvolgeva senza intaccare la guaina. Aveva la precisione di un tagliatore di diamanti e l’impassibilità di una macchinetta a gettone.” (La fuga di Logan, William Francis Nolan e George Clayton Johnson, Stati Uniti, 1967); “THX si stava masturbando. Lo sperma veniva raccolto da un ricettacolo di plastica incorporato nella poltrona e fluiva poi via attraverso un condotto. Tenete l’appartamento pulito. Conservate lo sperma per lo stato.” (THX 1138, Ben Bova, Stati Uniti, 1971).

Insomma, sono innumerevoli gli ammonimenti che questo genere di letteratura è stato capace d’inviarci, e quello che sembra raccoglierli un po’ tutti è riportato al termine de Le meraviglie del duemila (1907) dell’italiano Emilio Salgari – libro che si gioca la palma d’oro come primo romanzo di fantascienza italiano insieme ad Abrakadabra (1884) di Antonio Ghislanzoni –, dove leggiamo: “Io ora mi domando se aumentando la tensione elettrica, l’umanità intera, in un tempo più o meno lontano, non finirà per impazzire. Ecco un grande problema che dovrebbe preoccupare le menti dei nostri scienziati.” E ditemi voi se, spesso, non avete la sensazione d’esser circondati da dei pazzi, senza offesa per quest’ultimi ovviamente.

Visto che non ho ancora fatto cenno a un problema di forte attualità, quello di genere, prima di chiudere vi riporto un passaggio del romanzo Il paese senza cielo (1939) di Giorgio Scerbanenco, una saga fantastica commissionatagli da Cesare Zavattini e Federico Pedrocchi per il settimanale Audace che lo pubblicò a puntate: “Erano sole, in una Nuova York tumultuosa, senza respiro. Non potevano uscire, nessuna donna non accompagnata poteva uscire in quella babelica città. Banditi armati di aghi elettrici pullulavano in mezzo alla folla: mille pericoli, mille insidie, le avrebbero attese se fossero uscite. Perciò passavano le loro giornate in casa, ciascuna aspettando con sofferente rassegnazione la persona che amava di più.”

Se sono millenni – a partire da Il mito della caverna di Platone, passando per I viaggi di Gulliver di Jonathan Swift, Non lasciarmi di Kazuo Ishiguro, sino ad arrivare ai giorni nostri – che la parola scritta prevede ciò che i politici non vogliono prendere in considerazione, è da oltre un secolo che la fantascienza fa la sua parte; questo genere di narrativa sviluppatosi nel Novecento, non è solo emozione, sentimento di stupore, orrore, godimento del futuribile, è anche rivelazione negativa, distopica, fonte di allerta capace d’instillare e far crescere semi di riscossa, di una nuova speranza, perché – nonostante gli estratti passati in rassegna non lascino scorgere tracce di un domani benevolo, nessuna garanzia di libertà, salute e felicità – in un’epoca in cui è la realtà a essere spiacevole e indesiderabile, la letteratura fantascientifica e distopica, col suo carattere anti-repressivo e libertario, può risultare una valida critica emancipatoria e liberatoria alla dimensione attuale, un soccorso all’immaginazione, un laboratorio di idee e di riflessioni.

Ognuno di noi provi a far qualcosa perché non accada quanto scrisse Ghislanzoni in Abrakadabra, che “l’umanità vissuta sin qui” perisca “nella completa ignoranza della sua missione fisica ed intellettuale […] attestando la sua incapacità a migliorarsi.” E questo perché “tutti i nostri sforzi per giungere al meglio hanno sempre abortito” perché “qualche cosa di aberrato era in noi per condurci costantemente sul cammino dell’errore e della infelicità.”

Certo è che, come scriveva Erich Fromm ne La rivoluzione della speranza, “Se la maggioranza degli uomini sono come robot, allora il problema di costruire robot simili agli uomini non sorge più.” Meditiamo gente, meditiamo. E leggiamo. Oggi più che mai.

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Felicità e panico nella società distopica contemporanea https://www.carmillaonline.com/2024/03/07/felicita-e-panico-nella-societa-distopica-contemporanea/ Thu, 07 Mar 2024 21:00:20 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80668 di Gioacchino Toni

Giulio de Martino, Lo spettatore turbato. Forme della felicità e del panico nella società distopica. Appendice di Edoardo Ferrini, Mimesis, Milano-Udine 2023, pp. 280, € 24,00

La paura per il contagio pandemico, per il nucleare e l’angoscia per il destino del Pianeta non sono che le avvisaglie più eclatanti che esprimono lo smarrimento che pervade il mondo occidentale che, sostiene Giulio de Martino, sembra sostituire al piacere per il consumo e per lo spettacolo l’angoscia, una sorta di fusione distopica tra l’anticipazione mediatica delle tragedie e la loro emergenza reale. Una situazione in cui lo spettatore turbato riceve [...]]]> di Gioacchino Toni

Giulio de Martino, Lo spettatore turbato. Forme della felicità e del panico nella società distopica. Appendice di Edoardo Ferrini, Mimesis, Milano-Udine 2023, pp. 280, € 24,00

La paura per il contagio pandemico, per il nucleare e l’angoscia per il destino del Pianeta non sono che le avvisaglie più eclatanti che esprimono lo smarrimento che pervade il mondo occidentale che, sostiene Giulio de Martino, sembra sostituire al piacere per il consumo e per lo spettacolo l’angoscia, una sorta di fusione distopica tra l’anticipazione mediatica delle tragedie e la loro emergenza reale. Una situazione in cui lo spettatore turbato riceve dai media gratificanti inviti al godimento insieme a scariche sensoriali che gli rendono le catastrofi familiari.

Riprendendo i concetti di postmodernità e ipermodernità, Giulio de Martino segnala come se posti in opposizione, questi tendono ad avere connotazioni rispettivamente utopistiche e antiutopistiche, mentre se collocati in sequenza indicano due epoche differenti: la postmodernità corrisponde all’espansione occidentale novecentesca mentre la ipermodernità al periodo più prossimo alla contemporaneità interpretata «come epoca di esplosione distopica delle contraddizioni e dei conflitti interni ed esterni all’Occidente» (p. 55).

A proposito della postmodernità Lyotard aveva evidenziato come comportasse la crisi dell’“universalità” conoscitiva, mentre Virilio si era preoccupato di sottolineare come con essa si entrasse nell’epoca della “condivisione dell’incertezza” e dell’empatia instabile. La postmodernità ha dunque finito per trasformarsi in una “condizione ipermoderna” eclissante l’universalismo antropologico (il cosmopolitismo) alla luce di una sorta di «coesistenza incomunicante (la globalizzazione). Una situazione in cui la pluralità definita delle persone e delle culture ha lasciato il posto al pluralismo indefinito degli “account” e dei “profili personali” sui social.

Dal punto di vista tecnologico, la Web culture è una postcultura includente e generalista, in cui si registra la presenza simultanea di tutte le culture e di tutte le lingue. Vi trovano spazio tutti i livelli di conoscenza, disposti senza gerarchia in un menù sempre attivo di generi e specializzazioni. La distinzione “verticale” fra la cultura High, Middle e Low (o “popular culture”) – come pure la distinzione “orizzontale” fra aree e gruppi locali culturalmente differenziati – ne risulta ridefinita e modificata.
Dal punto di vista cognitivo, la Web culture può provocare una scarsa interiorizzazione dei contenuti e una incerta differenziazione dovuta alla marcata astrazione digitale rispetto alla varietà degli ambienti e dei gruppi. Osservandola in atto nei numerosi dispositivi che la attivano, si può definire come una cultura “extramentale” e “transindividuale” di massa. La società cosiddetta omologata resta pluralista e discorde, ma non ha vie di uscita: consente soltanto percorsi di spostamento e di redislocazione al suo interno. La spettacolarizzazione e l’autofruizione indotte dalle tecnologie degli old e dei new media si svolgono nelle forme più estreme della semiosi e della metacomunicazione (dire qualcosa per dire altro). La trasformazione delle ideologie in mode e dei comportamenti divergenti, individuali e collettivi, in esibizioni e in messaggi prodotti all’interno dei mass media mostra come le azioni si riproducano come news. La guerra, la divergenza, la rivolta, il saccheggio, il crimine, il suicidio ecc. diventano Breaking News […]
La condizione di sradicamento dalla prossimità e di fruizione indifferente di tutto ciò che accade al mondo – ciò che Virilio chiama la “cecità” – non segnala un bivio davanti a cui l’umanità si trova, ma un evento già avvenuto. La postmodernità non pone un dilemma per l’Occidente. Piuttosto induce a livello planetario una situazione distopica che si chiama “ipermodernità” e che ha come conseguenza la crisi della certezza di vivere in un mondo di valori.
Il postmodernismo ha spinto la società occidentale ad esagerare le sue potenzialità e ad interpretare la società del “passato” e quella del “futuro” come se fossero la sua ombra e la sua anima. Il possibile e il probabile sono apparsi più reali di ciò che era avvenuto nel passato e di ciò che accadeva nel presente. Mentre nel mondo tradizionale, l’“oggi” veniva spiegato sulla base di ciò che era già avvenuto […] adesso il presente viene giudicato sulla base del futuro che ci si prospetta e la futurità si preannuncia nella forma della felicità, ma anche del panico e del terrore (pp. 58-59).

Nel volume Lo spettatore turbato, alla ricostruzione filosofica delle tappe principali che hanno condotto l’Occidente dalla postmodernità alla ipermodernità operata da De Martino, fa seguito un’appendice di Edoardo Ferrini, La sublime epidemia, incentrata sulle Esplosioni pandemiche nel cinema americano, ruotante attorno al concetto di rifugiato tecnologico derivato da Giorgio Agamben (A che punto siamo? L’epidemia come politica, Quodlibet 2021).

A partire da una riflessione sul racconto La maschera della morte rossa (1842) di Edgar Allan Poe – da cui Roger Corman ha tratto l’omonimo film –, Ferrini evidenzia come in esso lo scrittore abbia messo in guardia «rispetto a due pericoli o dinamiche antropologiche concrete. In primo luogo, il Nemico virale è interno, non è racchiudibile all’esterno confinando i “sani”. […] Inoltre, il capro espiatorio da bandire – l’homo sacer di Giorgio Agamben – può tramutarsi in una forza autodistruttiva perché eccessivamente immunitaria». La peste mascherata narrata da Poe e, successivamente, da Corman,

agisce come gli odierni falsi positivi, è osmotica rispetto alla reale pandemia, anche se camuffata con le persone, che nella trovata finzionale del racconto ballano mascherate. Il falso positivo ha lo stesso linguaggio dell’uomo comune, gli effetti del virus non si vedono, sono come mascherati. Oltretutto […] mai come prima dell’insorgere del Covid-19, il linguaggio mediatico e sociale ha avuto una coincidenza così forte con i sintomi virali. La chiusura da lock-down, una delle conseguenze dei social media e della connessione “privata”, insieme alla proliferazione mediatica, globalizzata e virale delle notizie. Il tutto oggi rafforzato dalla tornata paura nucleare. In questa ricerca la distopia atomica e quella virale scorrono davvero in parallelo, a cominciare dal fatto che contengono alcune somiglianze fondamentali: l’esplosione nucleare causa malattie “virali” – la velocità di propagazione – la difficile localizzazione che crea il senso angosciante della Minaccia globalizzata. […]
La distopia non è esattamente una contro-utopia che magari esisteva prima di una reale od eventuale Nuova Atlantide, oppure che arriva Dopo in maniera del tutto antitetica rispetto all’utopia. No, a dire il vero le distopie sono utopie rovesciate, degenerate. […] L’effetto distopico è contaminato da paura-terrore, è dilagante, pandemico, ed è anche un effetto di rimpianto e di perdita, verso una protezione utopica non del tutto “ancora” realizzata. L’ordine militare, di certo una delle se non l’Utopia contemporanea, è ancora un “farmaco” protettivo, almeno dopo il crollo del muro di Berlino?
Il linguaggio mediatico a sua volta è quello che più di tutti ha affondato le radici nelle distopie. La premediazione è come una sottile interfaccia tra la realizzazione disastrosa e lo schermo protettivo. L’effetto è un duplice cortocircuito tra la minaccia imminente e il bisogno difensivo e catartico che l’esposizione mediatica dovrebbe procurare, aiutando lo spettatore turbato ad ambientarsi in un am­biente minacciato (pp. 231-232).

Dunque Ferrini prosegue il suo itinerario prendendo in esame Il dottor Stranamore (Dr. Strangelove or: How I Learned to Stop Worrying and Love the Bomb, 1964) di Stanley Kubrick, Brazil (1985) di Terry Gilliam, la serie televisiva Better Call Saul (2015-2022) di Vince Gilligan e Peter Gould, World War Z (2013) di Marc Forster e The Batman (2022) di Matt Reeves, rapportando tali opere alla recente pandemia ed ai conflitti militari che stanno ridefinendo la vita degli individuali e delle collettività.

Se nell’opera di Kubrick l’aspetto distopico può essere identificato nella bomba, nel film di Gilliam, sottolinea Ferrini, esso è rappresentato dall’esercito che, al di là del presentarsi come garante della Sicurezza, agisce secondo finalità oscure mettendo in pericolo i cittadini che dovrebbe garantire.

Il patto hobbesiano per cui il Leviatano ha il potere assoluto, senza mai però attentare alla sicurezza degli “ominidi”, in questo caso crolla. E, seguendo Giorgio Agamben (2021), nel paradigma pandemico, il cittadino tende a tramutarsi nel rifugiato. L’esercito è ingovernabile, agito da un linguaggio assurdo che rende le operazioni militari pericolose quanto le “minacce” che dovrebbero sventare. Ecco, di nuovo l’utopia della sicurezza che cozza contro la distopia del Contagio, bellico nel film, fatto di fuoco, sparatorie, esplosioni (p. 234).

Difficilmente nei film pandemici viene messa in discussione l’esistenza del virus. Solitamente questo, al pari delle forze complottiste e negazioniste che alimenta, si presenta come una forza antisistemica fonte di divisione e disgregazione che si propaga orizzontalmente, nelle modalità proprie della biopolitica o del biopotere di cui si è occupato Michel Foucault rifiutando

la derivazione verticale dei o dai “poteri forti”. È quindi più giusto parlare di ritorno alla distopia del totalitarismo nel suo paradigma immunitario, oggi. O quantomeno esiste il pericolo. Anche se tale distopia si avverasse, sarebbe di certo diversa dal classico totalitarismo staliniano diretto dall’Alto.
E, soprattutto se tale potere dall’alto esistesse veramente, la storia mostra che non è infallibile, come testimonia esemplarmente l’esplosione del reattore di Chernobyl. Rimane la distopia della contro-informazione, del proliferare altrettanto virale delle fake news. Nei totalitarismi basati sull’apologia e l’assolutizzazione del Sistema rispetto agli Individui, non fare trapelare le responsabilità del potere è più importante di sventare la minaccia effettiva (p. 243).

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Trovare salvezza in un mondo sull’orlo della decomposizione https://www.carmillaonline.com/2024/01/20/trovare-salvezza-in-un-mondo-sullorlo-della-decomposizione/ Sat, 20 Jan 2024 21:00:04 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80807 di Michela Lazzaroni

Vanja andò a prendere le sue valigie e slacciò le fibbie. Una sembrava sul punto di cedere. Era stata il regalo di qualcuno, che a sua volta l’aveva ereditata da qualcun altro, e così via. In ogni caso, non sarebbe durata a lungo: la parola VALIGIA era quasi illeggibile. […] «Valigia» sussurrò Vanja per mantenerla nella sua forma ancora per un po’. «Valigia, valigia».

 

Vanja Essre Due di Brilars è il nome della protagonista e sono anche le prime cinque parole del romanzo: “Vanja Essre Due di Brilars, consulente per gli Specialisti d’Igiene di Essre, era l’unica [...]]]> di Michela Lazzaroni

Vanja andò a prendere le sue valigie e slacciò le fibbie. Una sembrava sul punto di cedere. Era stata il regalo di qualcuno, che a sua volta l’aveva ereditata da qualcun altro, e così via. In ogni caso, non sarebbe durata a lungo: la parola VALIGIA era quasi illeggibile. […] «Valigia» sussurrò Vanja per mantenerla nella sua forma ancora per un po’. «Valigia, valigia».

 

Vanja Essre Due di Brilars è il nome della protagonista e sono anche le prime cinque parole del romanzo: “Vanja Essre Due di Brilars, consulente per gli Specialisti d’Igiene di Essre, era l’unica passeggera del treno diretto ad Amatka”.

Vanja proviene da una grande colonia ed è stata inviata alla colonia minore di Amatka per raccogliere dati sui prodotti per la pulizia, una sorta di indagine di mercato. Nell’alloggio condiviso che le è stato assegnato, compila i suoi rapporti con rigore e distacco. Ad Amatka fa sempre freddo, l’alimento principale sono i funghi coltivati nelle caverne sotto la colonia, i bambini vivono separati dai genitori per evitare l’attaccamento emotivo, e ogni operazione è monitorata dalla “comune”. Una distopia, diremmo noi, ma sarebbe riduttivo etichettare Amatka con questo termine – e uso “etichettare” non a caso (Karin Tidbeck, pp. 228, € 16, traduzione di Cristina Pascotto, Safarà Editore, Pordenone 2018).

Karin Tidbeck è autrice svedese di weird di cui in Italia si trova poco. La vocazione pienamente fantastica della sua scrittura emerge dapprima in forma breve, nell’antologia Jagannath, edita da Safarà, e nel racconto “Zie” apparso nell’antologia Le visionarie. Fantascienza, fantasy e femminismo, a cura di Ann e Jeff VanderMeer, edito da Produzioni Nero. In questo testo allegorico e a tratti terrificante, un’aranciera senza tempo fa da sfondo al banchetto cannibale con cui le Zie tramandano loro stesse e si rendono immortali. Quindi non stupisce che Amatka, il primo romanzo di Tidbeck, non sia la solita distopia.

 

Il fondo del beauty-case era ricoperto da una pasta spessa. Lo spazzolino. Era stata negligente. Lo aveva notato in treno, la scritta SPAZZOLINO incisa sul manico aveva iniziato a perdere definizione. Tuttavia, aveva pensato che avrebbe resistito più a lungo.

 

A differenza del “vecchio mondo”, dove i materiali erano solidi e confortanti, nelle colonie le cose mantengono la loro forma solo se hanno un nome e vengono nominate. Per questo ogni oggetto, ogni mobile e persino ogni edificio ha un’etichetta o un’incisione che ne dichiara la forma: MATITA, LAVANDINO, SERRA. L’etichetta deve essere periodicamente ripassata o sostituita, e per rallentare il processo di deterioramento si chiamano gli oggetti per nome “marcandoli” con la parola. Se non si è diligenti, come Vanja, ci si ritrova con lo spazzolino sciolto in una poltiglia densa che contamina tutto ciò che tocca – il “gloop” nella traduzione inglese di Tidbeck. Per questo il vocabolario è limitato e non esistono sinonimi – o meglio, sono banditi, pena venire segnalati alla comune come sovversivi.

 

In Amatka è possibile riconoscere le radici di un fantastico di matrice femminista. In un mondo dove ogni cosa può essere qualcos’altro, la libertà della materia – e quindi del pensiero – deve essere circoscritta in modo dogmatico. Attorno al gloop aleggia un’aura di paura che sfocia nel tabù. La sua presenza fisica è tanto pericolosa quanto disdicevole, ma ancora più pervasivo è il tabù del linguaggio, che viene severamente regolamentato e mutilato. Tidbeck tratta con originalità il topos della parola come cardine del fantastico, tematica che si può ritrovare in Lingua nativa di Suzette Halden Elgin, sul ruolo politico della linguistica, o nel racconto “Le parole proibite di Margaret A.” di L. Timmel Duchamp, presente nel già citato Le visionarie, ma anche nelle ancelle di Margaret Atwood, delle quali viene riscritto il nome insieme alla funzione, o nel potere stregonesco dei nomi nel ciclo di Earthsea di Ursula K. Le Guin. Vanja non sa di volersi ribellare, ma deve farlo – sceglie di farlo – quando le certezze del suo presente si sfaldano come gloop. E in un mondo sull’orlo della decomposizione, dove le devianze semantiche sono sovversive, la ribellione passa proprio dalla parola. Non a caso il personaggio più misterioso e suggestivo del romanzo è Anna di Berols, una poetessa. Presente in assenza, Anna muore in un incendio prima ancora che il libro cominci, ma sopravvive nei suoi scritti.

 

C’era qualcosa nel linguaggio di Anna di Berols. Era come se comprendesse le parole e gli oggetti a un livello più profondo di tutti gli altri. Le parole non erano semplici rime o descrizioni del mondo. Vanja aveva la sensazione che le serre non avessero più bisogno di essere contrassegnate perché le parole di Anna di Berols avevano dato loro una forma perfettamente compiuta.

 

Come quello di Anna, il linguaggio di Tidbeck è asciutto, esatto, senza fronzoli. Lo stesso rigore è applicato alla protagonista, poco incline ad aprirsi con gli altri e con il lettore. Vanja preferisce l’azione al monologo interiore, ed è significativo che Tidbeck abbia scelto come incipit il suo nome e la sua funzione, quasi volesse etichettare anche lei, per poi lasciarla libera di agire.

Una volta determinato il worldbuilding e la protagonista, quel che resta sono i misteri di Amatka. I boati che di notte provengono dal lago. I tunnel che non dovrebbero esserci, ma ci sono. Un pizzico di horror dello spaesamento. Una queerness tratteggiata con sensibilità. Un incendio o due, perché non si può creare senza distruggere.

 

Nessuno aveva mai spiegato esattamente dove si trovasse il vecchio mondo, né come fosse. Era irrilevante. Erano lì, ora, nel nuovo mondo, e avevano costruito la società perfetta.

 

Uno degli aspetti più interessanti della letteratura fantastica – e del weird, in particolare ­– è la miracolosa capacità di isolare un dettaglio del nostro presente e renderlo legge fisica, come la gravità o la termodinamica. Nel caso di Amatka abbiamo per le mani la natura sovversiva e creatrice del linguaggio.

Per quanto riguarda la scrittura, il nostro mondo già combacia con il loro: scrivere un testo significa crearlo – questo libro non esisteva prima di essere scritto, così come la recensione che state leggendo.

Ma proviamo a fare il percorso inverso, isoliamo la specificità di Amatka e applichiamola al nostro presente: in qualche modo corrispondono. Non nella materia, certo, ma nella parola sì. L’atto del comunicare definisce i contorni del mondo in cui avviene la comunicazione stessa. Non è così che si propagano le idee in internet, al bar, in classe, in ufficio? Il linguaggio determina la realtà, e viceversa: più leggo e ascolto un pensiero più lo normalizzo, e più lo normalizzo più lo consolido per le generazioni future. La lezione appresa ad Amatka può essere applicata ovunque. Ogni volta che condividiamo un’opinione, ogni volta che scriviamo un articolo, un racconto, una recensione, un commento sui social, non stiamo solo descrivendo il mondo in modo passivo, ma contribuiamo a crearlo per gli altri, a farlo esistere, e ne abbiamo quindi la responsabilità.

Forse è proprio questo il punto, descrivendo il mondo lo facciamo esistere, ed è un concetto che una volta scoperto non può più essere ignorato, né arginato.

 

NB: raccomando di applicare un’etichetta con la parola “LIBRO” alla quarta di copertina, per evitare la disgregazione prematura del volume.

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La notte della svastica di Katharine Burdekin https://www.carmillaonline.com/2023/12/26/la-notte-della-svastica-di-katharine-burdekin/ Tue, 26 Dec 2023 06:00:18 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80379 di Domenico Gallo

nota all’edizione Sellerio 2020

“Nel paradosso si rivela la realtà”, così scriveva Friedrich Dürrenmatt ne I fisici, e leggendo La notte della svastica a più ottant’anni dalla sua prima pubblicazione, oltre a un profondo senso di sgomento e di disagio, non si può che cogliere la profonda verità incernierata dietro la più assoluta e tragica delle fantasie. Possiamo solo immaginare le reazioni imbarazzate dei lettori dell’epoca quando il romanzo, sotto lo pseudonimo maschile di Murray Constantine, viene pubblicato dall’editore socialista Victor Gollancz nel 1937 con una severa copertina gialla. Sotto il titolo, poche righe in grassetto descrivono l’ambientazione [...]]]> di Domenico Gallo

nota all’edizione Sellerio 2020

“Nel paradosso si rivela la realtà”, così scriveva Friedrich Dürrenmatt ne I fisici, e leggendo La notte della svastica a più ottant’anni dalla sua prima pubblicazione, oltre a un profondo senso di sgomento e di disagio, non si può che cogliere la profonda verità incernierata dietro la più assoluta e tragica delle fantasie. Possiamo solo immaginare le reazioni imbarazzate dei lettori dell’epoca quando il romanzo, sotto lo pseudonimo maschile di Murray Constantine, viene pubblicato dall’editore socialista Victor Gollancz nel 1937 con una severa copertina gialla. Sotto il titolo, poche righe in grassetto descrivono l’ambientazione futuribile: “Siamo nel settimo secolo dell’era hitleriana. L’impero nazista si estende per tutta l’Europa e l’Africa, mentre l’impero giapponese copre l’Asia e l’America. La civiltà è stata annientata da secoli. La religione si è ridotta al culto del Dio del Tuono”. Le collane di Gollancz erano improntate da una aperta militanza e intendevano documentare la vita e le difficoltà delle classi lavoratrici. La prima edizione de La notte della svastica è in catalogo assieme a romanzi impegnati come La strada di Wigan Pier, il romanzo di George Orwell dedicato alla condizione dei minatori, e un capolavoro popolare come La cittadella di A.J. Cronin. Contemporaneamente nella collana Left Book Club Edition di Gollancz vengono pubblicate opere politiche come Spanish Testament di Arthur Koestler e Stella rossa sulla Cina di Edgar Snow, per i lettori di sinistra. Nell’Inghilterra che sta per essere trascinata nel conflitto mondiale le divisioni sociali sono aspre e le notizie provenienti da Italia, Germania e Spagna mettono irrimediabilmente a fuoco la complessità e la versatilità del fascismo europeo. Angosce che, contemporaneamente, si scontrano con la profonda avversione verso lo stalinismo di autori come Orwell e Koestler. Nel 1940, in pieno conflitto mondiale, La notte della svastica trova una nuova edizione nel Left Book Club Edition, i libri dalla copertina rossa, raggiungendo così un grande numero di abbonati della sinistra britannica; poi questo libro troppo difficile scompare dal mondo editoriale.

Dobbiamo a Daphne Patai, studiosa statunitense dell’utopia e della cultura delle donne, il primo e più importante contributo alla comprensione di questo suo strano e sgradevole romanzo che è La notte della svastica. L’introduzione alla riedizione critica del romanzo del 1985 chiarisce a lettori e studiosi che Murray Constantine è lo pseudonimo di una scrittrice che aveva al suo attivo altri romanzi, e lo pseudonimo maschile lascia finalmente il posto al nome femminile di Katharine.

Katharine Burdekin, in realtà, era Katharine Penelope Cade, una donna nata nel 1896 in un piccolo centro del Derbyshire nel nord dell’Inghilterra, in una famiglia benestante ed la più giovane di quattro tra fratelli e sorelle. La sua infanzia si divide tra lo studio, le molte letture e l’impegno volontario nella Red Cross. Nonostante fosse una studentessa molto capace, la sua famiglia non le concesse di iscriversi a Oxford come i fratelli maschi, ma lo scoppio della guerra irrompe violentemente nella sua vita. Il fratello viene arruolato assieme un amico australiano, il campione di canottaggio e medaglia d’argento olimpica Beaufort Burdekin. Beaufort viene ferito in battaglia e rientrato temporaneamente in Inghilterra si sposa con Katharine. Quando il marito torna al fronte, Katharine lavora all’ospedale militare di Cheltenham come inserviente addetta alle pulizie e ai pasti, e, contemporaneamente, si occupa del fratello Allan, sofferente di shock bellico e successivamente ricoverato come schizofrenico. È attraverso questa esperienza che Katharine sviluppa il suo primo pacifismo che sarà un elemento fondamentale di tutta la sua narrativa. Finita la guerra, dopo la nascita delle due figlie, Katharine Jayne e Helen Eugenie, la famiglia si stabilisce in Australia, ma il matrimonio finisce rapidamente. Katharine torna in Inghilterra con le figlie e si stabilisce in Cornovaglia assieme alla madre e alla sorella. La famiglia vive di rendita e dedica molto tempo alla lettura e alla discussione; in questa atmosfera apparentemente tranquilla Katharina pubblica il suo primo romanzo, Anna Colquhoun. È il 1922.

Nel 1926 Katharine incontra una donna che le sarà amica e compagna per tutta la vita. Isobel Allen Burns viene assunta come istitutrice delle piccole Katharine Jayne e Helen Eugenie, ma rapidamente si sviluppa tra le due donne un affetto profondo. Dal punto di vista storico si è cercato di comprendere se il rapporto tra Katharine e Isobel abbia avuto una componente sessuale, soprattutto per collegare la sua esperienza alle molteplici espressioni narrative che hanno riguardato l’omosessualità e, in generale, la compresenza nei singoli personaggi di tratti e pulsioni sia maschili sia femminili. Tuttavia non c’è prova di un rapporto esplicitamente lesbico tra loro e il racconto dei famigliari più stretti riporta che Katharine ebbe comunque alcune relazioni con uomini dopo la fine del matrimonio. Sempre dalla famiglia provengono diversi ricordi di Katharine che descrivono la mutevolezza del carattere caratterizzato da crisi depressive intervallate da periodi di intensa capacità creativa. Muore nell’agosto del 1963, momentaneamente dimenticata come i dieci romanzi che aveva pubblicato dal 1922 al 1940.

Il suo primo romanzo pubblicato, Anna Colquhoun (1922), è un’opera realista dedicata a una donna forte, autonoma, che intende tenere il destino nelle proprie mani e diventare una famosa musicista. Anna rifiuta il ruolo che la società intende imporgli, si oppone alla pressioni della tradizione, esattamente come l’aspirante scrittrice stava praticando nella sua vita reale dopo la fine del matrimonio. Il primo libro viene pubblicato come Burdekin, il cognome da sposata che manterrà per tutti i primi sei libri pubblicati con variazioni del nome: Kay o Katharine. Dopo A Reasonable Hope (1924), una storia in cui affronta sia i traumi della guerra sia il tema dell’omosessualità, Katharine Burdekin inizia a utilizzare il registro della narrativa fantastica e di fantascienza. The Burning Ring (1927) è una storia di viaggi nel tempo in cui un giovane egocentrico attraversa varie epoche utilizzando superpoteri come l’invisibilità e la capacità di cambiare aspetto. Il romanzo successivo è The Children’s Country (1929), una storia fantastica per giovani lettori che si ambienta in paese senza adulti dove è possibile sperimentare una vita con codici sessuali non tradizionali , ma è con il romanzo successivo che la fantascienza inizia a diventare il linguaggio per esplorare il tema della condizione femminile. In The Rebel Passion (1929), il protagonista viene trasportato dall’Inghilterra del Ventesimo secolo a quella del Ventunesimo, in una società nata dopo una guerra che ha opposto Europa e Asia, in cui le donne hanno ottenuto la completa uguaglianza nei diritti, viene normalmente applicata l’eugenetica e si sta diffondendo un’utopia rurale in parte disegnata sul modello rurale sviluppato da William Morris e in parte seguendo il modello socialista. Quiet Ways (1930) è un’opera autobiografica e antimilitarista, e racconta di un’infermiera del Voluntary Aid Detachment che si innamora di un soldato ferito e traumatizzato dai combattimenti. The Devil, Poor Devil! (1934) è il primo romanzo in cui Katharine Burdekin utilizza lo pseudonimo di Murray Constantine, si tratta di un’opera propriamente fantastica in cui il diavolo deve affrontare il problema che l’umanità ha praticamente smesso di credere in lui. Secondo quanto riportato da Daphne Patai la scelta dello pseudonimo era stata motivata dalla consapevolezza che i suoi romanzi erano apertamente antifascisti e temeva per l’incolumità della sua famiglia. All’epoca, infatti, la British Union of Fascists di Oswald Mosley era al massimo dei consensi ed erano frequenti intimidazioni e azioni violente contro i loro oppositori. Proud Man (1934), ancora pubblicato sotto pseudonimo, rappresenta un ulteriore sforzo di trattare i temi del pacifismo e dell’antimilitarismo creando lei stessi moduli ancora inconsueti per la fantascienza. Un essere giunto dal futuro mette a confronto la società da cui proviene con quella inglese del periodo tra le due guerre mondiali. Nel futuro l’evoluzione ha portato a una specie umana androgina, governata da uno stato pacifico e mondiale, vegetariana e senza differenze di classe. La creatura postumana prima si presenta come femmina e poi come maschio, mostrando nei fatti il superamento della dualità sessuale che conosciamo e prospettando, attraverso i meccanismi estrapolativi della fantascienza, una materializzazione della metafora di una società che è stata capace di annullare le stesse differenze biologiche dei generi. Ma il nodo tra biologia e totalitarismo letteralmente esplode ne La notte della svastica, precursore non riconosciuto di tutte le successive distopie e testo che conferma brillantemente analisi teoriche incentrate sui fortunati termini di “biopolitica” e “biopotere”.

Sotto molti aspetti Katherine Burdekin, come testimonia la sua bibliografia, deve essere considerata un’autrice di letteratura fantastica e fantascienza, oltre essere stata una scrittrice femminista e socialista, anzi è proprio lei a inventare e sperimentare per prima quello spazio estrapolativo, utopico, distopico e radicale che è proprio della fantascienza femminista e che, dopo di lei, ha visto impegnate Judith Merril, Doris Lessing, Ursula Le Guin, Joanna Russ, Alice Sheldon, Margareth Atwood, Angela Carter, Octavia Butler e Maggie Gee.

Ma su quale immaginario aveva lavorato Katherine Burdekin per concepire le proprie opere più visionarie? Sicuramente nei suoi romanzi sono evidenti l’approccio ipotetico di un classico della letteratura britannica come La battaglia di Dorking di George Tomkyns Chesney, un’ucronia pubblicata nel 1871 ambientata in un futuro in cui la Gran Bretagna ha perduto una guerra con la Prussia. La nazione sconfitta è diventata una provincia tedesca, tassata e soggiogata dall’invasore. La storia alternativa di come sia avvenuta la sconfitta e come fosse la vita prima della catastrofe militare è affidata al racconto di un veterano che, prima di morire, affida alle nuove generazioni il racconto di una diversa realtà. La narrazione del veterano della battaglia di Dorking per diversi aspetti ricorda il racconto dialogo tra Von Hess e Arnold che è alla base della parte centrale de La notte della svastica e ricostituisce quel rapporto spezzato tra lo shock del mondo deformato e la realtà storica del lettore. Un altro scrittore che con le sue opere ha consentito a Katharine Burdekin di familiarizzare con l’idea di un mondo futuro che fosse una proiezione deformata ed estrema del presente è Herbert George Wells con classici come La macchina del tempo (1895), Il risveglio del dormiente (1899), ma anche L’uomo invisibile (1896) che viene richiamato in The Burning Ring. La macchina del tempo infatti ci consente uno sguardo su come la divisione di classe e le diseguaglianze esistenti alla fine dell’Ottocento, anziché ricomporsi in un futuro di progresso e giustizia, si possano invece inasprire, invertendo quell’idea lineare di progresso che ottimisticamente abbiano mutuato dal Secolo dei Lumi. Anche Il tallone di ferro (1907) di Jack London risuona con la tensione distopica de La notte della svastica, mentre da Il mondo nuovo (1932) può essere stata tratta l’analogia che vede il romanzo di Aldous Huxley svolgersi nell’Anno di Ford 632 mentre Katharine Burdekin ambienta il suo nell’anno 720 dopo la morte del dio Hitler. Nonostante queste premesse l’accelerazione che Katharine Burdekin imprime alla propria narrazione la distacca per pessimismo e profondità da tutta la letteratura precedente e segna irrevocabilmente quella futura. Anzi, dovranno essere progressivamente smascherati gli orrori dei fascismi e combattuta una guerra mondiale per attribuire al romanzo una base di inquietante realismo. Nel 1937, alla data della sua prima pubblicazione, il nazionalsocialismo di Hitler è considerato da molti un regime autoritario che, nonostante il suo aperto antisemitismo, ha ottenuto risultati sociali ed economici rilevanti; nessuno prima di Katharine Burdekin ne aveva colto l’intima relazione tra violenza e sessualità, l’insito disprezzo verso le donne che risiede alla base del ruolo di “madre fertile”, la dimensione sociale della violenza e il ruolo delle caste quali elementi costituenti dello Stato, la dimensione religiosa e irrazionale del fanatismo politico e l’uso della dimensione collettiva per indebolire le diversità individuali e favorire il controllo e l’omologazione, come poi teorizzato da George Mosse nel saggio La nazionalizzazione delle masse (1974). Pochi anni dopo 1984 di George Orwell è un tributo letterario, politico e antropologico non dichiarato a La notte della svastica.

L’assetto del mondo descritto da Katherine Burdekin che si è instaurato dopo una Guerra dei Vent’anni, diviso tra impero nazista e dittatura nipponica che si fronteggiano in una secolare Guerra fredda, ripropone dal punto di vista geopolitico sia La svastica sul sole (1962) di Philip K. Dick (oggi soggetto della fortunata serie TV The Man in the High Castle) sia il mondo tripartito in perenne guerra di 1984. Ma soprattutto è l’ostilità tra la dittatura e la storia a legare indissolubilmente questi tre romanzi, il grande inganno che nasconde il passato a cui si oppongono, sempre più debolmente, i segni delle contraddizioni: il manoscritto di Von Hess e la fotografia originale di Hitler, il ritaglio del “Times” che capita al “correttore” Winston Smith di 1984 e il libro sovversivo La cavalletta ci opprime del romanzo di Dick che racconta un diverso mondo possibile. Anche nel paludato thriller Fatherland (1992) di Richard Harris è il contenuto di una cassetta di sicurezza a detenere le prove di crimini nazisti abilmente occultati dopo la vittoria sull’Unione Sovietica. Sono quei fotogrammi deteriorati a cui si richiama Marc Bloch in Apologia della storia o mestiere di storico (1949) quando descrive l’attiva dello storico come di una persona che svolge la pellicola del tempo all’indietro e si trova a osservare fotogrammi sempre più deteriorati e ambigui. Sono i segni di un passato che si divincolano dalla propaganda e dall’apparenza dell’ideologia per pretendere il ristabilirsi del primato della realtà. Katharine Burdekin intuisce che la distruzione della storia e della personalità sono elementi chiave per un governo dei pochi sui molti, dell’uomo sulle donne, delle élite sulle masse. L’amnesia mondiale, seguita alla trasformazione del partito nazionalsocialista in mito, arriva fino al punto di scontrarsi con la stessa biologia, riducendo la donna a un animale da riproduzione attraverso la perdita di memoria e di identità, a un elemento della filiera bellica specializzata nella produzione di soldati. In maniera quasi sotterranea la società nazista si stava muovendo nella direzione di funzionalizzare l’intera popolazione a un progetto di dominio mondiale attraverso una perversa logica fordista, come dimostrava anche il programma di sterilizzazione ed eutanasia dei disabili passato alla storia con la sigla Aktion T4. Ma, come spesso la fantascienza mette in campo, la natura può opporsi al con la catastrofe. In questo caso è emblematicamente la sterilità, elemento fondante de Il racconto dell’ancella (1985) di Margaret Atwood o del recente Il pianeta di ghiaccio (1998) di Maggie Gee.

Se la superstizione è la base della religione di Hitler, allora non c’è un posto per la scienza o per la tecnica nel fosco anno 720. Il mondo si è fermato negli anni Trenta, per poi retrocedere e perdere progressivamente conoscenze collettive e individuali fino all’instaurarsi di un nuovo eterno feudalesimo. Il mondo intero deve diventare analfabeta e, a parte un apocrifo libro religioso, solo sterili manuali tecnici hanno resistito come supporto alle parole scritte. Del resto Marshall McLuhan, a partire dagli anni Cinquanta, aveva osservato che molte tecnologie, e una di queste è la scrittura, si sono evolute per la loro capacità di governare il tempo. Ma l’umanità dell’era del dio Hitler vive un’esperienza atemporale del sempre uguale, garantendo all’élite e alla loro progenie la nefasta utopia di un potere infinito. Katharine Burdekin ignorava ancora l’alleanza tra nazionalsocialismo e Confindustria tedesca che aveva portato al cancellierato di Hitler nel 1933 con un programma anticomunista e antisindacale, realizzando un “miracolo industriale” fortemente basato sul lavoro obbligatorio dei prigionieri politici e dei cittadini classificati asocialen.

Dopo le due edizioni de La notte della svastica Katharine Burdekin pubblica Venus in Scorpio. A Romance in Versailles, 1770-1793 (1940), firmato assieme a Margaret Leland Goldsmith, una giornalista statunitense che viveva in Inghilterra, ancora con lo pseudonimo di Murray Constantine. Dopo la guerra scrive ancora sei romanzi che non vengono pubblicati. Nel 1963, Katharine Burdekin muore dopo una lunga malattia senza che nulla associ al suo nome le opere pubblicate come Murray Constantine. Ma con l’edizione curata da Daphne Patai del 1985 de La notte della svastica e la pubblicazione postuma del romanzo utopico The End of This Day’s Business (1989), grazie alla Femminist Press, Katharine Burdekin trova finalmente il posto che le compete all’interno del pensiero politico e femminista del Novecento.

La notte della svastica vantava un’unica edizione italiana per Editori Riuniti, curata nel 1993 da Carlo Pagetti. La sua introduzione offre le prime informazioni critiche su questa distopia/ucronia e su Katherine Burdekin. Oltre a un suo saggio “Nell’anno del Signore Hitler 720. Swastica Night di Katharine Burdekin”, apparso nel volume Cittadini di un assurdo universo (Nord, Milano, 1989), la bibliografia italiana dedicata a questa scrittrice vede il capito “Sogni e Incubi femminili”, nel volume di Oriana Palusci Terra di lei. L’immaginario femminile tra utopia e fantascienza (Tracce, Pescara, 1990) e il capitolo “Il problema della distopia femminile. Ginocentrismo e afasia in Swastica Night di K. Burdekin”, nel volume di Beatrice Battaglia Nostalgia e mito nella distopia inglese (Longo, Ravenna, 1998).

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Distopia femminista https://www.carmillaonline.com/2023/12/12/distopia-femminista/ Tue, 12 Dec 2023 21:00:27 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80194 di Gioacchino Toni

Martina Marras, Distopia femminista. Analisi di un genere, Meltemi, Milano 2023, pp. 180, € 16,00

Dopo aver proposto una definizione di “distopia femminista”, prospettando la possibilità di individuarvi un genere autonomo, Martina Marras procede esaminando diversi esempi di letteratura distopica a carattere femminista concentrandosi sulla sua presa in carico di questioni inerenti l’autodeterminazione femminile, soprattutto a proposito della riproduzione e del controllo del corpo, affrontando poi il problema del linguaggio inteso tanto come strumento di dominio quanto come mezzo di liberazione.

In generale tra le questioni maggiormente affrontate dalla narrativa distopica, sostiene Marras, figurano quelle relative a contesti [...]]]> di Gioacchino Toni

Martina Marras, Distopia femminista. Analisi di un genere, Meltemi, Milano 2023, pp. 180, € 16,00

Dopo aver proposto una definizione di “distopia femminista”, prospettando la possibilità di individuarvi un genere autonomo, Martina Marras procede esaminando diversi esempi di letteratura distopica a carattere femminista concentrandosi sulla sua presa in carico di questioni inerenti l’autodeterminazione femminile, soprattutto a proposito della riproduzione e del controllo del corpo, affrontando poi il problema del linguaggio inteso tanto come strumento di dominio quanto come mezzo di liberazione.

In generale tra le questioni maggiormente affrontate dalla narrativa distopica, sostiene Marras, figurano quelle relative a contesti dittatoriali e a problematiche ecologiste, ricorrendo frequentemente a scenari post-apocalittici.

Volendo arrivare a una prima generica conclusione, si può affermare che la distopia, compresa quella femminista, offre una descrizione esasperata dei pericoli, reali o potenziali, e delle paure che abitano il nostro mondo, al fine di stimolare lo spirito critico del lettore e, in qualche raro caso, con l’intento di fornire delle rassicurazioni rispetto alle preoccupazioni più comuni. Il male a cui si fa riferimento nei romanzi non è altro che la trasposizione, esagerata ed esasperata, di problemi presenti e spesso assai concreti. È necessario dunque riconoscere la valenza critica che ogni opera distopica porta con sé.

Tra le pieghe delle rappresentazioni dell’orrore e degli incubi umani più angoscianti proposte da numerose narrazioni distopiche non manca qualche barlume di speranza e ciò, sostiene Marras, è maggiormente presente nelle distopie di genere che, rispetto a quelle classiche, manifestano un impulso utopistico forse derivato da un maggiore ottimismo di fondo, quasi che ai timori per un futuro prospettato a tinte fosche si accompagni un desiderio di emancipazione possibile, oltre che necessaria.

Frequente nelle narrazioni distopiche femminili è il tema della riproduzione e ciò, secondo la studiosa, non è funzionale soltanto a denunciare le storture e le iniquità derivate dalla società patriarcale, ma si rivela utile anche a esplorare «il rapporto, spesso conflittuale, delle donne con la maternità» desiderose, nel caso, di conquistare la possibilità di viverla secondo le proprie condizioni e in ciò risiederebbe qualche barlume di speranza nei confronti del futuro.

Oltre che narrazioni volte a svolgere una funzione critica, le distopie femministe andrebbero, secondo Marras, ancora di più viste «come la manifestazione del dialogo intimo femminile, in materia di desideri personali e aspettative sociali, dialogo che si è cercato più volte di portare nella sfera pubblica senza raggiungere, tuttavia, i risultati sperati in termini di attenzione e comprensione».

Nell’ambito del genere distopico che si focalizza sulla condizione femminile Marras inserisce, tra gli altri, romanzi come La notte della svastica (Swastika Night, 1937) di Katharine Burdekin e i più recenti Le figlie di Egalia (Egalias Dotre, 1977) di Gerd Brantenberg, Lingua nativa (Native Tongue, 1984) di Suzette Haden Elgin, Il racconto dell’ancella (The Handmaid’s Tale, 1985) di Margaret Atwood e Ragazze elettriche (The Power, 2016) di Naomi Alderman.

La fortunata serie televisiva del 2017 ideata da Bruce Miller ispirata al romanzo della Atwood ha contribuito non solo alla riscoperta dell’opera della scrittrice canadese – tanto da indurla a scriverne un sequel intitolato I Testamenti (The Testaments, 2019) –, ma anche a far emergere le potenzialità critiche del genere distopico femminista in un contesto involuto in senso marcatamente reazionario.

In buona parte dei romanzi distopici femministi le donne sono relegate a una condizione di infelice subalternità, percepite come «corpi segnati da un inesorabile destino biologico, costrette a vere e proprie forme di schiavitù riproduttiva alle quali non possono sottrarsi». Visto che spesso nelle distopie si proiettano angosce e timori reali e attuali, occorre domandarsi come in un’opera di grande successo come Il racconto dell’ancella venga messa in scena dalla scrittrice una società in cui le donne sono tenute a svolgere «il proprio ruolo di fattrici».

Nel più ampio panorama della letteratura distopica un tema che si rintraccia con una certa frequenza è quello della fine dell’umanità, dobbiamo dunque pensare che le scelte autonome delle donne in materia di maternità debbano essere ostacolate in quanto espongono al rischio di estinzione? In senso assoluto, come umanità, sembrerebbe proprio di no. Il mondo occidentale, e la sua cultura, rischiano, a causa del basso tasso di natalità, di perdere la preminenza fino a questo momento avuta, il che spinge verso posizioni conservatrici che tracciano percorsi maggiormente definiti con rinnovato paternalismo? È un’ipotesi più probabile, che si accompagna alla preoccupazione di non lasciare, a livello individuale, un segno nel mondo. La progenie, del resto, è sempre stata una “promessa” di eternità. Questa paura, tuttavia, appare diffusa soprattutto fra gli uomini, i quali mal sopportano, ad esempio, l’idea di perdere il proprio nome.

Marras si dice convinta che tale rappresentazione della maternità, oltre a voler portare una critica radicale agli iniqui meccanismi sociali esistenti, intenda anche assolvere «una funzione per certi versi dissacratoria da parte delle donne stesse nei riguardi della procreazione come vincolo (quasi) ineludibile. Il confronto con la dimensione biologica rappresenta un argomento problematico che mette fortemente in discussione le basi della società patriarcale e ciò, forse, spiegherebbe l’assenza di certe tematiche dalle narrazioni che sono rivolte a un pubblico più ampio o che provengono da autori maschili».

Ampliando il discorso ai media audiovisivi, Marras nota come la fortunata serie televisiva distopica Black Mirror (dal 2011) creata da by Charlie Brooker abbia prestato scarso interesse alle tematiche di genere soprattutto a proposito della riproduzione e del controllo dei corpi. Eppure, mettendo in scena una sorta di presente estremizzato, non sarebbe difficile immaginare qualche puntata imperniata sui livelli di assoggettamento della donna a modalità e finalità riproduttive subite o, viceversa, a inedite possibilità di autodeterminazione.

In un momento segnato dalla perdita di punti di riferimento chiari, soprattutto da parte degli uomini costretti a fare i conti non solo con il ridimensionamento del proprio ruolo decisionale e di controllo sulle donne, ma anche con l’affievolirsi della loro funzione biologica in ambito riproduttivo, il «destino della riproduzione sociale sembra dipendere principalmente dalle donne e tale inversione di tendenza deve certamente essere intesa come motivo di turbamento per chi assiste alla perdita del proprio ruolo tradizionale e allo sgretolarsi delle certezze ad esso connesse».

La narrazione distopica, nel suo caratterizzarsi come una delle modalità d’accesso privilegiate alle paure più diffuse – dietro cui si celano frequentamene desideri inespressi, proibiti o irrealizzabili –, tende a sottrarsi al controllo dell’interpretazione razionale preferendo rimandare a un ambito emozionale scosso dai timori contemporanei, dall’analisi delle narrazioni distopiche femministe secondo Marras emerge come in esse trovino spazio anche le preoccupazioni maschili.

Non è un mistero il fatto la cultura prevalga sempre sulla natura, per quanto gli argomenti biologici-naturalisti siano stati – e siano in alcuni casi – utilizzati come pretesti per rendere inattaccabili le imposizioni a cui le donne sono state sempre silenziosamente costrette. La società descritta ne Le figlie di Egalia, ad esempio, fa perno su una possibile lettura naturalistica in opposizione a quella esistente e che riversa, dunque, sugli uomini alcuni oneri tradizionalmente ascritti alle donne, come la cura dei figli e lo svolgimento delle faccende domestiche, in ragione del fatto che gli uomini non hanno il privilegio di partorire e per questo rivestono un ruolo subordinato, sicuramente meno importante, nel processo riproduttivo. Sebbene l’argomento naturalistico venga spesso difeso proprio in forza della sua manifesta “oggettività”, appare chiaro che tutto dipende dalla narrazione che intorno ad esso si sceglie, arbitrariamente, di costruire. La natura impone che siano le donne a portare avanti le gravidanze, e ciò appare incontrovertibile, ma quali obblighi e benefici si legano a questo fatto è una questione prettamente culturale come ben dimostra il romanzo di Brantenberg. Inoltre, contrariamente alla retorica visione della maternità come massima realizzazione femminile, è bene evidenziare che tale esperienza si rivela non sempre appagante e felice per le donne.

La pressione sociale, spacciata per necessità biologica, a cui le donne sono sottoposte non sempre consente loro di autodeterminarsi; non a caso la distopia femminista offre una rappresentazione degli obblighi sociali, e non naturali, a cui sono sottoposte le donne anche in termini di maternità.

Donne senza identità propria e i cui corpi sono intesi come luoghi pubblici, funzionali alle esigenze sociali, senza alcuna possibilità di autodeterminarsi in ragione dei propri desideri. E infine, donne private del diritto di esprimersi con parole adeguate o sufficienti. Non è un caso, infatti, che il tema della procreazione e del controllo dei corpi intersechi quello, apparentemente lontano, del linguaggio. Raccontando di donne private della possibilità di parlare liberamente, la distopia femminista rivendica la necessità di disegnare con parole proprie un mondo che non sembra essere in linea con le narrazioni dominanti. […] Accanto al tema dello sfruttamento riproduttivo, la questione del silenzio femminile sembra infatti caratterizzarsi come una delle più urgenti. Metaforicamente e non a seconda dei casi, nelle narrazioni distopiche alle donne è impedito l’uso della parola come mezzo di costruzione di sé.

Marras segnala anche come nel genere distopico femminista non manchino narrazioni in cui sono le donne a esercitare un ruolo dominante ai danni degli uomini, come nel caso di Ragazze elettriche, anche se il messaggio veicolato dal romanzo a suo avviso si situa comunque nella cornice precedentemente tracciata. «In caso contrario, si arriverebbe al paradosso di catalogare l’opera come utopia, ma una posizione simile sarebbe evidentemente assurda. Lungi dal desiderare un mondo caratterizzato dalla violenza, Alderman sembra voler comunicare quanto difficile sia la vita degli oppressi, molti dei quali nelle nostre società sono donne».

In conclusione del volume Marras si concentra sul romanzo Female Man (1975) di Joanna Russ che, per quanto più prossimo alla fantascienza che non al genere distopico, permette di affrontare diverse questioni emerse nello studio della distopia femminista utili a palesare la complessità delle questioni di genere. Il testo di Russ scritto nel corso degli anni Sessanta del secolo scorso, nel clima del femminismo della Seconda ondata, propone una forma di fantascienza di genere che sin dal titolo palesa sin dal linguaggio la messa in discussione dei pregiudizi e delle certezze del mondo contemporaneo.

Narrando le esperienze di quattro diverse protagoniste femminili che vivono altrettanti universi paralleli, Russ costruisce un racconto collettivo utile a tratteggiare la complessità femminile rapportata alle contraddizioni vissute.

Il romanzo propone una stratificazione dei possibili livelli di emancipazione a cui le culture tendono, al fine di porre in luce limiti e contraddizioni con le quali ancora oggi ci confrontiamo, grazie alla distopia e non solo. Non c’è nessuna soluzione univoca, il finale è aperto, come è corretto che sia, da un punto di vista teorico – sebbene inneggi alla futura libertà delle donne – e nel corso di tutto il romanzo quello che veramente si coglie è un invito alla riflessione cercando di non dimenticare nessuna sfumatura e considerando i problemi nella loro più piena complessità.

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Alice nell’eterotopia del capitale https://www.carmillaonline.com/2023/07/04/alice-nelleterotopia-del-capitale/ Tue, 04 Jul 2023 20:00:13 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78039 di Paolo Lago

Immaginiamo una società in cui le persone sono assoggettate anima e corpo ai diktat del capitalismo digitale: lavoro, spettacolo, controllo del tempo libero, dipendenza da smartphone e da videogame. Immaginiamo che questa società sia il Giappone contemporaneo, per la precisione una metropoli come Tokio. Pensiamo allora alle sequenze iniziali del primo episodio della prima stagione della serie TV Alice in Borderland diretta da Shinsuke Sato, uscita nel 2020 e in onda su Netflix (nel dicembre del 2022 è uscita la seconda stagione): tre amici si danno appuntamento in una zona [...]]]> di Paolo Lago

Immaginiamo una società in cui le persone sono assoggettate anima e corpo ai diktat del capitalismo digitale: lavoro, spettacolo, controllo del tempo libero, dipendenza da smartphone e da videogame. Immaginiamo che questa società sia il Giappone contemporaneo, per la precisione una metropoli come Tokio. Pensiamo allora alle sequenze iniziali del primo episodio della prima stagione della serie TV Alice in Borderland diretta da Shinsuke Sato, uscita nel 2020 e in onda su Netflix (nel dicembre del 2022 è uscita la seconda stagione): tre amici si danno appuntamento in una zona centrale della capitale giapponese ma, invece di parlare tra loro, se ne stanno incollati ai loro smartphone digitando in continuazione per interagire con giochi e chat, e percorrono le strade facendosi selfie e vivendo – sembra – unicamente nella dimensione virtuale offerta dai loro apparecchi (correndo anche il rischio di essere investiti). I personaggi fanno parte di quello che il filosofo sudcoreano Byung-Chul Han ha chiamato “sciame digitale”, cioè una moltitudine di individui che si trova ad agire in una comunità ma che non interagisce con essa, standosene invece isolata. Tutti e tre i personaggi appaiono inoltre schiacciati dalla macina del capitale: il protagonista, Arisu, è un ventiquattrenne disoccupato appassionato di videogiochi, appartenente a una famiglia benestante e continuamente vessato dal padre e dal fratello perché non vuole cercare lavoro; Karube è un barista precario innamorato della fidanzata del proprio capo; Chota, infine, è un tecnico informatico che deve mantenere economicamente sua madre.

Improvvisamente, i tre personaggi, insieme ad altri abitanti della città, si trovano proiettati in un’altra dimensione, in una Tokyo che potrebbe apparire distopica ma che si potrebbe meglio definire come eterotopica. La maggior parte della popolazione è scomparsa, le strade sono deserte, le automobili sono ferme e, nel corso della serie, il senso di desolazione si intensifica ancora di più nella rappresentazione della vegetazione che ha preso il sopravvento in città: gli edifici sono abbandonati e ricoperti dalle piante, le auto sono ridotte a delle carcasse ricoperte di tentacoli verdi pieni di fogliame. Potrebbe apparire come un mondo del futuro post-apocalittico, in cui la natura ha ripreso il sopravvento e gli esseri umani sono stati sterminati da qualche pestilenza o apocalisse (come nel romanzo Pietra nera di Alessandro Bertante o nella serie TV The 100). In effetti, noi spettatori, insieme ai personaggi, non sapremo mai la verità fino alla fine. Vediamo semplicemente rappresentato lo stesso identico spazio di prima (laddove c’erano la folla, il caos, il traffico, il consumo sfrenato) svuotato però delle sue sovrastrutture esterne e dei suoi simulacri, come se fosse calato il sipario. In una città devastata restano solo gli individui che hanno introiettato tutti quei simulacri. Ecco perché, rifacendoci a Foucault, possiamo chiamare eterotopico piuttosto che distopico il mondo che d’ora in poi vedremo nella serie: uno “spazio altro” (questo significa “eterotopia”) che serve per rappresentare allusivamente la società quotidiana del capitalismo digitale avanzato. In questa nuova dimensione eterotopica i personaggi sono chiamati a partecipare a dei “game”, come avviene in Squid Game, che arriva un anno dopo; in quest’ultima serie sappiamo di trovarci in un luogo inquietante, segreto e misterioso, ma comunque nel mondo ‘reale’. In Alice in Borderland siamo invece in un’altra dimensione: non a caso, il titolo è modellato su quello del noto romanzo di Lewis Carroll, Alice in Wonderland (il titolo preciso è Alice’s Adventures in Wonderland, 1865) e a quest’ultimo i rimandi sono diversi, dalla presenza di un personaggio che si chiama “Cappellaio” fino ad una partita a croquet con la Regina di Cuori.

Ma il “paese delle meraviglie” della serie TV giapponese ha ben poco di meraviglioso o, meglio, è una dimensione in cui gli individui, ormai privi dei simulacri spettacolari del capitalismo digitale, ne hanno introiettato tutti i meccanismi. Infatti è una “borderland”, una “terra di confine”: un’eterotopia in cui il capitale si presenta sotto un’altra faccia. Le uniche reliquie rimaste sono degli smartphone esclusivamente tarati sui “game”, che i partecipanti devono avere sempre con sé durante le competizioni. Ad ogni nuovo “game” c’è sempre un nuovo smartphone o bracciale o collare elettronico (che possono essere letali) da indossare, probabile allusione al pervasivo controllo digitale a cui la società ipertecnologica ci sta ormai consegnando. Ed è assolutamente obbligatorio partecipare ai “game”, altrimenti il “visto” scadrà e la morte è assicurata. Perché l’eterotopia rappresentata nella serie TV viene presentata come un vero e proprio paese, una rappresentazione assurda e quasi metafisica della società quotidiana. Se nelle immagini iniziali della prima puntata vedevamo corpi e volti alienati muoversi nel caos consumistico e digitalizzato di Tokio, adesso quella società appare crudelmente estinta ma sopravvive ugualmente nelle menti e nelle psicologie dei personaggi. Come in un’allegoria della civiltà dei consumi, durante i “game” ognuno penserà a prevalere sugli altri pur di avere salva la vita, anche tradendo gli amici più cari. Tutti i “game” sono ispirati ai semi delle carte da gioco (cuori, quadri, fiori, picche) e sono comandati da un re o da una regina. Anche nel romanzo di Lewis Carroll personaggi importanti sono la Regina, il Re e il Fante di cuori. Ma se Alice, alla fine, riuscirà a ritrovare il senso di realtà dicendo loro che non sono altro che un mazzo di carte, cosa succederà invece ai protagonisti della nostra storia?

Non possiamo certo dirlo perché la serie è costruita attraverso un percorso graduale in un progressivo avvicinamento alla verità. Arisu e i personaggi che incontrerà nel suo cammino non faranno altro che porsi una serie di lancinanti domande: dove siamo? Perché ci troviamo qui? dove sono finiti tutti gli altri? (saranno stati spazzati via da una qualche apocalisse o se ne staranno chiusi in un serratissimo lockdown mentre fuori la natura riprende il sopravvento?). La dimensione eterotopica in cui i personaggi si trovano catapultati assomiglia anche a uno specchio deformante che fa vedere la società quotidiana in una forma distorta (o reale?). Come scrive Umberto Eco nel suo saggio Sugli specchi, “se non sappiamo né che è specchio né che è deformante, allora ci troviamo in una situazione di normale inganno percettivo”. Ed è ciò che, probabilmente, accade ai personaggi all’inizio della loro avventura nella “Borderland”. Però, poi, progressivamente capiscono che si tratta di uno specchio deformante e allora – continua Eco – “godiamo delle caratteristiche allucinatorie del canale”. Accettiamo la deformazione del nostro corpo “così come si accetta una fiaba”. Nella seconda stagione di Alice in Borderland i personaggi accettano la dimensione deformante dei “game” e le regole della crudele fiaba nella quale si trovano catapultati, la fiaba di un capitalismo digitale che, pur non essendoci più, continua a manovrare le loro coscienze e i loro corpi, fino a ucciderli (e a farli uccidere tra loro) in modo atroce.

Inutile ricordare che il seguito che Carroll volle dare a Alice nel paese delle meraviglie si intitola Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò (Through the Looking-Glass, and What Alice Found There, 1871). Perché lo specchio può celare, come scrive Foucault, un mondo magico, uno spazio che rappresenta per il corpo un “insuperabile altrove”, ed è venato di risvolti utopici. Ma non c’è nessuna utopia in Alice in Borderland, e neppure nessuna meraviglia. Lo capiamo bene nella seconda stagione, in cui i massacri si fanno più sottili, logici, ma anche più crudeli. Quella inquietante eterotopia in cui i personaggi si trovano catapultati è la dimensione del capitale al grado zero, in cui esso è stato introiettato nella mente a livello inconscio. Nonostante la sparizione della sua tecnologia e del suo spettacolo (non funzionano più gli oggetti digitali e neppure le automobili; le uniche a funzionare sono quelle più vecchie e i dispositivi ormai desueti), gli individui continuano a comportarsi secondo le sue regole. E anche se i protagonisti riusciranno a riscoprire un senso di amicizia e di solidarietà reciproca, la regola è impugnare gli smartphone e affrontarsi in giochi terribili, ignorandosi e cercando di sopraffarsi a vicenda, cercando di sopravvivere nell’unica forma consentita, quegli “sciami digitali” che ci isolano all’interno di alienate moltitudini. Ma quale “game”, ma quale distopia, ma quale dimensione metafisica e allucinata; è la realtà di tutti i giorni, granitica, tangibile e non certo meno crudele.

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L’ultimo romanzo di Valerio https://www.carmillaonline.com/2023/05/17/lultimo-romanzo-di-valerio/ Tue, 16 May 2023 22:01:48 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77302 di Luca Cangianti

Valerio Evangelisti, La fredda guerra dei mondi. Romanzi brevi e racconti ritrovati, a cura di Franco Forte, Mondadori, 2023, € 22,00 stampa, € 11,99 ebook, pp. 552.

Gli alieni esistono, attaccano la Terra e ne distruggono i monumenti. Chiedono la liberazione dei loro compagni catturati dopo la seconda guerra mondiale. Le élite mondiali utilizzano la paura del nemico per rafforzare il consenso e dominare la popolazione. Nel frattempo uno scalcinato gruppo di rapinatori organizza un colpo proprio in una delle basi dove si trovano i prigionieri. I protagonisti [...]]]> di Luca Cangianti

Valerio Evangelisti, La fredda guerra dei mondi. Romanzi brevi e racconti ritrovati, a cura di Franco Forte, Mondadori, 2023, € 22,00 stampa, € 11,99 ebook, pp. 552.

Gli alieni esistono, attaccano la Terra e ne distruggono i monumenti. Chiedono la liberazione dei loro compagni catturati dopo la seconda guerra mondiale. Le élite mondiali utilizzano la paura del nemico per rafforzare il consenso e dominare la popolazione. Nel frattempo uno scalcinato gruppo di rapinatori organizza un colpo proprio in una delle basi dove si trovano i prigionieri. I protagonisti dell’impresa si autodefiniscono anarchici e concepiscono le loro azioni come espropri volti a ridistribuire la ricchezza sociale. Si sono dati perfino un nome, Confederazione sotterranea dei lavoratori, ma a parte il leader – Justin Mathurin, detto il Reverendo – e il Tricheco – militante in gioventù della Gauche prolétarienne – gli altri hanno ben poco di politico: si tratta di prostitute occasionali, ex tossicomani e altri frequentatori del sottomondo criminale.
Di questo parla La fredda guerra dei mondi, l’ultimo romanzo di Valerio Evangelisti. Si tratta di un’opera incompleta, ma godibilissima per i suoi personaggi scanzonati, il ritmo incalzante, l’acume politico e l’irresistibile comicità popolaresca:

Al primo sorso di champagne, Romero, che non vi era abituato, emise un rutto così forte da far sussultare la clientela e tremare le vetrate. Un ritratto di Apollinaire cadde e si ruppe il vetro di protezione. Dal piano superiore, separato da quello in basso con una scaletta, si affacciò irritato un noto giornalista televisivo. Gridò al maître: «Gustave, siamo al Dôme o in una bettola di Aubervilliers?».
Romero Avellano gli urlò: «Ti vedo in tv! Io faccio con la bocca i rumori che tu fai col culo, e trasformi in notizia! Vieni giù, e ti infilzo con una forchetta, sporco borghese!».

Certo, quando al diciottesimo capitolo il testo s’interrompe proviamo un tuffo al cuore e ci ricordiamo che il suo autore non è più tra noi. Però possiamo leggere il finale dell’omonimo racconto apparso in una raccolta Millemondi Urania nell’estate del 2020. Il romanzo incompiuto ne rappresenta infatti una riscrittura “aumentata” che ci introduce nel laboratorio segreto di Evangelisti: qui prendono vita personaggi tridimensionali come si conviene a un testo di maggiori dimensioni e compare lo scenario mutuato dalla precedente professione dello scrittore, quella di storico. Nel caso specifico torna alla memoria il suo saggio sugli anarchici illegalisti francesi del primo Novecento, contenuto nel libro Sinistre eretiche. Dalla banda Bonnot al sandinismo 1905-1984 (SugarCo, 1985). Non possiamo sapere se l’autore riservasse anche per il romanzo lo stesso finale del racconto, ma abbiamo una traccia possibile.

Insieme alla Fredda guerra dei mondi (sia il romanzo che il racconto), Franco Forte, il curatore del libro, ha scelto di pubblicare altri 25 racconti. Incontriamo così personaggi ormai noti ai lettori come l’inquisitore Nicolas Eymerich e il fisico psitrionico Marcus Frullifer, insieme a pirati, rivoluzionari risorgimentali e a protagonisti di storie comiche, drammatiche, fantascientifiche, distopiche, autobiografiche e perfino erotiche. Insomma, un estratto rappresentativo dell’immenso organismo letterario concepito da Evangelisti attraverso tutta la sua produzione storica, politica e narrativa: il One big novel, secondo l’azzeccata definizione di Alberto Sebastiani.
Nel libro ritornano molti dei grandi temi presenti nell’opera dello scrittore. Nei racconti O’ Gorica tu sei maledetta e Fuga dall’incubatrice compaiono i Poliploidi e i Mosaici. I primi sono i guerrieri della nazicomunista RACHE, ebeti ma quasi invulnerabili, con organi che si moltiplicano continuamente per effetto di un mutagene. I loro antagonisti speculari sono i Mosaici, mostri costruiti con pezzi di cadavere e parti di metallo, irregimentati nelle fila dell’Euroforce, il braccio armato di Eurobank. Di questo conflitto infinito unico beneficiario è il Potere da qualsiasi parte della barricata si trovi. Sheila Davis, dell’agenzia World-wide Press, afferma: «Creare mostri, nel corso di una guerra, è un’arma come un’altra. Aiuta a sparare. Il problema, semmai, è che non lo facciamo con efficacia sufficiente. La gente dovrebbe avere il proprio mostro ben piantato nel cervello.»
È quello che accade in Paradice dove si descrive una Terra futura devastata dalla malattia mentale: tutti sono in guerra con tutti e l’unica empatia residua consiste nell’uccidere.
Secondo Evangelisti, di fronte a questo processo di metastasi antropologica le battaglie rivoluzionarie stentano a conseguire successi, ma continuano ad avere un valore. In Controinsurrezione, nella Roma repubblicana del 1849, sconfitta e invasa dai francesi, Garibaldi grida: «Ci aspettano sete, marce forzate, battaglie e morte. Tuttavia, per chi vorrà seguirmi, la rivoluzione non è finita. La si ricomincia altrove». Nell’ultima opera dello scrittore, il Reverendo domanda alla moglie: «Dimmi, Francine, faremo mai la rivoluzione?» Ricevuta una secca risposta negativa, si chiede quindi quale sia il senso di quella che ritiene essere la sua attività militante. Francine replica che pur nelle disperanti condizioni attuali opporsi continua ad avere un significato:

«Perché, dove non è possibile una rivoluzione, il solo ribellarsi ha valore. Noi ladri togliamo significato al denaro, che passa nelle nostre tasche senza transazioni mercantili o bancarie. Diamo fastidio a chi comanda, fregandoci delle sue leggi e della sua morale. È così che, un passo alla volta, roviniamo il disegno pacificatore di chi ci opprime. Alla prima crisi seria, diventeremo addirittura un esempio.»

In queste parole ironiche e impenitenti sentiamo la voce più genuina del grande scrittore bolognese – una voce, ne sono sicuro, che accompagnerà le lotte future per una vita migliore.

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Contro la guerra che viene https://www.carmillaonline.com/2023/05/03/contro-la-guerra-che-viene/ Wed, 03 May 2023 20:01:04 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76641 di Gioacchino Toni

Régis Messac, Quinzinzinzili, Traduzione di Michele Trionfera. Postfazione all’edizione italiana di Andrea Esposito, Edizioni Tlon, Roma, 2023, pp. 184, € 16,00

«Nel periodo immediatamente precedente la [guerra], l’opinione pubblica europea sembrava preoccuparsi solo di scandali che, in fin dei conti, avevano un’importanza minima, e dei quali del resto nessuno capiva un granché. Queste storie di briganti, destinate a distrarre la platea, facevano pensare ai bambini che si divertono a giocare a guardie e ladri, e che quando si stancano di essere guardie si scambiano subito la parte con i ladri. [...]]]> di Gioacchino Toni

Régis Messac, Quinzinzinzili, Traduzione di Michele Trionfera. Postfazione all’edizione italiana di Andrea Esposito, Edizioni Tlon, Roma, 2023, pp. 184, € 16,00

«Nel periodo immediatamente precedente la [guerra], l’opinione pubblica europea sembrava preoccuparsi solo di scandali che, in fin dei conti, avevano un’importanza minima, e dei quali del resto nessuno capiva un granché. Queste storie di briganti, destinate a distrarre la platea, facevano pensare ai bambini che si divertono a giocare a guardie e ladri, e che quando si stancano di essere guardie si scambiano subito la parte con i ladri. Non si poteva mai sapere se il poliziotto incaricato di perseguire i truffatori non era in realtà al soldo del capo truffatore, e ci si aspettava da un momento all’altro di vedere il ministro della giustizia in manette, condotto i prigione dai suoi stessi subordinati».

«In previsione di un conflitto che si annunciava colossale, tutto il mondo era in cerca di alleati. […] Lungi dal ridurre il rischio della guerra, questo equilibrio di forze non fece altro che esasperare l’ardore bellico dei futuri belligeranti. […] Così, per ragioni molto diverse ma che conducevano allo stesso risultato, tutti i partiti organizzati si trovarono ad accogliere la guerra, o almeno ad accettarla. Solo pochi individui osarono ribellarsi, e dichiarare che non l’avrebbero permessa per niente al mondo […] Dispersi, isolati, privi di sostegno politico e senza una reale influenza sulla massa, il loro grido di protesta si perse senza eco nel fragore della guerra montante. La loro ribellione sporadica fu prontamente soffocata. Non fu altro che un’operazione di polizia o, se vogliamo, un massacro meschino che passò inosservato […] Per quanto tetra fu la fine di questi màrtiri, la si potrebbe però definire felice e privilegiata se si considera la sorte orrenda che venne riservata al resto dell’umanità… Così ebbe inizio la guerra. E fu, veramente, l’inizio della fine».

Di che guerra si sta parlando? Di quella che a metà degli anni Trenta lo scrittore francese Régis Messac, con alle spalle la tragedia della Prima, immaginava sarebbe potuta essere la Seconda guerra mondiale, nei fatti poi realmente scoppiata soltanto pochi anni dopo. Quelle parole scritte ormai un secolo fa sembrano però profetizzare non solo il conflitto mondiale che ha finito per insanguinare il mondo negli anni Quaranta del Novecento, ma anche quanto potrebbe accadere ai nostri giorni mentre, ancora una volta, si intrattiene l’opinione pubblica con “scandali” davvero di minima importanza rispetto all’avvicinarsi di una catastrofe bellica che potrebbe assumere proporzioni mai sperimentate prima.

Con quasi un secolo di ritardo rispetto l’uscita francese, grazie alle edizioni Tlon ed alla traduzione di Michele Trionfera, arriva in Italia Quinzinzinzili, romanzo post-apocalittico scritto e pubblicato nel 1935 dal critico letterario, traduttore e romanziere francese Régis Messac, autore di La Cité des Asphyxiés (1937) e di Valcrétin (uscito postumo nel 1973). Antimilitarista convinto, attivo nella Resistenza francese, Messac venne arrestato nel maggio del 1943 per poi spegnersi nel corso del 1945 dopo aver sperimentato l’orrore delle carceri e campi di concentramento.

Il romanzo narra dell’avvenuta esplosione di un’arma chimica che ha annientato l’umanità con l’eccezione dell’adulto Gérard Dumaurier e un gruppetto di bambini che si salvano perché al momento della catastrofe si trovano all’interno di una grotta che stanno vistando. A raccontare la vicenda è lo stesso Dumaurier che, attraverso quello che ricorda, tratteggia le tappe che hanno condotto al conflitto e alla catastrofica cancellazione dell’umanità di cui, probabilmente, è l’ultimo superstite adulto. Consapevole che ormai gli resta poco da vivere il protagonista decide di lasciare traccia scritta tanto della fine dell’umanità che della sua rinascita attraverso il gruppo di bambini che si sono salvati.

L’adulto osserva con un misto di disillusione e disprezzo i bambini, costretti allo stato primitivo, alle prese con la costruzione del futuro; vede svilupparsi in loro i medesimi vizi che hanno condotto al disastro le generazioni precedenti, li vede rinominarsi e sperimentare una nuova lingua, affidarsi al pensiero magico e alla superstizione, coglie nelle loro espressioni e nel loro agire i germi della sopraffazione destinata a condurre, nuovamente, alla violenza, all’omicidio e a nuove guerre.

Dumaurier si limita ad osservare, non ha alcuna intenzione di intervenire nel cercare di indirizzare la nascente società; non desidera altro che andarsene al più presto da quel che resta di quel mondo di cui non intende salvare alcunché. Trova la nascente società semplicemente ridicola, forse ancor più ridicola della precedente, contraddistinta com’è da stupidità, cinismo e astuzie che presto, anche questa nuova umanità, imparerà a chiamare scienza, progresso, intelligenza, civilizzazione o qualcosa del genere.

Attraverso il disprezzo del protagonista nei confronti dei bambini Messac sembra voler sfogare i sentimenti che prova nei confronti degli adulti del suo tempo che, non avendo imparato nulla dalla prima carneficina mondiale, stanno ponendo le basi per una nuova follia bellica che si preannuncia ancora più catastrofica. Quasi presagendo la tragica fine che questa umanità gli riserverà, costringendolo a spendere le sue ultime forze nei campi di concentramento, Messac fa affermare al protagonista del romanzo che, alla luce della sorte orrenda a cui sarebbe andata incontro l’umanità, la tragica fine imposta ai disertori e agli oppositori alla guerra può addirittura essere considerata felice e privilegiata.

«In quei tempi, ero Gérard Dumaurier. Adesso, non so più chi sono né se sono. Il mio io si sgretola e si dissolve, sconquassato dall’ariete delle catastrofi, polverizzato dalla dinamite dei traumi mentali; sento fuoriuscire i suoi atomi dispersi e stremati dall’acido di una solitudine cosmica in un mondo raccapricciante». Per non trovarsi a vivere il dissolvimento di Dumaurier, meglio sarebbe condividerne il convincimento che è meglio andarsene da disertori e oppositori piuttosto che da complici (o vittime) della carneficina.

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