diritto penale del nemico – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 30 Jul 2025 20:00:18 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Oltre l’ergastolo e il 41 bis https://www.carmillaonline.com/2023/06/27/oltre-lergastolo-e-il-41-bis/ Tue, 27 Jun 2023 20:00:35 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77603 di Marc Tibaldi

Pensare l’impensabile, tentare l’impossibile. A fianco di Alfredo, contro ergastolo e 41 bis, a cura di Archivio Primo Moroni, Calusca City Lights, Cox 18, Edizioni Colibrì, Milano 2023, pp. 80, 10 euro

L’Archivio Primo Moroni, la libreria Calusca City Lights e il c.s.o.a Cox 18, tre realtà che garantiscono sul rigore documentativo, sulla riflessione critica e sulla scelta di studiosi e militanti che affrontano con cognizione l’argomento trattato, hanno curato un importantissimo lavoro di controinformazione, si tratta di “Pensare l’impensabile, tentare l’impossibile. A fianco di Alfredo, contro ergastolo [...]]]> di Marc Tibaldi

Pensare l’impensabile, tentare l’impossibile. A fianco di Alfredo, contro ergastolo e 41 bis, a cura di Archivio Primo Moroni, Calusca City Lights, Cox 18, Edizioni Colibrì, Milano 2023, pp. 80, 10 euro

L’Archivio Primo Moroni, la libreria Calusca City Lights e il c.s.o.a Cox 18, tre realtà che garantiscono sul rigore documentativo, sulla riflessione critica e sulla scelta di studiosi e militanti che affrontano con cognizione l’argomento trattato, hanno curato un importantissimo lavoro di controinformazione, si tratta di “Pensare l’impensabile, tentare l’impossibile. A fianco di Alfredo, contro ergastolo e 41 bis”. L’occasione per riflettere sul “carcere di tortura” e sulla “pena di morte viva”, come viene definito l’ergastolo, è stata data dalla lotta dell’anarchico Alfredo Cospito e dai suoi sei mesi di digiuno per protestare contro la condanna all’ergastolo (nessun beneficio penitenziario, né semilibertà, né lavoro esterno) e al 41bis (un’ora d’aria in quattro mura di cemento, niente libri e giornali, un colloquio al mese con il vetro, zero socialità e attività…), veri regimi di annientamento sensoriale. Ricordiamo che Cospito, in carcere da 11 anni, è condannato per “Strage contro la sicurezza dello Stato”, un reato del Codice fascista per cui la condanna è l’ergastolo (pena mai usata neanche per le stragi di Piazza Fontana, Capaci, Bologna) con l’accusa di aver fatto esplodere un ordigno contro una caserma dei Carabinieri, in cui non ci sono stati né morti né feriti.

I saggi contenuti nel libro ci dimostrano l’esistenza del “carcere di tortura” e della “pena di morte viva”. Maria Teresa Pintus, avvocata di Cospito, ci ricorda dell’articolo 27 della Costituzione che afferma che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità” e che dovrebbero tendere alla rieducazione e di come il 41bis sia argomento tabù per la destra e anche per la sinistra. Riprende nella sostanza il Michel Foucault di Sorvegliare e punire: “oltrepassate le porte della prigione, regnano l’arbitrio, la minaccia, il ricatto, le percosse … nelle prigioni è di vita e di morte e non di ‘correzione’ che si tratta”. Charlie Barnao (Università di Catanzaro), sostiene che “la tortura all’interno delle nostre carceri non è un evento occasionale, potendo invece essere vista come una pratica strutturata all’interno di un generale percorso trattamentale. C’è un filo conduttore che unisce da una parte la cultura della guerra e, dall’altra, la cultura sottesa all’idea di utilizzare il diritto penale per punire alcune categorie ben precise di persone al fine di ottenere consenso popolare. Un discorso che possiamo inquadrare in un processo generale di militarizzazione della nostra società”. Il contributo di Elton Kalica (Università di Padova) sul cosiddetto “diritto penale del nemico” si sostanzia sulle ricerche di Gunter Jakobs (Giuffrè editore, 2007) e sostiene: “c’è un diritto penale ordinario liberale, quello che conosciamo noi tutti, indirizzato ai cittadini, che li considera come persone, quindi come soggetti aventi un corredo di diritti e garanzie in tutte le fasi dell’azione penale: indagine, processo ed esecuzione. Poi c’è un diritto penale del nemico, in cui i soggetti non sono più considerati come persone, come cittadini, bensì come nemici, quindi spogliati di questo corredo di tutele e garanzie”.

Ci sembra interessante riportare anche un breve passaggio dell’introduzione che Giuseppe Mosconi ha scritto per il libro di Kalica La pena di morte viva, 41bis e diritto penale del nemico (Meltemi, 2019): “le retoriche e la cultura connesse in vario modo all’istituto del 41 bis agiscono nel senso di rafforzare e radicalizzare la presenza dell’ergastolo come una pena di morte viva, il quale riassume in sé gli aspetti deteriori dell’afflittività penale, estremizzandoli, sia nei termini dell’intensità della sofferenza afflittiva, che della definitiva marginalizzazione sociale”.

Un libro breve ma ricchissimo anche di fonti documentative, bibliografia, testimonianze (di Cospito, Anna Stranieri, Flavio Rossi Albertini, un operaio dell’ex Ilva), illustrazioni (di Zerocalcare, Stefano Bombaci, Antonio Panzuto, Thomas Ott). Scrivono i curatori del volume: “Il carcere moderno nasce come istituzione con cui ‘trattare’, disciplinare e recuperare forzosamente al lavoro i vagabondi e tutta quella variegata popolazione che, cacciata dalle campagne, affluiva disordinatamente verso i centri urbani del protocapitalismo, attirata dal nuovo sistema industriale. Questa anima originaria il carcere non l’ha mai persa”. Come dire, non si tratta di abolire solo il carcere, si tratta di trasformare la società che lo presuppone.

Note.

Il libro è ordinabile nelle librerie, dal sito delle edizioni Colibrì, o richiedibile a: libreriacalusca@yahoo.it.

Chi invece volesse conoscere le idee di Alfredo Cospito, segnaliamo Sinergia. Raccolta di testi e comunicati, edito da Biblioteca Anarchica Sabot, 166 pagine, 2022. Si tratta di vari contributi che coprono una decina di anni – dal 2012 al 2022 – pubblicati su varie riviste (Vetriolo, Fenrir, Caligine), interventi a assemblee, dibattiti, fiere dell’editoria anarchica, che dimostrano il confronto con l’anarchismo “storico”, con i neoanarchismi, ma anche altre componenti del movimento antagonista; si tratta dell’elaborazione di un anarchismo insurrezionale e nichilista, in cui c’è una stretta correlazione tra pensiero e azione. “Continuo a essere convinto che l’odio di classe sa la leva principale per scardinare e capovolgere questo mondo. Non metto in dubbio che la molla che scatena la nostra lotta può avere tante origini, sessismo, animalismo, ecologismo, ma se questi discorsi alla base non hanno anche un discorso di classe non portano a nulla, se non un assestamento, un perfezionamento della democrazia” (pagina 37). Pubblicato un mese prima che Cospito decidesse la lotta dello sciopero della fame, il libro si può richiedere a: bibliotecasabot@autistici.org

]]>
Armi letali: il gran ballo dei diritti umani e la macelleria della guerra https://www.carmillaonline.com/2022/06/08/arma-letale-1-war-and-the-great-human-rights-swindle/ Wed, 08 Jun 2022 20:00:29 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=72234 di Sandro Moiso

“La società non esiste. Esistono soltanto gli individui” (Margaret Tatcher)

“A Fort Branning, la sede della scuola di fanteria e delle truppe corazzate dell’esercito statunitense, i soldati che vengono «preparati e formati per combattere e vincere» le guerre devono anche frequentare il corso di diritti umani. L’obiettivo del corso è di «inculcare negli allievi che i valori democratici, la legislazione internazionale sui diritti umani e il Diritto Internazionale Umanitario sono doti di comando essenziali nelle forze armate” (Nicola Perugini e Neve Gordon – «Il diritto umano di dominare»)

”NATO, Keep the progress going!” (Amnesty International [...]]]> di Sandro Moiso

“La società non esiste. Esistono soltanto gli individui” (Margaret Tatcher)

“A Fort Branning, la sede della scuola di fanteria e delle truppe corazzate dell’esercito statunitense, i soldati che vengono «preparati e formati per combattere e vincere» le guerre devono anche frequentare il corso di diritti umani. L’obiettivo del corso è di «inculcare negli allievi che i valori democratici, la legislazione internazionale sui diritti umani e il Diritto Internazionale Umanitario sono doti di comando essenziali nelle forze armate” (Nicola Perugini e Neve Gordon – «Il diritto umano di dominare»)

”NATO, Keep the progress going!” (Amnesty International – Manifesto per il “Summit ombra per le donne afghane”, Chicago 2012)

Nel 2012, poco dopo che Barack Obama aveva pubblicamente dichiarato di essere intenzionato a richiamare tutte le truppe americane di stanza in Afghanistan entro il 2014, nel centro di Chicago (città dove nel mese di maggio dello stesso anno si sarebbe tenuto un summit della NATO per mettere a punto i dettagli della exit strategy) erano comparsi manifesti che esortavano la NATO a non ritirare le proprie truppe dal tormentato paese centro-asiatico.

Su quei poster era scritto:”NATO, Keep the progress going!” (NATO, occorre portare avanti il progresso), stabilendo così un chiaro collegamento tra l’occupazione militare e il progresso. Sotto il titolo, poi, si annunciava un “Summit ombra per le donne afghane” che si sarebbe tenuto durante lo stesso summit della NATO. A differenza, però, di quanto si potrebbe pensare tale iniziativa non era sponsorizzata da qualche fondazione repubblicana o dalla lobby delle armi ma da Amnesty International, la più nota tra le organizzazioni per i diritti umani presenti al mondo.

Può iniziare da questo episodio una riflessione sul fatto che il segretario del PD, Enrico Letta, che si scandalizza ad ogni piè sospinto per i motivi più disparatii, come nel caso delle parole proferite per stigmatizzare le scelte del premier ungherese («Sono particolarmente scandalizzato in questo momento dall’atteggiamento dell’Ungheria di Orban, mette il suo veto rispetto alle sanzioni e si pone come chiaro ed esplicito alleato di Putin»), in realtà non si scandalizzi affatto per l’indiretta partecipazione del governo che sostiene il conflitto in atto in Ucraina.

Anima candida, erede del Veltroni-pensiero, pieno di nostalgia per l’età (kennedyana) dell’innocenza perduta, il segretario di un partito che accetta qualsiasi compromesso a favore delle scelte della Banca Centrale europea e del suo ex-governatore ed attuale premier italiano e del progressivo ampliamento della guerra russo-ucraina verso Est e, inevitabilmente, verso Ovest, in compenso, non ha mai perso l’occasione per sbandierare la sua personale difesa, e del suo partito, dei diritti umani e civili.

Questo atteggiamento di un “democratico” difensore dei diritti individuali serve perfettamente ad illustrare l’intricato rapporto che intercorre, forse fin dalla loro formulazione alla fine del Secondo conflitto mondiale, tra “diritti umani” e rafforzamento del ruolo dello Stato e del dominio in ogni angolo del mondo dei valori occidentali e degli interessi economici, politici e militari che li sottendono. In cui, ancora una volta, le violenze connesse a un conflitto sono ascrivibili soltanto ad una delle parti in causa, senza mai considerare l’autentica macelleria di vite, di donne, uomini e bambini che la guerra esige per sua stessa natura. Una divinità che non ha riguardo alcuno per il fronte “giusto” o quello “sbagliato”, da cui esige un medesimo tributo di sangue e di violenza.

Riflessione che porta inevitabilmente a rivedere e ribaltare tutti i luoghi comuni su cui si fonda una sventurata e opportunistica concezione dei cosiddetti diritti umani, fondata essenzialmente sul diritto degli Stati, soprattutto occidentali, a definire ciò che è accettabile e ciò che non lo è nei rapporti che intercorrono tra i diversi attori del conflitto sociale oppure di quello globale per la spartizione delle ricchezze e delle influenze economico-militari su scala mondiale.

Pertanto, l’uso che oggi viene fatto, sia dalle ONG che dagli apparati propagandistici e militari, del concetto di “diritti umani” non risulta essere dovuto ad un radicale travisamento degli stessi ma, al contrario, già implicitamente contenuto proprio nelle formulazioni che hanno accompagnato tale concetto fin dalle sue origini.
Come hanno affermato Nicola Perugini e Neve Gordon in una loro ricerca:

Più che reclamare una concezione moralmente adeguata dei diritti umani, intendiamo mostrare come i diritti umani e la dominazione si intersechino.[…] Attraverso un attento esame dei dati empirici, criticheremo[…] l’assunto che maggiori sono i diritti umani minore è il livello di dominazione, il quale normalmente associa la promozione dei diritti umani all’emancipazione dei più deboli […] e offusca le situazioni in cui gli oppressori possono rivendicare, manipolare e tradurre i diritti umani, creando così una propria cultura dei diritti umani per razionalizzare la perpetuazione della dominazione […] Diversi pensatori hanno sostenuto che i diritti umani sono in realtà vincolati dal potere e spesso operano al suo servizio, senza minacciarlo realmente […] In base a questa prospettiva, i diritti umani contribuiscono ad affinare le forme di governo […] In questo senso, i diritti umani consentono la creazione di nuove soggettività poiché, grazie all’evoluzione del proprio repertorio, essi sono in grado di definire cosa significa essere un soggetto pienamente umano1.

Quindi non un’umanità determinata dalla storia, dall’economia e dai rapporti di classe e di sfruttamento che hanno caratterizzato le strutture sociali del dominio che ne derivano, ma dal Diritto, il quale, a sua volta, è di esclusiva competenza degli stati nazionali e delle organizzazioni internazionali che li riuniscono. In altre parole: lo Stato e le classi dirigenti definiscono i diritti e l’umanità, o meno, dei loro sottoposti, privandoli di qualsiasi altra arma di resistenza che non sia quella di rivolgersi ai tribunali statali o alle corti internazionali. I quali a loro volta, come già succede anche in Italia e in altri paesi per quanto riguarda la persecuzione degli attori del conflitto sociale, potranno determinare se i vari soggetti hanno o non hanno diritto ad un pari trattamento legislativo sulla base delle loro precedenti scelte politiche ed operative. Contribuendo così a sviluppare il cosiddetto diritto penale del nemico, ovvero un non diritto sostanziale, in cui fa rientrare tutti gli avversari dell’ordine sociale, economico e geopolitico dato, ogni qualvolta si tratti di giudicarli.

La storia anticoloniale ci insegna per esempio che la violenza può essere praticata per resistere, liberare e svincolare i popoli dai rapporti di dominazione coloniale. Però, paradossalmente, Amnesty International fu riluttante ad adottare Nelson Mandela come prigioniero politico perché si era rifiutato di rinunciare all’uso della violenza, in quanto lo riteneva uno strumento legittimo nella lotta contro il regime dell’apartheid”2.

Un altro evidente paradosso è che oggi uno dei maggiori strumenti di diffusione dell’idea dei diritti umani possa essere costituito proprio dalle forze armate americane, come è riscontrabile dall’annotazione posta in epigrafe a questo intervento. Non solo, ma si stima anche che:

L’inserimento di corsi sui diritti umani nell’addestramento militare rivela anche un altro mutamento nell’ambito dei diritti umani. Se il Diritto Internazionale Umanitario (DIU) era in passato considerato il corpus legislativo che si occupava del conflitto armato, e la legislazione internazionale sui diritti umani l’insieme di norme vigenti in tempo di pace, ora queste due legislazioni non sono più ritenute totalmente separate. Nei loro rapporti e nelle loro petizioni le ONG le utilizzano simultaneamente per promuovere il rispetto dei diritti umani in situazioni di conflitto armato e di occupazione militare, e dato che il conflitto è oramai la norma in molte regioni del mondo, è diventata pratica diffusa abbandonare la classica separazione tra i due ambiti del diritto internazionale. In altre parole, la normativa sui diritti umani non è più considerata parte di un ambito completamente separato dalle norme umanitarie dello jus bellum3.

Salta immediatamente agli occhi come tale scelta possa ricoprire una funzione importantissima non soltanto nel poter definire le guerre degli ultimi decenni come guerre umanitarie, ma anche nel disumanizzare il nemico che tali criteri “militari” non voglia, in quanto Stato, o non possa, in quanto movimento ancora privo di identità nazionale riconosciuta e definita da confini spaziali e giuridici, adottare.

In un tempo di guerra permanente come quello che stiamo vivendo, il coinvolgimento dei diritti umani nello jus bellum giustifica anche la distinzione tra armi intelligenti, bombardamenti e assassinii mirati rispetto al semplice assassinio o alla distruzione, spesso accompagnata dall’aggettivo “terroristico”, che, a questo punto, diventa sempre e soltanto ciò che definisce la violenza del nemico. Soprattutto se quel nemico si oppone all’espansione dei diritti degli Stati liberali e democratici di “dominare”. Magari per speculari interessi propri, ma sempre diversificati o opposti rispetto a quelli dell’Occidente.

Per questo motivo, a titolo di esempio, l’uso di droni “assassini” per eliminare generali, carri armati con relativi equipaggi o leader politici avversari, sarà sempre presentato in maniera benevola, quasi a voler far svolgere alla macchina la funzione dell’eroe invincibile e sempre giustificato nella sua azione, per violenta che essa sia. Mescolando, nell’immaginario, l’apparato tecnologico diretto a distanza attraverso un joy-stick oppure da un evoluto programma search and destroy con gli eroi del mito, da Gilgamesh a quelli più dozzinali portati sullo schermo da Bruce Willis o Sylvester Stallone.

In tale contesto, in cui tra l’altro ambiente bellico e ambiente urbano tendono sempre più a combaciare, anche la discussione sulle vittime civili dell’azione militare viene fortemente influenzata, trasformando le stesse in “scudi umani”, se uccise nei bombardamenti destinati a distruggere il potenziale militare ed economico nemico, oppure in “vittime o danni collaterali”, se colpite durante azioni mirate ad assassinare gruppi ristretti o singoli rappresentanti dell’apparato politico-militare avversario. Mentre le vittime causate dall’azione avversa, come ben si è visto in questi cento e più giorni di guerra in Ucraina, non possono essere altro e soltanto che vittime di “crimini di guerra”.

Insomma, l’azione militare degli apparati bellici americani ed occidentali in genere troverà sempre una giustificazione umanitaria del proprio operato, distinguendosi a priori dall’”atto terroristico” di chi si trova ad operare in una totale asimmetria di forze ed armamenti oppure dai “crimini di guerra” se le vittime saranno il frutto di scontri allargati con potenze di egual forza militare. Seguendo questa logica, nel caso della campagna condotta in Ucraina, i bombardamenti e le azioni militari delle forze armate di Zelensky, per default, colpirebbero quasi sempre e solo obiettivi militari mentre le azioni dei militari russi sarebbero sempre e soltanto dirette a colpire le comunità civili, attraverso i loro corpi fisici e le loro abitazioni.

Contribuendo a sviluppare un’autentica pornografia della morte in cui è possibile seguire in diretta ogni azione mirante a debellare il nemico fino alla sua distruzione, con manifesta simpatia se non addirittura gioia dei media, oppure osservare, con sollecitata commozione e indignazione, le immagini dei corpi trucidati dei “buoni” o dei danni da essi subiti.

Le istanze delle vittime reali o degli avversari diventano così una questione di “verità assoluta”, da giudicare secondo l’episteme auto-referenziale ed indiscutibile dei diritti umani, o di risarcimenti economici e morali. In cui il concetto ampliato di “crimine di guerra” diventa estremamente efficace nello spazzare via dalla scena qualsiasi riferimento alla Storia del dominio coloniale, imperiale, economico o al conflitto perenne tra le classi e tra gli imperi. Non a caso:

Human Rights Watch, probabilmente l’organizzazione per i diritti umani meglio finanziata al mondo, che sfoggia un bilancio annuale di oltre 50 milioni di dollari e uno staff di quasi 300 persone ha la sua sede centrale nell’Empire State Building (con tutta l’ironia del caso), accanto a quelle di grandi corporation come Wallgreen, Bank of America, LinkedIn e alcuni dei più rinomati studi legali4.

La stessa HRW dichiara poi esplicitamente che: «L’essenza della nostra metodologia non è la capacità di mobilitare le persone perché scendano in piazza […] l’organizzazione si oppone in maniera esplicita alla partecipazione popolare nella politica dei diritti umani»5. In tal modo:

L’invocazione della legislazione sui diritti umani spesso traduce la violazione in un “caso”: classificandolo, separandolo e isolandolo, ne nasconde le fondamenta strutturali[…] In questo modo, si cancellano i motivi e le ragioni comuni sottese a violazioni apparentemente diverse. Andare oltre il caso isolato e pretendere la distruzione delle strutture oppressive, per non parlare dello smantellamento del regime che commette le violazioni, è percepito come una strumentalizzazione dei diritti umani, specialmente quando l’abuso è commesso da uno Stato liberale6.

Cosicché

l’impiego dei diritti umani in conformità alla legge produce quindi la convinzione che esista un sistema imparziale in grado di fungere da arbitro neutro tra le parti in causa e di rettificare le storture. Esso esclude dalla sua critica gli elementi costitutivi del sistema giuridico. In questo modo, contribuisce a mettere sotto silenzio la resistenza contro le strutture sociali, economiche e politiche della dominazione che sono radicate e supportate dalla legge che le riproduce7.

Attraverso il tropo della neutralità, il professionismo dei diritti umani definisce «i limiti del pensabile e dell’impensabile e contribuisce così al mantenimento dell’ordine sociale da cui dipende il suo potere8.

Interrompendo questo lungo excursus sulla funzione del cosiddetto diritto umanitario, in gran parte tratto, con le dovute modifiche, da una recensione già pubblicata su Carmilla nel 20169 e riportando l’attenzione sui fatti attuali, può risultare utile riflettere sul fatto che, proprio per i motivi appena elencati, chi difende i diritti degli immigrati a diventare proletari sfruttati come braccianti o manodopera e manovalanza della malavita, una volta accolti nella democratica italietta bellicista e colonialista, poco o niente voglia sentir parlare di classi sociali e di lotta tra le stesse.

Altrettanto vale per la questione femminile e la violenza sulle donne ridotta a spettacolo hollywoodiano, in cui la drammatizzazione per mezzo di una sceneggiatura basata su frasi e scene ad effetto contribuisce più a dar vita ad una forma di scripted-reality che non a una concreta analisi dei fatti.

Un altro aspetto del genocidio sono i crimini di carattere sessuale, non soltanto contro donne e ragazze, ma anche bambini, ragazzi, uomini […] Non riusciamo oggi a dare un numero preciso di questi crimini. Possiamo però dire che hanno un carattere di massa. E sono intenzionali, non casuali. Sappiamo di una ragazza di sedici anni: due nemici, non riesco a chiamarli umani, l’hanno violentata in tutti i modi, il terzo teneva ferma sua sorella di 25 anni, e le diceva «Guarda, è quello che faremo a tutte le puttane naziste». Questi orchi violentano i nostri bambini e dicono alle madri «Così non metterete più al mondo nazisti ucraini»10.

Peccato soltanto che l’autrice dell’articolo summenzionato, la super-commissaria dei diritti umani ucraina, Lyudmyla Denisova, sia stata rimossa successivamente dal suo incarico dal voto di un parlamento ucraino preoccupato dalle cifre degli abusi sessuali russi esagerate e gonfiate dalla stessa. La Verkhovna Rada ha infatti licenziato la commissaria parlamentare per i diritti umani a causa della sua prolungata e ingiustificata permanenza all’estero durante i mesi del conflitto e del

ripetuto mancato adempimento delle sue funzioni relative all’istituzione di corridoi umanitari, alla protezione e scambio di prigionieri, al contrasto alla deportazione di adulti e bambini dai territori occupatie ad altre attività per i diritti umani. Secondo il Parlamento, Denisova ha concentrato la sua attività mediatica sui numerosi dettagli relativi agli abusi sessuali su adulti e minori nei territori occupati che non erano supportati da prove e hanno danneggiato solo l’Ucraina11.

E soprattutto le vittime reali degli abusi, verrebbe da dire. Ma, si sa, lo spettacolo mediatico e il trionfo del verosimile piuttosto che del vero sembrano costituire l’intima essenza del discorso sulla guerra e i diritti umani. In un contesto in cui la propaganda bellica deve assolutamente raggiungere lo scopo di annichilire le coscienze, sotto un profluvio di immagini e parole accuratamente selezionate.

In tale contesto mediatico e propagandistico l’antimilitarismo di classe dovrebbe zittirsi per accordare i propri strumenti con la partitura dominante e piegarsi alla logica “inconfutabile” dei processi spettacolo in cui, come in una farsa ripetuta con successo, a fare le spese delle vendette degli Stati e delle classi al potere, saranno sempre e solo personaggi secondari e miserabili, presentati come “autentici mostri”, come nel caso del caporale russo poco men che ventenne condannato all’ergastolo da un tutt’altro che imparziale tribunale ucraino. Oppure per timore di cadere all’interno delle liste di proscrizione che alcuni giornali e apparati di sicurezza sembrano imbastire quotidianamente in omaggio al vecchio comandamento di epoca bellica e fascista: Taci, il nemico ti ascolta!12.

Invece di denunciare come la sofferenza e il dolore, la morte e lo stupro, la distruzione e il massacro connessi alla macelleria bellica, da qualsiasi parte in causa siano originati, diventino soltanto, in nome dei diritti umani, strumenti di una propaganda per nulla interessata a sradicare davvero ciò da cui tutto questo ha origine, ma soltanto a sostituire il vero con il verosimile.

La realtà di una forma sociale autoritaria, violenta, egoistica e patriarcale fondata sulla trasmissione della proprietà privata, sulla famiglia, idealizzata al di sopra di tutto, e sullo Stato, ma destinata soltanto a legittimare la figura del pater familias e della religione che a sua volta lo legittima in quanto tale. La realtà dello sfruttamento e dell’imbarbarimento rinviabili alla forma sociale capitalistica, in tutti i suoi aspetti, con quella dei diritti risalenti ancora, e soltanto, alle rivoluzioni borghesi. Grandi o piccole che esse siano state. Dietro al cui spirito, presunto, si son sempre mascherate le aspirazioni espansionistiche e di dominio di potenze ormai giunte, piaccia o meno, alla fine del loro corso storico. Di cui, per l’autentico bene della specie, sarebbe auspicabile la caduta non a fronte di una sconfitta nel corso di un conflitto inter-imperialista dalle conseguenze inimmaginabili, ma a causa di uno scontro, non più ulteriormente rinviabile, tra coloro che possiedono quasi tutto e coloro che, uomini e donne, sono stati spossessati di tutto, compresa la loro umanità. Ad Est come a Ovest.


  1. Nicola Perugini e Neve Gordon, Il diritto umano di dominare, Nottetempo 2016, pp. 29-32  

  2. op. cit., p. 13  

  3. Ibid, pp. 25-26  

  4. ibid, p. 198  

  5. ivi, p. 199  

  6. pag. 202  

  7. p. 203  

  8. p. 207  

  9. Sandro Moiso, Che cosa resta dei diritti umani?, Carmillaonline, 14 dicembre 2016 successivamente ripreso in Sandro Moiso, La guerra che viene. Crisi, nazionalismi, guerra e mutazioni dell’immaginario politico, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2019  

  10. Lyudmyla Denisova, Donne stuprate davanti ai figli, porteremo le prove dei crimini russi, «La Stampa», Domenica17 aprile 2022, p.8  

  11. Kiev rimuove dall’incarico la commissaria Denisova, «La Stampa» Mercoledì 1 giugno 2022, p. 11  

  12. cfr. Lo scandalo dei dossier investe il Dis e il governo, il Fatto Quotidiano, mercoledì 8 giugno 2022  

]]>
Il nemico interno/3 https://www.carmillaonline.com/2019/05/22/il-nemico-interno-3/ Wed, 22 May 2019 08:22:57 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=52671 di Alexik

“La società civile attraversata dalla lotta di classe non è forse la guerra continuata con altri mezzi? […] Dietro le forme del giusto quale è stato istituito, dell’ordinato quale è stato imposto, dell’istituzionale quale è stato accettato, si tratta di scoprire e di definire il passato dimenticato delle lotte reali, delle vittorie effettive, delle disfatte che lasciano il loro segno profondo anche se sono state dissimulate. Ci si impone di ritrovare il sangue seccato nei codici […] le grida di guerra dietro la formula della legge e la dissimmetria delle forze [...]]]> di Alexik

“La società civile attraversata dalla lotta di classe non è forse la guerra continuata con altri mezzi? […]
Dietro le forme del giusto quale è stato istituito, dell’ordinato quale è stato imposto, dell’istituzionale quale è stato accettato, si tratta di scoprire e di definire il passato dimenticato delle lotte reali, delle vittorie effettive, delle disfatte che lasciano il loro segno profondo anche se sono state dissimulate.
Ci si impone di ritrovare il sangue seccato nei codici […] le grida di guerra dietro la formula della legge e la dissimmetria delle forze dietro l’equilibrio della giustizia”. (Michel Foucault, “Bisogna difendere la società”)

Continuando ad esplorare la dimensione conflittuale del diritto penale come strumento di lotta ai movimenti, riprendiamo la lettura – iniziata nel capitolo precedente – di Costruire evasioni. Sguardi e saperi contro il diritto penale del nemico, affiancando all’analisi dei Prison Break Project l’opera di Xenia Chiaramonte, “Governare il conflitto. La criminalizzazione del Movimento No Tav”, da poco edita da Meltemi.

Moltissimi i punti in cui i due lavori convergono e si integrano.
Costruire evasioni è una
riflessione complessiva sul rapporto tra repressione e movimenti, che si articola nell’ approfondimento delle tecniche di costruzione del nemico pubblico e nell’analisi di cinque specifici dispositivi della repressione politica: l’associazione eversiva e sovversiva, il reato di devastazione e saccheggio, la finalità di terrorismo, le misure di prevenzione, la repressione economica.
Tecniche e dispositivi che in buona parte ritroviamo nelle forme della criminalizzazione mediatica e giudiziaria del Movimento No Tav, descritte da Xenia Chiaramonte in Governare il conflitto.

Le rappresentazioni mediatiche del movimento contro la AV Torino-Lione, analizzate da Xenia sulle pagine di sette diverse testate giornalistiche, ricadono infatti perfettamente fra le modalità di fabbricazione del nemico esaminate dai Prison Break Project.
Nello specifico:
– nominare il nemico sulla base di definizioni allarmanti e denigratorie,
– costruirne l’immagine di una soggettività intrinsecamente deviante e minacciosa per l’ordine sociale,
– sollecitare il moral panic alimentando la paura e l’ostilità dell’opinione pubblica nei confronti di un gruppo sociale fatto percepire come una minaccia.

Nell’esperienza No Tav le interazioni fra narrazioni poliziesche, mediatiche, politiche, e giudiziarie si alimentano a vicenda come in un sistema di vasi comunicanti, in un contesto dove la criminalizzazione mediatica attinge da comunicati e indiscrezioni della questura e nel contempo precede e prepara il terreno per l’azione giudiziaria – preannunciando a volte con largo anticipo i possibili capi di imputazione da attribuire.
È prassi inoltre che la narrazione criminalizzante di fonte poliziesca venga fatta propria, come un verbo assoluto, dalla Procura e dai giudici per le indagini preliminari, e da qui si riversi all’interno dei processi.

Xenia Chiaramonte si sofferma a lungo sullo studio del linguaggio della criminalizzazione giudiziaria, frutto di due anni di ricerca passati negli studi del Legal Team e nell’aula bunker delle Vallette.
Si sofferma inoltre sulle infinite distorsioni che hanno caratterizzato la pratica della procedura penale nel corso dei principali processi ai No Tav (il maxiprocesso e il processo per terrorismo), entrando nel merito dell’abuso delle misure cautelari in carcere, della valutazione della pericolosità sociale degli indagati sulla base del credo politico, delle schedature sulla vita personale dei militanti, dell’uso e abuso del concorso di persone nel reato.
Esamina l’ammissione abnorme di parti civili, con il conseguente lievitare pretestuoso dei risarcimenti richiesti e delle provvisionali fino a centinaia di migliaia di euro.
Esamina l’impatto simbolico dei processi tenuti nell’aula bunker del carcere delle Vallette, gli ostacoli scientificamente frapposti all’esercizio del diritto di difesa, il rigetto dei cd “testimoni irrilevanti” (quelli della difesa), le contraddizioni e omissioni nelle testimonianze degli agenti.
Descrive la messa in scena di una sistematica opera di decontestualizzazione dei fatti che cancella le ragioni sociali e ambientali della lotta. Decontestualizzazione che al contempo nega le violenze della polizia e della gestione dell’ordine pubblico, rimandando l’argomento ad altri procedimenti che si concludono invariabilmente con l’archiviazione.
Bisognerà dedicare in futuro adeguato spazio a tutti questi elementi, che qui mi sono limitata ad elencare, integrandoli con l’analisi dei Prison Break Project sulla storia, significati e implicazioni dei provvedimenti normativi applicati.
Bisognerà dedicare adeguato spazio al racconto delle controcondotte, che in Governare il conflitto emergono dalle 18 interviste ai militanti No Tav, e in Costruire evasioni si incontrano nei ‘sentieri tortuosi’, una panoramica sulle esperienze di autodifesa e resistenza.

Ma al momento mi interessa focalizzare l’attenzione su un altro punto di condivisione fra gli autori, sia pure con sfumature diverse, cioè la dimensione conflittuale del diritto.
I compagni del Collettivo  Prison Break Project l’affrontano attraverso l’utilizzo strumentale della teoria di Jakobs :

“Nel nostro approccio critico, l’utilizzo della teoria del diritto penale del nemico come chiave di lettura unificante del variegato strumentario giuridico usato contro i “nemici pubblici”, non legittima né normalizza, neppure indirettamente, tale strumentario. Al contrario, essa ha il pregio di costringere tutti noi a scegliere dove e soprattutto come schierarci, nel momento stesso in cui ci svela schiettamente che il campo giuridico è, al pari di quello politico, un campo di battaglia”.

Xenia invece, nell’analisi della “questione criminale No Tav”, vede l’esplicarsi di un diritto penale di lotta, un paradigma che non presenta i caratteri estremi del diritto penale del nemico (la tortura, i rapimenti o gli internamenti extralegali) ma si nasconde sotto la parvenza della normalità stravolgendo le procedure del diritto penale dall’interno. (Continua)

]]>
Il nemico interno/2 https://www.carmillaonline.com/2018/03/07/nemico-interno-2/ Wed, 07 Mar 2018 05:00:01 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=44015 di Alexik

Prison Break Project, Costruire evasioni. Sguardi e saperi contro il diritto penale del nemico, Edizioni Bepress, 2017, pp. 277.

A volte si incontrano dei libri necessari. Costruire evasioni. Sguardi e saperi contro il diritto penale del nemico, è sicuramente uno di questi. E’ un libro necessario perché finalmente qualcuno – un collettivo di ricercatori precari – si è assunto l’onere di fare il punto, in una prospettiva sia storica che attuale, sull’insieme dei dispositivi repressivi elaborati negli anni dai poteri costituiti contro i movimenti conflittuali. E’ un libro necessario perché indaga la repressione nella sua complessità: non solo come strumento giudiziario [...]]]> di Alexik

Prison Break Project, Costruire evasioni. Sguardi e saperi contro il diritto penale del nemico, Edizioni Bepress, 2017, pp. 277.

A volte si incontrano dei libri necessari.
Costruire evasioni. Sguardi e saperi contro il diritto penale del nemico, è sicuramente uno di questi.
E’ un libro necessario perché finalmente qualcuno – un collettivo di ricercatori precari – si è assunto l’onere di fare il punto, in una prospettiva sia storica che attuale, sull’insieme dei dispositivi repressivi elaborati negli anni dai poteri costituiti contro i movimenti conflittuali.
E’ un libro necessario perché indaga la repressione nella sua complessità: non solo come strumento giudiziario e poliziesco, ma come frutto di ‘una deliberata scelta politica che coinvolge governanti, politici, magistrati, funzionari di polizia, giornalisti e cittadini democratici’.

Uno scontro che non utilizza solo gli armigeri, ma si gioca anche sul terreno dell’immaginario attraverso una narrazione della realtà che rende l’azione poliziesca e giudiziaria accettabile, auspicabile, desiderabile da parte di un’opinione pubblica appositamente costruita.

Il ‘nemico pubblico’

Operazione fondamentale a questo fine è la costruzione del ‘nemico pubblico’, che avviene seguendo le fasi di un format ormai consolidato:

  • Nominare il nemico, attraverso l’attribuzione eteronoma, “dall’alto”, di un’etichetta, sulla base di incerte o terrorizzanti definizioni”.
  • Indicare il nemico – con tutta la forza amplificativa del potere mediatico – provocando un clima di emergenza permanente mediante “sollecitazioni, reiterate e periodiche, di ondate emotive di panico rivolte verso avvenimenti, condotte o gruppi che assurgono di volta in volta a minaccia della tranquillità”.
  • Indurre la richiesta di ordine e darle tempestiva risposta “attraverso la spettacolarità degli interventi dei commandos di polizia e forze speciali, che accompagnano la scure di interventi giudiziari, e la solerte messa in vigore di leggi realizzate ad hoc“.

La costruzione del ‘nemico pubblico’ non è certo un fenomeno recente.
Nella storia del Bel Paese lo stigma è stato addossato, di volta in volta, a gruppi sociali, etnici, religiosi o politici, creando artificialmente una percezione diffusa della loro presunta pericolosità per l’intero corpo sociale.
Troppo lungo sarebbe elencarli tutti: nemiche furono le plebi meridionali all’indomani dell’unità; nemici i ‘disfattisti, pacifisti, austriacanti’ che si opposero alla grande guerra; nemici i partigiani nell’Italia repubblichina; nemici i comunisti; nemici gli anarchici a cui imputare le stragi di Stato; nemici i braccianti e gli operai in sciopero; nemici i ribelli e i rivoluzionari tutti; nemiche, in generale, le ‘classi pericolose’.1
Uno stigma riservato non solo ai soggetti conflittuali, ma estendibile a piacere anche al capro espiatorio del momento: gli ebrei di ieri, i migranti di oggi, i rom di sempre.
Il fenomeno ha dunque una lunga tradizione.

I compagni del Collettivo Prison Break Project ne hanno attualizzato l’analisi con particolare riferimento alla criminalizzazione dei movimenti conflittuali in Italia dall’inizio del nuovo millennio ad oggi.
Sono gli stessi anni in cui, negli ambiti del dibattito giuridico, l’elaborazione del giurista tedesco Günther Jakobs sul “diritto penale del nemico” ha cominciato a guadagnarsi cittadinanza teorica.
Del resto “la categoria del nemico chiama in causa la logica della guerra, ossia l’esigenza di neutralizzare l’avversario ad ogni costo. Tale esigenza può tuttavia entrare in contrasto con le ordinarie procedure e garanzie giuridiche. Per ovviare a tali complicazioni, alla costruzione sociale del nemico consegue sul piano giuridico un vero e proprio diritto penale del nemico”.
La questione è importante. Perdonate, dunque, se mi attardo in una digressione aprendo una parentesi di approfondimento.

Il diritto penale del nemico

“Alla political corretness ciò che sto per dire non corrisponde affatto.
Politically correct è voler vedere in ogni essere umano, sotto tutti gli aspetti una persona, e in ogni persona un consociato… corredato di così detti diritti umani; ma materia di questa conferenza sono le condizioni della giuridicità e pertanto i confini della giuridicità”.
Chiunque sia in grado di promettere almeno in qualche misura fedeltà all’ordinamento, è titolare di una legittima pretesa ad essere trattato come persona in diritto.
Chi non offre simile garanzia in modo credibile, tendenzialmente viene trattato da non cittadino
“.2

Così Günther Jakobs, davanti ai colleghi riuniti in un convegno a Trento nel marzo 2006, esponeva i principi del ‘diritto penale del nemico’, un diritto parallelo, riservato all’ “avversario per principioche va trattato in modo diverso, in quanto nemico, da un cittadino con manchevolezze più probabilmente passeggere…
Chi precisamente vada preso in considerazione a riguardo è certamente difficile da stabilire…”.
Nemici quindi dalle sembianze incerte, che possono variare a seconda di mutevoli esigenze, ma nella cui schiera Jakobs esplicitamente include ”l’avversario del potere costituito”.
Nemici spogliati della personalità giuridica e delle garanzie previste dalla Dichiarazione universale dei diritti umani, retrocessi ad uno stato di “non-persone in diritto”.
Un concetto, quello di “non persona”, che – soprattutto se formulato da un tedesco – rievoca mostri di un passato non troppo remoto.

Mutuando le parole della ricercatrice Giulia Fabini “il  diritto penale del nemico non si occuperebbe di crimini diversi rispetto agli altri crimini, ma si occuperebbe di autori di crimini diversi dagli altri autori”.3
La prima deformazione investe dunque il principio di legalità nell’identificazione di ciò che è punibile: non più il reato, ma il reo, indipendentemente dal reato.
Il “diritto penale del nemico” sgombera inoltre il campo da fastidiosi orpelli, quali l’eguaglianza di fronte alla legge, la presunzione di innocenza, l’onere della prova, i diritti della difesa.

Nello schema concettuale di Jakobs ciò che ha prevalenza assoluta è “la sicurezza della società dal reo”.
Essa viene  “perseguita o attraverso una custodia preventiva legittimata in quanto tale o attraverso una pena privativa della libertà che sia tale da garantire la sicurezza…
….queste pene non si possono spiegare con la considerazione di ciò che è accaduto … ma soltanto con la presenza del pericolo
”.4
La pena, dunque, può  essere inflitta in base alla mera percezione del pericolo (vero o presunto che sia), ancor prima che il delitto venga posto in essere, come nella miglior fantascienza di Philip Dick in Minority report.
O come nella peggiore realtà delle cd ‘guerre preventive’.

E’ dalla ‘guerra preventiva’, dalle ‘guerre al terrorismo’ successive all’11 settembre 2001, che le concettualizzazioni di Jakobs traggono un’insperata fortuna, trattandosi dei postulati più idonei a dare una parvenza di legittimità a pratiche quali gli internamenti extralegali, le extraordinary renditions, le detenzioni senza processo, le torture dei prigionieri, l’annullamento del diritto alla difesa.
I precetti del “diritto penale del nemico” si adattano perfettamente al Patriot Act statunitense ed al modello Guantanamo, che prevedono la cancellazione per i non cittadini americani dell’habeas corpus, gli arresti e le detenzioni illimitate senza la formale contestazione di accuse, la soppressione delle garanzie processuali, l’istituzione di tribunali militari speciali, il crollo di tutte le garanzie in materia di intercettazioni, di perquisizioni, di arresti e di prove, la tortura.5

Comprensibilmente la teoria sul “diritto penale del nemico” ha generato numerose reazioni negli ambiti del dibattito giuridico6 e negli ambienti garantisti, allarmati dalla sua crescente affermazione nel contesto delle politiche sicuritarie ed emergenziali degli Stati e nelle relative normazioni.
Fra le prese di posizione più autorevoli, quella di Luigi Ferrajoli:

La ragione giuridica dello stato di diritto non conosce nemici ed amici, ma solo colpevoli e innocenti.
Dobbiamo allora domandarci: di che cosa stiamo discutendo quando parliamo di “diritto penale del nemico”?
Io credo che dobbiamo riconoscere, con assoluta fermezza, che stiamo parlando di una contraddizione in termini, che rappresenta, di fatto, la negazione del diritto penale: la dissoluzione del suo ruolo e della sua intima essenza“.7

Ferrajoli denuncia l’uso normativo della formula del “diritto penale del nemico”, che trasforma la giustizia in vendetta stravolgendo il senso del processo penale.

Lo schema dell’amico/nemico imprime una connotazione partigiana sia all’accusa che al giudizio, trasformando il processo in momento di “lotta” …
Il processo… è divenuto quel che “chiamasi processo offensivo”, dove “il giudice diviene nemico del reo, di un uomo incatenato… e non cerca la verità del fatto, ma cerca nel prigioniero il delitto…
Se il presupposto della pena è rappresentato, più che da fatti delittuosi determinati, dalla sostanziale personalità … del loro autore, il processo decade inevitabilmente da procedura di verifica empirica delle ipotesi d’accusa in tecnica d’inquisizione sulla persona…”.8

Ma questa descrizione corrisponde con esattezza a quella che è sempre stata l’esperienza prevalente del processo penale vissuta dai soggetti conflittuali, ben prima e senza alcun bisogno delle teorie di Jakobs.
Senza nulla togliere alla sua pericolosità dal punto di vista normativo, a livello descrittivo il “diritto penale del nemico”, nella sua crudezza, fornisce una chiave di lettura molto più credibile sulla funzione dei codici e sulla realtà dei tribunali, di quanto non faccia la retorica sullo Stato di diritto.
Per dirla con i compagni del Prison Break Project,  “un pregio innegabile della teorizzazione del diritto penale del nemico è quello di richiamare con franchezza la dimensione conflittuale del diritto e di evidenziare come esso operi in base ai rapporti di forza esistenti.” (Continua)


  1. In proposito è consigliabile la lettura di Cesare Bermani, Il nemico interno. Guerra civile e lotta di classe (1943-1976), Odradek, 2003, XXVI-349. 

  2. Günther Jakobs, Diritto penale del nemico. Una analisi delle condizioni della giuridicità, in Delitto politico e diritto penale del nemico, a cura di A. Gamberini e R.Orlandi, Monduzzi, 2007, pp. 109/129. 

  3. Giulia Fabini, Migranti e polizia. Tra diritto penale del nemico e regole del disordine, 2011

  4. Günther Jakobs, op cit. p.123. 

  5. Sull’argomento: Vittorio Fanchiotti,  Il diritto penale del nemico e i nemici del diritto. Strategie antiterrorismo e giurisdizione negli Stati Uniti, in “Questione Giustizia”, n. 4, 2006. 

  6. Ne riporto alcune: Federico Zumpani, Critica del diritto penale del nemico e tutela dei diritti umani, in “Diritto e questioni pubbliche. Rivista di Filosofia del Diritto e Cultura Giuridica”, n. 10, 2010, pp. 524/52.
    Eugenio Raúl Zaffaroni, Buscando al enemigo: de Satán al derecho penal cool, dicembre 2012.
    Valentina Corneli,  Francia e emergenza terroristica: un diritto penale del nemico?,  in “Osservatorio Costituzionale”, Aprile 2015.
    Interessante in proposito anche A. Gamberini e R.Orlandi (a cura di ), Delitto politico e diritto penale del nemico,Monduzzi, 2007. 

  7. Luigi Ferrajoli, Il “diritto penale del nemico” e la dissoluzione del diritto penale, in “Panoptica”, vol.2 n. 7, 2007, p. 99. 

  8. Ibidem, p. 93. 

]]>