Dino Coltro – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 14 Dec 2025 21:00:52 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Un calendario per l’anno che verrà https://www.carmillaonline.com/2020/12/16/un-calendario-per-lanno-che-verra/ Wed, 16 Dec 2020 22:00:34 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=63896 di Sandro Moiso

Mali che se ciapa. Epidemie e contagi nel Veneto moderno, Lunario veneto di Dino Coltro 2021, Redazione di Marco Girardi, Cierre edizioni, Verona, ottobre 2020, 12,00 euro.

Certo, è una cosa che non si era mai vista: Carmilla che segnala e recensisce un calendario. E poi mica uno di quelli moderni con le immagini realizzate da fotografi famosi, oggi un po’ più castigati di quelli che un tempo erano conosciuti e ricercati come ad esempio i “calendari Pirelli”, oppure di ‘movimento’. No, tutt’altro, qui si parla di un ‘lunario’. Ma quanti sono ancora coloro che si ricordano, [...]]]> di Sandro Moiso

Mali che se ciapa. Epidemie e contagi nel Veneto moderno, Lunario veneto di Dino Coltro 2021, Redazione di Marco Girardi, Cierre edizioni, Verona, ottobre 2020, 12,00 euro.

Certo, è una cosa che non si era mai vista: Carmilla che segnala e recensisce un calendario.
E poi mica uno di quelli moderni con le immagini realizzate da fotografi famosi, oggi un po’ più castigati di quelli che un tempo erano conosciuti e ricercati come ad esempio i “calendari Pirelli”, oppure di ‘movimento’. No, tutt’altro, qui si parla di un ‘lunario’. Ma quanti sono ancora coloro che si ricordano, o anche solo immaginano, che un tempo, nelle culture che oggi si ritengono superate e arcaiche, il calendario avesse una funzione educativa e ancor più pratica, soprattutto per i contadini?
Certamente pochi e già immagino i sorrisini e gli sguardi di scherno che correranno sulle labbra e i volti di molti lettori.

Evidentemente, da popolo di bevitori di birra oppure di bottiglie di vino acquistate in tutta fretta (al supermercato, nelle enoteche o nei ‘wine bar’) qual siam diventati, anche solo il fatto che la conoscenza delle fasi lunari possa essere stata (e sia ancora) di fondamentale importanza per l’imbottigliamento del vino potrebbe sembrare un residuo passatista antiquato e inutile, e forse anche un po’ conservatore. Eppure, eppure…

Il nuovo calendario/lunario per l’anno che viene, pubblicato dalle edizioni Cierre di Verona che continuano la tradizione dei lunari ispirati dalle ricerche sulla cultura popolare veneta condotte da Dino Coltro per più di trent’anni1, avrebbe potuto intitolarsi anche Mala tempora currunt visto che è totalmente ispirato dalla lunga stagione pandemica in cui siamo immersi e di cui, nonostante le miracolose e incerte promesse vaccinali, non si vede ancora con certezza una fine.

Ed è proprio questa incertezza a far sì che questo mondo, questa società e questo stile di vita che si credono e definiscono come moderni in realtà non siano poi così distanti dai timori, dalle paure e dalle pratiche sociali, compreso il distanziamento in epoca di epidemie, che caratterizzavano le culture, alte e basse, dei secoli e delle età precedenti la nostra. Timori, paure e contagi che non sono mica mai scomparsi e che hanno fortemente segnato la vita, e la morte, di milioni di persone anche in periodi non troppo distanti temporalmente da quello in cui viviamo.

Dalle diverse ondate di peste che hanno percorso l’Europa e l’Italia dal Medio Evo al XVII secolo, fino al colera e alla tisi, insieme ad uno straordinario cocktail di malattie endemiche, che costrinsero all’esodo e all’emigrazione verso altri paesi e altri continenti milioni di italiani poveri tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento2 passando poi per l’epidemia di “Spagnola” che causò poi ancora milioni di morti negli anni a cavallo della fine del primo macello imperialista, prima nelle trincee e poi tra i civili, le malattie infettive e contagiose hanno costantemente segnato il cammino delle società umane, costringendolo a brusche svolte e ancor più spesso a bruschi arresti. E di tutto ciò, soprattutto per quanto riguarda l’area veneta, il lunario per il 2021 rende conto.

Chiarendo, indirettamente, come fosse quindi inevitabile che tale tradizione epidemica lasciasse un segno profondo nelle culture e nell’immaginario delle civiltà precedenti e in particolare, almeno qui in Italia, in quella contadina.
Valga per tutte, a livello di immaginario religioso, la frequenza con cui, soprattutto nel Nord Italia, è possibile imbattersi in feste patronali oppure edicole e cappelle dedicate alla figura di san Rocco, al quale, non a caso, è dedicato il 16 agosto.

Autentico santo della peste, ispirato alla figura di un mercante di Montpellier che si distinse, narra la leggenda più che la storia, per essersi prestato alla cura dei malati di peste mentre era in pellegrinaggio verso Roma. Colpito dalla stessa malattia, sarebbe guarito miracolosamente grazie anche alle cure prestategli da un cane che aveva preso con sé durante il viaggio. Sarà poi il cattolicesimo post-tridentino a trasformare l’immagine del santo accompagnato dal cane e con la piaga pestilenziale su una gamba in quella decisamente più gore del cane che gli lecca le piaghe per guarirle. Come ben si sa, infatti, al peggio non c’è mai limite.
Ma torniamo al nostro lunario, iniziando proprio dalle immagini che lo accompagnano.

Il lunario è illustrato con immagini legate al tema delle epidemie e con alcune incisioni che Hans Holbein il giovane (1497 circa – 1543) dedicò alla danza macabra. Nei momenti di grande crisi, come durante i contagi, la morte è la rivincita sulle disuguaglianze sociali, rivela la vanità del potere e della ricchezza. In un ritmo inesorabile, Holbein raffigura scene di vita quotidiana, in cui uno scheletro accompagna i protagonisti umani, per ricordare che la morte non risparmia nessuno: grandi e piccoli, poveri e ricchi, giovani e vecchi. Di fronte alla minaccia, il vivo reagisce cercando di venire a patto con la morte, che risponde con ironia macabra: lo scheletro trascina nel girotondo il vivente; ride delle sue paure; si fa beffe dell’attaccamento umano alla vita e ai beni terreni; sfotte il tentativo maldestro di sottrarsi all’inevitabile destino3.

Molto ci sarebbe da dire e scrivere sull’incredibile florilegio di Trionfi della morte e danze macabre che costellarono l’arte occidentale a partire dal XIV secolo, donandole alcuni dei più significativi capolavori, sia come affreschi che come incisioni. Ma occorre qui fermarci un attimo sul significato di questo terribile e implacabile memento mori4, soprattutto per quanto riguarda una società e un modo di produzione che hanno fatto della loro progressiva eternizzazione la base di ogni narrazione politica, storica, scientifica e sociale.

La pandemia e le epidemie, riportano alla luce ciò che si vuole inutilmente negare e nascondere: la vita umana è a termine5 e così pure le società in cui si svolge, compresa quella attuale. Ergo se tutto muore, come affermava già Howars P. Lovecraft secondo il quale dopo lunghi e strani eoni anche la morte muore, anche il capitalismo, come tutti gli altri modi di produzione che l’hanno preceduto, è destinato a morire. Anche se sarà soltanto la Storia futura a rivelarci se di inedia o di morte violenta .

Ma se questo manifestarsi della morte e della fine dei cicli vitali e storici è accolto nelle culture tradizionali come un fatto, per quanto tragico, la società degli ultimi decenni ha fatto di tutto per nasconderlo oppure negarlo. Quasi come se la morte e la malattia invece che un fatto naturale, appartenessero al regime del non detto, di ciò di cui non si può parlare e, soprattutto, fossero diventate qualcosa di cui vergognarsi oppure qualcosa di talmente eccezionale da doverlo sottolineare con forme drammatiche spettacolari. Da lì derivano sia la spettacolarizzazione dei funerali e delle esequie (con tanto di applausi di cui non si riesce mai bene a capire il significato, considerato la distanza siderale che separa, in tali occasioni, i destinatari dell’omaggio da coloro che lo porgono), quanto la corsa verso forme di feste di morte (come quelle di cui già parlava Giovanni Boccaccio nella “cornice” del Decameron), rituali e scaramantiche, celebrate sia con la partecipazione di massa ad eventi collettivi che potrebbero rivelarsi compromettenti per la salute, sia nelle attuali risse tra gang di minorenni che, senza reali motivazioni nemmeno nel campo del controllo territoriale, si affrontano nelle piazze e nelle vie o sui ponti delle città italiane da qualche tempo a questa parte.

Fughe, dalla realtà della morte e da quella delle malattie che, però, hanno il pregio, almeno per il potere, di non intaccare mai o mettere in discussione le cause profonde e diffuse delle pandemie e delle emergenze. Mentre lo stato di emergenza tende a creare l’attesa del rimedio miracoloso, vaccino o altro che sia, e trasformando così l’antica e primitiva fede magico-religiosa popolare delle società contadine nella fede in una scienza svenduta un tanto al chilo.

Recuperare consapevolmente il memento mori potrebbe invece rivelarsi come un momento liberatorio per la specie umana attuale, come già suggeriva il materialista Leopardi indicando la necessità di collaborazione tra gli esseri umani, la cui triste condizione mortale obbligò a stringersi in social catena6 oppure come, in forma più aristocratica e guerriera, già faceva il libro del Bushido giapponese che nel vivere come si fosse già morti coglieva la possibilità di realizzare con audacia una vita completa e consapevole.
Completezza di vita, comunità umana e consapevolezza che sono agli antipodi della proposta solitaria ed egoista di vita individuale prospettata dal sistema economico-sociale attuale.

Il paradosso odierno è infatti quello di una società che, per negare la morte e la necessaria fine di ogni cosa, finisce con l’esaltarla e diffonderla sempre più massicciamente a discapito della vita, in un contesto in cui la biopolitica del potere si trasforma sempre più in necropolitica7. E che per paura della propria morte, in nome del mantenimento dello stato di cose presenti, è disposta a sacrificare l’intera biosfera e il suo futuro8.

Il calendario qui proposto ha sicuramente un grande pregio, quello di ricordarci come società ritenute arretrate nell’immaginario moderno e progressista potessero rivelarsi molto più disincantate nei confronti del potere, della ricchezza, dell’ambizione personale e della morte di quanto lo sia quella odierna, in ogni sua componente. Senza dimenticare che quelle stesse società, e nella fattispecie quella contadina veneta, dylanianamente non avessero bisogno di un meteorologo per sapere in quale direzione spirasse il vento. Non soltanto nel senso sotteso da Blowin’ in the Wind.

Il lunario si presenta diviso in cinque colonne:

La prima intitolata “Luna”, registra le fasi lunari di un comune calendario; nella seconda, distinta con il termine “Quarantìa”, sono riportate le conoscenze meteorologiche della tradizione orale. Pe renderli attuali si devono confrontare con le fasi lunari della prima colonna che, essendo diverse da un anno all’altro, ne garantiscono il significato meteorologico e rendono probabili le previsioni. Se non si tiene conto di questi “continui confronti”, esse perdono ogni riferimento reale. E’ infatti sulle fasi lunari che il contadino misurava l’annata agraria, contava le quarantìe, arrivava a fare delle previsioni del tempo alle quali si legavano le regole agronomiche, formulate sull’esperienza secolare delle generazioni passate e tramandate oralmente.
[…] I mutamenti violenti e repentini di questi decenni hanno cambiato, mutato o cancellato molto della sapienza del tempo contadino e il lunario rischia di essere dimenticato dalle nuove generazioni. Forse non è tempo perso quello riservato alla riscoperta di come eravamo e quale fosse il modo di “contare” il tempo dei nostri nonni, a confronto con i metodi attuali.
La terza colonna, infatti, riporta i giorni di lavoro, le feste, i santi secondo il consueto schema dei calendari, fatta eccezione per quei santi che sono direttamente legati alle indicazioni meteorologiche, alle usanze, al lavoro di una volta. La tradizione orale non ha mai tenuto conto delle riforme calendariali, avvenute nel corso dei secoli e, generalmente, è ferma al calendario di Cesare, come lo sono i russi e gli ortodossi.
La quarta colonna sviluppa il tema scelto per il 2021, Mali che se ciapa. L’ultima riporta, giorno per giorno, i proverbi, i modi di dire, i detti, che esprimono gli aspetti sapienziali del lavoro e della vita dei contadini, legati alla tradizione orale9.

In attesa di poter riempire di pece e piume i rivenditori di dati economici farlocchi, di terapie miracolose e di suggestioni nazionaliste, dell’enorme Medicine Show mediatico su cui si fonda la sottomissione al dominio del modo di produzione attuale, il cui unico scopo è quello di negare l’orrore “vero” del presente per mantenerlo in vita a discapito di tutto ciò che è davvero vivo e necessario per la nostra specie e quelle che ci hanno accompagnato fin qui, la consultazione e la lettura di questo calendario, nonostante la serietà dell’argomento, potrebbe ancora rivelarsi di buon auspicio per l’anno che verrà.


  1. La cui opera principale è stata recentemente recensita su Carmilla qui  

  2. Si veda in proposito almeno G.A. Stella, Odissee, Rizzoli, Milano 2004  

  3. Mali che se ciapa. Epidemie e contagi nel veneto moderno, Lunario veneto di Dino Coltro 2021  

  4. Sul tema del buon morire e della danza macabra si veda il sempre fondamentale A. Tenenti, Il senso della morte e l’amore della vita nel Rinascimento (Francia e Italia), Einaudi, Torino 1977 (prima edizione 1957)  

  5. Come avrebbe affermato il teologo tedesco Meister Eckhart, vissuto a cavallo tra XIII e XIV secolo, ci sarebbe data soltanto “in prestito d’uso”  

  6. G. Leopardi, La ginestra o il fiore del deserto, v. 149; cui andrebbero aggiunte le considerazioni svolte nel Dialogo della Natura e di un Islandese: “Natura – Tu mostri non aver posto mente che la vita di quest’universo è un perpetuo circuito di produzione e distruzione, collegate ambedue tra sé di maniera, che ciascheduna serve continuamente all’altra, ed alla conservazione del mondo; il quale sempre che cessasse o l’una o l’altra di loro, verrebbe parimente in dissoluzione.”  

  7. Si veda D. Di Cesare, Virus sovrano? L’asfissia capitalistica, Bollati Boringhieri, Torino 2020  

  8. Come sembra suggerire lo straordinario romanzo di George A. Romero e Daniel Kraus, I morti viventi, recentemente pubblicato da La nave di Teseo  

  9. Lunario veneto di Dino Coltro 2021  

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Vivare come l’uselin su la rama* https://www.carmillaonline.com/2020/11/25/vivare-come-luselin-su-la-rama/ Wed, 25 Nov 2020 22:00:10 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=63532 di Sandro Moiso

Dino Coltro, Il Paese perduto. La cultura dei contadini veneti, vol. I La giornàda e il lunario, pp. 264, Cierre edizioni, Verona 2013, 16,00 euro; vol.II Il giro del torototèla. Ande e cante contadine, Cierre edizioni, Verona 2015, pp. 440, 18,00 euro; vol. III Le parole del moléta, Cierre edizioni 2016, pp. 300, 18,00 euro; vol. IV Il pomo doraro – Aneddoti e favole, Cierre edizioni 2020, pp.750, 20,00 euro.

Torna disponibile per il grande pubblico un’opera uscita per la prima volta, per l’editore Bertani di Verona, tra il [...]]]> di Sandro Moiso

Dino Coltro, Il Paese perduto. La cultura dei contadini veneti, vol. I La giornàda e il lunario, pp. 264, Cierre edizioni, Verona 2013, 16,00 euro; vol.II Il giro del torototèla. Ande e cante contadine, Cierre edizioni, Verona 2015, pp. 440, 18,00 euro; vol. III Le parole del moléta, Cierre edizioni 2016, pp. 300, 18,00 euro; vol. IV Il pomo doraro – Aneddoti e favole, Cierre edizioni 2020, pp.750, 20,00 euro.

Torna disponibile per il grande pubblico un’opera uscita per la prima volta, per l’editore Bertani di Verona, tra il 1975 e il 1978. Fu all’epoca una scelta sicuramente coraggiosa per un editore che fino ad allora aveva principalmente pubblicato testi, italiani e stranieri, riconducibili tutti, o quasi, all’ambito dell’antagonismo politico di estrema sinistra.
La ricerca dell’autore, infatti, si avventurava nell’opera di riscoperta e ricostruzione di una cultura, quella dei contadini veneti delle Basse veronesi, che sicuramente all’epoca, anche e forse soprattutto agli occhi dei militanti di quella Sinistra che si dichiarava extra-parlamentare, doveva apparire arcaica, superata, conservatrice, se non addirittura controrivoluzionaria. Perdendo così, già all’epoca, l’occasione per avvicinare strati popolari, allora ancora in parte superstiti, in cui era radicato un forte antagonismo nei confronti della cultura “elevata”, o presunta tale, imposta dallo Stato e dalla onnicomprensiva modernizzazione della società.

Dino Coltro (1929-2009) di quella cultura e di quella società contadina era invece discendente e, si potrebbe dire, voce; diretta emanazione di una lingua e di conoscenze apparentemente destinate ad essere cancellate dalla Storia.
Nato in provincia di Verona e cresciuto al Pilastro (Bonavigo), una tipica corte della Bassa veronese dove abitò dalla prima infanzia fino agli anni Cinquanta, dopo essere stato avviato al lavoro salariale, riuscì con l’impegno dell’autodidatta a diventare maestro. Con l’insegnamento iniziò anche la sua attività sociale, facendosi promotore di numerose cooperative agricole. A questa si aggiunse l’esperienza della Cooperativa della Cultura di Rivalunga, un’iniziativa socio-pedagogica che anticipò tendenze e metodi del rinnovamento della scuola. Dal 1972 si dedicò alla ricerca e alla trascrizione della tradizione orale veronese e veneta, di cui l’opera ripubblicata e recentemente portata a termine dalle edizioni Cierre di Verona costituisce uno dei risultati e, forse, l’esempio più significativo.

Sappiamo tutti come, oggi, in Veneto l’uso del dialetto sia ancora estremamente diffuso e sappiamo anche, purtroppo, che la sua difesa ha finito col costituire la base di una rivendicazione identitaria troppo spesso sfociata in una forma di autentica ostilità, se non di vero e proprio razzismo, nei confronti dei forestieri e degli immigrati più poveri, cui la Lega, nelle sue varie espressioni, ha dato voce e fiato per poter acquisire maggior rappresentatività politica sia a livello locale che nazionale.

Certo, l’opera di Coltro non andava, e non va letta tutt’ora, in quella direzione. Anzi quelle parole, quelle favole, quei modi di dire, quei canti e quelle filastrocche continuano a ricordare al Veneto degli schei (quattrini)1, una società contadina in cui molti vivevano come l’uccellino sul ramo* ovvero mangiando poco. Una società spesso povera, ma dall’identità forte proprio perché restia alla penetrazione di una cultura ufficiale, basata sulla prevalenza del testo scritto, destinata a sconvolgerla, privandola ancor prima che della lingua, ancor più della sua capacità creativa e della sua capacità di intendere il mondo, la natura, il lavoro, la fatica e la miseria, ma anche e soprattutto dei suoi valori etici e morali.

Come affermava infatti l’autore nelle riflessioni destinate ad accompagnare una prima ristampa dell’opera, nel 1982:

Il mio intento era di presentare una cultura nei termini e nei principi basilari intrinseci, senza ricorrere a prestiti interpretativi provenienti da altre concezioni della vita e del mondo. In questo modo risalta l’originalità della condizione contadina, nello spazio e nel tempo, e si dimostra che il complesso delle esperienze e delle situazioni, trattenute dalla coscienza collettiva, esprime una vera e reale concezione del mondo, da cui derivano valori e modelli che guidarono (e forse guidano) il comportamento individuale e collettivo. La mancanza di comunicazione simbolica o segnica della cultura subalterna, avverte soltanto che l’attenzione alla comunicazione orale deve essere portata al colore, alle forme, alla mitologia, alla fabulazione nelle loro complessità. Ma complessa non vuol dire frammentaria; la creatività e l’autonomia caratterizzante questa cultura ne amplificano la poliformia.

[…] C’è tuttavia, una unità concettuale, in larga misura implicita e intuitiva. Occorre soltanto capirne i termini. Esiste una morale del popolo, cioè degli imperativi molto più forti e tenaci della morale ufficiale con la quale, molto spesso, vengono in opposizione […] Così scopriamo opinioni e credenze sui diritti, sulla giustizia che nascono sotto lo spunto delle condizioni di vita e non risultano dei cascami degradanti dalle concezioni dominanti, come spesso si sente dire2.

Aggiungeva poi ancora, nella Premessa:«La lingua rappresenta un modulo conoscitivo fondamentale di una società e della sua cultura. Per questo ho tentato la trascrizione del linguaggio contadino della Bassa, colto nelle forme più espressive, dalla voce degli ultimi “analfabeti”, conservandone, fin dove possibile la contestualità e la struttura culturale orale. Una lingua non esiste al di fuori della cultura, cioè, al di fuori di un insieme ereditato socialmente di usanze e credenze che determinano la struttura della nostra vita [da S. Amin, Il linguaggio, Einaudi, Torino 1969 – N.d.R]»3.

Come afferma, infatti, Manlio Cortelazzo nella Prefazione al primo dei quattro volumi:

La propria parlata individuale, di uso e di ricordo, come indicatore del lessico comunitario; e questo ripreso, quale specchio fedele e spesso unico testimone della perduta memoria collettiva di un passato anche recente, che va man mano sbiadendosi e sfumando i suoi precisi connotati: ecco l’opera, carica di pietas, compiuta con grande passione e lunga fatica dall’Autore […]
Non c’è, in questo lavoro, né recriminazione, né idilliaca (e, quindi, sostanzialmente falsa) ricostruzione di un’esistenza faticosa, superata sì nei suoi deprimenti aspetti quotidiani, ma anche in altri aspetti positivi, così alieni dal nostro impoverito villaggio globale.
La descrizione di questo “paese perduto” sa procedere attraverso la parola, il verbum, inteso in senso lontanissimo, includente qualsiasi manifestazione verbale, anche i gridi di richiamo e incitamento degli animali domestici, anche le creazioni effimere, incontrollate e irripetibili, o fantasiose e sfuggenti a tutti i tentativi di logica spiegazione, per arrivare a cogliere esattamente, come confermerebbero documentazioni di altro tipo, peraltro non indispensabili, il corso della vita contadina a cavallo fra i due secoli, anzi, tra un mondo millenario […] e il suo fresco antagonista, il mondo d’oggi, che se n’è liberato4.

Coltro privilegiava quindi la lingua dell’oralità, il dialetto, la lingua del fare, che è pensiero legato alla concretezza della vita quotidiana, alle fatiche, alle miserie, alla fame, alla violenza dell’esistenza.
Lingua di condivisione sociale e famigliare degli eventi e degli atti, lingua che ci ricorda che ogni lingua nazionale, spesso imposta con la violenza (anche a scuola), è una forma di colonizzazione non solo socio-economica, ma anche dell’immaginario espresso collettivamente. In un mondo in cui il termine analfabeta ha rappresentato, e rappresenta tutt’ora, un grave stigma.

Il mondo contadino preso in considerazione, appare in una dimensione culturale più esatta attraverso il suo linguaggio che ne esprime anche la filosofia e la morale: uno specchio modesto di una civiltà che va scomparendo […] Tuttavia il mondo contadino non si presenta con un’unica fisionomia: la differenza culturale di chi possiede casa e terra da chi non ha che le braccia per lavorare non è trascurabile. La spaccatura salariale in categorie di lavoro (salariati, avventizi, giornalieri) e in sottoclassi sociali determina una diversa visone del lavoro e della vita.
L’ambiente di paese o di corte, il vivere in case isolate o raggruppate, in contrade, in frazioni; l’influenza della predicazione religiosa e delle tradizioni mitologiche popolari; la frequentazione dell’osteria e la solitudine delle stalle, sono tutti fattori che rendono “diverso” un modo di dire, apparentemente identico o uniforme. In questo caso, ripetizioni e varianti diventano frasi ed espressioni del tutto nuove e autonome.
Il lessico dialettale ha sfumature, inflessioni verbali, accenti che variano con il mutare dell’ambiente naturale, sotto l’influenza delle condizioni economiche, in rapporto alla composizione sociale delle comunità contadine. Differenze si possono notare dentro uno stesso paese, determinate dal lavoro, dalla povertà, sottolineate da condizionamenti storici, da fattori spirituali, dall’accettazione o meno dell’insegnamento della Chiesa5.

In fin dei conti, forse, Francis Fukuyama non aveva del tutto torto quando parlava della fine della Storia con i progressi avvenuti al termine del XX secolo, poiché il capitalismo, il suo stato e la sua cultura hanno di fatto contribuito a far finire migliaia di volte la Storia delle culture e società altre, costringendole ad essere relegate in ricordi sempre più sbiaditi oppure a negarsi per potere stare al passo con la Modernità, lo Sviluppo e il Progresso.

Le lingue altre, i gerghi e i dialetti hanno continuato però a portare dentro di sé una memoria materiale di un passato quasi sempre distrutto e poi rimosso e nascosto. L’opera di Dino Coltro quindi, a quasi cinquant’anni dalla sua prima pubblicazione, è ancora di estrema attualità per la metodologia impiegata. L’amplissima raccolta di detti, proverbi, modi dire, espressioni comuni, cantilene, fole scaturisce direttamente dalla viva voce dei contadini, non vi sono passaggi di carattere letterario o interpretativo che ne nascondano o ne travisino l’implicita forza espressiva.

L’opera risulta poi ancora attualissima poiché è stata scritta «appena usciti dal grande esodo dalle campagne, risulta, in definitiva, un esame immediato, spontaneo, fatto sul filo di una memoria intatta di quanto il cambiamento” aveva sperperato più che mutato. Perché il “cambiamento” era ed è nelle cose della storia e se c’era qualcuno che lo attendeva come una “liberazione”, questi erano i contadini. E, forse perché arrivato troppo tardi, li ha spinti a una trasmigrazione culturale così affrettata, confusa e sradicata da autentiche energie vitali. Una immagina speculare dell’emigrazione dalle campagne alle aree urbane, un tempo rifiutata»6.

Estremamente attuale nel ricordarci, in questo inizio secolo in cui gigantesche trasformazioni socio-economiche e tecnologiche contribuiscono a rovesciare ogni forma di resistenza e solidarietà nel loro contrario e ogni autonomia politica e culturale in immaginario spendibile per la causa capitalista, anche grazie ad una Sinistra dalle infinite sfumature progressiste tutte ispirate più dall’idealismo illuminista che dal materialismo e dall’interesse per gli “altri” di marxiana memoria7, che ogni passaggio, ogni trasformazione economica e sociale, anche all’intero di un medesimo modo di produzione, è sempre e soprattutto una trasformazione antropologica dei soggetti coinvolti. Senza di questa, senza la scellerata e condivisa rimozione di ogni forma di cultura non funzionale allo sviluppo economico e tecnologico dominante lo stesso non potrebbe infatti affermarsi e sopravvivere.


  1. Si veda G. A. Stella, Schei. Dal boom alla rivolta: il mitico Nord-est, Baldini &Castoldi, Milano 1997  

  2. D. Coltro, Riflessioni per una ristampa, in D. Coltro, Il paese perduto, vol.I, pp. 15-16  

  3. D. Coltro, Premessa a Il paese perduto, vol.I, op.cit. p.9  

  4. M. Cortelazzo, Il mondo contadino di ieri in D. Coltro, Il paese perduto, Vol. I La giornàda e il lunario, Cierre edizioni, Verona 2013, pp. 19-20  

  5. D. Coltro, Premessa in op. cit. pp. 10-11  

  6. D. Coltro, Riflessioni in op. cit. pp.16-17 

  7. Si vedano in proposito: E. Cinnella, L’altro Marx, Della Porta Editori, Pisa – Cagliari 2014 e K. Marx, Quaderni antropologici, Edizioni Unicopli, Milano 2009 oltre che K. Marx – Friedrich Engels, India, Cina, Russia, a cura di B. Maffi, il Saggiatore, Milano 1960; oppure, ancora, E. P. Thompson, Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra, il Saggiatore di Alberto Mondadori Editore, Milano 1963  

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