Destra – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Fri, 01 Aug 2025 20:00:30 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Le chimere del frontismo e dell’antifascismo elettoralistico: il cadavere ancora cammina https://www.carmillaonline.com/2024/07/10/le-chimere-del-frontismo-e-dellantifascismo-elettoralistico-ovvero-il-cadavere-ancora-cammina/ Wed, 10 Jul 2024 19:15:43 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83389 di Sandro Moiso

“Il risultato peggiore, per le sorti della classe proletaria, è l’entrata nel tronfio affasciamento antifascista della parte proletaria che aveva finalmente imboccata la via originale ed autonoma” (Amadeo Bordiga)

Nel corso degli anni Novanta, quando chi scrive faceva ancora parte di una ristretta compagine militante dal chiaro riferimento bordighista, che in seguito avrebbe dato vita alla rivista «n+1», un circolo politico di estrema destra scrisse al medesimo gruppo chiedendo un contatto per una eventuale collaborazione, una volta considerate le possibili affinità di vedute.

La risposta del militante più anziano, allora alla guida dello stesso, fu ferma [...]]]> di Sandro Moiso

“Il risultato peggiore, per le sorti della classe proletaria, è l’entrata nel tronfio affasciamento antifascista della parte proletaria che aveva finalmente imboccata la via originale ed autonoma” (Amadeo Bordiga)

Nel corso degli anni Novanta, quando chi scrive faceva ancora parte di una ristretta compagine militante dal chiaro riferimento bordighista, che in seguito avrebbe dato vita alla rivista «n+1», un circolo politico di estrema destra scrisse al medesimo gruppo chiedendo un contatto per una eventuale collaborazione, una volta considerate le possibili affinità di vedute.

La risposta del militante più anziano, allora alla guida dello stesso, fu ferma e decisa, perché: «tra comunisti e fascisti non possono esistere punti in comune e soltanto le condizioni storiche ci impediscono di rapportarci con questi nell’unico modo possibile. Ovvero a colpi di fucile.»

Molta acqua è passata sotto i ponti da quel tempo ad oggi ma, nonostante il fatto che le divergenze di vedute su molti aspetti dell’agire politico abbiano poi portato il sottoscritto a lasciare l’esperienza bordighista, quelle poche parole sono rimaste scolpite nella memoria di chi scrive come chiaro insegnamento. Perché ponevano alcuni ordini di problemi che oggi gran parte della sinistra presunta radicale sembra per molti aspetti ancora ignorare.

Il primo, naturalmente è quello costituito dal semplice fatto che tra l’interpretazione comunista e rivoluzionaria della realtà e delle sue contraddizioni economiche, sociali e politiche, e quella fascista e reazionaria delle stesse non può esistere alcunché di comune, al contrario di quanto recentemente sostenuto da formazioni che, pur rivendicando la vicinanza del proprio agire politico all’esperienza della sinistra antagonista, hanno invece fatto proprie le posizioni nazionaliste e populiste tipiche del fascismo.

Il secondo, altrettanto importante, è che la reazione fascista intesa come espressione del dominio di classe in periodi di difficoltà del modo di produzione capitalistico non si può combattere sul piano delle idee o delle convulsioni parlamentari ed elettoralistiche, ma soltanto con una strenua battaglia condotta nelle piazze, strada per strada e in ogni altro spazio politico-sociale che si voglia contendere all’avversario. Quest’ultimo sempre inteso, però, non come erronea deformazione del capitalismo democratico e liberale, ma come sua intima, ultima e definitiva moderna essenza.

Quest’ultima considerazione era già tutta compresa nella relazione sul Fascismo che Amadeo Bordiga aveva presentato, all’epoca dell’affermazione di Mussolini, durante il IV Congresso della Terza Internazionale nel 1922. Una riflessione che si poneva di traverso rispetto qualsiasi teorizzazione di fronte unico dall’alto o interclassista destinato a impedire la vittoria della “reazione fascista”, intesa come nemica non soltanto del proletariato e dei lavoratori ma anche delle stesse classi borghesi al potere e del sempiterno liberalismo.

Una posizione, quella della Sinistra Comunista e di Bordiga, criticata più volte ad opera di chi un Fronte antifascista avrebbe poi perseguito fino alla creazione del CLN e alla susseguente azione politica volta non a superare il fascismo insieme al modo di produzione di cui era stato il prodotto politico e il custode armato, ma soltanto a ristabilire l’ordine liberale e parlamentare precedentemente superato. Senza nulla mutare sul piano dei rapporti sociali di produzione e di proprietà dei mezzi per conseguire l’arricchimento privato a scapito del lavoro socialmente realizzato. Come avrebbe poi ancora affermato l’unico “comunista italiano” degno di questo nome:

Senza dare infatti importanza alcuna al pronostico o al compulsamento delle statistiche dei risultati, cui da oltre trent’anni contestiamo anche questa ultima affermata utilità di indice quantitativo delle forze sociali, e senza quindi tentare il freddo schizzo o ammirare la pallida fotografia in numeri dell’oggi [dimostreremo come] In diverse situazioni e sotto mille tempi, la storia ha convinto che migliore diversivo della rivoluzione che l’elettoralismo non può trovarsi.
[…] Se questo ancora una volta rammentiamo, è per stabilire lo stretto legame tra ogni affermazione di elettoralismo, parlamentarismo, democrazia, libertà, ed una sconfitta, un passo indietro del potenziale proletario di classe. La corsa all’indietro ebbe il suo compimento senza più veli quando […] in situazioni capovolte, il potere del capitale prese l’iniziativa di guerra civile contro gli organismi proletari. La situazione era capovolta in grande parte per il lavoro della borghesia liberale e dei socialisti democratici, della stessa destra annidata nelle file nostre, [che] dettero mano alla preparazione delle aperte forze fasciste, usando all’uopo magistratura, polizia, esercito (Bonomi) per contrattaccare ogni volta che le forze illegali comuniste (sole, e in pieno “patto di pacificazione” da quei partiti firmato) riportavano successi tattici (Empoli, Prato, Sarzana, Foiano, Bari, Ancona, Parma, Trieste, ecc.). Che in questi casi i fascisti, non avendolo potuto da soli, coll’aiuto delle forze dello Stato costituzionale e parlamentare massacrassero i lavoratori e i compagni nostri, bruciassero giornali e sedi rosse, non costituì il massimo scandalo: questo scoppiò quando se la presero col Parlamento ed uccisero, ormai post festum, il deputato Matteotti. Il ciclo era compiuto. Non più il Parlamento per la causa del proletariato, ma il proletariato per la causa del Parlamento. Si invocò e proclamò il fronte generale di tutti i partiti non fascisti al di sopra di diverse ideologie e diverse basi di classe, con l’unico obiettivo di unire tutte le forze per rovesciare il fascismo, far risorgere la democrazia, e riaprire il Parlamento. Più volte abbiamo riportato le tappe storiche: l’Aventino, cui la direzione del 1924 del nostro partito partecipò, ma da cui dovette ritirarsi per la volontà del partito stesso che solo per disciplina aveva subito le direttive prevalse a Mosca, ma ancora serbava intatto il suo prezioso orrore, nato da mille lotte, ad ogni alleanza interclassista; poi la lunga pausa e la ulteriore scivolata nella emigrazione, fino alla politica di liberazione nazionale e guerra partigiana, come più volte abbiamo spiegato che l’uso di mezzi armati ed insurrezionali nulla toglieva al carattere di opportunismo e tradimento di una tale politica. Non seguiremo qui tutta la narrazione. Fin da prima del fascismo italiano e dall’altra guerra ne avevamo abbastanza per sostenere che nell’Occidente di Europa mai il partito proletario doveva accedere a parallele azioni politiche con la borghesia “di sinistra” o popolare, della quale da allora si sono viste le più impensate edizioni: massoni anticlericali una volta, poi cattolici democristiani e frati da convento, repubblicani e monarchici, protezionisti e liberisti, centralisti e federalisti, e via. Di contro al nostro metodo che considera ogni moto “a destra” della borghesia, nel senso di buttare la maschera delle ostentate garanzie e concessioni, come una previsione verificata, una “vittoria teorica” (Marx, Engels) e quindi un’utile occasione rivoluzionaria, che un partito rettamente avviato deve accogliere non con lutto ma con gioia, sta il metodo opposto per cui ad ognuna di quelle svolte si smobilita il fronte di classe e si corre al salvataggio, come pregiudiziale tesoro, di quanto la borghesia ha smantellato e schifato: democrazia, libertà, costituzione, parlamento1.

Lasciando il tempo e lo spazio per riprendere ancora più avanti le osservazioni di Bordiga sulla farsa elettorale e la sue reale funzione controrivoluzionaria, occorre qui sottolineare come in Francia, nonostante l’imbecille esultanza sulla sconfitta elettorale di Marine Le Pen e del suo partito populista (si badi bene alla scelta dell’aggettivo), questo quadro si sia ripetuto per l’ennesima volta e all’ennesima potenza.

Tra l’inizio di giugno e la prima tornata delle elezioni legislative francesi il carrozzone autoritario, bellicista e centralizzatore, spacciato per liberal-democratico, europeista aveva subito, particolarmente in Francia e Germania, uno scossone senza precedenti con uno spostamento di voti che, pur rimanendo valide le osservazioni di Bordiga più sopra riportate, indicava una sorta di ribellione degli elettori, o almeno di ciò che rimane ancora attivo del corpo elettorale, contro le politiche della Banca centrale europea e dei suoi rappresentanti politici a livello istituzionale e nazionale.

In particolare in Francia, dove il traballante presidente della Repubblica, ha scelto la sera stessa della “sconfitta europea” di indire nuove lezioni legislative, creando ad arte la “paura” per un’ascesa del “fascismo” al governo della nazione. Scelta un tantino azzardata che ha visto alla fine della prima tornata elettorale una situazione in cui il partito del presidente ridursi al lumicino, con il Rassemblement National e gli alleati in testa con il 33,14% dei consensi; Nuovo Fronte Popolare con il 27,99%; il partito del presidente Ensemble con il 20,4% e i Repubblicani con 10,7% .

Mentre alle precedenti elezioni legislative i risultati elettorali avevano visto il partito della Le Pen raggiungere il 18,68% con 89 seggi; il partito di Macron il 25,75% al primo turno e il 38,57 al secondo, con 245 seggi; la sinistra della Nouvelle Union Populaire il 25,8% al primo turno e il 31,60 al secondo, con 131 seggi e i gollisti repubblicani (non ancora divisi dalla scelta elettorale dell’ex-leader Eric Ciotti) il 10, 42 con 61 seggi.

E’ stato dopo il risultato del primo turno che la sinistra e il suo (?) leader Jean-Luc Mélenchon hanno gettato del tutto la maschera di strumenti del mantenimento dell’ordine borghese il/liberale, dichiarando aprioristicamente un patto di desistenza per tutti quei collegi in cui il secondo turno avrebbe potuto vedere una possibile triangolazione elettorale tra rappresentati del RN, del Fronte popolare e del partito di Macron. Che, ricordiamolo sempre, è un sostenitore e promotore dello sforzo bellico europeo nel contesto del confronto militare sul fronte ucraino. Questione dirimente che, da sola, avrebbe dovuto essere sufficiente a promuovere il rifiuto di qualsiasi alleanza elettorale con lo stesso.

Cosa che, invece, ha aperto la strada ad un sostanziale salvataggio del partito del presidente che è uscito dal secondo turno con 168 seggi a fronte dei 182 seggi al Nuovo fronte popolare e dei 143 alla Le Pen. Che, comunque, esce tutt’altro che sconfitta dal confronto elettorale, considerato che «nel 2017 il Rassemblement National aveva solo 6 deputati nell’Assemblea nazionale. Nelle elezioni legislative del 2022 è balzato a 89 deputati. Il 7 luglio ne ha ottenuti 143, il che è il contrario di un fallimento […] Inoltre ha raccolto quasi 10 milioni di voti – nel 2022 ne aveva ottenuti solo 4,2 – contro i 7,4 milioni del Nouveau Front Populaire e i 6,5 milioni del centro macroniano»2.

Così la scelta “radicale” del Fronte Popolare invece di contribuire ad affossare definitivamente il guerrafondaio Macron, soddisfacendo la volontà di milioni di francesi che, da un lato o dall’altro della barricata3, si erano illusi di poter eliminare le sue politiche repressive, economiche e militari con il voto, ha finito col salvaguardarne il governo, considerato che al momento attuale, nonostante la prosopopea melenchoniana, il presidente ha per ora respinto le dimissioni del primo ministro Attal chiedendogli di rimanere ancora in carica in attesa degli sviluppi della situazione politica venutasi a creare con il voto. In cui nessuno ha raggiunto la maggioranza assoluta dei seggi e in cui i conteggi per le alleanze possibili per raggiungerla si rivelano difficili e contraddittori.

Almeno in apparenza, considerato che fin dai giorni successivi al primo turno una parte dell’elite macroniana si era dichiarata indisponibile a votare i candidati di sinistra ritenendoli, come ha affermato il ministro delle Finanze francese Bruno Le Maire alla radio France Inter: «un pericolo per la nazione», aggiungendo che, pur incoraggiando gli elettori a scegliere candidati di altri partiti di sinistra nei luoghi in cui un candidato centrista si è ritirato dalla corsa, non avrebbe “mai” invitato a votare Lfi (La France Insoumise).

Rivelando che, alla fin fine, la borghesia “liberale” preferirà sempre la Destra reale alla Sinistra “radicale”, anche se fittizia e niente affatto “Insoumise”. Di modo che al secondo turno lo schieramento rappresentato dal desistente Mélenchon ha perso il 2,44% degli elettori rispetto al primo turno, fermandosi a 7.005.527 di voti. Abbastanza rispetto ai 6.315.555 del blocco macroniano, poco guardando i 10.110.011 raccolti dai lepenisti. In un contesto in cui l’affluenza elettorale è aumentata rispetto alla prima tornata del 30 giugno.

Tutto sommato, come hanno confermato i voti, senza indebolire la destra lepenista che ha quasi raddoppiato i seggi rispetto al 2022 e che, in futuro, a fronte di proteste sociali e difficoltà economiche, potrebbe diventare la “miglior scelta” per la borghesia e l’imprenditoria francese. E che oggi non lo è ancora forse soltanto perché non abbastanza centralizzatrice e fascista, nell’intima essenza del termine che poco ha a che fare con il “semplice” razzismo4 o la negazione dei diritti di alcune categorie sociali (la cui repressione ha sempre funzionato benissimo anche solo per mezzo della Chiesa e dei partiti ad essa affiliati, anche quando si definiscono ”democratici”) e molto con la riorganizzazione e centralizzazione delle decisioni di carattere economico-industriale e finanziario e l’integrazione della classe lavoratrice nelle esigenze dello Stato e dell’imprenditoria.

Ora, per non tradire ulteriormente l’assunto bordighiano sulla scarsa significatività politica del voto e delle elezioni, dal punto di vista di classe, occorre ricordare, come ha fatto recentemente un bell’articolo comparso su Infoaut5, che dal punto di vista elettorale e politico esistono comunque, in Francia, due ben distinti punti di vista che continuano a segnare uno spartiacque, in termini di analisi e di percezione dei fenomeni, «tra chi pratica il terreno della lotta, attraverso forme di organizzazione proprie e specifiche all’interno dei quartieri popolari dove vive la maggior parte delle persone razzializzate e chi invece proviene dalla tradizione dei movimenti di lotta “della metropoli”, che pur avendo visto negli ultimi 10 anni una composizione di classe differenziata, sono per la maggior parte portati avanti da persone bianche». Per continuare, poi, sostenendo che:

Da questi ultimi, infatti, il sostegno al NFP viene interpretato nei termini di una necessità contingente che vede una forma di ricomposizione del politico su un piano di carattere emergenziale, legato a doppio filo ad una narrazione di segno quasi apocalittico che descrive la possibile (e probabile) vittoria dell’RN come l’avvento del fascismo tout court.
[…] La sensazione che emergeva da quel contesto era che, per la prima volta, gran parte dei movimenti di lotta metropolitani sentissero molto concreto il rischio connesso ad uno stato di guerra civile, ovvero di uno scontro sociale in seno alla società dispiegato in maniera quasi-permanente, e nel quale una delle due forze in campo esiste, ma non è sufficientemente organizzata, mentre l’altra, quella fascista, avrà dalla sua parte il governo e vedrà la polizia come suo principale alleato. Diciamo per la prima volta, perché ci sembra che il punto stia tutto qui: nella percezione inedita del rischio di venire “espulsi” dal quadro di un ordine politico di cui si può scegliere di fare parte, sebbene in maniera più o meno critica o totale – in quanto bianchi, in quanto cittadini francesi ed anche, in parte, in quanto militanti politici. Un rischio che si intravede verosimilmente all’orizzonte è dunque quello di non ricadere più sotto la “protezione” e la tutela di risorse ancora esigibili da una forma di diritto repubblicano, quello di non giocare più la partita su un terreno in qualche maniera conosciuto e regolamentato, ma di avere, improvvisamente, a che fare con il dispiegamento di una violenza che fa collassare l’ordinamento sociale sulla legge del più forte, e lo fa avvalendosi di tutte le tecniche di contro insorgenza che le forze armate sperimentano da secoli nelle colonie, nelle periferie – e, parzialmente, anche nei recenti scontri di piazza e sgomberi delle autonomie – e di tutti i principi di esclusione sociale propri di un ordinamento giuridico che si struttura su fondamenta patriarcali, razziste e classiste6.

Sottolineando così quella percezione di una possibile guerra civile dispiegata dallo Stato e dalle forze del dis/ordine di cui chi scrive va parlando su Carmilla e in altre sedi e testi da diverso tempo a questa parte7, ma che deve accompagnarsi anche al punto di vista di chi quella “guerra civile” già la vive da anni sulla propria pelle.

È inevitabile non constatare una differenza tra questa percezione del tutto giustificata che si ritrova nei milieux militanti francesi e quella di chi, invece, questa violenza la sperimenta da sempre sulla propria pelle all’interno dei quartieri popolari, proprio perché essa è la cifra dell’imposizione di un ordine sociale. L’ordine democratico – che al grado zero della biopolitica si fa garante anche solo della mera sopravvivenza di chi ne fa parte – non esiste per la maggior parte degli abitanti dei quartieri se non nella forma del nemico. […] Lo ricorda una madre dei comitati «Verità e Giustizia» (nati in Francia per volontà di chi ha avuto figli o parenti assassinati dalla polizia) che: «i quartieri popolari ed i loro abitanti razzializzati sono sotto attacco da anni».
Nel corso della marcia per Nahel, a Nanterre – organizzata proprio da uno di questi comitati al cui centro sta soprattutto la mamma, Mounia – una compagna dei quartieri afferma che: «Il fascismo, nei quartieri popolari, c’è già: negli omicidi della polizia, nell’ordine sociale razziale imposto con la violenza, nel modo in cui i fascisti marciano pubblicamente per Parigi minacciandoci di morte mentre in mezzo a loro si trovano apertamente dei poliziotti che sostengono e partecipano alle loro spedizioni punitive».
Questa testimonianza evidenzia bene la discrasia tra soggettività non razzializzate, che concepiscono il possibile avvento al governo dell’estrema destra nei termini di uno “choc”, di un cambiamento annunciato, ma che vede un’accelerata nel suo inveramento, e una componente che invece riconosce il fascismo quotidianamente, perché espressione militarizzata e ultraviolenta di un dominio imposto da un ordine repubblicano di cui essi non possono fare parte perché “neri, arabi, abitanti di banlieue”. Il fascismo si presenta nei quartieri popolari sotto forma di una costante invarianza, tesa ad imporre manu militari un ordine che include ed esclude sulla base della linea del colore, che su di essa determina i rapporti di classe e di dominio all’interno dello Stato, e che necessita di un altissimo grado di violenza per assicurare la propria riproduzione.
[…] Questa questione della guerra civile – che da parte popolare e del fronte antifascista viene ripresa comprensibilmente nei termini di una “guerra razziale” – è già qua nel momento in cui la polizia spara impunemente nei quartieri, nel momento in cui è stata organizzata addirittura una raccolta fondi per il poliziotto assassino di Nahel che ha raggiunto oltre un milione e mezzo di euro. In Francia, uccidere un ragazzino dei quartieri non solo è permesso e previsto dalla legge, ma un pezzo di paese è convintamente disposto a sostenere economicamente l’assassino: fare i sicari della repubblica all’interno dei quartieri popolari può diventare, come in ogni conflitto informale parastatale, un’attività lucrativa.
Nel corso della rivolta del 2023, la sollevazione nei quartieri popolari è stata enorme, in termini di numeri di giovani e giovanissimi coinvolti, di obiettivi attaccati, di radicalità. Per l’occasione, le istituzioni avevano dovuto accompagnare la risposta repressiva dispiegata alla rievocazione di discorsi imperniati su cliché etnico-razziali: la violenza “improvvisa e incontrollabile” che può essere ricondotta solo ad un certo tipo di identità, quella nera, araba e soprattutto musulmana – confessionalmente esteriore ai principi fondanti dell’ordine sociale repubblicano d’impronta europea e occidentale8.

Colonialismo interno e internazionale (si pensi soltanto alle diverse valutazioni date dal governo fracese e dagli altri governi europei sui crimini di guerra quando si tratti di fronte russo-ucraino oppure di Gaza e delle operazioni militari là condotte da Israele e dalle sue forze armate) che si sposano nella repressione interna di un proletariato razzializzato e per questo non ancora recepito come tale dalla sinistra istituzionale e parlamentarista che più che di una questione di classe pare farne troppo spesso una questione di diritti individuali o di carità cristiana.

Proletariato ghettizzato che rappresenta il vero pericolo per la borghesia benpensante e “illuminata” francese ed europea, che in questi giorni non ha brindato tanto al fatto che la l’estrema destra non abbia raggiunto “le più alte cariche dello Stato”, come aveva paventato Macron qualche giorno prima della second tornata elettorale, quanto piuttosto all’esser riuscita ancora una volta a racchiudere la rabbia dei quartieri periferici nel recinto elettoralistico, sempre e comunque destinato alla sconfitta e al mantenimento dell’ordine borghese. Mentre già a Sinistra, anche nella stessa France Insoumise, circolano le voci di un possibile appoggio della parte moderata ad un governo non facente capo al Nuovo Fronte Popolare9.

Una sconfitta in cui l’apparente “caos” post-elettorale potrebbe garantire la formazione di un governo tecnico, come già ventilato nei giorni scorsi, magari retto da Christine Lagarde o da altri rappresentanti della Banca Centrale europea, autentico centro del comando capitalistico e finanziario sulla società e l’economia del continente. Da un punto di vista non impregnato di banali e semplificatori ideologismi, l’autentica espressione del “fascismo europeo”.

Il ciclo si è dunque svolto così. Punto di partenza: leale alleanza fra tre schiere di egualmente fervidi amici della Libertà per annientare la Dittatura e la possibilità di ogni Dittatura. Uccisione della Dittatura Nera. Punto di arrivo: scelta fra tre vie ognuna delle quali conduce a una nuova Dittatura più feroce delle altre. L’elettore che vota non fa che scegliere tra Dittatura diverse. Due metodi fanno qui storicamente bancarotta, sotto tutti i punti di vista, ma soprattutto sotto quello della classe proletaria che a noi interessa. Il primo metodo è quello dell’impiego dei mezzi legali, della costituzione e del parlamentarismo con un vasto blocco politico al fine di evitare la Dittatura. Il secondo è quello di condurre la stessa crociata e formare lo stesso blocco sul terreno della lotta con le armi, quando la dittatura è in atto, al solo democratico fine. I problemi storici di oggi li scioglie non la legalità ma la forza. Non si vince la forza che con una maggiore forza. Non si distrugge la dittatura che con una più solida dittatura. È poco dire che questo sporco istituto del Parlamento non serve a noi. Esso non serve più a nessuno. […] L’inviato di un giornale londinese ha descritto una scena alla quale giura di aver assistito con i suoi occhi mortali, ben sano di mente e libero da fumi di droghe, in una valle del misterioso Tibet. Nella notte lunare il rito aduna, forse a migliaia, i monaci vestiti di bianco, che si muovono lenti, impassibili, rigidi, tra lunghe nenie, pause e reiterate preghiere. Quando formano un larghissimo cerchio si vede qualcosa al centro dello spiazzo: è il corpo di un loro confratello steso supino al suolo. Non è incantato o svenuto, è morto, non solo per la assoluta immobilità che la luce lunare rivela, ma perché il lezzo di carne decomposta, ad un volgere della direzione del vento, arriva alle nari dell’esterrefatto europeo. Dopo lungo girare e cantare, e dopo altre preghiere incomprensibili, uno dei sacerdoti lascia la cerchia e si avvicina alla salma. Mentre il canto continua incessante egli si piega sul morto, si stende su di lui aderendo a tutto il suo corpo, e pone la sua viva bocca su quella in disfacimento. La preghiera continua intensa e vibrante e il sacerdote solleva sotto le ascelle il cadavere, lentamente lo rialza e lo tiene davanti a sé in posizione verticale. Non cessa il rito e la nenia: i due corpi cominciano un lungo giro, come un lento passo di danza, e il vivo guarda il morto e lo fa camminare dirimpetto a sé. Lo spettatore straniero guarda con pupille sbarrate: è il grande esperimento di riviviscenza dell’occulta dottrina asiatica che si attua. I due camminano sempre nel cerchio degli oranti. Ad un tratto non vi è alcun dubbio: in una delle curve che la coppia descrive, il raggio della luna è passato tra i due corpi che deambulano: quello del vivo ha rilasciato le braccia e l’altro, da solo, si regge, si muove. Sotto la forza del magnetismo collettivo la forza vitale della bocca sana è penetrata nel corpo disfatto e il rito è al culmine: per attimi o per ore il cadavere, ritto in piedi, per la sua forza cammina. Così sinistramente, una volta ancora, la giovane generosa bocca del proletariato possente e vitale si è applicata contro quella putrescente e fetente del capitalismo, e gli ha ridato nello stretto inumano abbraccio un altro lasso di vita10.


  1. A. Bordiga, Il cadavere ancora cammina, Sul filo del tempo, 1953.  

  2. Luigi Mascheroni, intervista a Alain de Benoist, “Élite contro il popolo. All’Eliseo è riuscito un golpe istituzionale. Le Pen? Non è morta”, il Giornale 9 luglio 2024.  

  3. Una parte consistente dell’elettorato lepenista è arroccato in quella Francia del Nord e del Nord est un tempo baluardo dei PCF che, con la chiusura di fabbriche e miniere, ha visto la diffusione di una vasta e motivata disillusione nei confronti delle promesse della Sinistra che ha fatto sì che l’aumento dell’affluenza sia andato tutto a favore della destra (fonte: Askanews, 1 luglio 2024). Si veda a tale proposito anche Aurélie Filippetti, Gli ultimi giorni della classe operaia, il Saggiatore, Milano 2004.  

  4. Che si sviluppò ben prima dell’avvento del Fascismo e che, come hanno rivelato i recenti movimenti di rivolta contro i monumenti dedicati a schiavisti ed esponenti del colonialismo “bianco” occidentale, proprio nelle concezioni e nelle pratiche del liberalismo imperiale ottocentesca affonda le sue reali radici. Si veda, a tal proposito, il recentissimo: C. Elkins, Un’eredità di violenza. Una storia dell’Impero britannico, Giulio Einaudi editore, Torino 2024 (edizione in lingua originale inglese 2022).  

  5. Tempo delle elezioni e tempo della rivolta, InfoAut – giovedì 4 luglio 2024.  

  6. Tempo delle elezioni e tempo della rivolta, InfoAut – giovedì 4 luglio 2024.  

  7. Si veda: S. Moiso (a cura di), Guerra civile globale. Fratture sociali del Terzo millennio, il Galeone Editore, Roma, 2021.  

  8. Tempo delle elezioni e tempo della rivolta, cit.  

  9. Si veda, a solo titolo di esempio, la seguente notizia riportata dall’agenzia ANSA in data 9 luglio: PARIGI, 09 LUG – Dissidenti de La France Insoumise di Jean-Luc Mélenchon hanno proposto agli ecologisti e ai comunisti – altre due componenti del Fronte Popolare insieme ai socialisti – di creare un nuovo gruppo parlamentare. Fra i dissidenti ci sono dirigenti di primo piano di Lfi, come Clémentine Autain, François Ruffin e Alexis Corbière. In una lettera ai vertici dei Verdi e del Pcf – di cui ha dato notizia la tv Bfm -, annunciano di non voler più far parte del gruppo degli Insoumis. La presa di distanza da Lfi e dall’ipotesi di Mélenchon premier potrebbe essere il primo passo verso una trattativa per creare una coalizione con i moderati.  

  10. A. Bordiga, Il cadavere ancora cammina, cit.  

]]>
A proposito del fascismo di ieri, di oggi e di altro ancora https://www.carmillaonline.com/2024/03/13/a-proposito-di-fascismo-di-ieri-e-di-oggi-e-di-altro-ancora/ Wed, 13 Mar 2024 21:00:24 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81425 di Sandro Moiso

Enrica Garzilli, Mussolini e Oriente, UTET/DeAgostini Libri, Milano 2023, pp. 1190, 45 euro

Scrive l’autrice del testo pubblicato da UTET/DeAgostini nell’Introduzione: «Prima di scrivere un libro che riguarda un periodo così controverso, il cui ricordo è ancora vivo nella mente di alcuni, è necessario fare qualche premessa». E, in effetti, varie premesse andrebbero fatte anche prima di recensirlo, a partire dal fatto che il periodo del ventennio fascista non è soltanto un «ricordo ancora vivo nella mente di alcuni», ma un ben preciso periodo di tempo e pratica politica, statale e non, sul quale abbondano sia la [...]]]> di Sandro Moiso

Enrica Garzilli, Mussolini e Oriente, UTET/DeAgostini Libri, Milano 2023, pp. 1190, 45 euro

Scrive l’autrice del testo pubblicato da UTET/DeAgostini nell’Introduzione: «Prima di scrivere un libro che riguarda un periodo così controverso, il cui ricordo è ancora vivo nella mente di alcuni, è necessario fare qualche premessa». E, in effetti, varie premesse andrebbero fatte anche prima di recensirlo, a partire dal fatto che il periodo del ventennio fascista non è soltanto un «ricordo ancora vivo nella mente di alcuni», ma un ben preciso periodo di tempo e pratica politica, statale e non, sul quale abbondano sia la ricerca storica che la memorialistica. Quest’ultima, più della prima, spesso di parte e attenta, come sostiene sempre nell’Introduzione Enrica Garzilli, a salvaguardare l’integrità morale e politica dei testimoni più che la realtà dei fatti narrati. Sottolineando che si preferisce qui usare il termine “realtà” piuttosto che “verità”, nel tentativo di limitare almeno in parte l’alto tasso di discutibile interpretazione soggettiva cui spesso si accompagna la seconda.

Per comprendere appieno le ragioni di questo pistolotto iniziale e di questa recensione, occorrerebbe sfogliare con attenzione i Paralipomeni della batracomiomachia di Giacomo Leopardi e, in tale testo ottocentesco, trovare la giusta epigrafe per commentare qualsiasi discorso che si occupi delle imprese degli attuali “fascisti” e “antifascisti” istituzionali che ammorbano con le loro velleità politiche e culturali l’aere mediatico, rendendolo, caso mai ce ne fosse ancora bisogno, sempre più simile a un pantano. Allo stesso tempo immobile e mobile come le sabbie destinate a trascinare nella melma, fino a seppellirlo, qualsiasi ragionamento o tentativo di inquadramento dei problemi connessi ai primi due senza per forza cadere nella banalità e nell’irrazionalità delle ideologie immutabili e pregresse.

Pretesa veramente assurda, quest’ultima, all’interno di una società (“dello spettacolo”, sia sempre benedetta l’intuizione di Guy Debord) in cui il palco di Sanremo vale quanto il parlamento e un’affermazione fatta da uno dei presentatori o dei cantanti in gara quanto un decreto legge o una ponderata riflessione filosofico-politica. Avvicinando molto la situazione italiana attuale a quella già derisa dal poeta di Recanati, nei versi composti tra il 1831 e il 1837, anno della sua morte.

Anni in cui il poeta e filosofo italiano avrebbe portato alle estreme e più mature conclusioni la sua lunga e materialistica riflessione sulla condizione umana e le illusioni, spesso men che infantili, religiose e “ideali” che ne giustificavano ogni suo aspetto più meschino, prolungandone non solo le sofferenze, ma anche la condizione di sottomissione della società italiana dell’epoca sia alle risibili monarchie nazionali, senza mai discuterne l’intrinseca religiosità e inettitudine, che a quelle, ben più potenti, austro- borboniche che si erano spartite l’Italia da secoli.

La battaglia dei topi e delle rane, appoggiate queste ultime dai ben più temibili e “corazzati” granchi, si ispirava a un poema greco in 303 versi attribuito, senza prove concrete, a Omero e la cui altrettanto controversa datazione copre un periodo compreso tra il V e il I secolo a. C. Il poemetto classico serviva però a Leopardi per mettere alla berlina sia i presunti progressisti della causa nazionale, in Italia come in Francia, che i loro fieri e ultra-conservatori avversari insieme alle potenze straniere di cui difendevano gli interessi.

Topi, rane e granchi presi tutti insieme non fanno certo una gran figura, ma ad uscire con le ossa rotte sono proprio i primi, ovvero i progressisti, che sventolando propositi liberali e organizzando inconcludenti cospirazioni non fanno altro che rendere i loro avversari ancora più forti e “cattivi” e pagando per questo prezzi esagerati, in termini di vite e carcerazioni, considerati i risultati (non) raggiunti.

Urlano sempre al lupo oppure alla vittoria certa i topi, per poi, però, fuggire a gambe levate di fronte all’avversario o tremare di paura al solo pensiero di ciò che questo potrebbe fare una volta assiso al trono. Sono gli anni compresi tra il 1820 e il 1830, grosso modo, quelli di cui parla il grande e sarcastico materialista ottocentesco, eppure non si può fare a meno di pensare all’autentica “beata ignoranza” che anima e dà fiato ai dibattiti attuali sul pericolo fascista rappresentato dalle attuali forze di governo e alle richieste dell’antifascismo istituzionale per fargli fronte.

In realtà, però, dietro alle richieste fatte a nostalgici del fascismo di antica data di fare professione di antifascismo oppure, da parte avversa, quella di fare pubblica ammenda sulle foibe o di schierarsi, senza se e senza ma, con il sionismo di Netanyahu in nome del rigetto dell’antisemitismo o, ancora, con Zelensky e l’Ucraina contro il putinismo che i due avversari si rimpallano senza alcuna vergogna o senso del limite e del ridicolo, sta il fatto che i due contendenti costituiscono le due facce di una stessa medaglia di governo e/o politica in cui forze prive di identità alcuna, dopo un adeguamento pluridecennale al comando del capitale finanziario e alle necessità del capitale sovranazionale di salvaguardare i propri profitti e interessi, cercano di spartirsi poltrone e potere fingendo e rivendicando meriti e radici politiche e ideologiche di cui non costituiscono più nemmeno un lontano fantasma. Come dire che, da queste parti e lungo le sponde della sempiterna italietta non si aggirano più né il fantasma del comunismo né, tanto meno, quello del fascismo. Perlomeno, attualmente, nelle forme in cui si erano storicamente prospettati.

Aleggia invece, ovunque e su tutte le forze in campo, l’olezzo di un liberalismo, fasullo anch’esso in un paese in cui il peso della Chiesa non è mai diminuito in maniera significativa, che, identificatosi totalmente con i valori dell’Occidente e della Nato, non fa altro che spingere l’intera nazione nel baratro di un conflitto armato di cui gli stessi governanti e i loro avversari non intendono i fini e le ragioni, ma a cui si adeguano per mancanza di idee e prospettive. Una guerra ideologica dei topi e delle rane, per tacer dei granchi, dunque. E tutto questo costituisce il motivo per cui varrebbe la pena di leggere, o almeno sfogliare, l’opera di Enrica Garzilli pubblicata sul finire del 2023 .

Enrica Garzilli è specialista di indologia e studi asiatici, collaboratrice di ricerca e docente di sanscrito, buddhismo, induismo e diritto indiano all’Università di Delhi e a Harvard (1992-2016) oltre che di Religioni e culture dell’Asia e Storia del Pakistan e dell’Afghanistan alle Università di Perugia e Torino. Ha fondato ed è stata direttore della Harvard Oriental Series – OM. Collabora con numerose riviste e quotidiani nazionali e con la Rai in ambito politico, storico e geopolitico. Nel 1997 ha fondato l’Asiatica Association, un’organizzazione no profit che diffonde la conoscenza e lo studio delle culture asiatiche. Ha fondato e diretto le riviste accademiche online IJTS (Tantrism) e JSAWS (Gender Studies) (1995-2019).

Mussolini e Oriente segue con attenzione un tema che, come afferma l’autrice, è stato tutto sommato poco sviluppato nell’ambito della ricerca storiografica italiana, una volta escluso uno studio di Renzo De Felice pubblicato nel 19881 cui l’autrice paga tributo non soltanto nel titolo. Tema costituito dal tentativo mussoliniano di ampliare la presenza e l’influenza italiana in quelle che, allora, erano ritenute aree di pertinenza o appartenenza dell’impero britannico.

Se tale tentativo, senza mai nascondere le pose teatrali e gigionesche del Duce e confermandone le velleità imperiali richiamantisi a un sempre (ancor oggi) troppo poco sbiadito mito di Roma, finì da un lato nel ridicolo e dall’altro nella tragedia del secondo conflitto mondiale a fianco dell’alleato hitleriano, allo stesso tempo segnava una grande distanza di intenti, rispetto al presunto “fascismo” odierno. Soprattutto nel volersi confrontare con le potenze coloniali e imperiali che all’epoca ancora potevano spartirsi il mondo (Francia e soprattutto Regno Unito), senza accettarne supinamente (come invece accade oggi per la politica estera italiana, qualsiasi sia il colore del governo in carica dalle guerre balcaniche in poi, soprattutto nei confronti degli Stati Uniti) le mire espansive e gli obiettivi politico-militari. Considerato che l’ultimo atto di autonomia, in contrasto con la politica americana nel Mediterraneo, in decenni recenti, è stato forse quello dell’incidente di Sigonella, nell’ottobre del 1985, che costituì un caso diplomatica tra Italia e Stati Uniti, ai tempi del primo governo Craxi con Giulio Andreotti agli Affari Esteri.

Su questo aspetto della politica estera italiana torneremo ancora più avanti, mentre ora, per ragioni di brevità si riassumeranno, molto sinteticamente, le vicende storiche, politiche e, talvolta, degne di una commedia che l’autrice descrive e inquadra grazie ad un’enorme mole di materiali storiografici e d’archivio, dando vita a una ricostruzione basata su documenti originali come, ad esempio, gli appunti inediti di Tagore, Mussolini e Andreotti.

Nel 1924 Mussolini accettò la proposta del «camerata samurai» Harukichi Shimoi di fare da testimonial per una bevanda analcolica giapponese. Due anni dopo la fotografia del Duce planava dai cieli nipponici su una folla entusiasta, che riconosceva nel Fascismo gli stessi valori fondanti del Bushido: “coraggio, lealtà, senso del dovere e dell’onore e la visione eroica dell’agire in nome di un ideale fino al sacrificio estremo”.

Se il legame tra l’Italia e l’Impero di Hirohito dopo il 1936 è noto, poco si sa in merito ad altre potenze dell’Asia che nutrivano verso il Duce una fascinazione altrettanto forte come l’India di Gandhi che, sebbene non approvasse «il pugno di ferro» con cui Mussolini governava, ne elogiava l’impegno in campo sociale, specialmente quello a favore delle classi rurali e delle categorie deboli come orfani, vedove, ragazze madri, riconoscendogli servizio e amore verso il popolo. Mussolini – che segretamente definiva l’India «il forziere del mondo» e mirava a controllarla – rappresentava per Gandhi, anche un importante alleato in funzione antibritannica.

Ancora meno noto è il legame con l’Afghanistan, punto nevralgico dell’Asia centrale, scacchiere su cui si erano scontrate nel “Grande Gioco” le maggiori potenze del tempo, Gran Bretagna e Russia, e di cui, nel 1921, l’Italia fu il primo Paese al mondo a riconoscere l’indipendenza, stipulando accordi di collaborazione. Le mire internazionali di Mussolini erano affiancate da una vivace propaganda culturale. Fondamentale, in tale senso, è da considerare l’operato di personaggi come l’esploratore Giuseppe Tucci, portavoce del Fascismo in India e in Nepal, Gian Galeazzo Ciano, console d’Italia in Cina, Pietro Quaroni, ambasciatore a Kabul e abile tessitore di alleanze con i ribelli waziri.

Con alle spalle anni di ricerca, Enrica Garzilli ricostruisce così un grande affresco sulle operazioni di Mussolini nelle terre di quell’Oriente «fratello non di sangue», consegnandoci un’opera che inquadra gli anni del Ventennio secondo parametri scarsamente considerati prima. Una ricerca storiografica in cui il razzismo fascista si accompagna all’attenzione per le culture locali, soprattutto quando queste potevano essere fatte derivare dall’arianesimo e altre manfrine ottocentesche2 oppure ad un superiore spiritualismo che sempre aveva costituito un forte richiamo, come lo rimane ancora tutt’ora, per la Destra ispirantesi sia a Julius Evola che al tradizionalismo più arcaico. E di cui, tanto per attualizzare e chiarire il senso di quanto appena affermato, le controverse interpretazioni dell’opera di Tolkien e di Lovecraft costituiscono ancora la manifestazione epifenomenica nella critica letteraria.

In tale contesto di attenzione parziale alle culture e religioni ”altre” e, in particolare, ad una certa mistica visionaria di origine tibetana si manifesta una certa continuità ideologico-spirituale tra certi protagonisti delle battaglie delle “armate bianche” contro la vittoria dei soviet e delle armate rosse nella “Madre Russia”3 e lo “spiritualismo” di certa destra italiana fino a Gianfranco de Turris.

Personaggio centrale, per le vicende narrata dalla Garzilli e per la diffusione di una certa immagine dell’Italia fascista in Asia, è sicuramente quella di Giuseppe Vincenzo Tucci (1894 –1984) al quale l’autrice ha dedicato in passato una voluminosa e dettagliata opera di carattere biografico tutt’altro che priva di interesse4, soprattutto per chi voglia approfondire la storia dell’archeologia italiana in Asia e delle mire politiche che spesso hanno accompagnato le missioni archeologiche occidentale, ma anche russe, nei continenti extra-europei.

Lo studioso italiano più attivo nella propaganda e più coinvolto nelle attività del regime, quello che portò i nazionalisti bengalesi in Italia – con l’eccezione di Tagore5 invitato da Formichi – , fu Tucci, che della politica culturale fascista non fu solo un esecutore ma anche un instancabile ideatore. Da anni era determinato a dare corpo a un progetto: creare un’istituzione per diffondere lo studio della cultura asiatica in Italia, ovviamente diretta da lui, e promuovere gli scambi con l’Asia. […]
Tucci riconosceva a se stesso […], quando propose la creazione dell’IsMEO6, un duplice compito: «come orientalista e come diffonditore della cultura italiana». Con il sostegno di Gentile e in linea con la visione della poltica estera di Mussolini e la sua malcelata rivalità cion la Germania e la Francia scriveva che il suo scopo era quello «di creare in Italia una scuola orientalistica che potrebbe battere quelle straniere». Il 9 marzo 1931, infatti, inviò da Roma una relazione a Sua Eccellenza il Capo del Governo in cui si proponeva la creazione di un istituto con questi scopi, simile «all’Istituto Buddhista di Leningrado, alla Società degli amici dell’Oriente di Parigi o alla Società indiana di Berlino»7.

Orientalista, esploratore, storico delle religioni e buddhologo italiano, Giuseppe Tucci è stato autore di numerose pubblicazioni, articoli scientifici, libri ed opere divulgative. Ha condotto diverse spedizioni archeologiche in Tibet (sette tra la fine degli anni Venti e il 1939), India, Afghanistan ed Iran. Durante la vita, è stato unanimemente considerato il più grande tibetologo del mondo.

Aveva aderito al fascismo senza grande interesse politico ma, un po’ pirandellianamente, nella speranza che il regime finanziasse i suoi studi, le sue ricerche e spedizioni, in una visione della vita di carattere dannunziano in cui, come lui stesso affermava, «l’uomo è nato con un duro destino dal quale può trovar scampo soltanto l’asceta o il poeta». A differenza di Pirandello, le cui opere furono ritenute sempre troppo provocatorie per il regime, Mussolini decise di finanziarlo a fini politici, per diffondere l’immagine dell’Italia in Asia e prendere contatti con l’India in vista di un possibile disgregamento dell’Impero Britannico.

Tralasciando ora le esperienze di ricerca, la carriera, le convinzioni e le conoscenze, tra le quali occorre segnalare ancora quella di Mircea Eliade8, dell’alfiere dell’archeologia italiana in Asia centrale, occorre qui, con un salto temporale di due decenni, ricordare, che, nel dopoguerra il “santo patrono” della riapertura dell’IsMeo nel 1947, sotto la guida di Tucci, fu un ancor ventottenne Giulio Andreotti, allora già sottosegretario alla Presidenza del Consiglio. Così, come afferma ancora l’autrice:

Vennero allestite mostre d’arte orientale a dir poco fastose che non avevano precedenti per la rilevanza dei pezzi esposti e per l’afflusso di pubblico: da campo di studi ristretto e sofisticato, riservato ai pochissimi che se lo potevano permettere, l’Oriente stava diventando un fenomeno di massa. E se l’attività dell’istituto dopo Mussolini si svincolò dall’azione politica e divenne più chiaramente culturale, ciononostante non smise mai di svolgere un lavoro di intelligence e di essere strumento di soft power9.

Il recensore deve qui scusarsi per aver saltato la narrazione delle imprese dell’imperialismo “straccione” italiano in Asia ed essere volato alle conclusioni che seguono, che si riallacciano, però, con quanto affermato all’inizio.
L’interesse di tutto il testo, che a volte simpatizza un po’ troppo per le imprese e gli ardori mussoliniani e in altre soffre di una certa pedanteria accademica, è proprio racchiuso nel tracciare la via che dalle politiche del Fascismo originario ha portato fino alle scelte dei governi italiani successive alla fine del Ventennio. Una continuità che se è spesso stata segnalata a livello di leggi, pratiche poliziesche e cariche amministrative, politiche e istituzionali, non è mai stata colta nella continuità di una certa politica estera nei confronti del Medio Oriente e dell’area mediterranea.

Non a caso la figura di Giulio Andreotti, dopo esser stata segnalata a proposito di Sigonella, è tornata nelle righe finali di questa fn troppo stringata recensione di un testo che meriterebbe ancora altre attenzioni e considerazioni. Questo per dire che se c’è stata continuità tra fascismo e governo italiano questa è stata anche in ambiti e pratiche di politica estera che tutti i governi italiani della cosiddetta Seconda Repubblica non hanno più perseguito, sia a Destra che a Sinistra. Dalla partecipazione alle guerre balcaniche, con i bombardamenti sulla Serbia, fino alla Prima guerra del Golfo e alle scelte odierne sia a riguardo dell’Europa Orientale che del Medio Oriente.

Da allora, non a caso l’IsMEO viene unito ad altro istituto nel 1995 e poi chiuso insieme a quello nel 2012 (come già è stato segnalato nella nota 6), tutti i governi hanno abbandonato le politiche, sicuramente neo-coloniali e subdolamente imperialistiche, che il regime aveva contribuito a definire, sulla base, però, di un più generale rinnovamento del capitalismo italiano, come sempre a spese della classe operaia, di cui, tanto per chiarire, l’azione di Enrico Mattei in Africa settentrionale fu ancora una conseguenza, ben lontana da quella prospettata sulla carta dall’attuale governo Meloni. Ampiamente in ritardo sull’azione russa e cinese nell’Africa Subsahariana, fino al farlocco voto parlamentare su Gaza o all’inutile e probabilmente controproducente missione Aspides nel Mar Rosso oppure alla comparsata della premier a Kiev in occasione della presidenza italiana del G7.

Razzismo e manganellate sono tranquillamente convissuti in Italia ben prima dell’avvento del governo di “destra”, e non soltanto per merito della Lega che, al massimo, per anni ha raccolto gli umori di una classe media e di una classe operaia indebolite e impoverite e, allo stesso tempo, ancora incapaci di rivoltarsi verso la mano che le tiene tuttora al guinzaglio. Mentre anche le manganellate a studenti ed operai sono state equamente distribuite, e talvolta in maniera molto più violenta delle attuali, dai governi di centro-sinistra. Dall’azione del governo Leone II nel 1968 contro i moti studenteschi a quello Rumor I successivo con gli scontri di Corso Traiano a Torino e, non potendo ricordare qui tutti gli eventi repressivi di cui furono protagonisti i governi di centro-sinistra, fino alle “quattro giornate di Napoli” del 2001 quando i maganellatori del governo di “sinistra” Amato II, il 17 marzo, servirono ai manifestanti del Global Forum l’antipasto di quello che sarebbe stato il G8 di Genova.

Non occorre procedere oltre, poiché sarebbe soltanto ridondante. Ma, per tirare le conclusioni, è necessario sottolineare come un paese privo di una classe dirigente degna di questo nome, in cui la presunta borghesia nazionale ha finanziarizzato l’economia senza dar vita ad un’autonoma strategia d’impresa economica o politica e che ha colto nella globalizzazione soltanto il momento in cui poter abbassare i salari e svendere le imprese al miglior offerente, oggi finge una battaglia politica inesistente al suo interno soltanto per poter continuare a svolgere il ruolo di lacchè nei confronti di altre economie più potenti.

Tutto questo non vuole costituire, però, il solito piagnisteo sulla patria tradito oggi diffuso dai nazionalisti di sinistra o da un’estrema destra ridotta al lumicino che contesta le privatizzazioni. Piuttosto un invito a guardare negli occhi il nemico di sempre, il capitale nazionale e internazionale, spogliandolo di ogni orpello ideologico per sfidarlo là dove è più debole e risibile.

Il libro di Enrica Garzilli, pur nelle sue imperfezioni, oltre che a una rilettura non convenzionale di quelli che furono gli interessi geo-politici italiani in Asia, può fornire, indirettamente, strumenti per contestare e abbattere un gigante dai piedi di argilla, sia quando questo si appoggia sul piede destro oppure su quello di sinistra. Rivelando, allo stesso tempo e ancora una volta indirettamente, come la fascinazione per le dottrine filosofico-religiose asiatiche, basate sostanzialmente sulla liberazione, spiritualità e affermazione del soggetto e dell’individuo, appartengano pienamente all’immaginario di destra. Così come Tucci, Eliade ed altri, con la loro opera, hanno sempre finito col dimostrare.


  1. R. De Felice, Il Fascismo e l’Oriente. Arabi, ebrei e indiani nella politica di Mussolini, Il Mulino, Bologna 1988.  

  2. In proposito si veda: M. Bernal, Atena nera. Le radici afro-asiatiche della civiltà classica, Il Saggiatore, Milano 2011 e G. Semerano, La favola dell’indoeuropeo, Bruno Mondadori Editore, Milano 2005.  

  3. Si vedano in proposito: V. Pozner, Il barone sanguinario, Adelphi Edizioni, Milano 2012 e F. Ossendowski, Bestie, uomini e dei (prima edizione italiana 1925), Fratelli Melita Editori, Genova 1987. Si noti bene che nel titolo del secondo testo qui citato le “bestie” sono i comunisti, gli “uomini” i combattenti delle armate bianche e gli “dei” sostanzialmente coloro che stanno ai vertici del monachesimo tibetano, in particolare il Dalai Lama con i suoi insegnamenti “segreti”.  

  4. E. Garzilli, L’esploratore del Duce. Le avventure di Giuseppe Tucci e la politica italiana in Oriente da Mussolini a Andreotti, vol. I pp. LII + 685 – vol. II pp. XIV + 725, Asiatica Association, Milano 2012.  

  5. Rabindranath Tagore, nome anglicizzato di Rabíndranáth Thákhur (1861 – 1941) è stato un poeta, drammaturgo, scrittore e filosofo bengalese, premio Nobel per la letteratura nel 1913. Sostenitore dell’indipendenza dell’India almeno fin dal 1919, ha visto i testi di alcune sue poesie inseriti, prima, nell’inno nazionale dell’India nel 1950 e, successivamente, in quello del Bangladesh a partire dalla sua secessione dal Pakistan nel 1972. Dopo le aspre critiche rivolte al regime fascista, Tagore aveva perso il sostegno dato dal governo italiano all’Università Visva Bharati in cui insegnava. – NdR.  

  6. Istituto italiano per il Medio ed Estremo Oriente, nato nel 1933 e fusosi nel 1995 con l’Istituto italo-africano di Roma, dando vita all’Istituto italiano per l’Africa e l’Oriente (IsIAO) posto in liquidazione coata amministrativa ne 2012. A dirigere l’IsMeo erano stati chiamati Giovanni Gentile (1933-1944), Giuseppe Tucci (1947-1978), Sabatino Moscati (1978-1979) e Gherardo Gnoli (1979-1995) – NdR.  

  7. E. Garzilli, Mussolini e Oriente, UTET/DeAgostini Libri, Milano 2023, pp. 542-543.  

  8. Mircea Eliade (Bucarest 1907 – Chicago 1986) è stato uno storico delle religioni, antropologo, scrittore, filosofo, mitografo e saggista romeno.
    Nel 1927 si impegnò attivamente nella “Nuova Generazione Romena” e i suoi articoli di questo periodo contribuirono a formare l’assetto teorico della Guardia di ferro di Corneliu Zelea Codreanu, movimento ultranazionalista di ispirazione fascista e antisemita. Dopo la laurea in filosofia (1928) vinse una borsa di studio per studiare a Calcutta, tra il 1928 e il 1931, la filosofia indiana con Surendranath Dasgupta, in casa del quale incontrò Giuseppe Tucci.
    L’esperienza e gli studi di questo periodo e lo stretto contatto con le religioni dell’India influenzarono profondamente il suo pensiero. La sua tesi di dottorato, discussa a Bucarest nel 1933, fu pubblicata a Parigi nel 1936 con il titolo Yoga, essai sur les origines de la mystique indienne (che sarebbe poi diventato, dopo successive rielaborazioni, il saggio Lo yoga, immortalità e libertà). NdR.  

  9. E. Garzilli, Mussolini e Oriente, op. cit., pp. 873-874.  

]]>
Una guerra civile tutt’altro che nascosta https://www.carmillaonline.com/2024/01/24/una-guerra-civile-strisciante-e-costante/ Wed, 24 Jan 2024 21:00:36 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80832 di Sandro Moiso

Pierre Dardot, Haud Guéguen, Christian Laval, Pierre Sauvêtre, La scelta della guerra civile. Un’altra storia del neoliberalismo, Meltemi Editore, Milano 2023, pp. 314, 20 euro

Per chi, come il sottoscritto, ha scritto una serie di articoli e curato una raccolta di saggi sull’odierna guerra civile scatenata dal capitale contro i cittadini delle classi meno abbienti e medie, rappresenta davvero una interessante sorpresa la pubblicazione in Italia della raccolta di saggi di Pierre Dardot (ricercatore in Filosofia presso l’Università di Parigi Nanterre), Haud Guéguen (docente di Filosofia presso il Conservatorio nazionale delle arti e dei mestieri di Parigi), [...]]]> di Sandro Moiso

Pierre Dardot, Haud Guéguen, Christian Laval, Pierre Sauvêtre, La scelta della guerra civile. Un’altra storia del neoliberalismo, Meltemi Editore, Milano 2023, pp. 314, 20 euro

Per chi, come il sottoscritto, ha scritto una serie di articoli e curato una raccolta di saggi sull’odierna guerra civile scatenata dal capitale contro i cittadini delle classi meno abbienti e medie, rappresenta davvero una interessante sorpresa la pubblicazione in Italia della raccolta di saggi di Pierre Dardot (ricercatore in Filosofia presso l’Università di Parigi Nanterre), Haud Guéguen (docente di Filosofia presso il Conservatorio nazionale delle arti e dei mestieri di Parigi), Christian Laval (professore emerito di Sociologia all’Università di Parigi Nanterre) e Pierre Sauvêtre (docente di Sociologia presso l’Università di Parigi Nanterre) sullo stesso argomento e, ancor di più, scoprire che l’edizione originale di La scelta della guerra civile è uscita in Francia nel 2021. Lo stesso anno, appunto, in cui il redattore di queste note ha curato la pubblicazione di Guerra civile globale per l’editore Il Galeone di Roma.

Le similitudini non si fermano però soltanto ai titoli o alla data di prima pubblicazione poiché, in entrambi i casi, al centro dell’analisi ci sono le strategie economiche e repressive, oltre che politiche, messe in atto soprattutto in gran parte del mondo occidentale dai governo variamente neoliberisti che si sono alternati al governo degli stati presi in considerazione. Come si afferma nella Prefazione del testo qui recensito:

Quest’opera s’inscrive nella riflessione collettiva del Gruppo di studio sul neoliberalismo e le sue alternative (GENA). Questo gruppo, costituitosi nell’autunno del 2018, è transdisciplinare e internazionale. In particolare, esso si è dato come oggetto l’osservazione e l’analisi delle metamorfosi del neoliberalismo, considerandolo sotto l’angolazione delle sue varianti strategiche […] così come la diffusione su larga scala di modelli di governo nazionalisti, autoritari e razzisti, è stato il punto di partenza del nostro lavoro collettivo sul ruolo della violenza e la dimensione della guerra civile nella storia del neoliberalismo1.

D’altra parte, come potrebbe accadere, come testimoniano i dati forniti dall’ultimo rapporto Oxfam, che dal 2020 allo scorso novembre, i 5 uomini più ricchi del mondo ( Elon Musk, Bernard Arnault, Jeff Bezos, Larry Ellison e Warren Buffett) hanno più che raddoppiato le proprie fortune (+ 114%), da 405 a 869 miliardi di dollari a un ritmo di 14 milioni l’ora, mentre i 5 miliardi di persone più povere del pianeta hanno visto rimanere sostanzialmente invariate o peggiorate le proprie condizioni (-0,2%), se non per mezzo di una coercizione sempre più violenta esercitata nei confronti di queste ultime, sia in termini di estrazione di pluslavoro attraverso l’intensificazione dello sfruttamento individuale e collettivo che di negazione dei servizi minimi necessari alla conduzione di una vita degna di questo nome?

Tali dati, confermando le affermazioni di Marx invece più sbeffeggiate dai rappresentanti della “scienza economica” istituzionale, ovvero quelle sull’impoverimento crescente della popolazione nel corso dello sviluppo capitalistico, non fanno altro che ricordare come ormai da anni, o forse da sempre, non soltanto gli uomini più ricchi (dato comunque relativo) ma l’intero sistema di appropriazione privata della ricchezza collettivamente prodotta, non si fondi altro che su una guerra continua condotta contro le classi meno abbienti da parte di coloro che detengono, soprattutto nel Nord del mondo (come rivelano ancora i nomi dei cinque uomini più ricchi), gran parte delle ricchezze e del potere politico “reale”, non formalizzato certo soltanto nelle istituzioni democratiche parlamentari o consimili. Soprattutto a partire dal trionfo politico e ideologico del neoliberalismo, come si afferma ancora nell’introduzione allo stesso testo.

Il neoliberalismo muove sin dalle sue origini da una scelta effettivamente fondativa, la scelta della guerra civile. Questa scelta continua ancora oggi, direttamente o indirettamente, a comandare gli orientamenti e le politiche neoliberali, anche quando questi non implicano l’uso di mezzi militari.
È questa la tesi sostenuta da un capo all’altro del libro: attraverso il ricorso sempre più manifesto alla repressione e alla violenza contro le società, ciò che si sta realizzando oggi è una vera e propria guerra civile […] Adottando questo punto di vista, apprendiamo che la politica può perfettamente far suo l’uso più brutale della violenza e che la guerra civile può essere combattuta attraverso il diritto e la legge2.

Come afferma ancora il rapporto Oxfam, tra il luglio 2022 e il giugno 2023, per ogni 100 dollari di profitto generati da 96 tra le imprese più grandi del mondo, 82 sono finiti nelle tasche degli azionisti sotto forma di dividendi o di operazioni di riacquisto (buyback) invece di essere reinvestiti nello sviluppo delle aziende, causando così una sorta di soffocante spirale economica in cui la ricchezza si accumula su se stessa senza produrre alcun altro beneficio che non la crescita di capitale azionario e monetario già detenuto dagli stessi.

Un accumulo di ricchezza privo di qualsiasi altra prospettiva che non la ripetizione infinita dello stesso ciclo, anche a costo di guerre condotte all’interno contro le stesse popolazioni, anche nel Nord del mondo, oppure contro qualsiasi altro possibile competitor sia nazionale che internazionale, statale o privato.

Vale proprio per ciò la pena di ricordare che il 74,2% della ricchezza dei miliardari globali è concentrata nel Nord globale e che di questi il 65% è concentrato ancora nella stessa area geo-economica. Mentre il 69,3% della ricchezza globale è concentrata ancora nel Nord, dove però risiede soltanto il 20, 6% della popolazione mondiale. Non a caso, forse, è proprio in una parte di mondo non pienamente considerabile come appartenente al Nord, il Cile, che, nel 2019, ha inizio una formidabile e spietata repressione dei movimenti nati inizialmente per contestare l’aumento del costo dei biglietti della metropolitana di Santiago.

Il 20 ottobre 2019, due giorni dopo l’inizio dei disordini nella metropolitana di Santiago a causa dell’aumento delle tariffe dei biglietti, il presidente cileno Sebastián Piñera non ha esitato a dichiarare lo Stato di guerra in questi termini: “Siamo in guerra con un nemico potente, implacabile, che non rispetta niente e nessuno ed è pronto a usare la violenza e la delinquenza senza alcun limite”. Per i cileni che lo ascoltano, questo utilizzo del termine “guerra” non ha niente di metaforico: l’esercito ha il compito di far rispettare l’ordine e i veicoli blindati ricompaiono per le strade di Santiago, riportando i più anziani a sinistri ricordi, quelli del colpo di Stato militare di Augusto Pinochet dell’11 settembre 1973. Nelle settimane successive, i Carabineros si assumeranno il compito di dare alla parola “guerra” un senso molto preciso, quello dello scatenarsi violento dello Stato contro comuni cittadini (stupri nei commissariati di polizia, auto della polizia lanciate sui manifestanti al fine di schiacciarli, centinaia di manifestanti feriti agli occhi o che hanno perso la vista a causa dell’utilizzo di proiettili contenenti piombo, ecc.).
Ma qual era il volto del “potente e pericoloso nemico” designato da Piñera? Il 18 ottobre 2019 debutta il movimento noto come “Risveglio d’ottobre”. In pochi giorni, questo movimento orizzontale, senza leader o capi politici, ha assunto la dimensione di una vera e propria rivoluzione popolare, senza precedenti per durata e intensità. È tutta la diversità della società a fare rumorosamente irruzione nello spazio pubblico. È significativo che gli striscioni femministi e le bandiere dei Mapuche si siano mischiati nelle manifestazioni. Le donne cilene sono state schiacciate da un familiarismo che esigeva da loro sempre più sacrifici, i Mapuche sono stati vittime di una “colonizzazione autoritaria interna”. Senza dubbio la guerra dichiarata da Piñera è una guerra civile, una guerra che richiede la costruzione discorsiva e strategica della figura del “nemico interno”. Nasce dalla scelta, da parte dell’oligarchia neoliberale, di fare guerra a un movimento di massa di cittadini che minacciano direttamente il suo dominio. Un graffito onnipresente sui muri lo mostra: “Dove il liberalismo è nato, il liberalismo morirà”3.

Slogan particolarmente significativo, quest’ultimo, poiché proprio in Cile, a partire dal ricordato golpe di Pinochet e dei suoi generali, la scuola economica dei Chicago Boys di Milton Friedman, antesignana del neoliberalismo, poté sperimentare ed esercitare in piena libertà le proprie teorie e pratiche di ridistribuzione della ricchezza esclusivamente verso l’alto4. Insomma, fu un golpe, un’autentica dichiarazione e pratica di guerra contro la società, a dare inizio a quelle leggi economiche che oggi giustificano tutte le scelte portate avanti dal capitale finanziario a livello nazionale e globale.

Nel periodo preso in esame dall’ultimo rapporto Oxfam:

Per quasi 800 milioni di lavoratori occupati in 52 paesi i salari non hanno tenuto il passo dell’inflazione e anzi il monte salari ha visto un calo in termini reali di 1.500 miliardi di dollari nel biennio 2021-2022, una perdita equivalente a uno stipendio mensile per ciascun lavoratore. […] Vale naturalmente anche per l’Italia, dove dal 2000 a oggi, le quota di ricchezza nazionale netta detenute dal 10% più ricco e dalla metà più povera della popolazione italiana hanno mostrato un andamento divergente. La quota di ricchezza detenuta dal top-10% è cresciuta di 3,8 punti percentuali nel periodo 2000-2022, mentre la quota della metà più povera ha mostrato un trend decrescente, riducendosi nello stesso periodo di 4,5 punti percentuali5.

Così mentre un’opposizione da operetta, soprattutto nel Bel Paese, si preoccupa di braccia levate nel corso di manifestazioni folkloristiche più che politiche oppure di levare nei teatri urla commosse in difesa della “repubblica antifascista”, la vera guerra civile dichiarata dal Capitale e dai suoi funzionari e profittatori contro i lavoratori, i disoccupati, le donne, gli immigrati e le classi medie impoverite continua a svilupparsi sotto gli occhi di tutti, anche nel cuore di quello che è stato definito fino ad ora come “Nord” del mondo.

Lo spettro della guerra civile non è mai stato brandito tanto quanto durante le ultime settimane della campagna presidenziale americana, mentre si producevano violenti scontri tra suprematisti bianchi e manifestanti antirazzisti a Portland o a Oakland. L’editorialista Thomas Friedman non ha allora esitato ad affermare sulla CNN che gli Stati Uniti erano alla vigilia di una seconda guerra civile. […] Lo spettacolo dell’irruzione del 6 gennaio 2021 a Washington ha rivelato un movimento radicato nelle profondità della società americana. Tutte queste violenze non svelano una classica guerra civile in cui due eserciti si affrontano, come durante la guerra di Secessione, ma una divisione profonda e duratura tra due parti della società, per troppo tempo occultata dal prisma deformante dell’opposizione elettorale tra democratici e repubblicani, e che oggi si presenta come una singolare forma di guerra civile. È troppo facile vedere in Trump un demiurgo che avrebbe creato questa divisione all’interno di una società in precedenza pacifica. Quello che Trump ha saputo fare è stato reinvestire su divisioni molto antiche, razziali, sociali e culturali, per meglio attizzarle a proprio vantaggio, ravvivando in particolare l’immaginario sudista fatto di schiavismo e di razzismo […] Ma la cosa più importante per il futuro è senza dubbio che Trump sia riuscito a tenere insieme intere fasce della popolazione, aumentando anche in modo significativo il numero di voti a suo favore tra il 2016 e il 2020 (da 63 milioni a 73 milioni nel 2020). Questa polarizzazione è stata resa possibile solo da una contrapposizione di valori, quelli della libertà e dell’uguaglianza o della libertà e della giustizia sociale […] È infatti questa contrapposizione ad aver dato senso all’odio o al risentimento provati da gran parte di questi elettori. Come dice Wendy Brown, il più grande risultato dei repubblicani in queste elezioni è stato quello di “identificare Trump con la libertà”: “Libertà di resistere ai protocolli anti-Covid, di abbassare le tasse ai ricchi, di espandere il potere e i diritti delle aziende, di cercare di distruggere ciò che resta di un Stato regolatore e sociale”6.

Ma, come si afferma ancora nello stesso testo:

Non possiamo attribuire all’estrema destra il monopolio della strategia neoliberale. La cosiddetta sinistra “di governo” […] ha condotto dagli anni Ottanta questa stessa guerra, certo in maniera più elusiva, ma sempre con terribili effetti sui rapporti di forza e sulle possibili alternative. Non solo non ha difeso le classi lavoratrici e non ha protetto i servizi pubblici, ma li ha impoveriti e indeboliti in nome del “realismo”, vale a dire in nome dei vincoli della globalizzazione o dei trattati europei, a seconda dei casi. L’ascesa del neoliberalismo nazionalista della destra radicale non avrebbe potuto captare il risentimento delle classi popolari senza questa partecipazione attiva della “sinistra” all’offensiva neoliberale7.

Sinistra di governo che, ammantandosi sempre di politically correct, nel tentativo di smarcarsi dalle proprie responsabilità politiche e amministrative all’interno dell’azione statale messa in atto da governi solo apparentemente diversi per orientamento ideologico, ha cercato ripetutamente di sottolineare come:

l’emergere di una destra autoritaria, nazionalista, populista e razzista corrisponde a uno sviluppo “mostruoso”, a una “creazione frankensteiniana” del neoliberalismo delle origini – quello di Friedrich von Hayek, Milton Friedman o degli ordoliberali tedeschi, che era incentrato sulla difesa del libero mercato e della morale tradizionale. […] Per altri ancora, l’attuale risorgenza della versione “autoritaria” del neolibealismo risalente agli anni Trenta sarebbe “l’espressione del suo indebolimento politico”, della sua “crisi di egemonia avanzata”. In ogni caso, il neoliberalismo, considerato a partire dalle sue forme contemporanee, starebbe subendo uno snaturamento o una degenerazione […] Tuttavia, se affrontato nella sua dimensione strategica, il neoliberalismo sembra essere sempre stato coinvolto in un insieme di relazioni (di composizione o di alleanza, ma anche di antagonismo) con altre razionalità politiche, essendosi quindi confrontato fin dall’inizio con l’obbligo di designare i nemici e di riflettere sulle modalità d’azione che avrebbero potuto garantire l’efficacia dell’offensiva. Riconoscere questa dimensione strategica del neoliberalismo implica come conseguenza il riproporre la questione delle sue origini storiche, per mostrare quanto il ruolo della strategia sia stato centrale sin dall’inizio8.

Ed è proprio questa indagine storica sulle forme e le strategie del neoliberalismo a costituire una delle parti più interessanti e convincenti del testo che, nel suo insieme , risulta diviso in dodici capitoli, ognuno destinato ad approfondire aspetti diversi dell’azione e della storia del neoliberalismo.

Si inizia dal Cile, con un capitolo significativamente intitolato Il Cile, la prima controrivoluzione liberale (pp. 29-54), per poi proseguire con la Demofobia liberale (pp. 55-71), l’Apologia dello Stato forte (pp. 73-95), Costituzione politica e costituzionalismo di mercato (pp. 97-117), Il neoliberalismo e i suoi nemici (pp. 119-141), Strategie neoliberali dell’evoluzione sociale (pp. 143-167), La falsa alternativa tra globalisti e nazionalisti (pp. 169-189), La guerra dei valori e la divisione del “popolo” (pp. 191-211), Sul fronte del lavoro (pp. 213-229), Governare “contro” le popolazioni (pp. 231- 247), Il diritto come macchina da guerra neoliberale (pp. 249-266) e Neoliberalismo e autoritarismo (pp. 267-294).

La raccolta di saggi, tutti rigidamente e consequenzialmente collegati l’uno all’altro, costituisce così un perfetto manuale politico per l’analisi del neoliberalismo, ultima e più recente del dominio del capitale sulla società e il mondo intero, dando vita, contemporaneamente, ad una autentica enciclopedia storico-politica sul tema della guerra civile come normale condizione di esistenza dell’ordine sociale dettato dall’attuale modo di produzione.

contrariamente a quanto sostiene il discorso del potere, la guerra civile non è ciò che lo minaccia dall’esterno: lo abita, lo attraversa e lo implica, perché “esercitare il potere è in un certo modo fare la guerra civile”. In questo modo, la guerra civile funziona come “una matrice all’interno della quale operano gli elementi del potere, si riattivano, si dissociano”. È in tal senso che si può sostenere che, lungi dal porre fine alla guerra, “la politica è la continuazione della guerra civile” 9. […] Agli antipodi di una politica di protezione statale dei rischi sociali a opera dello Stato, lo Stato neoliberale mira a costruire il mercato e a proteggerlo dalle minacce di regolamentazione e di controllo da parte di uno Stato abusivo. Ma per adempiere a questa missione, lo Stato deve rimanere costantemente sul piede di guerra al fine di evitare che la democrazia interferisca sull’economia. Se siamo stati in grado di mostrare la natura “costruttivista” di un neoliberalismo che dà forma a un ordine economico concorrenziale, diventa di conseguenza necessario dare pieno risalto alle strategie di guerra civile condotte dai governi neoliberali contro tutto ciò che minaccia la “società libera”: governi e partiti socialisti, sindacati e movimenti sociali in lotta per rivendicazioni economiche, ecologiche, femministe o culturali. Una guerra che assume essenzialmente due forme: l’istituzione di uno Stato forte e la repressione di tutte le forze sociali e dei movimenti che si oppongono a questo progetto.
Vedere un’“ambiguità”, un “fallimento” o un “segno di crisi” nel fatto che la governamentalità neoliberale possa ricorrere contemporaneamente a forme costituzionali e a forme dirette di repressione statale significa, quindi, mancare proprio ciò che fa la coerenza strategica del neoliberalismo, poiché comprende appieno l’idea della necessità, almeno in certe situazioni, di ricorrere alla violenza. Occorre tuttavia precisare che la violenza neoliberale non è una violenza di tipo fascista, che si eserciterebbe contro una comunità designata come estranea al corpo della nazione, ma, sebbene possa mobilitare gli effetti di tale comunità, è innanzitutto caratterizzata dalla violenza conservatrice dell’ordine di mercato, rivolta contro la democrazia e la società. I neoliberali hanno la convinzione che la posta in gioco nell’ordine di mercato, molto più che una scelta di politica economica, sia un’intera civiltà, basata principalmente sulla libertà e la responsabilità individuali del cittadino-consumatore. Ed è perché la “società libera” poggia su tale fondamento che lo Stato, con tutte le sue prerogative, continua a mantenere un ruolo chiave, e ha persino il dovere di utilizzare i mezzi più violenti e più contrari ai diritti umani, se la situazione lo richiede. 10.

Per concludere, lasciando al lettore il piacere di trovare nel testo mille altri spunti di riflessione sull’azione “civilizzatrice” e fomentatrice di guerre intestine e esterne da parte del neoliberalismo, vale la pena di riprendere un’altra considerazione, contenuta nello stesso, adatta a riassumere il senso della guerra messa in atto dal capitalismo di stampo neoliberale e delle sue conseguenze sociali, politiche e repressive.

In primo luogo queste guerre, condotte su iniziativa dell’oligarchia, sono guerre “totali”: sociali, in quanto mirano a indebolire i diritti sociali delle popolazioni; etniche, in quanto cercano di escludere gli stranieri da qualsiasi forma di cittadinanza, in particolare limitando sempre più il diritto di asilo; politiche e giuridiche, in quanto utilizzano i mezzi della legge per reprimere e criminalizzare qualsiasi resistenza e contestazione; culturali e morali, in quanto attaccano i diritti individuali in nome della difesa più conservatrice di un ordine morale, spesso riferito ai valori cristiani. In secondo luogo, in queste guerre le strategie sono differenziate, si sostengono e alimentano a vicenda, ma non danno luogo a una strategia globale unitaria le cui strategie nazionali o locali sarebbero solo particolarizzazioni. In terzo luogo, esse non oppongono direttamente un “ordine globale” di tipo imperiale, anche se guidato da una potenza egemone, a popolazioni prese in blocco, così come non oppongono due regimi politici o due sistemi economici l’uno all’altro. Esse contrappongono oligarchie coalizzate ad alcune fasce della popolazione, con il sostegno attivo di altre fasce della popolazione. Ma questo sostegno non è mai dato in anticipo; deve essere ottenuto ogni volta, strumentalizzando le divisioni esistenti, soprattutto quelle più arcaiche. È così che queste strategie vanificano qualsiasi schema dualistico. Le guerre civili del neoliberalismo sono appunto civili, in quanto non contrappongono l’“1%” al “99%”, secondo uno slogan tanto famoso quanto fallace, ma mettono in tensione e quindi mettono insieme diversi tipi di raggruppamenti, secondo linee di clivaggio molto più complesse di quelle dell’appartenenza a classi sociali: le oligarchie coalizzate, che difendono l’ordine neoliberale con tutti i mezzi dello Stato (militari, politici, simbolici); le classi medie, che hanno aderito al neoliberalismo “progressista” e al suo discorso sui vantaggi della “modernizzazione”; una parte delle classi popolari e medie, il cui risentimento è catturato dal nazionalismo autoritario; infine, un ultimo tipo di raggruppamento, che si è formato in gran parte tra le mobilitazioni sociali contro l’offensiva oligarchica e che rimane legato a una concezione egualitaria e democratica della società (in cui troviamo in particolare le minoranze etniche, sessuali e delle donne)11.

In occasione della prima edizione del festival Meltemi, che si terrà alla Zam (Zona Autonoma Milano), via Sant’Abbondio 4, dal 26 al 28 gennaio con il titolo Cronache dalla fine dell’impero, La scelta della guerra civile verrà presentato il 27 gennaio da Max Guareschi, Andrea Fumagalli e Vittorio Morfino.


  1. Prefazione a P. Dardot, H. Guéguen, C. Laval, P. Sauvêtre, La scelta della guerra civile. Un’altra storia del neoliberalismo, Meltemi Editore, Milano 2023, p. 9.  

  2. Ibidem, pp. 11-12  

  3. Ibidem, pp. 12-13 

  4. cfr. anche: A. Peregalli, S. De Guio, Chile despertó.: storia e prospettive di un’insurrezione popolare in S. Moiso (a cura di), Guerra civile globale. Fratture sociali del terzo millennio, Il Galeeone Editore, Roma 2021, pp. 47-84.  

  5. I. Solaini, L. Becchetti, In un mondo con sempre più miliardari la diseguaglianza si sta facendo esplosiva, “Avvenire”, 16 gennaio 2024.  

  6. P. Dardot, H. Guéguen, C. Laval, P. Sauvêtre, op. cit., pp. 14-15.  

  7. Ibidem, pp. 15-16.  

  8. Ivi, pp. 20-21.  

  9. M. Foucault, La société punitive. Cours au Collège de France. 1972-1973, EHESS/Seuil/Gallimard, coll. “Hautes études”, Paris 2013, p. 33; tr. it. di D. Borca, P.A. Rovatti, La società punitiva. Corso al Collège de France (1972-1973), Feltrinelli, Milano 2016, p. 45.  

  10. P. Dardot, H. Guéguen, C. Laval, P. Sauvêtre, op. cit., pp. 16-23.  

  11. Ivi, pp. 18-19.  

]]>
Il nuovo radicalismo di destra secondo Adorno (e come potremmo contrastarlo) / pt.1 https://www.carmillaonline.com/2024/01/22/il-nuovo-radicalismo-di-destra-secondo-adorno-e-come-potremmo-contrastarlo-pt-1/ Sun, 21 Jan 2024 23:37:21 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80848 di Marco Rizzo

Poco più di tre anni fa è stata tradotta ed edita per la prima volta in Italia una conferenza che Adorno tenne nel 1967 presso l’Università di Vienna, su invito dell’Unione degli studenti socialisti dell’Austria1. Oggetto della conferenza, la riemersione e la crescita elettorale in Germania del neofascismo, nella fattispecie dell’NPD (Partito Nazional Democratico di Germania), allora appena fondato. Nel momento in cui si tiene questa conferenza l’NPD è in una fase di ascesa, tale da lasciar presagire un [...]]]> di Marco Rizzo

Poco più di tre anni fa è stata tradotta ed edita per la prima volta in Italia una conferenza che Adorno tenne nel 1967 presso l’Università di Vienna, su invito dell’Unione degli studenti socialisti dell’Austria1. Oggetto della conferenza, la riemersione e la crescita elettorale in Germania del neofascismo, nella fattispecie dell’NPD (Partito Nazional Democratico di Germania), allora appena fondato. Nel momento in cui si tiene questa conferenza l’NPD è in una fase di ascesa, tale da lasciar presagire un suo possibile ingresso nel parlamento tedesco alle elezioni federali del 1969; da qui la misurata ma ferma preoccupazione che fa da filo conduttore al discorso di Adorno.

Vale la pena riprendere in mano anche oggi questo breve testo per due motivi. In primo luogo occorre evidenziare che quando Adorno identifica alcuni caratteri ricorrenti della propaganda della nuova destra, quando descrive gli strumenti di cui questa si serve per catturare le menti di alcuni ceti sociali specifici, ha il pregio di impostare l’argomento su un piano che è già direttamente volto alla lotta politica: si tratta di costruire una cassetta degli attrezzi, un insieme di pratiche di base, degli strumenti di osservazione e di analisi da cui partire e mettersi al lavoro per contrastare un pericolo che avanza. Il secondo motivo deriva conseguentemente dal primo, ed è, un poco sorprendentemente, lo stile della conferenza. A differenza della complessità concettuale e della densità di riferimenti letterari ben noti ai lettori e alle lettrici di opere come Dialettica dell’illuminismo o Minima moralia, il linguaggio a cui Adorno ricorre in questo discorso risulta invece sobrio e comunicativo. Forse a causa della presenza di un uditorio e della conseguente natura orale della trattazione, o forse a causa dell’argomento in questione, che non ammette elitarismi di sorta, il fondatore dell’Istituto per la ricerca sociale di Francoforte ha insomma cura di far sì che i suoi spunti possano essere compresi e raccolti senza troppa difficoltà anche da un pubblico di non iniziati.

Gli aspetti delle nuove formazioni della destra radicale che Adorno va qui a delineare sono riconducibili a tre ordini di questioni: il rapporto tra fascismo e democrazia, la base sociale e psicologica del loro consenso e le tecniche di propaganda. Cerco qui di riassumerli servendomi di alcune citazioni e di proporre alcuni spunti di attualizzazione e, in qualche caso, discussione.

Ideologia, materialismo e propaganda

Già nel 1959, quando il lavoro di elaborazione del passato nazista (dopo una blanda denazificazione e una ben più ampia rimozione nell’immediato dopoguerra) da parte delle istituzioni della Repubblica Federale Tedesca doveva ancora cominciare, Adorno affermava che “la sopravvivenza del nazionalsocialismo nella democrazia” risultava “più minacciosa della sopravvivenza di tendenze fasciste contro la democrazia.”2 Vediamo ripresa questa tesi anche nella conferenza del 1967, allorché Adorno si sofferma su “quel neofascismo che usa espressioni come si può tornare a votare3 . Non credo sia necessario specificare quanto questo identikit discorsivo si attagli anche ad alcuni leader politici italiani che hanno vinto le elezioni del 2022, e che in realtà hanno vinto ben da prima, dettando l’agenda politica dell’ultimo ventennio. Vale invece la pena di riflettere su come, da una prospettiva interpretativa di questo tipo, peraltro dalle solide basi storiche, dovrebbero scaturire dei posizionamenti conseguenti. Così come i fascismi delle origini hanno preso il potere grazie alle istituzioni democratico-liberali, e solo successivamente hanno provveduto a smantellarle, anche oggi possiamo vedere come le odierne forze del radicalismo di destra risultino spesso pienamente integrate nel gioco democratico e anzi, per uno strano paradosso, finiscano per porsi strumentalmente a sua difesa contro le tendenze elitarie e tecnocratiche delle classi dirigenti neoliberali.

Da un lato abbiamo quindi la riproposizione di modelli del passato, integralmente autoritari e tesi a ridurre e cancellare violentemente tutti gli spazi di opposizione, di critica e di dissenso, a partire dalla libertà di stampa e di espressione fino al diritto a manifestare, così da restaurare la totalità indivisa della Nazione. Sono le “democrature” che guardano a Est e che verso Est sono geopoliticamente sempre più orientate: Orbán in Ungheria, Erdogan in Turchia e Putin in Russia. Dall’altro, abbiamo tutte quelle destre che giudicano più redditizio cavalcare la retorica vittimaria dei “poveri nemici del sistema perseguitati” ora dalla stampa, ora dagli intellettuali, ora dalle istituzioni internazionali, a tutti invisi perché “dalla parte del popolo contro le élites”. Niente di nuovo sotto il sole, ce lo ricorda sempre Adorno: “Gli esseri umani avevano la sensazione, proprio grazie a questi movimenti che distruggono la libertà, di tornare a possedere la libertà, la possibilità di decidere liberamente, la spontaneità.”4 Trump negli USA5 , Salvini e Meloni in Italia sono le eruzioni di questa democrazia plebiscitaria, che si presenta come la forma più pura, perfettamente realizzata, di democrazia, moralmente tollerante e inclusiva verso tutte le pulsioni e i comportamenti antisociali del cittadino proprietario (l’evasione fiscale su tutte) quanto ferocemente escludente verso tutte le soggettività che altererebbero il corpo unico della Nazione, culturalmente ed etnicamente definita. Come sinteticamente osservava Adorno poco meno di 60 anni fa: “L’obbligo di adattarsi alle regole democratiche implica anche una certa trasformazione nei comportamenti […]. Ciò che è apertamente antidemocratico sparisce. Viceversa, ci si richiama sempre alla vera democrazia e si accusano gli altri di essere antidemocratici.”6 Inutile tuttavia fermarsi alla contemplazione disgustata di questa eruzione sintomatica, oggi prepotentemente in ascesa. Anche per Adorno, le democrazie dovrebbero vedere in queste manifestazioni una controfigura degradata di sé7 . Allo stesso modo la sinistra (viene da aggiungere oggi), se non avesse gli occhi offuscati dalla cieca fiducia di essere dalla parte giusta della storia, si troverebbe davanti uno specchio in cui contemplare il rovescio speculare della sua acritica resa alla razionalità neoliberale e all’ideologia della pacificazione.8
Ma da dove vanno cercate le cause oggettive che preparano il terreno a simili ritorni di fiamma, anzi della Fiamma? La risposta di Adorno è innanzitutto materialistica:

Vorrei partire dall’idea che, nonostante il loro crollo, le premesse dei movimenti fascisti continuano a sussistere sul piano sociale, se non anche su quello direttamente politico. Penso in primis alla tendenza del capitale alla concentrazione, dominante oggi come allora, [… per effetto della quale] resta sempre possibile il declassamento di strati sociali che dal punto di vista della loro coscienza di classe soggettiva risultano del tutto borghesi, i quali intendono mantenere i loro privilegi e il loro status sociale e, ove possibile, rafforzarli.9

Sul disorientamento dei ceti medi in Occidente a seguito della crisi del 2008 e sulle traiettorie politiche che questi hanno preso (“populismo”, sovranismo ecc.) molto si è scritto in questi anni. Così come non mancheranno di suonare familiari e attuali i richiami del filosofo francofortese all’inflazione e alla disoccupazione tecnologica e non da ultimo a “una contrapposizione tra provincia e città che si sta acuendo”10 . Questi i principali elementi portatori di un senso di instabilità e di disgregazione socio-economica diffusa, capaci di generare quello che Adorno stesso chiama “il sentimento della catastrofe sociale. […]: Come è possibile andare avanti, se c’è questa grande crisi?, e questi movimenti si propongono appunto come una risposta a tale situazione”11 promettendo tanti (e perlopiù impossibili) ritorni all’ordine che fu12 .

Qui ci si trova davanti a un nodo perverso, perché la propaganda di destra ha saputo costruire una narrazione ideologica consolidata attorno a questo senso di declassamento, al franare delle basi materiali e ideologiche dell’identità soggettiva di vasti strati sociali “in crisi di privilegio”, sia esso di classe, razza, genere, variamente combinati tra loro; una narrazione volta a impedire la formazione di alleanze con le classi lavoratrici sfruttate e con l’ancor più sommerso sottoproletariato metropolitano. Infatti, nota sempre Adorno, “questi gruppi hanno sempre la tendenza a odiare il socialismo o ciò che loro chiamano socialismo, ossia danno la colpa del proprio declassamento potenziale non agli apparati che lo producono, ma a coloro che si sono contrapposti in chiave critica al sistema che nel quale avevano potuto godere di quello status.”13 Se il fascismo di un secolo fa è stato soprattutto lo strumento adoperato dalla borghesia europea per stroncare e prevenire il possibile ripetersi dell’Ottobre russo nel contesto turbolento del primo dopoguerra, ai giorni nostri, vista la duratura latitanza di movimenti rivoluzionari capaci di impensierire le classi dirigenti, i surrogati mitologici dello spettro del socialismo possono anche chiamarsi “ideologia gender”, “grande sostituzione”, “nuovo ordine mondiale” o “dittatura sanitaria”. Ciò che oggi viene semplicisticamente e troppo sinteticamente definito “globalismo”, potremmo più articolatamente chiamarlo cosmopolitismo liberale sul piano culturale e, a livello economico, la promozione degli interessi di quei pezzi di borghesia che devono la redditività dei loro capitali all’integrazione nel sistema mondo a dominazione (sempre meno) occidentale, a scapito tanto delle borghesie nazionali non più competitive, che delle classi lavoratrici nazionali.

Le forze della destra radicale tentano di interpretare, per l’appunto, questa crisi di status dei ceti medi in Occidente, ma non sembrano capaci di dare loro una risposta strutturale capace di ripristinare le fonti materiali di tale status. Si può anzi dire che a partire dalla mancata vittoria delle elezioni europee del 2019 il sovranismo sta scontando un’empasse strategica non indifferente, e tutt’altro che prossima a finire: sostanziale accantonamento del progetto di rottura dell’UE; disorientamento e incapacità di presentarsi come traghettatori credibili durante la recente crisi pandemica; da ultimo le dirompenti contraddizioni geopolitiche tra le stesse destre europee dovute alla guerra in Ucraina; tutto sta lì a dimostrarci che le nuove destre non sono quella corazzata invincibile con cui talvolta ce le rappresentiamo. Il risultato delle elezioni europee previste tra pochi mesi, quale che sia, difficilmente potrà influire significativamente sul modo in cui le classi dirigenti del continente attraverseranno il nuovo disordine mondiale. Perché, drammatico a dirsi, classi dirigenti all’altezza dei tempi storici sopraggiunti, ad oggi non ci sono, da nessuna parte.

“Accade spesso – leggiamo sempre nel testo della conferenza – che convinzioni e ideologie assumano un aspetto demoniaco o autenticamente distruttivo proprio quando non risultano più sostanziali in rapporto alla situazione oggettiva.”14 La recrudescenza così ampia e diffusa di manifestazioni di razzismo e di discriminazione in base all’identità di genere e all’orientamento sessuale, avviene infatti in un quadro in cui a)da un lato le nuove generazioni sono sempre più restie a rinvenire una qualche giustificazione in queste forme di oppressione; b)dall’altro, vi è una lotta interna alla stessa borghesia (e ai suoi partiti di riferimento) tra una fazione più aperta e tollerante e una più rigida e conservatrice: entrambe infatti condividono l’interesse a mantenere intatta la gerarchizzazione della società capitalistica attorno a razza e genere, ma mentre la prima vuole occultare e mantenere intatta questa gerarchizzazione attraverso compensazioni e remunerazioni perlopiù solo linguistiche e simboliche, la seconda giudica dannose e inaccettabili persino queste ultime, sovrastimandone il potere reale di trasformazione e in tal modo finendo col celare per diversa via la materialità delle oppressioni.

Continua…


  1. Theodor W. Adorno, Aspetti del nuovo radicalismo di destra, Marsilio, Venezia 2020, pp. 96, € 12 

  2. T.W. Adorno, op. cit., p.71. 

  3. T.W. Adorno, op. cit., p. 42. 

  4. T. W. Adorno, ivi. 

  5. Cfr. Mikkel Bolt Rasmussen, La controrivoluzione di Trump. Fascismo e democrazia, Agenzia X, Milano 2019. 

  6. T. W. Adorno, op. cit, pp. 39-40. 

  7. T. W. Adorno, ivi, p. 21: “Proprio in rapporto a categorie come quella degli eterni incorreggibili, o analoghe espressioni rassicuranti, si sente spesso avanzare la tesi che in ogni democrazia ci sia un nucleo di incorreggibili o folli, la cosiddetta lunatic fringe, come viene chiamata in America. E qui si cela qualcosa di consolatorio in senso quietistico e borghese, se tale lo si vuole considerare. Io credo che si possa rispondere soltanto: è certo che nel mondo, in ciascuna delle cosiddette democrazie, è possibile osservare con intensità variabili qualcosa di simile, ma solo in quanto espressione del fatto che, fino a oggi, da nessuna parte la democrazia si è concretizzata in modo effettivo e completo dal punto di vista del contenuto economico-sociale, ma è rimasta sul piano formale. E, in questo senso, i movimenti fascisti potrebbero essere indicate come le piaghe, le cicatrici di una democrazia che non è ancora pienamente all’altezza del proprio concetto.” 

  8. Cfr. dall’introduzione a Comitato Invisibile, L’insurrezione che viene. Ai nostri amici. Adesso, Nero 2019, pp. 13-14: “Non è difficile constatare come la debolezza congenita della sinistra, il suo amore per la debolezza, abbia finito per consegnare ai conservatori e ai fascisti temi come quelli di libertà, rivoluzione e anche <>. […] A forza di pretendere di incarnare il partito del Bene e diffondendo le sue lamentele da schiavo, il senso comune ha finito per dedurne, in virtù di una sorta di sillogismo che opera su scala mondiale, che visto che essere buoni significa parlare come uno schiavo, essere libero significa comportarsi da bastardi. A forza di diffidare cronicamente di tutto quello che è rivoluzionario, la sinistra ha indotto logicamente l’idea che la vera rivoluzione sia quella conservatrice. […] Il suo sentimento di essere nel giusto fuggendo il reale si nutre dell’ignominia di quello che si trova di fronte. […] In tal modo il reale viene giorno dopo giorno allontanato, ed è sufficiente che il primo pagliaccio che si presenta insceni delle provocazioni contro la sinistra e i gauchistes per fargli prendere una marea di voti, passando per un nemico del sistema.” 

  9. T. W. Adorno, op. cit., p. 14. 

  10. T. W. Adorno, ivi, p. 19. Al riguardo, vale la pena evidenziare come l’analisi dei flussi elettorali dell’ultimo decennio sta ponendo sempre più all’ordine del giorno il superamento di categorie come destra e sinistra, e financo di regioni tradizionalmente di un certo colore contrapposte ad altre di un colore diverso, proprio a favore della contrapposizione tra città e province (e all’interno delle città stesse, tra centro e periferie). Le seconde, spesso in coincidenza con processi di declassamento territoriale e mancata integrazione nei flussi del mercato mondiale, tendono ad essere conquistate più facilmente dalle destre, mente le città grandi e medie e soprattutto i loro centri rimangono dei fortini (demograficamente considerevoli, va da sé) quasi ovunque appannaggio del centro-sinistra o della destra moderata, più capaci di governarne lo sviluppo urbano proiettandolo in una dimensione economica globale e di dare rappresentanza a quelle frazioni di borghesia che traggono la loro ricchezza da questa precisa dimensione. 

  11. T. W. Adorno, ivi, pp. 22-23. E poche righe prima: “Si potrebbe parlare di una distorsione della teoria marxiana del collasso.” 

  12. Cfr. Volker Weiss, Postfazione in Adorno, op cit., p. 77: “L’esperienza della sostituibilità come forza lavoro può culminare così nello spettro popolare di una grande sostituzione. In cerca d’aiuto, coloro che sono preoccupati possono rivolgersi a un sovrano immaginario. Uno Stato nazionale che agisce in modo autoritario non viene più percepito come una minaccia, ma come una protezione, e viene visto come l’incarnazione di ciò che è loro, un processo che Horkheimer aveva già evidenziato negli anni Trenta, spiegando che nel tardo capitalismo gli uomini diventano prima dei sussidiati e poi gregari. Anziché scomparire in un mondo amministrato in modo astratto, preferiscono scegliere un’autorità di cui è possibile fare esperienza in modo diretto.” 

  13. T. W. Adorno, op. cit., p. 14. 

  14. T. W. Adorno, ivi, p. 17. 

]]>
Il trionfo della “società dello spettacolo” e le sue conseguenze https://www.carmillaonline.com/2023/07/24/il-trionfo-della-societa-dello-spettacolo-e-le-sue-conseguenze/ Mon, 24 Jul 2023 20:00:48 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78200 di Sandro Moiso

Mario Perniola, Berlusconi o il ’68 realizzato, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2022, pp. 105, 8 euro

Invece di approfittare dell’occasione offerta da un fatto naturale come la morte per trovare il tempo di indagare storicamente le ragioni del successo, tra una fetta significativa dell’elettorato italiano, di un uomo sicuramente discutibile e sopra le righe in ogni sua manifestazione, alcune starlette dell’intellighenzia di “sinistra” continuano a perpetuare il mito di Berlusconi babau con un atteggiamento che, se non affondasse le sue radici nell’ignavia e nell’insipienza di una sinistra perbenista, anonima e amorfa, [...]]]> di Sandro Moiso

Mario Perniola, Berlusconi o il ’68 realizzato, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2022, pp. 105, 8 euro

Invece di approfittare dell’occasione offerta da un fatto naturale come la morte per trovare il tempo di indagare storicamente le ragioni del successo, tra una fetta significativa dell’elettorato italiano, di un uomo sicuramente discutibile e sopra le righe in ogni sua manifestazione, alcune starlette dell’intellighenzia di “sinistra” continuano a perpetuare il mito di Berlusconi babau con un atteggiamento che, se non affondasse le sue radici nell’ignavia e nell’insipienza di una sinistra perbenista, anonima e amorfa, sembrerebbe sfiorare la psicosi. Prova ne sia un’affermazione come quella contenuta in un numero di luglio del «Venerdì» di Repubblica: “Il berlusconismo è stata la disgrazia più grande”, attribuita a Sabina Guzzanti.

Già, la disgrazia più grande. Così mentre il grande pubblico dello spettacolo mediatico, politico e “culturale”, non ha ancora finito di assorbire il fatto che la Shoa abbia costituito il “male più grande”, ecco che già gli viene propinato un altro villain definitivo, dopo Hitler, Mussolini o chi altro diavolo si voglia. E mentre l’audience viene tenuta in uno stato di costante allerta da una classifica di “disgrazie” che non sembra mai finire, dal Vajont al Covid o alla guerra in Ucraina, un nuovo (?) “urlo di dolore” e moto “di denuncia” inizia a diffondersi per l’aere mediatico. Un’eterna corsa al vaccino definitivo contro i mali causati dalla Destra a livello politico e sociale che, però, non intacca mai la sostanza di una società (quella italiana ma non solo) e di un modo di produzione di cui la stessa Sinistra “criticante” fa parte, condividendone spesso valori e principi, fin da prima della caduta definitiva del fascismo storico.

Hanno fatto dunque benissimo le Edizioni Mimesis a riproporre nella collana “Volti” un testo del filosofo e scrittore italiano Mario Perniola (1941-2018), già precedentemente edito nel 2011: Berlusconi o il ’68 realizzato. Come si afferma nella Nota redazionale che precede l’attuale riedizione:

Il grande filosofo italiano che è stato Mario Perniola ci ha regalato uno stile di pensiero in cui ridere e comprendere vanno a braccetto, in nome di un umano e lucido disincanto del presente. Quando uscì Berlusconi o il ’68 realizzato, imperversavano gli scandali delle “cene eleganti” e vacillava la credibilità internazionale del Paese Italia. […] Allora risultarono quanto mai puntuali queste valutazioni di Perniola sul significato storico delle trasformazioni personificate da Berlusconi nella politica, nella cultura, nei costumi e nella vita sociale del Paese. Ma anche oggi, soprattutto oggi, al termine della parabola biografica dell’uomo di Arcore, l’analisi della rivoluzione spettrale, qui proposta, risulta essere uno dei migliori discorsi di commiato che si possano fare1.

Discorso in cui occorre sottolineare, così come fa Perniola e non soltanto per gusto provocatorio, il ricongiungersi, in maniera sicuramente distorta, nel programma di Berlusconi della gran parte degli obiettivi che caratterizzarono la grande ondata del Sessantotto. Dalla fine del lavoro alla distruzione dell’università e al vitalismo giovanilistico fino al trionfo della comunicazione massmediatica. Una sorta di rinnovato “spirito del capitalismo” cui avrebbero fatto riferimento in seguito Luc Boltanski e Eve Chiapello, annotando: la sua vocazione alla mercificazione del desiderio, soprattutto quello di liberazione, e di conseguenza al suo recupero e inquadramento2.

In attesa dunque di valutazioni storiche e politiche degne di questo nome, che non si basino soltanto su frasi ad effetto e battute salaci che si accontentano soltanto di rovesciare lo stile berlusconiano, in realtà senza negarlo nei fatti ma bensì propagandolo3 ad oltranza, val la pena di riprendere la lettura delle pagine del breve testo di Perniola.

Qui chi scrive si limita a riproporre l’interpretazione di alcuni temi, tra i tanti possibili, che ricollegano la “mancata rivoluzione” del ’68 alle sue conseguenze nei decenni successivi durante i quali, come sempre accade in questi casi, la Rivoluzione fallita si è trasformata in arma della Controrivoluzione e uno dei suoi testi più conosciuti e importanti4 si è tramutato nel possibile manuale d’uso per una concezione spregiudicata, ma tutt’altro che rivoluzionaria, della politica e della comunicazione5. Comparso infatti nel 1967, il testo di Debord affermava che: «Lo spettacolo non è un insieme di immagini ma un rapporto sociale tra persone mediato da immagini». Anticipando di decenni il modo in cui Silvio Berlusconi con Mediaset e Mark Zuckerberg con Facebook e Instagram, per non parlare di tanti altri social media, avrebbero poi portato alle estreme conseguenze i meccanismi dell’alienazione individuale e sociale.

Sul lavoro e il suo rifiuto

Sebbene Berlusconi sia stato lungo tutta la sua vita un lavoratore instancabile, egli ha consentito alla maggior parte dei giovani di realizzare la famosa ingiunzione di Guy Debord (1931-1994) Ne travaillez jamais! (Non lavorate mai!). L’ironia sta nel fatto che ora i giovani vogliono lavorare, anche a condizioni indecenti e vergognose, incredibilmente più alienanti e squalificate di quelle che erano loro offerte negli anni Sessanta e Settanta: allora una vita piccolo-borghese era più o meno garantita a tutti, oggi essa è un sogno irraggiungibile per quanti non hanno alle spalle una famiglia che li aiuti. È come se Berlusconi avesse monopolizzato nella sua persona tutto il lavoro, e lasciato agli altri solo il gioco6.

Sulla cultura e gli intellettuali

Di tutto il culturame (attenzione, questa parola è detta in camera caritatis, cioè non pubblicamente) ce ne freghiamo: però dobbiamo dire che siamo a favore della cultura, della ricerca, dell’innovazione, dell’inglese, di internet, dell’impresa e di quanto ancora suoni alla moda, anche se di tutte queste cose non ce ne importa un fico, perché a farle sul serio, sono troppo care e complicate e lasciano uno spazio troppo ristretto per la corruzione. Le facciano gli americani, che legandole strettamente all’economia aziendale riescono a guadagnarci un sacco di soldi oppure i paesi del BRIC (Brasile, Russia, India e Cina) che essendo in ascesa e avendo tassi di sviluppo notevoli hanno bisogno di creare una borghesia relativamente istruita! […] Mi raccomando poi di non cadere nella trappola di sostenere sul serio i cosiddetti “intellettuali di destra”, perché questi sono molto più pretenziosi di quelli di sinistra, i quali un po’ per partito preso pauperistico, un po’ per demagogia si autodefiniscono “operai della conoscenza” e quindi non hanno più tante ambizioni: basta che fate far loro qualche comparsata gratuita in televisione e pensano subito di essere dei divi e di spezzare il cuore di qualche ragazza, come se le nostre ragazze di oggi avessero un cuore! Se poi sono veramente accro (segnatevi questa parola francese perché nessuno la capisce e quindi fa un certo effetto), voglio dire sono proprio accaniti, come quel tale Saviano o Saviani che dir si voglia, basta che lo inseriate in uno show ricreativo di puro intrattenimento per neutralizzarlo completamente. Lui vuol fare il tragico, ma se lo mettete insieme ai comici, chi si accorgerà della differenza? E poi in Italia la tragedia non ha mai avuto fortuna: sì certo, c’è stato qualche piemontese tragico come Alfieri e Pareyson, ma chi li legge? Servono per fare delle tesi di laurea. Quindi nessuna fatwā contro i Saviani, tanto meno attentati o cose che fanno casino: non dimenticate che spacciandoci per liberisti (mentre è ovvio che siamo monopolisti) dobbiamo anche mostrare di essere liberali e magnanimi. Mica siamo come i russi o i cinesi, che perseguitano i dissidenti! Tanto alla fine quello che dicono o scrivono non ha alcuna effettualità politica e il popolo bue lo si conquista nella campagna elettorale abbassando o eliminando qualche tassa od odioso balzello7.

Sulla dignità

Una parola che ricorre sempre più frequentemente nei discorsi etico-politici è dignità. Questa è diventata uno dei termini chiave della bioetica, nonché il motto in cui si sono riconosciute le rivolte politiche che hanno scosso molti stati arabi, provocando talora la caduta dei governi. In Italia coloro che si sono detti indignati dalla condotta di… sconi (questa volta mi viene in mente solo la parte finale del nome di questa persona), non si contano. Gli studenti che hanno occupato le piazze di alcune città spagnole si sono definiti los indignados. È nato così un Global Indignant Movement che si è manifestato in molti Paesi. La parola dignità ha eclissato altri termini più tecnici del linguaggio politico, come comunità e diritti dell’uomo. In effetti, la prima è caduta nel ridicolo da quando si è cominciato a parlare di una “comunità internazionale” […]. Quanto ai “diritti umani” che costituiscono uno dei cardini della civiltà occidentale, l’uso fazioso e opportunistico che se ne è fatto, li ha svuotati di credibilità […] Ora la domanda cruciale è: possiamo permetterci di essere indignati, se non abbiamo nessuna delle quattro virtù fondamentali (saggezza, temperanza, coraggio e giustizia)? Possiamo indignarci se noi stessi non abbiamo dignità? Se non siamo minimamente coerenti con noi stessi ma immersi nel mondo della comunicazione, nel quale tutto si capovolge in tutto? I caratteri fondamentali della comunicazione sono descritti benissimo dagli Stoici sotto il termine di stoltezza. Lo stolto non è uno sciocco, uno stupido, un ottuso ma l’essere umano che, in preda a un continuo turbamento, cambia opinione da un momento all’altro; incapace di stare fermo, corre a precipizio con impeto irrefrenabile verso il primo obiettivo che incontra e si pente con facilità di tutto ciò che ha fatto; incapace di ascolto, parla e agisce in modo inconcludente; inetto a elaborare valutazioni stabili e a compiere scelte irreversibili, salta ora qua ora là, pretendendo di avere e di prendere tutto. La stoltezza non nasce da una mancanza, ma da una deviazione, da una distorsione, da un pervertimento della facoltà razionale. Per essere indignati, bisogna almeno avere coraggio, cioè pazienza, perseveranza, magnanimità e magnificenza (Tommaso d’Aquino dixit). Noi italiani (e forse noi occidentali), siamo troppo deboli per permetterci di essere indignati8.


  1. Nota redazionale a M. Perniola. Berlusconi o il ’68 realizzato, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2022, pp. 7-8  

  2. L. Boltanski, E. Chiapello, Il nuovo spirito del capitalismo, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2014  

  3. Si veda quanto già scritto qui  

  4. Guy Debord, La società dello spettacolo, SugarCo Edizioni, Milano 1990.  

  5. Si veda: Gianfranco Marelli, L’amara vittoria del situazionismo. Storia critica dell’Internazionale Situazionista 1957-1972, Mimesis Edizioni, 2017.  

  6. Non lavorate mai! in M. Perniola, op. cit., p. 21  

  7. Gli intellettuali da nona categoria puzzolente a spina dorsale della nazione in M. Perniola, op. cit., pp. 64-67  

  8. Possiamo essere indignati? In M. Perniola, op. cit., pp. 95-99  

]]>
Un enigma letterario: la trilogia di Gormenghast https://www.carmillaonline.com/2023/01/17/un-enigma-letterario-prime-riflessioni-sul-tito-di-gormenghast-di-mervyn-peake/ Tue, 17 Jan 2023 21:00:27 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=75520 di Sandro Moiso

Mervyn Peake, Gormenghast. La trilogia, Adelphi Edizioni, Milano 2022, pp. 1170, euro 28,00

«Senza Tito, il castello non avrà un futuro, quando io non ci sarò più. Devo ricordarvi che spetta a voi, come sua balia, instillare in lui fin da ora l’amore per il castello dove è nato e di cui è l’erede e il rispetto per tutte le leggi, scritte e non scritte, che regolano il mondo dei suoi avi […].» «Ma non ha che due mesi, povero cosino!» interruppe la balia con voce di pianto. […] [...]]]> di Sandro Moiso

Mervyn Peake, Gormenghast. La trilogia, Adelphi Edizioni, Milano 2022, pp. 1170, euro 28,00

«Senza Tito, il castello non avrà un futuro, quando io non ci sarò più. Devo ricordarvi che spetta a voi, come sua balia, instillare in lui fin da ora l’amore per il castello dove è nato e di cui è l’erede e il rispetto per tutte le leggi, scritte e non scritte, che regolano il mondo dei suoi avi […].»
«Ma non ha che due mesi, povero cosino!» interruppe la balia con voce di pianto.
[…] «E ora fammi vedere mio figlio» disse il Conte, lentamente.
«Mio figlio Tito. È vero che è brutto?» (Tito di Gormenghast – Mervyn Peake)

E’ un paesaggio a dir poco desolato quello che circonda il castello dei Conti de’ Lamenti, dominato dall’aspro e altissimo monte Gormenghast e costituito da lande in cui dominano la polvere e la pietra oppure terreni paludosi sconfinati e in cui la vegetazione è costituita da cactus, foreste di rovi impenetrabili e boschi di alberi ritorti e minacciosi. Lo stesso castello millenario che prende il nome dal monte soprastante sembra costituire, con la sua struttura labirintica e tentacolare definita da secoli di bizzarrie architettoniche volute da settantasei generazioni della stessa famiglia nobiliare, una diretta emanazione e continuazione delle rocce e delle cavità che caratterizzano la montagna.

Gli abitanti del gigantesco maniero sono tutti grotteschi nelle movenze e nell’aspetto, sia che si tratti dei rappresentanti della aristocratica famiglia che dei servitori. Storpi, magrissimi, gobbi, grassi oltre ogni dire, deformi oppure dotati di nasi lunghissimi e volti equini. Portatori, tutti, delle stimmate del proprio egoismo incise nelle posture assunte e nel fisico. Il conte Sepulcrio e la gigantesca contessa Gertrude, la figlia pre-adolescente Fucsia e le zie gemelle, sorelle del conte, Clarice e Cora; la piagnucolosa balia settuagenaria Mamma Stoppa, il segaligno e torto (nel corpo e nell’animo) maggiordomo Lisca, il grasso sadico e perverso capo-cuoco Sugna, il dottor Floristrazio e la sorella Irma, insieme all’autentica anima nera rappresentata dal giovane Ferraguzzo, ragazzo di cucina che grazie alla sua mente perspicace e freddamente calcolatrice scala le più infide e infime trame delle gerarchie di un mondo che non vuole conoscere e riconoscere altro da sé. Tutti intenti a danzare un mostruoso e sgraziato minuetto ritmato da regole e leggi, riti e doveri improbabili che soltanto il vecchissimo Agrimonio, maestro di cerimonie, e successivamente il figlio Barbacane, zoppo e perennemente in guerra con tutti coloro che lo circondano, conoscono e dettano quotidianamente. Al Conte e a tutta la servitù.

Ma anche gli abitanti del piccolo e malsano borgo che si è sviluppato vicino alle pareti e alle rocce del castello non sono da meno. L’unica loro attività sembra essere quella di intagliatori di sculture di legno, attività artigianale riservata esclusivamente agli individui di sesso maschile che viene valutata annualmente dal Conte stesso e premiata con l’esposizione delle opere migliori in una galleria dimenticata del castello, e mai visitata da nessuno, custodita dal sonnolento e indolente Stoccafisso. Uomini e donne del borgo conservano però una certa grazia e bellezza fino al compimento del diciannovesimo anno di età, momento in cui la pelle incartapecorisce e la bruttezza della vecchiaia prende il posto dell’aura della giovinezza.

Tra gli stessi non vi è nessuna forma di comunitarismo, se non quello rappresentato dalla dipendenza dal castello e dai suoi nobili proprietari. Anzi la rivalità, sul piano artistico e personale può raggiungere livelli di odio e violenza abissali. Come dimostra la vicenda di Keda la, momentaneamente, bella e giovane vedova del più famoso, e vecchio, scultore del borgo senza nome, divisa tra l’amore per due giovani e abili intagliatori rivali, Rantel e Braigon. Un triangolo amoroso destinato ad una drammatica e sanguinosa conclusione. Anche se una bimba, partorita in seguito da Keda, ne rappresenterà il frutto dopo la tragica scomparsa dell’ormai invecchiata madre.

Nella Presentazione anteposta all’attuale edizione italiana della trilogia, Anthony Burgess1 avverte i lettori che «sarebbe pericoloso scandagliare troppo a fondo in Titus Groan (Tito di Gormenghast nella traduzione italiana – NdR) alla ricerca dell’allegoria. Esso rimane sostanzialmente il frutto di una fantasia chiusa in se stessa dove l’evocazione di un mondo parallelo al nostro è condotta con uno spessore di dettagli quasi paranoico»2.
Eppure, eppure…

Forte rimane la tentazione di interpretare il gotico sogno di uno scrittore, Mervyn Peake (1911- 1968)3, tormentato per gran parte della vita da depressioni e crisi che lo avrebbero progressivamente portato all’irreversibile malattia mentale e alla morte, in chiave simbolica e allegorica, anche perché la monumentale trilogia del “mondo” di Gormeghast e il suo giovane principe Tito, può davvero essere considerata come uno degli enigmi della letteratura fantastica del Novecento. Il cui motivo del contendere non è offerto soltanto dalle numerose e svariate interpretazioni che è possibile dare di un testo che considerare labirintico è ancora troppo poco e la cui scrittura dipinge sotto gli occhi del lettore strati su strati di situazioni rinviabili ad infiniti tòpoi, personaggi e situazioni della letteratura gotica, grottesca o orrorifica.

L’impressione che se ne ricava a prima vista è di una scrittura ‘gotica’, ma il termine è inadeguato. Leggendo Titus Groan abbiamo l’impressione di imbatterci, a ogni piè sospinto, in indizi che potrebbero portarci a intravvedere la luce di un genere letterario, ma ogni volta finiamo col dover riconoscere che la pista è falsa. Prendiamo i nomi dei personaggi: tutti starebbero benissimo in un romanzo di Dickens o in un racconto umoristico per bambini. Nomi comici, dunque, ma di una comicità che rifiuta sia la facile risata sia la levità del fantastico: la massiccia corposità architettonica tiene tutto ben ancorato a terra e, a dispetto dei nomi, il lettore dovrà prendere i personaggi molto sul serio4.

E la stessa difficile collocazione dell’opera (Fantasy? Gotica? Diario indiretto di una “lucida” e progressiva follia? Espressione del malessere di un secolo, il Novecento, che già Kafka aveva anticipato?) a costituire una parte dell’enigma. Difficoltà data sia dalla sua struttura che dal progressivo peggioramento delle condizioni della salute mentale del suo autore sia, ancora, dal suo inserimento in un catalogo, quello di Adelphi, voluta da Roberto Calasso, un intellettuale magmatico e controverso, che nel corso di un cinquantennio ha fatto conoscere ai lettori italiani titoli e autori, spesso osteggiati da altri editori oppure dalle consorterie politico-culturali cattoliche e tardo zdanoviste o, ancora, fasciste.

Autori che spesso praticavano una letteratura di carattere fantastico, passando per il noir, la fantascienza di Theodor Sturgeon, la letteratura americana del Sud immaginato e descritto da William Faulkner, le opere di Antonin Artaud e Nietzche, la Mitteleuropa di Joseph Roth e Karl Kraus, le grandi mitologie e religioni, il nichilismo e i testi iniziatici (o supposti tali). Un direttore e un indirizzo editoriale che è stato sempre poco amato, se non apertamente osteggiato, sia dalle correnti estreme della Destra politica e cattolica che dalla Sinistra osservante dell’ortodossia più dogmatica e d’antan.
Lasciamo, però, ancora una volta che a parlare sia Anthony Burgess:

Titus Groan, primo volume di una trilogia, apparve nel 19465. L’autore aveva trentacinque anni. Le reazioni dei critici furono assai favorevoli, in alcuni casi addirittura entusiastiche. Le avventura del protagonista e l’elaborazione del suo mondo proseguirono in Gormenghast (1950)6 e in Titus Alone (1959)7 i quali però, benché ammirevoli, non erano destinati ad avere la stessa risonanza del primo romanzo: il 1946, anno dell’austerità, era quanto mai ben disposto verso i banchetti a base di fantastico. Ma il successo di critica non significò un vasto successo di pubblico. Titus Groan fu idolatrato, ma solo da pochi fedeli. Il nome di Peake viene citato di rado nelle storie del romanzo contemporaneo.
[…] Peake si è attirato lodi, ma anche sospetti. Le sue opere in prosa non sono di facile classificazione, possiedono la stessa individualità degli scritti di, poniamo, un Peacock o un Lovecraft8.

Sospesi tra le atmosfere delle opere di Franz Kafka (dalla Metamorfosi a Il processo oppure Il castello) e, a tratti del teatro dell’assurdo di Samuel Beckett e Ionesco, dando vita ad un universo in cui non esistono il Bene e il Male e nemmeno un Dio, ma in cui a valere sono soltanto i riti, le tradizioni e le regole che si tramandano di generazione in generazione, divenendo sempre più assurde e incomprensibili ma pur sempre irrinunciabili per i detentori del Potere e il suo mantenimento, i tre romanzi di Mervyn Peake potrebbero costituire per chi, come il sottoscritto, non ha mai particolarmente amato l’opera di Tolkien, una valida alternativa al Signore degli Anelli, altra monumentale trilogia della letteratura fantasy e fantastica.

A far da contraltare all’opera di J. R. R. Tolkien può contribuire il fatto che in quella di Peake l’eroe è quasi del tutto assente o, perlomeno, al termine del primo romanzo non ha ancora compiuto il secondo anno di età, costituendo per le quattrocentosessanta pagine che lo compongono più un oggetto della storia narrata che il soggetto. Ancor di più, però, a fare del Gormenghast un’alternativa al Lord of the Rings contribuisce il fatto che mentre nel secondo gli eroi devono riportare o ricostruire l’ordine sconvolto dal ritorno di Sauron e del Male che rappresenta, nel primo è proprio l’invadenza e il predominio dell’ordine dato a costituire la causa del disagio e dello scontro tra i diversi interpreti del dramma.

Il mondo di Gormenghast, a differenza della Terra di mezzo, non è un luogo pacifico dove gli appartenenti alle varie razze umane o diversamente umane (elfi, nani, hobbit, uomini) potrebbero, soltanto con un po’di buona volontà, collaborare pacificamente e condurre tranquillamente le loro bonarie (hobbit), scorbutiche (nani) e illuminate (elfi) esistenze a fianco degli uomini se non fosse per il ritorno di un Male antico e odioso, destinato a riportare il buio là dove dovrebbe risplendere soltanto la luce.

No, quello disegnato da Peake è un mondo di conflitti, più o meno malcelati, dove solo la tradizione, le leggi e i riti più antichi possono impedire la “naturale” dissoluzione di un ordine che costituisce non soltanto “una certa qual massiccia corposità architettonica”, ma anche l’intero orizzonte in cui tutti i personaggi si muovono, senza alcun riguardo o curiosità per ciò che potrebbe estendersi oltre i suoi confini.

Non vi è divisione tra Bene e Male nel Titus Groan, non vi è religione o magia se non quella della celebrazione dei riti fini a se stessi. Non c’è sacralità né, tanto meno, un’autorità morale o spirituale superiore, cui far riferimento. Non ci sono neppure una vera scienza o un vero raziocinio, esiste soltanto la Legge, che non è possibile interpretare, ma soltanto seguire. Tanto che la vecchia biblioteca, dove il conte Sepulcrio passa la maggior parte del suo tempo, prima del suo incendio e della sua distruzione, è composta per la maggior parte da testi scritti dagli antenati dello stesso.

Un tempo fermo, apparentemente immobile, che solo Tito potrà forse, un giorno, scuotere o abbandonare. Ma questo al termine del primo romanzo del ciclo non è ancor dato sapere. L’ordine e la pace, in tale contesto, non costituiscono una conquista, ma un”obbligo” noioso e mortifero. Siamo ad anni luce di distanza dall’epica tolkeniana. In un mondo in cui il sole sorge ad est e tramonta a ovest, esiste il petrolio e insieme ad esso molti altri oggetti del viver quotidiano inglese tra XIX e XX secolo.

Il dubbio che sorge, nel lettore, è costituito dal fatto che, al di là di quanto affermato da Burgess nella Presentazione, quella dipinta da Peake sia un’allegoria della società inglese successiva al secondo conflitto mondiale: un ordine che ha perso pezzi importanti del proprio impero, ma che vuole mantenersi immutabile con suoi riti e le sue tradizioni. Come anche i recenti funerali della regina Elisabetta II e la saga infinita della famiglia reale (Carlo ora Carlo III, Diana, Camilla, Harry, Meghan, William e consorte) sembrano ancora confermare (grazie anche alle serie televisive prodotte da Netflix).

Se sia davvero così non è dato sapere con certezza, ma certo la carica nichilista ed eversiva contenuta non soltanto nelle pieghe del romanzo fa sì che lo stesso finisca coll’acquisire un significato devastante nei confronti dei sistemi di potere, anche per l’attuale vigente in un Occidente che non vuole riconoscere ordine altro dal proprio, che lo pone in uno spazio ben diverso e provocatorio rispetto a quello che, anche a sinistra, si è voluto definire per l’opera di Tolkien nel suo insieme. Tanto che anche lo stesso Burgess è costretto ad ammettere che nelle pagine del romanzo:

Dappertutto, anche nei voli più romanticamente fantastici, si sente questa fredda padronanza dell’intelligenza che tiene in vita, come un generatore, il mondo immaginario e ne esclude quello reale. Ma è poi vero che il mondo reale ne sia escluso?
Prima di dare una risposta, occorre ritornare all’anno della pubblicazione di Titus Groan, il primo dopo una guerra lunga e orribile. Il connubio tra lo scheletro di Agrimonio e il teschio di vitello, la zampa del gatto che strappa dalla guancia di Ferraguzzo, sotto l’occhio destro, un «brandello scarlatto», il duello tra Lisca e Sugna nella Sala dei Ragni, non sono i particolari gratuiti di un romanzo gotico quanto piuttosto i riverberi di un’epoca di orrori. Il rogo che distrugge secoli di tradizione e la follia di un conte privato per sempre del sostegno di un rituale sembrano simboleggiare la fine di un ordine di secoli, ma questa volta autentico, storico9.

Allora, soltanto per giungere a una prima conclusione, il vero enigma del Gormenghast sta forse proprio nel chiedersi perché tanta cultura pretesa alternativa o di sinistra abbia speso tanto tempo nel contendere alla destra un ciclo sostanzialmente tradizionale come quello del Signore degli Anelli e abbia tralasciato di prestare attenzione a un ben più feroce e sovversivo esempio di critica dell’ordine esistente come quello rappresentato dal ciclo comunque epico di Peake. Forse perché la tradizione manichea che accomuna certa destra e certa sinistra, con la rigida divisone tra Bene e Male, è destinata ad essere l’ultima a morire? Speriamo, sinceramente, di no.


  1. Anthony Burgess, pseudonimo di John Burgess Wilson (Manchester, 1917 – Londra, 1993), è stato scrittore, critico letterario, poeta, drammaturgo, sceneggiatore, giornalista, saggista e traduttore. E’ considerato uno dei più importanti autori inglesi del secondo dopoguerra e tra le sue opere più significative vanno annoverate: Arancia Meccanica (A Clockwork Orange, 1962), Notizie dalla fine del mondo o La fine della storia (The End of the World News: An Entertainment, 1982) e la Trilogia malese (Malaysian trilogy, 1958-1960). Nei suoi romanzi uno dei temi centrali è costituito dall’uomo schiacciato dalla violenza, vittima di condizionamenti ideologici e oppresso dagli apparati dello Stato. Nella Trilogia malese ha descritto il crepuscolo nel quale si è chiusa la dominazione inglese nelle colonie dell’Estremo Oriente.  

  2. A. Burgess, Presentazione in M. Peake, Gormenghast. La Trilogia, Adelphi Edizioni, Milano 2022, p. 13  

  3. Mervyn Peake fu, oltre che scrittore, poeta, pittore e affermato illustratore di libri per l’infanzia e non soltanto, come dimostra la tavola qui accanto in cui sono raffigurati alcuni personaggi del suo romanzo: Ferraguzzo, Fucsia, Signa e Lisca  

  4. A, Burgess, op. cit., pp. 10-11  

  5. In Italia per la prima volta nel 1981 per Adelphi e con il titolo già precedentemente citato: Tito di Gormenghast  

  6. In Italia: Gormenghast, Adelphi 2005  

  7. In Italia: Via da Gormenghast, Adelphi 2009  

  8. A. Burgess, op. cit., p. 10  

  9. Ibidem, p. 13  

]]>
Niente di nuovo sotto il sole della retorica neoconservatrice https://www.carmillaonline.com/2022/12/08/niente-di-nuovo-sotto-il-sole-della-retorica-neoconservatrice/ Thu, 08 Dec 2022 22:55:01 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=75119 di Francisco Soriano

La retorica neoconservatrice all’amatriciana del nuovo esecutivo insediatosi a colpi di annunci roboanti, si è presto dissolta in una legge di bilancio piuttosto scolorita al cospetto delle condizioni pietose delle finanze italiche. L’attenzione si è rivolta, ça va sans dire, alla conservazione e al consolidamento degli antichi privilegi, riservati a coloro i quali detengono da soli la metà del patrimonio finanziario e immobiliare del Paese, corrispondente a circa diecimila miliardi di euro.

Gigantesche dinamiche di diseguaglianza si rafforzano con il consenso di disperati, sottoproletari, proletari, operai e persone con gravi disagi [...]]]> di Francisco Soriano

La retorica neoconservatrice all’amatriciana del nuovo esecutivo insediatosi a colpi di annunci roboanti, si è presto dissolta in una legge di bilancio piuttosto scolorita al cospetto delle condizioni pietose delle finanze italiche. L’attenzione si è rivolta, ça va sans dire, alla conservazione e al consolidamento degli antichi privilegi, riservati a coloro i quali detengono da soli la metà del patrimonio finanziario e immobiliare del Paese, corrispondente a circa diecimila miliardi di euro.

Gigantesche dinamiche di diseguaglianza si rafforzano con il consenso di disperati, sottoproletari, proletari, operai e persone con gravi disagi economici ai limiti della più accettabile vivibilità. Sembrerebbe assolutamente inspiegabile questa dinamica se non si fosse già copiosamente manifestata in epoche storiche le cui derive sono state presto taciute e, con minor sforzo, dimenticate. Viene alla mente quel brocardo turco, molto pregnante di significato e sbandierato sui social subito dopo l’elezione di Giorgia Meloni alla carica di Presidente del Consiglio: “E gli alberi votarono ancora per l’ascia. Perchè l’ascia era furba e li aveva convinti che era una di loro, perchè aveva il manico di legno”.

La realtà rivolge il suo volto autentico, incontrovertibile, adeguato ai tempi di cui è l’emblema: le politiche liberiste di formazioni politiche, all’apparenza distinte, hanno perpetrato un percorso di omologazione culturale ed economica consistente nell’individuare e condividere valori politici che si basano sulla diseguaglianza e lo sfruttamento del prossimo. La retorica è uno spazio invincibile di mistificazione, quel luogo dove, attraverso le parole, ben orientate e in armonia con le voluttà umane, si costruiscono le condizioni e le fondamenta dei cambiamenti sistemici. Questa volta, però, il cambiamento era semplicemente uno specchietto per le allodole perché, è da un tempo davvero profondo, che questo Paese ha abiurato al ragionamento, certo doloroso, della realtà che si evidenzia con tutte le sue oscenità.

Un vento di deliberato sovranismo, orgoglio e “provvidenziale messa a punto di quattro regole chiarificatrici” per questo Paese che si vuol far credere come invaso, deteriorato dai dissidenti sabotatori, dagli extracomunitari e abbrutito da poveri, brutti, sporchi e cattivi.  In un mondo meraviglioso dove manager di imprese, di pubbliche eccellenze, di fondi di investimento (con buste paga che farebbero vergognare anche il più convinto profeta del liberismo), ci vorrebbero spiegare che cosa e come avvengono le crisi finanziarie, i disagi di chi non supera la seconda settimana del mese, delle dinamiche dei conti che non tornano. Il tutto risulta essere una sorta di messinscena di un film dell’assurdo. Gli amministratori delegati delle grandi imprese e i finanzieri dei fondi di investimento, in particolare, hanno una certa familiarità con i numeri laddove le persone non esistono e le equazioni dei loro disonorevoli guadagni lievitano senza soluzione di continuità. Alle loro retoriche e dialettiche infarcite di sana simpatia per le forme autocratiche di governo, seguono le delocalizzazioni, i licenziamenti indiscriminati, le connivenze con un mondo che non riconosce negli altri esseri umani alcun diritto di residenza se non quando è necessario sfruttarli. Che cosa abbia fatto questa destra conservatrice dal punto di vista del progetto economico, con solide radici nel populismo vetero-fascista è visibile e solare, anche quando ipocritamente si criticavano banche e interessi finanziari delle multinazionali che tanto depauperavano il “popolo sovrano”. La frase perfetta, invece, in un’antiretorica, sarebbe stata: meno dividendi e più salario. La condivisione dei profitti seppur auspicabile, almeno per decenza nei confronti di sacche di povertà insopportabili, non è certo nell’agenda del nostro Primo ministro Giorgia Meloni. Un amministratore delegato percepisce trecento volte di più di un salario di un operaio. Ci verrebbe da chiedere se tale forbice discriminante e disumana non risieda in un’altra parola magica, che viene usata per sostenere l’architrave su cui si basa lo sfruttamento legalizzato: il merito.

In questi giorni abbiamo sentito dire che “nella crescita della personalità un fattore fondamentale risiederebbe nell’umiliazione”. Bravura a scuola e merito, dunque,  verrebbero acquisiti con un semplice ragionamento ai limiti della crudeltà: cioè dal senso di vergogna e umiliazione che uno studente dovrebbe aver nutrito nella sua vita scolastica per riuscire “a farcela”. Sono le deduzioni che provengono da una retorica banale e pericolosa, articolata dal Ministro della Pubblica istruzione preoccupato di conferire, ai giovani d’oggi, un indirizzo morale, pedagogico e didattico. Alcuni analisti politici, con statistiche abbastanza infallibili sui “numeri”, ci assicurano che le mense per i poveri sono in un costante incremento. Sono in aumento anche il fenomeno del dumpster diving, il rovistare nei cassonetti, il ricorrere a forme di usura, la richiesta di elemosina. Milioni di persone che, nonostante la vergogna e l’umiliazione provata, probabilmente nel loro passato scolastico, non ce l’hanno fatta.

Viene da immaginare che i nostri amministratori ben si ispirino a comportamenti e dialettiche d’oltreoceano, dove il capitalismo si forma, impera e indirizza, smentendo tuttavia proprio quei riferimenti che dovrebbero fornire ricette sanificatrici per l’economia e la felicità dei cittadini. Infatti, basterebbe mettere il naso in un supermercato per rendersi conto che cosa significhi “inflazione”, pur senza conoscere un solo grafico di economia. Senza parlare degli aumenti sulle rate dei mutui delle case e degli affitti e, senza considerare, per non finire suicidi, alle bollette di gas ed elettricità. È il Paese che per decenni ha manifestato un’altra parola d’ordine, quella di “favorire la classe media”, vero motore trainante di un’economia che riconosce soltanto un capitalismo fondato sulle relazioni, le conoscenze, le raccomandazioni e le famiglie dei soliti noti. Altro che capitalismo e liberismo sociale, che già non significherebbe molto: il nostro sembra essere piuttosto un becero coacervo di vampiri in giacca e cravatta.

Nella dialettica che imperversa sui nostri media (questi ultimi fra carta stampata e telegiornali nazionali, fra le ultime posizioni in relazione alla libertà di espressione e informazione), è fondamentale la citazione ossessiva e compulsiva di nuove frontiere da varcare e conquistare: pace fiscale, rientro dei capitali dall’estero, sanatorie. La sensazione che i cittadini avvertono, dopo la visione di un telegiornale, è che si subisca una sorta di aggressione da una forza invisibile, impossibile da stanare soprattutto sulla questione del pagamento delle tasse. Dunque, è necessaria una pace fiscale, si ripete, in linea con la propaganda di regime. Con chi? Basterebbe che in base ai propri guadagni percepiti (e sinceramente dichiarati) tutti pagassero le tasse. Nulla di arcano, misterico o inspiegabile. Forse semplicemente la necessaria ubbidienza al dettato costituzionale. Ancora una volta, inoltre, un’altra equazione si impone incontrovertibile: redistribuzione di ricchezza dal basso verso l’alto, un fenomeno altrettanto inspiegabile come i misteri eleusini. Le sacche di ricchezza incommensurabili sono al sicuro e in crescita. Il lavoro dipendente è di trenta punti percentuale più alto negli altri Paesi europei in confronto all’Italia. Gli insegnanti e pubblici dipendenti sono ormai proletarizzati e stentano a mantenere una vita dignitosa senza avere la forza di invertire la rotta.

Guardando sempre alla pressione fiscale in altri Paesi europei si comprende, ad esempio, che in Stati come la Francia, la Germania, l’Olanda, lo stato sociale contribuisce nel quotidiano dei cittadini a creare maggiore armonia e solidarietà; inoltre è strutturato in relazione ai redditi in modo più conforme a quello che la realtà, in termini di “numeri”, esige. In un Paese come il nostro l’indebitamento cresce a dismisura grazie alle ricette neoliberiste, non per le elucubrazioni superate di quattro marxisti ortodossi con il colbacco sovietico. Il margine di indebitamento è al suo ultimo limite di invalicabilità, anche perché il partente Draghi con il suo fascino vampiresco, non garantirebbe il silenzio dei mostruosi protestanti e burocrati del nord che non vedono l’ora di sbeffeggiare i furbastri meridionali. Ebbene sì, esiste un sud anche per loro. In questa deriva frutto dei conservatori italici non si è ancora considerata un’altra originale variabile che consiste nella corruzione, nella densità mafiosa, nella sottrazione di vaste aree del Paese alla legalità. Fenomeni devianti e distruttivi che in Italia mostrano sedimentazione strutturale nelle società di riferimento, soprattutto, del meno sviluppato Meridione. Non vi è traccia nella visione del nostro Primo ministro di una volontà di lottare strategicamente con queste forme di deterioramento, sociale, umano e politico.

La politica monetaria della BCE intanto, è intenzionata a rialzare il tasso di interesse sui titoli di Stato ponendo, in modo elementare, uno sbarramento all’acquisto degli stessi. Dove sono finite le dichiarazioni sovraniste contro le lobby europee del nostro Primo ministro? La recessione incombe concretizzando ulteriori progressi delle classi più agiate ad accumulare ricchezza, come da copione e senza scomodare Marx o teorie affini. Sempre in relazione alla volontà di estromettere polverose e ormai asimmetriche ideologie socialiste al fine di fronteggiare lo scandalo dei patrimoni senza alcuna regolamentazione seria in termini di tassazione, attestiamo che non ci sono voci che riguardino la riforma del catasto, l’imposta patrimoniale (in Italia “inspiegabilmente”) osteggiata da ogni singolo cittadino anche della più “profonda e povera” periferia italiana, la tassazione della rendita immobiliare.

Dal progetto economico del governo di Giorgia Maloni le scelte appaiono in assoluta continuità con l’apparato draghiano di gestione delle risorse e di protezione delle ricchezze dei soliti noti. La retorica ha assolutamente assolto ai suoi doveri di convincimento e consolidamento delle posizioni già assestate sul piano dei privilegi. Ma non è tutto, anzi. Sul piano economico nulla si è mosso ma, su quello dei valori, incombe un pauroso presagio di maggiore preoccupazione e, soprattutto, di regressione.

Ci vorrebbero molte altre pagine e parole, per raccontare altre retoriche e, ancora, parole, vive, importanti, determinanti. Si è cominciato a parlare “retoricamente” di questioni che riguardano la sfera privata ed etica dei cittadini: fra devianze e prospettive lombrosiane di efficienza fisica, fino alla limitazione delle libertà dei cittadini al fine di fronteggiare il “pericoloso” fenomeno dei cosiddetti rave party, dove sarebbe bastato far valere alcune normative già esistenti a livello penale e civile. Dalle questioni sulla maternità alle pressioni antiabortive su strutture sanitarie e regioni, questo esecutivo ha evidentemente cominciato a sondare la reattività delle persone per consolidare una visione patriarcale sui diritti umani e delle donne. La lettera del Ministro dell’Istruzione alle scuole, nel senso di considerare il comunismo come un male ineludibile del secolo, con il suo carico di “morti e povertà”, senza neppure nominare quanto perpetrato da fascisti e nazisti, è sembrata una mistificazione della Storia senza precedenti. Sono solo alcune delle retoriche, delle mistificazioni, delle regressioni anche sul linguaggio e, soprattutto, del linguaggio.

La preferenza del nostro Primo Ministro alle declinazioni in forma maschile sembra addirittura incomprensibile visto che, anche per qualche nostro antico e conservatore cultore dell’idioma italico, il femminile esiste “nonostante tutto” per definire cariche istituzionali e di governo qualora venissero occupate da donne. È evidente che, per Giorgia Meloni, il potere è esclusivamente una prerogativa maschile, sconfiggendo ogni dilemma grammaticale. Così sia.

]]>
Il babau fascista e la (solita) tiritera antifascista https://www.carmillaonline.com/2022/09/21/il-babau-fascista-e-la-tiritera-antifascista/ Wed, 21 Sep 2022 20:00:42 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=73779 di Sandro Moiso

«Fin da molti anni addietro, noi affermammo senza esitazione che non si doveva ravvisare il nemico ed il pericolo numero uno nel fascismo o peggio ancora nell’uomo Mussolini, ma che il male più grave sarebbe stato rappresentato dall’antifascismo che il fascismo stesso, con le sue infamie e nefandezze, avrebbe provocato; antifascismo che avrebbe dato vita storica al velenoso mostro del grande blocco comprendente tutte le gradazioni dello sfruttamento capitalistico e dei suoi beneficiari, dai grandi plutocrati, giù giù fino alle schiere ridicole dei mezzi-borghesi, intellettuali e laici». (Amadeo Bordiga, [...]]]> di Sandro Moiso

«Fin da molti anni addietro, noi affermammo senza esitazione che non si doveva ravvisare il nemico ed il pericolo numero uno nel fascismo o peggio ancora nell’uomo Mussolini, ma che il male più grave sarebbe stato rappresentato dall’antifascismo che il fascismo stesso, con le sue infamie e nefandezze, avrebbe provocato; antifascismo che avrebbe dato vita storica al velenoso mostro del grande blocco comprendente tutte le gradazioni dello sfruttamento capitalistico e dei suoi beneficiari, dai grandi plutocrati, giù giù fino alle schiere ridicole dei mezzi-borghesi, intellettuali e laici». (Amadeo Bordiga, intervista a cura di Edek Osser – estate 1970)

A pochi giorni di distanza dalla “fatidica” data del 25 settembre, è difficile dire quanti saranno gli elettori che si presenteranno, convinti e con la tessera elettorale in pugno, ai nastri di partenza dell’ennesima e gaglioffa tornata elettorale.
A giudicare dai risultati degli ultimi anni, pochi. Molto pochi. Considerato soprattutto il fatto che, nell’attuale competizione, a farla da padrone sono stati più i nomi e le poltrone “garantite” dei candidati che non i programmi. Ma se anche così non fosse, vale comunque la pena di sottolineare come l’uso dei termini “fascismo” e “antifascismo” abbia ancora una volta caratterizzato la propaganda di una sinistra sempre più esangue e asservita alle esigenze del capitale nazionale e internazionale.

L’attuale farsa elettorale, infatti, vede le sinistre, più o meno parlamentari di ogni grado e risma, ricorrere ancora una volta all’espediente narrativo, già troppe volte visto in scena sia sui palcoscenici istituzionali più importanti che nei teatrini politici più scadenti, secondo il quale l’elettore “di sinistra” dovrebbe accorrere alla chiamata alle armi per difendere nell’urna la “democrazia” e la costituzione dall’ennesimo e vile assalto “fascista”. Trama semplice, priva di alcuna complessità interpretativa, in cui i buoni stanno, o devono stare, tutti dalla parte del “centro-sinistra” o al massimo di tutti quei partiti ancora non apertamente schierati con il terribile “centro-destra”.

A parte la qualità della compagnia che certo non fa rimpiangere quella del centro-destra, rimanendo nello schema interpretativo proposto dai media e dai rappresentanti dello schieramento “autenticamente” democratico, il primo pericolo sarebbe infatti presentato dal rischio di una revisione o riscrittura della carta costituzionale.

Su questo argometo, tralasciando il tema delle visite “agostane” di Giorgia Meloni al capo dello Stato rivelate dal “Fatto Quotidiano” del 10 settembre scorso, non occorre neppure ricorrere alle armi della critica proposte dalla Sinistra Comunista per smontare il grido di dolore che si leva dal perbenismo centrosinistrese. Basta, si pensi un po’, quanto è già stato scritto su un quotidiano tutt’altro che estremista come «il manifesto».

Le vicende delle «riforme costituzionali» ci dicono che l’attacco alla Costituzione non è venuto solo dalle destre ma anche dai partiti di centrosinistra, non è più vero dunque che il centrosinistra difende la Costituzione e le destre ne vogliono la distruzione. Centrosinistra e centrodestra sono stati protagonisti per vent’anni di tentativi, falliti, di modificare in pejus la Carta costituzionale del 1948 […] ai tentativi falliti si sono affiancati quelli riusciti a modificare la Costituzione. Eccone l’elenco: revisione del Titolo V (attuata dal governo Amato), dell’articolo 8 (votata dal Pd guidato da Bersani), degli articoli 56 e 57 per la riduzione del numero dei parlamentari (voluta dai 5S con il sostegno del Pd). Può essere punto di riferimento per la difesa della costituzione il pd, l’artefice principale delle sue manomissioni?1.

Non solo ma, entrando più nel merito delle questioni attuali, nello stesso articolo si aggiunge che se

la barbara Meloni si fa garante della scelta atlantica soprattutto per quanto riguarda il sostegno armato all’Ucraina, anche Letta è schierato con la Nato sostenendone le politiche militari, e il voto sul Trattato di adesione della Svezia e della Finlandia ha visto il Pd e il centrodestra votare insieme a favore […] Dunque la lesione dell’art.11, che ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali, è compiuta sia dalla barbara Meloni sia dal progressista e democratico Letta. E il Pd ha in mano la società di produzione di armamenti Leonardo, guidata da Alessandro Profumo e da altri suoi iscritti, ch e propongono politiche aggressive di difesa e potenziamento dello strumento militare2.

E concludendo poi ancora che se

la barbara Meloni vuole il semipresidenzialismo alla francese […] si prenda la proposta di legge costituzionale AC224 e si troverà scritto che «la presente proposta di legge costituzionale si prefigge di superare il previsto stallo del sistema dei partiti chiudendo la transizione italiana e prendendo come riferimento il modello francese nella sua integralità (sistema elettorale e forma di governo». Dunque la barbara Meloni vuole il semipresidenzialismo alla francese che anche il democratico e progressista Ceccanti3, con altri del Pd vuole… 4.

Ora, tralasciando le quisquilie di ordine formale e costituzionale, considerato che qualsiasi carta costituzionale non è certo destinata all’eternità poiché al cambiamento dell’ordine sociale e politico deve per forza corrispondere un cambiamento delle leggi “fondamentali” che lo ispirano5, proviamo a considerare la questione fascismo/antifascismo da un più ampio punto di vista.

Non è affatto vero che il fascismo ci sia perché manca un governo capace di reprimerlo. E’ una turlupinatura far credere che la formazione di un governo di tale natura, e in genere lo sviluppo del rapporto tra l’azione dello Stato e quello del fascismo, possano dipendere dall’andamento delle cose parlamentari.
[…] Il governo forte e il fascismo forte sono per il proletariato uguali negli effetti: rappresentano il maximum della fregatura.
Poche delucidazioni a queste nostre asserzioni, contrapposte al gioco nauseante della «sinistra» politica che si elabora nei contatti osceni di Montecitorio, e alla quale rinnoviamo di tutto cuore la dichiarazione antica che essa ci fa mille volte più schifo di tutti i reazionismi, i clericalismi, i nazional-fascismi d’altra volta e di adesso.
Lo Stato borghese – la cui macchina effettiva non è nel parlamento ma nella burocrazia, nella polizia, nell’esercito, nella magistratura – non è affatto mortificato di essere scavalcato dall’azione selvaggia delle bande fasciste. Non si può essere contrari ad una cosa che si è preparata e che si sostiene: burocrazia, polizia, esercito, magistratura, sono per il fascismo, loro naturale alleato, indipendentemente dalla combinazione di pagliacci in feluca che reggono il potere.
Per eliminare il fascismo non è necessario un governo più forte dell’attuale. Basterebbe che l’apparato statale cessasse di sostenerlo con la sua forza […]
Noi comunisti non siamo così fessi da chiedere un “governo forte”. Se pensassimo che quello che chiediamo può essere conseguito, chiederemmo un governo veramente debole, che ci garantisse l’assenza dello Stato e della sua formidabile organizzazione dal duello tra bianchi e rossi6.

Il contesto della citazione è quello drammatico della guerra civile italiana, precedente alla marcia su Roma e alla presa del potere fascista, ma non per questo quelle parole non possono rinviare al dibattito fasullo di oggi. Dibattito in cui la solita sinistra liberal-democratica non ha neppure il coraggio di chiedere, seppur retoricamente, un’azione forte del governo contro il fascismo, ma soltanto ai rappresentanti dello stesso di cambiare il simbolo elettorale oppure di dichiararsi diversi da quel che sono.

Certo per la “sinistra” attuale, in particolare per il Pd, è facile chiedere agli avversari ciò che ha già fatto in casa propria, ripudiando qualsiasi riferimento alla lotta di classe, ma per la borghesia capitalistica, nazionale e internazionale, reazionaria o conservatrice, non lo è altrettanto. In fin dei conti la borghesia e il capitale non possono ripudiare se stessi e la propria forma Stato. Garante della proprietà privata e dello sfruttamento del lavoro salariato e sottopagato.

Una volta il blocco di sinistra si contrapponeva a quello della destra borghese perché il secondo manteneva l’ordine con mezzi coercitivi, e il primo si proponeva di mantenerlo con mezzi liberali. Adesso l’epoca dei mezzi liberali è finita, e il programma delle sinistre è quello di mantenere l’ordine con più “energia” della destra. Questa pillola dovrebbe essere fatta inghiottire ai lavoratori col pretesto che l’ordine è perturbato dai “reazionari” e che l’energia del governo l’assaggerebbero gli squadristi di Mussolini. Siccome il proletariato ha il compito di spezzarlo questo vostro maledetto ordine, per costruire il suo sulle rovine di esso, il suo peggior nemico è chi si propone di mantenerlo con maggior energia7.

Oggi, forse, la richiesta dello Stato forte, che pur non manca nel panorama attuale grazie alle politiche di progressiva concentrazione del potere nelle mani di tecnici mai eletti dai cittadini, è più sottilmente esposta, adombrandosi di manovre economiche, piani di ripresa e resilienza, di accordi sovranazionali che, apparentemente, sembrano spingere sullo sfondo il discorso dell’azione “forte” dello Stato “nazionale”. Nascondendo dietro alla questione dei “diritti” «un passo analogo a quello del neoliberismo che assorbe le spinte libertarie degli anni Sessanta e Settanta per ribadire l’ordine capitalistico. Il pensiero dominante diventa pensiero unico assimilando ciò che gli si oppone. Colonizzando completamente l’immaginario.»8

Un immaginario in cui il diritto individuale sopravanza qualsiasi esigenza di liberazione generale della classe e, conseguentemente, della specie. In cui l’“Io” idealizzato sottomette le esigenze collettive e in cui l’idea del “privato” distrugge qualsiasi esigenza comunitaria. Aprendo ulteriormente le porte, per converso, anche in certe sgangherate versioni dell’estrema sinistra, a tutte quelle rivendicazioni, tipiche del fascismo e delle destre tendenti a inserire/soddisfare l’individuo, emarginato e impoverito, negli schemi della Nazione “sovrana”, della Patria, della Razza, della Proprietà “privata” e della Famiglia, patriarcale e indissolubile.

Non è certo pertanto nella pania dei “diritti” oppure in quella delle rivendicazioni a carattere nazionalistico che si può individuare lo strumento più efficace per combattere un fascismo di facciata che nasconde la profonda aderenza al Fascismo vero di gran parte dei partiti politici italiani e della loro forma Stato. Ereditata quasi integralmente dalla mancata reale “sconfitta” del Fascismo storico. Grazie, soprattutto, alle politiche messe in atto del CLN, tese più a impedire la svolta rivoluzionaria e anticapitalista che una parte della Resistenza portava con sé, più che a rifondare lo Stato repubblicano su nuove basi (e d’altra parte come si sarebbe potuto farlo senza negarne radicalmente il modo di produzione sul quale si fondava?). Anche se occorre, a questo punto, fare un salto indietro, fino al 1924.

Prima di tutto: l’origine del fascismo.
Ho ricordato che il movimento fascista è per la sua origine storica collegato ad una parte di quei gruppi che invocarono l’intervento italiano nella guerra mondiale.[…] Questo gruppo si era completamente identificato con la politica della concordia nazionale e dell’intervento militare […]
La crisi governativa in Italia è stata caratterizzata da qualcuno nel modo seguente: il fascismo rappresenta la negazione politica del periodo durante il quale predominava da noi una politica borghese liberale e democratica di sinistra. Esso è la forma più aspra di reazione contro la politica di conces­sione attuata da Giolitti ecc. nel dopoguerra. Noi siamo invece dell’avviso che fra questi due periodi esista un legame dialettico: che l’atteggiamento originario della borghesia italiana durante la crisi in cui il dopoguerra precipitò lo Stato, non fu se non la naturale preparazione del fascismo.
[…] Siamo così giunti ad un punto in cui fascismo e democrazia si incontrano. Il fascismo ripete in sostanza il vecchio giuoco dei partiti borghesi di sinistra e della socialdemocrazia, cioè chiama il proletariato alla tregua civile.[…]
A base di tutto ciò sta ovviamente lo sfruttamento dell’ideologia nazionalistica e patriottica. Non si tratta di qualche cosa di completamente nuovo. Durante la guerra, nell’interesse nazionale, la formula della sottomissione di tutti gli interessi particolari all’interesse generale dell’intero paese era già stata ampiamente utilizzata.
Il fascismo riprende dunque un antico programma della politica borghese, ma questo programma appare in una forma che in un certo senso riecheggia il programma della socialdemocrazia e che d’altra parte contiene qualcosa di veramente nuovo […]
Il fascismo vorrebbe conciliare e fare tacere tutti i conflitti economici e sociali all’interno della società. Ma questa non è che l’apparenza esterna. In realtà, esso cerca di realizzare l’unità all’interno della borghesia, una coalizione fra gli strati superiori delle classi possidenti in cui esso appiani i contrasti singoli fra gli interessi dei diversi gruppi della borghesia e delle diverse aziende capitalistiche.
[…] Ma, in tal modo, si irretisce in una contraddizione insolubile, perché è estremamente difficile attuare una politica unitaria della classe borghese finché le organizzazioni economiche dispongono di una completa libertà di sviluppo e finché vige una completa libertà di concorrenza fra i singoli gruppi di imprenditori.
[…] Ma, nell’insieme, il suo programma sociale non è null’altro che il vecchio programma di menzogne democratiche, che rappresenta solo un’arma ideologica per il mantenimento del dominio della borghesia.
Il fascismo è molto rapidamente – prima ancora della presa del potere – divenuto “parlamentare”; ha governato per un anno e mezzo senza sciogliere la vecchia Camera che in grande maggioranza era composta di non fascisti e, in parte addirittura di antifascisti. Con la flessibilità che è una caratteristica dei politici borghesi questa Camera si è affrettata a mettersi a disposizione di Mussolini per legalizzare la sua posizione e concedergli tutti i voti di fiducia che a lui piacque di chiedere. Lo stesso primo gabinetto Mussolini – ed egli, nei suoi “discorsi di sinistra”, vi ritorna sempre – non fu costituito su basi puramente fasciste, ma abbracciò rappresentanti dei più importanti fra gli altri partiti borghesi: dal partito di Giolitti, dei Popolari, della sinistra democratica. Si trattava, dunque, di un governo di coalizione. Ecco cosa ha partorito il cosiddetto colpo di Stato! Un partito che nella Camera contava 35 deputati ha preso il potere e ha occupato la grande maggioranza dei posti di ministro e sottosegretario9.

A partire da queste prime considerazioni, è chiaro che anche l’antifascismo di cui troppo spesso si parla, soprattutto in tempi di elezioni, può assumere forme e contenuti diversi, quasi sempre solo di facciata, niente affatto conciliabili tra di loro.

Il proletariato è antifascista in base alla sua coscienza di classe; esso vede nella lotta contro il fascismo una poderosa battaglia destinata a capovolgere radicalmente la situazione e a sostituire la dittatura della rivoluzione alla dittatura del fascismo. Il proletariato vuole la sua vendetta, non nel senso banale e sentimentale della parola; vuole la sua vendetta in senso storico.
Il proletariato rivoluzionario capisce per istinto che al fatto dell’aumento e del predominio delle forze della reazione si deve rispondere col fatto della controffensiva delle forze di opposizione; il proletariato sente che solo attraverso un nuovo periodo di dure lotte e – in caso di vittoria – attraverso la dittatura proletaria lo stato di fatto potrà essere radicalmente cambiato. Il proletariato aspetta questo momento per restituire all’avversario di classe, con un’energia decuplicata dalle esperienze, i colpi che oggi è costretto a subire.
L’antifascismo dei ceti medi ha un carattere meno attivo. Si tratta, è vero, di una forte e sincera opposizione, ma alla base di questa opposizione è un orientamento pacifista: si vorrebbe con tutto il cuore ristabilire in Italia una vita politica normale, con piena libertà di opinione e discussione… ma senza colpi di manganello, senza impiego della violenza. Tutto deve tornare alla normalità, sia i fascisti che i comunisti devono avere il diritto di professare le loro convinzioni. È questa l’illusione dei ceti medi, che aspirano ad un certo equilibrio delle forze e della libertà democratica.
Anche nella borghesia in senso stretto regnano oggi dei dubbi sull’opportunità del movimento fascista. Si nutrono delle preoccupazioni, di cui i due citati organi di stampa (“Corriere della Sera” e “La Stampa” – NdR) sono, fino a un certo punto, i portavoce. Essi si chiedono: è questo il metodo giusto? Non è esagerato? Nell’interesse dei nostri scopi di classe noi abbiamo creato un certo apparato che doveva rispondere ad alcune esigenze. Ma non andrà esso oltre le funzioni che gli attribuivamo e gli scopi che ci prefiggiamo? Non sarà costretto a far più di quanto è bene? Gli strati più intelligenti della borghesia italiana sono per una revisione del fascismo e dei suoi scantonamenti reazionari, per timore che questi portino necessariamente ad una esplosione rivoluzionaria. Naturalmente, è nell’interesse espresso dalla borghesia che questi strati della classe dominante conducano nella stampa una campagna contro il fascismo per ricondurlo sul terreno della legalità, per farne un’arma più sicura e flessibile dello sfruttamento della classe operaia10.

Continuando poi con le seguenti considerazioni, svolte a seguito dell’assassinio di Giacomo Matteotti:

l’opposizione borghese considera l’intera questione come un fatto giudiziario, come una questione di morale politica […] Per noi, al contrario, si tratta di una questione politica e storica, di una questione di lotta di classe […] Bisogna dichiarare apertamente che solo l’azione rivoluzionaria del proletariato può liquidare una situazione simile; una situazione che […] non può più essere sanata con puri provvedimenti giudiziari, col ristabilimento filisteo della legge e dell’ordine. A tale scopo è invece urgente la distruzione dell’ordine esistente, un capovolgimento completo che solo il proletariato può condurre a termine.
[…] All’ordine del giorno è anche la questione del giudizio del fascismo italiano da parte della opinione pubblica internazionale, della campagna di propaganda condotta contro di esso dai paesi civili. Si crede addirittura di vedere nell’indignazione morale della borghesia degli altri paesi un mezzo per liquidare il movimento fascista.
I comunisti e i rivoluzionari non possono abbandonarsi a questa illusione sulla sensibilità democratica e morale della borghesia degli altri paesi. Anche là dove oggi si presentano ancora tendenze pacifistiche e di sinistra, domani il fascismo sarà usato senza scrupoli come metodo di lotta di classe. Noi sappiamo che il capitale internazionale può solo rallegrarsi delle imprese del fascismo in Italia, del terrore che esso esercita laggiù contro operai e contadini.
Per la lotta contro il fascismo […] si tratta di una questione di lotta di classe. Noi non ci rivolgiamo ai partiti democratici degli altri paesi, alle associazioni di idioti e di ipocriti come la Lega per i diritti dell’uomo, perché non vogliamo fare sorgere l’illusione che si tratti per essi di qualche cosa di sostanzialmente diverso dal fascismo, o che la borghesia degli altri paesi non sia in grado di preparare alla sua classe operaia le stesse persecuzioni e di compiere le stesse atrocità che il fascismo in Italia11.

E’ un chiaro richiamo alla necessità della lotta quello che il rappresentante del PCd’I espone nella sua relazione sul Fascismo e sui modi per combatterlo, che anticipa di vent’anni le modalità espresse poi dalla spontanea Resistenza degli oppressi e dei militari tornati dai fronti bellici. Come ad esempio esprimeva benissimo Nuto Revelli, nel suo diario della campagna di Russia12: «Cialtroni! Più nessuno crede alla vostre falsità, ci fate schifo: così la pensano i superstiti dell’immensa tragedia che avete voluto. Le vostre tronfie parole vuote non sono che l’ultimo insulto ai nostri morti. Raccontatela a chi la pensa come voi: chi ha fatto la ritirata (di Russia – NdR) non crede più ai gradi e vi dice: Mai tardi…a farvi fuori!»13

Certo, la lotta è possibile solo con la partecipazione delle masse. La gran massa del proletariato sa molto bene che la questione non può essere risolta con l’offensiva di una avanguardia eroica. Questa è una concezione ingenua […] Non è così facile fare la rivoluzione!
Noi siamo assolutamente convinti dell’impossibilità di intraprendere la lotta con qualche centinaio o qualche migliaio di comunisti armati. Il P.C. d’Italia è l’ultimo ad abbandonarsi a simili illusioni. Siamo fermamente convinti della necessità inderogabile di attirare nella lotta le grandi masse. Ma l’armamento è un problema che può essere risolto solo con mezzi rivoluzionari […] Ma dobbiamo liquidare l’illusione che una manovra qualsiasi ci metta un giorno in condizione d’impadronirci dell’apparato tecnico e delle armi della borghesia, cioè di legare le mani ai nostri avversari prima che passiamo all’attacco contro di essi.
Combattere questa illusione che spinge il proletariato alla pigrizia in senso rivoluzionario non è terrorismo […] Noi non diciamo affatto che siamo dei comunisti “eletti” e che vogliamo sconvolgere l’equilibrio sociale con l’azione di una piccola minoranza. Al contrario, vogliamo conquistare la direzione delle masse proletarie, vogliamo l’unità di azione del proletariato; ma vogliamo anche utilizzare le esperienze del proletariato italiano che insegnano che delle lotte sotto la direzione di un partito non consolidato – anche se di massa – o di una coalizione improvvisata di partiti portano necessariamente alla sconfitta. Vogliamo la lotta comune delle masse lavoratrici nelle città e nella campagna, ma vogliamo la direzione di questa lotta da parte di uno stato maggiore con una linea politica chiara, cioè del partito comunista.
Questo il problema che ci sta di fronte14.

Ieri come oggi il soggetto antagonista non può affidarsi alle promesse elettoralistiche e alle chimere parlamentariste per sconfiggere il suo avversario, sia che si nasconda sotto le spoglie di Giorgia Meloni che di Letta, Salvini, Renzi, Calenda, Berlusconi, Di Maio o altri ancora. Compresi i «sinistri» che accampano ancora motivi tipici del Fascismo e del Nazionalismo, quali Sovranità e Nazione, in un paese in cui più che la difesa dei confini sarebbe necessario farla finita una volte per tutte con il capitale e i suoi scherani. In divisa militare o in abito grigio da parlamentare che siano.

Strategia perdente, quella dell’attuale “antifascismo” da elezioni, che spinge i giovani a doversi accontentare del piagnisteo ipocrita di “Repubblica” del 21 settembre sulle manganellate distribuite a Palermo dalle forze del dis/ordine sui contestatori del comizio di Giorgia Meloni, dimenticando però che proprio quel giornale rappresenta una delle voci più autoritarie nei confronti dei movimenti reali. Com il suo direttore, Maurizio Molinari ha ben dimostrato sempre nei confronti del Movimento NoTav, definito terrorista dallo stesso.

Mentre, solo per fare un esempio, il fatto che al sorgere di un movimento dal basso e concreto nelle istanze, come quello rappresentato nel Regno Unito da «Don’t Pay» che ha raccolto in poco tempo più di centomila aderenti, che potrebbero diventare un milione, intorno a una richiesta fondamentale, ovvero «la riduzione delle bollette energetiche a un livello accessibile», il governo “conservatore” di Liz Truss ha dovuto rispondere con un provvedimento del valore compreso tra i 150 e i 200 miliardi di sterline indirizzato al contenimento del caro-bollette per i prossimi 24 mesi.

Anche se tale provvedimento si è reso necessario prima di tutto per fornire un aiuto alle aziende, è chiaro che il potenziale pericolo rappresentata dal movimento, sul piano della lotta di classe, ha costituito uno dei fattori chiave per una svolta in tal senso. Considerato anche, come ha affermato Salvatore Toscano su «L’indipendente», che: «L’iniziativa, come si legge sul sito, ricalca un’idea realizzata nel Regno Unito alla fine dello scorso millennio, quando 17 milioni di persone si rifiutarono di pagare la Poll Tax, contribuendo alla caduta del governo e all’inversione delle sue misure più dure».

Insomma, la lotta concreta dal basso è l’unica che paga e, talvolta, può essere addirittura sufficiente che il suo spettro si aggiri per l’Europa15.


  1. Franco Rosso, La Costituzione non è difesa dal partito di Letta, «il manifesto», martedì 9 agosto 2022, p.15  

  2. F. Rosso, art. cit.  

  3. Cui Fratoianni ha lasciato il seggio di Pisa – NdA  

  4. ivi  

  5. Per fare solo un esempio, quale dovrebbe essere la concezione della proprietà privata, del lavoro, dell’organizzazione socio-politica in una situazione in cui una rivoluzione radicale e proletaria prendesse il sopravvento? Potrebbe ancora basarsi sui principi liberali oppure dovrebbe affermarne, come pensa l’estensore di queste note, altri? Magari assolutamente diversi e contrari a quelli attualmente in vigore?  

  6. A. Bordiga, Del governo, «Il Comunista», 2 dicembre 1921  

  7. A. Bordiga, art. cit.  

  8. Fabio Ciabatti, Il ciclo di Eymerich, una narrativa popolare che inquieta e non consola /2, «Carmilla on line», 23 agosto 2022  

  9. Rapporto di Bordiga sul fascismo al V Congresso dell’Internazionale comunista (Ventitreesima seduta, 2 luglio 1924)  

  10. Rapporto di Bordiga sul fascismo al V Congresso dell’Internazionale comunista, cit.  

  11. Ivi  

  12. N. Revelli, Mai tardi, Einaudi, Torino 1967 – prima edizione Panfilo editore, Cuneo 1946  

  13. N. Revelli, op. cit., p. 210  

  14. Rapporto di Bordiga sul fascismo al V Congresso dell’Internazionale comunista, cit.  

  15. “Il Sole 24 Ore” del 10 settembre 2022 rivela che dal Rapporto Coop 2022 emerge che un italiano su tre entro Natale potrebbe non riuscire più a coprire le spese per le utenze di luce e gas, mentre il 57% degli italiani si sarebbe già dichiarato in difficoltà nel pagare l’affitto.  

]]>
Le trame e l’ordito della repubblica https://www.carmillaonline.com/2021/11/17/la-trama-e-lordito-della-repubblica/ Wed, 17 Nov 2021 21:00:32 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=69084 di Sandro Moiso

Elio Catania, Confindustria nella repubblica (1946-1975). Storia politica degli industriali italiani dal dopoguerra alla strategia della tensione, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2021, pp. 360, 24,00 euro

Come afferma Aldo Giannullli nella sua prefazione al testo di Elio Catania, recentemente edito da Mimesis: «Nella storia della Prima Repubblica, c’è una lacuna piuttosto vistosa che riguarda uno dei soggetti più importanti: la storia della Confindustria». Ma se è vero che anche altre associazioni come Confcommercio, Confagricoltura, Abi o Confapi, solo per citarne alcune, non sono state oggetto di una attenta ricerca e [...]]]> di Sandro Moiso

Elio Catania, Confindustria nella repubblica (1946-1975). Storia politica degli industriali italiani dal dopoguerra alla strategia della tensione, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2021, pp. 360, 24,00 euro

Come afferma Aldo Giannullli nella sua prefazione al testo di Elio Catania, recentemente edito da Mimesis: «Nella storia della Prima Repubblica, c’è una lacuna piuttosto vistosa che riguarda uno dei soggetti più importanti: la storia della Confindustria». Ma se è vero che anche altre associazioni come Confcommercio, Confagricoltura, Abi o Confapi, solo per citarne alcune, non sono state oggetto di una attenta ricerca e ricostruzione storica, è anche vero che il ruolo politico ed economico giocato dalla prima all’interno della storia italiana del ‘900 è indiscutibilmente assai più rilevante. Soprattutto, a detta dello stesso Giannulli, per la forte influenza costantemente esercitata «sulle scelte politiche di governo e non solo in materia di politica economica e sindacale, ma anche in politica estera e più in generale sull’indirizzo politico complessivo del governo – soprattutto negli anni Cinquanta e Sessanta».

La ricerca di Catania, pur ripercorrendo a grandi linee la storia dell’associazione degli industriali dalle sue origini fino al Fascismo e alla Repubblica, si sofferma, in particolare, proprio sul ruolo svolto dalla stessa nella fase in cui era al massimo del suo potere. Potere di cui si servì innanzitutto per ostacolare in ogni modo l’ascesa economica, politica e sociale della grande massa dei lavoratori.
E per fare ciò, sia come singoli gruppi imprenditoriali sia come associazione, minacciò più volte, oppure rasentò, lo sbocco del colpo di Stato, finanziando o incoraggiando, indirettamente o direttamente, la destra eversiva di stampo dichiaratamente fascista.

E’ questo un tema importante, non tanto per tornare ancora una volta sulle trame mai chiarite e sulle vittime fin troppo chiare della stagione della “strategia della tensione”, ma piuttosto per far luce, sulla menzogna che sembra costituire l’unica formula identitaria su cui basare la richiesta di una collaborazione tra le classi, rivolta in particolare al coinvolgimento dei lavoratori e dei ceti sociali meno abbienti nell’interesse nazionale, nei momenti di crisi sociale, politica, economica o pandemica che sia: quella della grande unità democratica e antifascista.

Menzogna talmente evidente e di maglia ormai talmente larga che oggi, in occasione di fatti come quello dell’assalto alla sede romana della CGIL, può essere sbandierata tanto dai partiti della sinistra istituzionale e dai sindacati confederali quanto dalla destra parlamentare, anche la più estrema, cui è richiesto ipocritamente di prendere le distanze dalla sua unica fonte di ispirazione, il fascismo1.

Se è vero che, a livello ideologico oppure mitopoietico, l’antifascismo è stato uno dei maggiori collanti istituzionali della Prima Repubblica, è anche vero che mentre i discorsi istituzionali devono per forza esplicitarsi pubblicamente attraverso formule discorsive e retoriche, cariche di significati simbolici, buone per tutti gli usi, l’ordito reale del tessuto dello Stato repubblicano è più sottile e nascosto. Non per complottismo innato, ma per le intrinseche funzioni che lo Stato deve svolgere in quanto rappresentante degli interessi del capitale e dei suoi funzionari.

Non è dunque un caso che, a fronte del ruolo giocato da Confindustria nel definire gli assetti politico-economici della Repubblica succeduta al regime fascista, si abbiano solo indizi, riflessi, echi della reale attività svolta dalla maggiore associazione imprenditoriale italiana, «quasi si trattasse di un attore secondario dello scontro»2.

I documenti che riguardano questo ruolo risultano infatti rari o carenti e la stessa associazione «non è stata molto generosa nel concedere agli storici l’accesso alla propria documentazione d’archivio e, peraltro, anche i grandi gruppi industriali non hanno largheggiato in questo senso. Il mondo imprenditoriale ha preferito agire verso le istituzioni in modo assai discreto, nell’ombra di incontri riservati, di finanziamenti occulti, di diplomazie felpate e tutto questo ha prodotto una certa ritrosia ad aprire il libro dei ricordi»3.

D’altra parte, questa scarsità di documentazione sull’operato “reale” di Confindustria costituisce soltanto uno dei tanti aspetti dell’occultamento e della rimozione di gran parte della storia repubblicana, verrebbe da dire, “profonda”. Al cui centro appunto rimane il tema della continuità con il fascismo o, perlomeno, con l’autoritarismo di cui fu portatore nel segno della modernità capitalistica.

Anche se numerosi sono ormai i saggi sulla continuità di funzionari di ruolo significativo tra il regime e la repubblica4, altrettanto non si può dire a proposito della più generale continuità insita in tutte, o quasi, le istituzioni dello Stato e le sue funzioni5, nonostante lo sviluppo, nell’ambito della ricerca, della cosiddetta storiografia della continuità, cui si richiama lo stesso Catania, ispirata dalle ricerche di Claudio Pavone e S,J. Woolf6.

Il lavoro di Elio Catania, pur inserendosi in tale contesto di ricerca, è il frutto, a detta dello stesso autore: «di oltre dieci anni di ricerche e studio sul tema della strategia della tensione e di quel fenomeno particolare che abbiamo definito pacto del olvido7 nella storia dell’Italia repubblicana».

Il punto di vista intorno a cui si è articolata la ricerca segue due piani:

quello dell’azione pubblica di Confindustria, le pressioni, i legami politici, il lobbysmo e la difesa dei propri interessi, di cui molti autori hanno già ricostruito con cure le vicende particolari; quello della “guerra coperta”, non dichiarata e inconfessabile, che vide l’intero schieramento industriale impegnato per almeno il primo trentennio di vita repubblicana contro il “nemico interno” e i progetti politici che dal loro punto di vista minacciavano gli interessi della produzione […]; in secondo luogo, si è deciso di seguire come un “filo rosso” la formazione del blocco civico-militare che , dopo aver vissuto il momento embrionale negli anni Cinquanta e il preambolo nei Sessanta a cavallo tra dimensione nazionale e internazionale della Guerra fredda, manifesta appieno i suoi propositi nel “quinquennio nero” 1969-74. La strategia della tensione, assunto il suo carattere pienamente di Stato, rimane per noi uno dei principali nodi irrisolti della storia recente nazionale e Confindustria – che usufruì delle modalità della transizione senza rottura del dopoguerra – fu parte integrante di quel blocco civico-militare che, pure nelle sue diverse correnti e ramificazioni, accettò l’alleanza con l’estrema destra e legittimò tutto quanto fosse necessario fare per realizzare il principio destabilizzare per stabilizzare8.

Certo, secondo l’autore, l’azione di Confindustria non può essere considerata omogenea e uniforme, lineare e priva di contrasti al suo interno, poiché:

il punto di vista interno fu sempre diversificato e ciò comportò scontri anche aspri tra le sue correnti – che però si seppero ricompattare al momento opportuno, di fronte alla percepita “minaccia marxista” o in occasione di cicli particolarmente duri e intensi di conflitto sociale. In tal senso, Confindustria, assieme alla coalizione sociale politica di riferimento, riuscì a determinare alcuni caratteri peculiari della modernizzazione in Italia, tra cui il mantenimento per lungo tempo nella condizione di subalternità dei ceti non proprietari, lavoratori, a medio e basso reddito, esclusi dai circuiti di riproduzione sociale e nell’accesso alle risorse9.

L’ordalia capitalistica nei confronti del lavoro vivo ebbe così modo di manifestare la sua potenza non solo attraverso il normale uso degli apparati dello Stato, già preposti al mantenimento all’ordine di classe precostituito, ma anche per il tramite di strumenti eccezionali maneggiati dal terrorismo di stampo fascista e dai servizi… tutt’altro che “deviati”, come invece vorrebbe la vulgata democratica.
A dimostrazione che qualsiasi discorso sulla violenza dovrebbe sempre e immancabilmente distinguere l’uso di classe che di questa può essere fatto dai differenti contendenti. Rifiutando di accogliere in unico abbraccio “nazionalista” tutte le vittime della stessa, come se si trattasse di semplici nomi e date da porre su una linea infinita di “pietre d’inciampo”.

Tale discorso è talmente vero che l’autore apre il suo lavoro iniziando proprio dagli effetti della pandemia da Covid-19 e dalle misure di salvaguardia della produzione e dell’economia, più che della salute, prese. all’inizio del 2020, in quell’area lombarda che proprio negli anni Settanta aveva visto la strategia fascista, appoggiata dal grande capitale, effettuare i due attentati che di fatto delimitarono con chiarezza d’intenti il quinquennio 1969-74: Piazza Fontana e Piazza della Loggia.

Nel citare alcuni drammatici dati riportati da Francesca Nava nel suo bel libro sull’inizio della pandemia a partire dalla Val Seriana10, Catania sottolinea come si sia ormai diffuso a livello di discorso pubblico l’uso sulla storia dell’industria e della finanza italiana «che vuole il capitale privato al centro del progresso e dell’avanzamento storico della società». Mentre, in realtà:

Ci sembra di poter dire che il maggiore attivismo politico della Confindustria e degli operatori privati, che un costo così elevato ha causato in questi nostri tempi recenti di pandemia, non sia fenomeno del solo presente ma abbia radici profonde; soprattutto, che la valutazione positiva di cui è oggetto derivi anche da una rimozione: quella del ruolo svolto, nel determinare indirizzi e forme del modello di sviluppo nazionale, in particolare dalla Confederazione generali dell’industria italiana – CGII, dalla sua fondazione fino alla seconda metà degli anni Settanta, quando i mutati equilibri politici nazionali e internazionali conclusero con un compromesso de facto i lunghi cicli di conflitto sociale al centro dei processi di modernizzazione del Paese. Sebbene infatti il profilo dell’attuale Confederazione industriale sia profondamente diverso da quello della Confindustria storica – basti considerare la fuoriuscita della FIAT nel 2012 e la scomparsa dei principali gruppi che la costituivano -, è possibile rintracciarne la continuità grazie all’indagine storiografica11.

Perciò, nonostante la celebrazione ufficiale del 25 aprile veda sempre tra i protagonisti e i commentatori principali i rappresentanti della stessa e il suo organo di informazione più autorevole, “Il Sole 24 Ore”, i fatti storici dimostrano che il vero nerbo della reazione italiana a qualsiasi tipo di cambiamento sociale, politico ed economico si sia sempre celata proprio nell’anima “dura” dell’associazione degli imprenditori industriali.

Come dimostrano anche i tanti documenti raccolti nell’archivio digitalizzato della Procura di Brescia in occasione del processo per la strage di Piazza della Loggia, che, in particolare, include gran parte del giudice Guido Salvini su Piazza Fontana. Al cui interno sono custodite anche le perizie realizzate in oltre vent’anni di lavoro dallo storico Aldo Giannulli, di cui l’autore è stato ausiliario, nominato perito dal PM Francesco Piantoni, in occasione della prima fase dell’ultima istruttoria bresciana.

Mentre è spesso fin troppo facile sentir parlare di mandanti anonimi, servizi deviati e fascisti latitanti o morti da anni, è sempre difficile veder venire a galla le responsabilità di un’associazione che è ritenuta, a destra come a sinistra, un’istituzione intoccabile e che, al massimo, viene nominata meno positivamente soltanto in occasione del rinnovo dei contratti di categoria. Elio Catania invece, con coraggio e autorevolezza, sbatte in faccia a tutti una realtà e una storia spesso negate e rimosse, prendendo di punta la grande menzogna su cui si basa anche l’altra: quella della repubblica nata anti-fascista e democratica.

Forse, una ricerca storica come la sua andrebbe accompagnata da un’altra, ancora tutta da svolgere nell’ambito della storiografia della continuità: quella riguardante la mancata approvazione dell’articolo della Carta Costituzionale, che alcuni padri fondatori della Repubblica avrebbero voluto come 3°, destinato a giustificare la reazione del popolo al mancato rispetto del patto costituzionale e di governo. Allora impedito dalla tacita intesa tra DC degasperiana e PCI togliattiano12.

Da quella rimozione del diritto alla resistenza contro un governo autoritario derivano ancora infatti sia la rimozione storica, mediatica e politica di ogni nefandezza attribuibile al grande capitale e, dall’altra, la sin troppo facile criminalizzazione di chiunque, e in qualunque modo, si opponga all’attuale regime. Sia che si tratti dei definire “terroristi” i militanti No Tav valsusini, come ha fatto recentemente l’attuale direttore di “Repubblica” Maurizio Molinari, che di stabilire lockdown a pioggia senza mai chiudere davvero i luoghi di lavoro, come è avvenuto nella recente pandemia, oppure ancora di scaricare sui singoli individui le responsabilità del diffondersi di una sindemia che affonda le sue radici nello stesso modo di produzione che si vuole difendere ad ogni costo.

Così da dimostrare che, in un paese in cui lo stragismo di Stato ha costituito per anni la cifra politica dell’azione antiproletaria, la continuità con l’autoritarismo fascista non è mai stata spezzata, mentre è stata al contrario rafforzata da tutti i provvedimenti che continuano a negare la legittimità della lotta di classe e della difesa dal basso degli interessi collettivi.

(Il testo di Elio Catania sarà presentato a Milano, in occasione di BookCity, venerdì 19 novembre alle ore 17,30. Interverranno l’autore, Aldo Giannulli e Elia Rosati)


  1. Soltanto per fare un esempio, tra i tanti possibili, si veda qui  

  2. A. Giannulli, Prefazione a E. Catania, Confindustria nella repubblica (1946-1975). Storia politica degli industriali italiani dal dopoguerra alla strategia della tensione, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2021, p.12  

  3. Ivi 

  4. Si veda, a solo titolo d’esempio: Davide Conti, Gli uomini di Mussolini. Prefetti, questori e criminali di guerra dal fascismo alla repubblica italiana, Einaudi editore, Torino 2017 e 2018  

  5. Si consideri, ad esempio, la mai del tutto avvenuta scomparsa del codice penale Rocco (1930) che resta invece ancora una delle fonti del diritto penale vigente  

  6. C. Pavone, Alle origini della Repubblica. Scritti su fascismo, antifascismo e continuità dello Stato, Bollati Boringhieri, Torino 1995 e J. S. Woolf, Risorgimento e fascismo: il senso della continuità nella storiografia italiana, in “Belfagor”, vol. 20, n. 1 (31 gennaio 1965), pp. 71-91  

  7. Il Pacto del Olvido (patto dell’oblio in spagnolo) è la decisione politica dei partiti di sinistra e di destra della Spagna di evitare di affrontare direttamente l’eredità del franchismo dopo la morte di Francisco Franco nel 1975  

  8. E. Catania, Introduzione in E.Catania, op.cit., pp. 18-19  

  9. Ibidem, p. 20  

  10. Francesca Nava, Il focolaio. Da Bergamo al contagio nazionale, Editori Laterza, Bari – Roma 2020, recensito qui su Carmilla  

  11. E. Catania, op. cit., p.16  

  12. In particolare, fu il partigiano Giuseppe Dossetti, non ancora sacerdote, padre Costituente e componente della Commissione dei 75, a lottare perché fosse uno degli
    articoli della nostra Costituzione. Doveva essere l’art. 3 e così: La resistenza, individuale e collettiva agli atti dei pubblici poteri, che violino le libertà fondamentali e i diritti garantiti dalla presente Costituzione, è diritto e dovere di ogni cittadino.
    Si ispirava all’articolo 21 della Costituzione francese del 19 aprile 1946: Qualora il Governo violi le libertà e i diritti garantiti dalla Costituzione, la resistenza sotto ogni forma è il più sacro dei diritti e il più imperioso dei doveri.
    In Sottocommissione fu approvato con 10 voti a favore, 2 astenuti e 1 contrario, tuttavia non riuscì a superare l’esame dell’Assemblea Costituente  

]]>
Il “grande complotto” nella tradizione politica americana (e altrove) https://www.carmillaonline.com/2021/06/28/il-grande-complotto-nella-tradizione-politica-americana-e-altrove/ Mon, 28 Jun 2021 21:00:21 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=66868 di Sandro Moiso

Richard Hofstadter, Lo stile paranoide nella politica americana, Adelphi, Milano 2021, pp. 91, euro 5,00

Richard Hofstadter (1916-1974) è stato docente di Storia americana presso la Columbia University di New York e ha vinto due volte il premio Pulitzer, nel 1956 e nel 1964. Dal 1934 al 1939 fu attivo in movimenti di sinistra, e tra il 1938 e il 1939 fu iscritto al Partito Comunista degli Stati Uniti d’America da cui in seguito si allontanò, entrando poi in contatto con sociologi di idee radicali come Charles Wright Mills. La [...]]]> di Sandro Moiso

Richard Hofstadter, Lo stile paranoide nella politica americana, Adelphi, Milano 2021, pp. 91, euro 5,00

Richard Hofstadter (1916-1974) è stato docente di Storia americana presso la Columbia University di New York e ha vinto due volte il premio Pulitzer, nel 1956 e nel 1964. Dal 1934 al 1939 fu attivo in movimenti di sinistra, e tra il 1938 e il 1939 fu iscritto al Partito Comunista degli Stati Uniti d’America da cui in seguito si allontanò, entrando poi in contatto con sociologi di idee radicali come Charles Wright Mills. La sua attenzione è stata principalmente rivolta all’esplorazione del pensiero politico americano fin dai tempi in cui i primi tredici stati americani erano ancora soltanto una colonia dell’impero britannico.

Proprio per questa sua approfondita conoscenza di tale pensiero nelle sue diverse articolazioni, vale la pena oggi di leggere il testo proposto per la prima volta in Italia da Adelphi, nella collana Microgrammi. Il fatto che la prima edizione americana del testo risalga al 1952 (per poi essere aggiornato nel 1954, 1964 e 1965) non toglie nulla alla sua attualità ed utilità.
Involontario e indiretto plaidoyer per Trump e il suo elettorato, il testo riporta il dibattito sul complottismo, e le sue teorie espresse spesso dalla destra americana, togliendolo dalle mani di chi vorrebbe farne una caratteristica tipica degli ultimi anni o decenni e, in particolare, dell’epoca della presidenza di The Donald.

In realtà, si capisce subito, scorrendo l’agile saggio, il complottismo ha costituito una costante del dibattito politico pubblico americano, fin dagli anni successivi alla indipendenza degli Stati Uniti. Un cancro, se così vogliamo definirlo, dalle origini antiche e profonde, tipico di una nazione che del suo stile di vita ha voluto fare un modello unico sia in patria che fuori nel corso della sua crescita prima e della sua espansione imperialista poi.

Dai timori della fine del XVIII secolo per i complotti degli Illuminati di Baviera per rovesciare l’ordinamento politico e religioso del mondo fin dalla Rivoluzione francese a quelli per il complotto cattolico destinato, secondo coloro che lo denunciavano nella prima metà dell’Ottocento, a rovesciare l’impostazione progressista e repubblicana del governo statunitense e a sfruttare l’”ignoranza” dei nuovi immigrati per finalità simili alle precedenti (ma con un evidente afflato razzista e identitario), i movimenti di denuncia di complotti possibili o del tutto privi di fondamento hanno caratterizzato una concezione politica che ha fatto propria, fin dalle origini, l’idea dell’insuperabilità del modello americano di rapporti sociali.

In questi movimenti furono attivi personaggi dai nomi celebri ancora oggi, anche se per altri motivi, come ad esempio l’inventore del telegrafo S.F. B. Morse, impegnato nella lotta contro il “complotto cattolico” nella prima metà dell’Ottocento così come suo padre, Jedidiah Morse, lo era stato contro quello degli Illuminati di Baviera. Oppure Lyman Beecher, padre di Harriet Beecher Stowe, autrice di La capanna dello zio Tom, che aveva furiosamente inveito contro la corruzione dei costumi portata negli Stati Uniti ancora dal complotto cattolico, affermando a proposito della battaglia da condurre nell’Ovest del paese, nel suo A Plea for the West (1835), che:

Lì il protestantesimo è impegnato in una lotta per la vita contro il cattolicesimo. Il tempo è già agli sgoccioli. «Qualunque cosa faremo, dobbiamo farla in fretta…». Una vasta marea di immigrazione, ostile alle istituzioni libere, stava attraversando il paese, sovvenzionato e incoraggiato dai «potentati d’Europa», moltiplicando tumulti e violenza, riempiendo le carceri, affollando di poveri gli ospizi, quadruplicando la tassazione, inviando un numero sempre maggiore di elettori a «posare le loro mani inesperte sul timone del nostro potere». Possiamo ben credere, sostiene Beecher, che Metternich1 sia al corrente del fatto che verrà un partito negli Stati Uniti che accelererà la naturalizzazione e la concessione del voto a queste moltitudini e ai loro demagoghi, un partito che «venderà il paese condannandolo a imperitura prigionia»2.

E’ evidente come in affermazioni di questo genere si fondessero insieme, fin dagli albori dell’espansionismo statunitense, le motivazioni del predominio WASP (White Anglo-Saxon Protestant) con quelle della “necessaria” conquista del West e l’ostilità nei confronti di un’Europa da cui i coloni e i loro discendenti si erano distaccati attraverso la prima rivoluzione anti-coloniale del mondo moderno.

Come accadde ancora in seguito, ognuna di queste campagne brandì testimonianze dirette di pentiti della parte avversa, sia che si trattasse di Massoni che di rappresentanti del clero cattolico, tese a sottolineare la perversione e le malevolenze insite nei complotti che venivano denunciati e, in questo modo, smascherati.

L’anticattolicesimo è sempre stata la pornografia dei puritani. Se gli antimassoni si erano immaginati ubriacature selvagge e si erano dilettati con fantasie sull’adempimento forzato di disgustosi giuramenti massonici, gli anticattolici svilupparono un’immensa raccolta di storie di preti libertini, di confessionali come luoghi di seduzione, di conventi e monasteri licenziosi e via dicendo. Il libro probabilmente più letto negli Stati Uniti in quel periodo, prima dell’arrivo della Capanna dello zio Tom (1852), è un’opera scritta, a quanto risulta, da tale Maria Monk con il titolo di Awful Disclosures (Terribili rivelazioni), e pubblicata nel 1836. L’autrice, che afferma di essere scappata dal convento dell’Hôtel-Dieu di Montreal dopo aver risieduto lì per cinque anni come novizia prima e monaca dopo, riporta con abbondanza di dettagli la sua vita in convento. Ricorda di essersi sentita dire dalla madre superiora che doveva «obbedire ai preti in tutto e per tutto»; con suo «assoluto sbigottimento e orrore» scopre in breve tempo quale sia la natura di tale obbedienza. Bambini nati da relazioni interne al convento vengono battezzati e quindi uccisi, racconta, per poter salire subito in cielo. Uno dei momenti più forti di Awful Disclosures è la testimonianza di Maria Monk dello strangolamento di due neonati3.

A parte l’indubbio debito nei confronti della precedente letteratura gotica, cui fu debitore lo stesso Manzoni per la sua narrazione delle vicende di Gertrude la monaca di Monza, è evidente come proprio in tale esposizione dei fatti, che pur conteneva parziali elementi di verità come le cronache attuali e le ricostruzioni storiche ancora ci confermano, si disvela la tecnica tipica della narrazione paranoide.

La procedura tipica della migliore pubblicistica paranoide è cominciare da assunti difendibili e da un accorto accumulo di fatti, o per lo meno di ciò che può sembrare un fatto, e poi guidare questi fatti verso una «prova» schiacciante della specifica cospirazione da dimostrare. E’ assolutamente coerente: anzi la mentalità paranoide è molto più coerente del mondo reale, visto che non lascia spazio agli errori, ai fallimenti o alle ambiguità […] Nella tecnica, è squisitamente «accademica». Le novantasei pagine del pamphlet di McCarthy intitolato McCarthysm contengono addirittura trecentotredici note a piè di pagina4.

Un ultimo aspetto dello stile paranoide è collegato a quella pedanteria cui ho già accennato. Uno dei tratti impressionanti della letteratura paranoide, che compare immancabilmente, è proprio la complicata preoccupazione di trovare prove. Non ci si lasci distrarre dalle conclusioni fantasiose, tanto caratteristiche di questo stile politico, al punto da farsi l’idea che i suoi ragionamenti non siano, per così dire, di natura fattuale. Lo stesso carattere incredibilmente fantasioso delle sue conclusioni porta a grandiose ricerche della «prova» che dimostrerebbe che ciò che è incredibile è la sola cosa degna di essere creduta5.

Riassumendo gli elementi basilari dello stile paranoide si può cogliere come l’elemento centrale sia costituito dall’idea che la Storia non sia nient’altro

che una cospirazione vasta e sinistra, un congegno di influenza gigantesco eppure sottile messo in moto per indebolire e distruggere un dato stile di vita. Si potrebbe obiettare che siano in effetti esistiti atti cospiratori nel corso della storia, e non c’è niente di paranoide nel prestarci attenzione. Questo è vero […] A distinguere lo stile paranoide non è il fatto che i suoi esponenti vedano cospirazioni o complotti qua e là nel corso della storia, ma che ritengano che una «vasta» o «gigantesca» cospirazione sia la forza motrice degli eventi storici.
[…] Il nemico non è mai colto alla mercé del vasto meccanismo della storia, vittima anche lui, come tutti, del suo passato, dei suoi desideri, dei suoi limiti. E’ un attore libero, intraprendente, demoniaco. Pone in essere da sé, addirittura costruisce, il meccanismo della storia, oppure devia in maniera malvagia il normale corso della storia […] L’interpretazione della storia che fa il paranoico è in questo senso distintamente personale: gli eventi decisivi non sono considerati parte del flusso della storia, ma conseguenze della volontà di qualcuno6.

Fermiamoci qui e cogliamo come lo stile paranoide si sia ormai affermato anche in quelle narrazioni mediatiche ufficiali che demoliscono le fake news per mezzo di altre, in cui gli individui e le volontà, sovversive, terroristiche, folli o altre, mettono in discussione e in pericolo il modo di produzione e lo stile di vita dominante che, di per sé, potrebbe funzionare perfettamente.
Richard Hofstadter non mancava infatti di sottolineare come tale stile non costituisse, di fatto una peculiarità della psicologia e della politica statunitense.

Ma il fenomeno non è limitato all’esperienza americana, così come non lo è all’epoca contemporanea […] Basti pensare alla reazione europea all’assassinio del presidente Kennedy per ricordarci che gli americani non detengono il monopolio del dono per l’improvvisazione paranoide. Anzi, si può affermare che in tutta la storia moderna il maggior trionfo dello stile paranoide non sia occorso negli Stati Uniti, ma in Germania. E’ un ingrediente tipico del fascismo, e dei nazionalismi frustrati, sebbene attiri tanti non fascisti e lo si ritrovi spesso anche nella stampa di sinistra. I famosi processi di Stalin, le purghe, hanno rappresentato, in una forma all’apparenza giuridica, un esercizio devastante di stile paranoide e uno scatenato lavoro di fantasia7.

Naturalmente la disamina di Hofstadter non si limita soltanto ai fenomeni paranoidi del XVIII e XIX secolo americano, ma si spinge fino al Maccartismo, alla John Birch Society (già presa in giro da Bob Dylan in una sua nota canzone) e ai loro timori per il diffondersi del comunismo e dei suoi agenti corrotti (anche ai massimi gradi del governo), tutti tesi a minare i valori e le libertà americane sul territorio stesso degli Stati Uniti. Così come il timore del diffondersi di una tassazione progressiva come limitazione delle libertà individuali e del diritto di arricchirsi, come Frank Chodoroy affermava nel 1954, nel suo The Income Tax: Root of All Evil (La tassazione sul reddito origine di ogni male), a proposito della ratifica nel 1913 dell’emendamento costituzionale sulla tassa sul reddito. Osservando ancora che, se si passa ad osservare la destra contemporanea, il fatto più significativo è che:

troviamo alcune differenze piuttosto importanti rispetto ai movimenti dell’Ottocento. I rappresentanti di quei primi movimenti sentivano di difendere cause e tipi umani ancora in pieno possesso del paese: stavano respingendo le minacce a uno stile di vita ancora predominante, nel quale ritenevano di giocare un ruolo di rilievo. La destra moderna, invece, come ha scritto Daniel Bell8, si sente espropriata: l’America le è stata largamente sottratta, ma è determinata a riprendersela e a impedire il conclusivo ed esiziale atto eversivo […] I loro predecessori scoprirono cospirazioni straniere; secondo la destra radicale moderna, nella cospirazione oggi sono coinvolti anche molti americani […] Il teatro d’azione oggi è il mondo intero, e si può fare ricorso non solo agli eventi della seconda guerra mondiale, ma anche a quelli della Guerra di Corea e della Guerra Fredda. Qualunque studioso di storia militare sa che la sua disciplina è in buona parte una comedy of errors e un museo dell’incompetenza; ma se a ogni errore e a ogni atto di incompetenza sostituiamo un atto di tradimento, riusciremo a vedere quanti punti di affascinante interpretazione si aprono all’immaginazione paranoide: il tradimento dei luoghi di potere lo si trova ad ogni svolta della storia – e alla fine il vero mistero, per chi legga le opere principali del sapere paranoide, non è come gli Stati Uniti siano finiti nella pericolosa posizione attuale, ma proprio come siano riusciti a sopravvivere9.

Aggiungiamoci le guerre in Vietnam, Iraq e Afghanistan, insieme alle Torri Gemelle e al motto Make America Great Again oppure, d’altro lato, le accuse a Trump di aver permesso l’ingerenza di Putin nelle elezioni presidenziali americane, e vedremo come sia stato possibile delineare con sessant’anni di anticipo il quadro odierno, fino all’assalto a Capitol Hill. Ma, al termine del più che utile e attuale libello, Hofstadter spinge lo sguardo ancora più indietro, fino a quel Medioevo in cui i movimenti ereticali e la loro persecuzione suggeriscono l’idea che

i movimenti che adoperano lo stile paranoide non siano costanti, ma si presentino in ondate episodiche consecutive, suggeriscono che la disposizione paranoide venga mobilitata prevalentemente da conflitti sociali che chiamano in causa i sistemi di valori assoluti e che portano nell’azione politica paure e odi fondamentali […] la paura della catastrofe è l’elemento che verosimilmente può scatenare la sindrome della retorica paranoide10.

Nei suoi studi sulle sette millenaristiche europee tra l’XI e il XVI secolo per il suo bellissimo libro The Pursuit of the Millennium11, Norman Cohn individua la costante di un complesso psicologico che assomiglia molto a quello che ho esaminato in queste pagine, uno stile fatto di alcune preoccupazioni e fantasie molto definite: «la visione megalomaniaca di se stessi come Eletti, interamente buoni, vittime di persecuzioni abominevoli ma sicuri del trionfo finale; l’attribuzione di poteri giganteschi e demoniaci all’avversario; il rifiuto di accettare i limiti e le imperfezioni ineluttabili dell’esistenza umana, come la transitorietà, il disaccordo, il conflitto, la fallibilità intellettuale e morale; l’ossessione per profezie infallibili…gli errori sistematici di interpretazione, sempre marchiani e spesso grotteschi…la spietatezza indirizzata ad uno scopo che per sua stessa natura non si può realizzare, indirizzata a una soluzione definitiva e assoluta che non potrà mai avere luogo in nessun momento concreto e in nessuna situazione concreta, ma solo nel regno eterno e autistico della fantasia»12.

Ecco allora che l’attualità del saggio di Hofstadter, che supera i limiti di tempo delle ricerche più recenti sul fenomeno complottistico americano, ci obbliga anche a confrontarci con il problema delle origini dell’atteggiamento paranoide all’interno delle religioni rivelate13, oltre che con quello della diffusione dello stesso nell’ambito di un’ideologia che, nel volersi radicale ad ogni costo, finisce con l’abbandonare l’analisi concreta del mondo e dell’immaginario, per rifugiarsi invece in facili teorie cospirazioniste e altrettanto facili slogan, destinati soltanto ad avvicinarla a quel pericoloso confine lungo il quale la distinzione tra ‘destra’ e ‘sinistra’ diventa fin troppo esile.

Chi scrive si spinge così a sperare che qualche editore italiano, magari la stessa Adelphi, voglia riproporre in futuro le opere dello storico americano da tempo mancanti sul mercato librario, sicuramente datate dal punto di vista cronologico ma non da quello dei contenuti, oppure quel Social Darwinism in American Thought 1860-1915 che costituì la sua prima ricerca e che non è ancora mai stata tradotta in Italia.


  1. Klemens Wenzel Nepomuk Lothar von Metternich-Winneburg-Beilstein ( 1773 – 1859), è stato un diplomatico e politico austriaco, dal 1821 al 1848 cancelliere di Stato e il simbolo stesso della reazione e autentico perno della Restaurazione per convinzione fermissima  

  2. Richard Hofstadter, Lo stile paranoide nella politica americana, Adelphi, Milano 2021, pp. 41-42  

  3. R. Hofstadter, op. cit., pp. 43-44  

  4. Op. cit., pp. 67-68  

  5. Ivi, p. 66  

  6. Ivi, pp. 55-59  

  7. Ivi, p. 17  

  8. In The Dispossessed, in Radical Right a cura dello stesso Bell, pp.1-38,1963  

  9. R. Hofstadter, op.cit., pp. 46-48  

  10. Ivi, op.cit., pp. 72-73  

  11. In Italia tradotto come I fanatici dell’Apocalisse, Edizioni di Comunità, Milano 1965  

  12. R. Hofstadter, pp. 71-72  

  13. Oltre che del saggio di Norman Cohn già citato, sull’argomento si suggerisce qui la consultazione di Jan Assmann, La distinzione mosaica (ovvero il prezzo del monoteismo), Adelphi, Milano 2011 e, sempre dello stesso Jan Assmann, Non avrai altro dio. Il monoteismo e il linguaggio della violenza, il Mulino, Bologna 2007  

]]>