Deleuze – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Fri, 01 Aug 2025 20:00:30 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Al ladro! Anarchismo e filosofia di Catherine Malabou https://www.carmillaonline.com/2024/04/08/81947/ Mon, 08 Apr 2024 18:30:56 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81947 Elèuthera, Milano 2024, 374 pagine, 23 euro

di Marc Tibaldi

Non è un libro per gli anarchici, è per tutti, proprio perché segnala spie d’allarme, nodi da sciogliere, connessioni necessarie, che possono servire a ogni individuo o gruppo sociale che voglia agire in maniera efficace nella realtà. Qual è il nocciolo duro dell’anarchismo politico? L’anarchismo condivide con altri pensieri politici concetti, tensioni, pratiche: solidarietà, mutuo appoggio, autogestione, federalismo, non sono patrimonio esclusivo del movimento che fa riferimento a pensatori quali Proudhon, Bakunin, Kropotkin, Malatesta, Goldman, eccetera. Quello che invece è peculiarità del solo anarchismo è la messa in discussione, la [...]]]> Elèuthera, Milano 2024, 374 pagine, 23 euro

di Marc Tibaldi

Non è un libro per gli anarchici, è per tutti, proprio perché segnala spie d’allarme, nodi da sciogliere, connessioni necessarie, che possono servire a ogni individuo o gruppo sociale che voglia agire in maniera efficace nella realtà. Qual è il nocciolo duro dell’anarchismo politico? L’anarchismo condivide con altri pensieri politici concetti, tensioni, pratiche: solidarietà, mutuo appoggio, autogestione, federalismo, non sono patrimonio esclusivo del movimento che fa riferimento a pensatori quali Proudhon, Bakunin, Kropotkin, Malatesta, Goldman, eccetera. Quello che invece è peculiarità del solo anarchismo è la messa in discussione, la negazione, di ogni autorità, potere, dominio (su differenze e analogie tra questi concetti è ancora dirimente il saggio di Amedeo Bertolo, pubblicato nel 1983 e disponibile in “Anarchici e orgogliosi di esserlo”, Elèuthera: “Il dominio è possesso privilegiato del potere. I detentori del dominio si riservano il controllo del processo di produzione di socialità, espropriandone gli altri”). Ora, si può deridere questa idea come sogno utopico, chi invece vuole ragionare in maniera non banale, senza ripetere gli errori del passato, è obbligato a prenderla in considerazione.

Come fa questo libro che inizia con una definizione precisa dei termini “anarchia” e “anarchismo” e della loro storia, e una panoramica delle questioni politiche contemporanee che rendono necessario un ripensamento di questi termini e del loro potenziale emancipatorio. Malabou presenta la riflessione di alcuni filosofi proprio sulla questione del potere. “La mia analisi del dominio si concentra su sei pensatori cruciali per la filosofia contemporanea che hanno posto l’anarchia al centro della loro riflessione smarcandosi però dal suo esito, l’anarchismo politico. Ed è questo che accomuna l’anarchismo ontologico di Schürmann, la responsabilità anarchica di Lévinas, la decostruzione di Derrida, l’anarcheologia di Foucault, il potere destituente di Agamben e l’uguaglianza radicale di Rancière: l’aver attribuito all’anarchia filosofica un valore determinante, senza tuttavia giungere a destituire una volta per tutte il principio archico”, scrive l’autrice.

Malabou si chiede perché alcuni dei filosofi radicali del Novecento abbiano sviluppato concezioni forti di anarchia stando ben attenti a non dichiararsi anarchici, “rubando” – da qui il titolo – suggestioni e stimoli, spesso senza dichiararlo esplicitamente, al movimento ribelle nato tra la rivoluzione francese e i movimenti socialisti e di classe dell’Ottocento. Sembra quasi che l’anarchismo sia qualcosa di inconfessabile, qualcosa da occultare anche quando gli si ruba l’essenziale: la critica del dominio e della logica di governo. Questa dissociazione viene analizzata assieme alla rimozione di quello che è il nocciolo duro dell’anarchismo: la praticabilità politica dell’assenza di governo. Sebbene questi filosofi abbiano tutti concorso a smantellare il principio archico (il principio del dominio), nondimeno hanno costruito il loro discorso, nascondendo lo scippo da cui deriva e rifiutandone gli esiti.

Destituzione del paradigma archico, sì, decostruzione del dominio, sì, ma effettiva possibilità che gli uomini possano vivere senza essere governati né governare, no. Ma è appunto qui che il paradigma archico si riattiva, in questa incapacità di abbandonare l’ambito del governabile e di accedere invece allo spazio del non-governabile, ovvero del radicalmente altro, del radicalmente estraneo al rapporto comando/obbedienza.

Come ha tentato di fare l’anarchismo storico. Sostenere che l’anarchismo possa continuare a essere un movimento in continua trasformazione, che sappia trasformarsi e includere nuovi e vivaci contributi è probabilmente una – seppur ammirabile – scontata dichiarazione di volontà. Anche André Breton, che qualche stimolo all’anarchismo classico lo aveva offerto, sosteneva che il “suo” surrealismo sarebbe stato capace di inglobare in sé ogni movimento più emancipatore, ma poi non seppe vedere, anzi contrastò, la novità del situazionismo. Insomma, facile a dirsi, meno a farsi.

Il surrealismo è morto come movimento. Come sono morti tutti i movimenti, anche per l’anarchismo sarà così, infatti solo una convinzione religiosa (o identitaria, come direbbe Laplantine) potrebbe pensare il contrario. E anarchia e religione non sono mai andati molto d’accordo, si sa. L’importante è quello che lasciano in eredità per le lotte, quello che germoglierà dalle loro provocazioni a pensare e ad agire.

Si può notare in questo volume l’assenza di altri filosofi o pensatori che hanno sviluppato parte delle proprie teorie da intuizioni anarchiche. Ricordiamo almeno Paul K. Feyerabend, che in Contro il metodo coniò il concetto di anarchismo epistemologico (“giocare la partita della Ragione allo scopo di minare l’autorità della Ragione”, senza alcun metodo precostituito), o Elias Canetti, che in Massa e potere sviluppa una critica incessante al concetto di comando (“chi vuole riuscire ad aggredire il potere deve guardare negli occhi senza timore il comando e trovare i mezzi per sottrargli la sua spina”). Si potrebbe andare avanti fino ad arrivare almeno a Dominio e sottomissione di Remo Bodei, singolare panoramica a partire dalla tradizione antica della schiavitù, che arriva al preoccupante uso dell’intelligenza artificiale. E – a proposito di “non detti” – come dimenticare altri classici del Novecento che si sostanziano di intuizioni anarchiche, dalla nozione di totalitarismo di Hannah Arendt, alla messa in discussione del principio identitario di Judith Butler e Francois Laplantine, all’immanenza an-archica del Mille piani di Deleuze e Guattari. Contributi a cui i movimenti libertari e antagonisti non possono rinunciare. Invece, nel saggio della filosofa allieva di Derrida, la mancanza di riferimenti al pensiero di Noam Chomsky è certo conseguenza della sua impostazione decostruttivista, ma rivela anche una difficoltà di confronto fra pensieri contemporanei.

Ma torniamo al testo di Malbou. Definendo il “paradigma archico”, il libro cerca di contribuire a un anarchismo che presupponga una rinnovata interrogazione del suo significato originario – l’assenza di governo – alla luce di letture dei filosofi che analizza. Il caos non è necessariamente dove ci si aspetta che sia. Il buon senso statale e il perbenismo vorrebbero che l’anarchia fosse sinonimo di disordine e l’anarchismo un’ideologia che nel peggiore dei casi è sinonimo di terrorismo e nel migliore di un dolce sogno a occhi aperti. Seguendo l’esempio dei pensatori anarchici, Malabou sostiene invece che il caos è inscritto nel potere statale. Lo abbiamo visto negli ultimi anni con la gestione della crisi sanitaria legata alla pandemia e con lo stato di degrado del sistema sanitario pubblico. Questo collasso è in gran parte il risultato dello smantellamento dello stato sociale sulla scia del neoliberismo, che ora è diventato ultraliberismo, ma anche del fatto che le organizzazioni gerarchiche esautorano la base della società, rendendola così permanentemente fragile.

Malabou si interroga anche su una coesistenza, fonte di confusione, tra quello che chiama anarchismo di fatto, che mira a eliminare lo Stato in una prospettiva individualista e privatistica, sinonimo di deregolamentazione estrema (uberizzazione) e capitalismo libertario, e quello che definisce anarchismo di coscienza, che percepisce attraverso esperimenti di auto-organizzazione come gli Zad (zone da difendere) o il movimento dei Gilet Gialli. Qui la nozione di classe, pur da ripensare e ridefinire, viste le mutazioni sociali ed economiche, è necessaria per chiarire ogni possibilità di confusione tra l’anarcocapitalismo e le tendenze libertarie dei movimenti di protesta degli ultimi anni. “L’ibrida combinazione di violenza governativa e illimitata uberizzazione della vita” appare sempre più egemonica. E, ovunque, le strutture di dominio, plurali e multiformi, sembrano irrigidirsi ancora di più.

“Paradigma archico” è dunque il nome di una “struttura che, agli albori della tradizione di pensiero occidentale, lega insieme sovranità statale e governo”. Non può esistere uno Stato senza governo, né un sovrano che si sottragga alla logica principale del governo: quella del comando e dell’obbedienza. È la logica di un certo modo di agire e di intendere l’azione, una logica egemonica che affonda le sue radici nel pensiero greco, in particolare aristotelico. All’origine della filosofia politica, come della stessa storia dello Stato, il comando riesce a fondare la sua logica solo se viene preso per un inizio: per l’origine vera e affermata, la prima, che a sua volta permette di giustificare la sua eminenza gerarchica. Come se ci fossero sempre stati ordini ed esecutori obbedienti. È stato Aristotele”, ci ricorda Malabou, attingendo alle analisi di Schürmann, che “fondando in un’unità indissolubile i due significati di inizio e di comando”, il concetto di archè, parola greca che significa “principio”, ha avviato il pensiero in tutte le sue dimensioni – logiche, ontologiche e politiche – sulla strada da cui non riusciamo ancora a districarci. Malabou: “l’anarchia perseguita l’archè non appena emerge, come la sua mancanza di necessità”. L’anarchia è l’assenza di principio, l’impossibile unione di principio e comando. L’ordine pratico, politico, statale è solo contingente: il paradigma archico è contingente, soggetto a un inizio storico che non può essere giustificato. Ha potuto aver inizio solo dominando e solo allora è stato in grado, con il pretesto di governare, di trasformare gli esseri non governabili in soggetti governabili.

Il non-governabile è diverso dal governo. Non è la sua inversione, il suo riflesso negativo. Non può essere amministrato, controllato o governato. L’anarchia, l’ingovernabile, assume spesso il volto della vita, ad esempio della vita animale: non si governa un animale, lo si domina. Allo stesso modo, il filosofo cinico, dice Malabou, attingendo alla potente interpretazione dell’ultima opera di Foucault, “è quell’uomo che non è disobbediente: ha ‘qualcosa in lui [che] è assolutamente estraneo all’ordine gerarchico’. E quel ‘qualcosa’ è la vita. Niente di meno della vita”.

Dovremmo dire che l’anarchia, e quindi l’ingovernabile, è la vita? Non esattamente: è ciò che, nella vita, testimonia un’alterità originale e irriducibile al paradigma archico. L’errore dell’anarchismo storico è quindi quello di aver fatto dell’anarchia un principio. Se l’anarchia non è un principio, è un punto di esteriorità, di alterità: il supporto da cui è concepibile un fuori, che sfugge alla circolarità infinita del governabile e dell’ingovernabile. È la Terra, o la vita, alla luce delle attuali questioni ecologiche: non possiamo governare la Terra, né la vita animale, né la vita vegetale. In questo senso, Malabou sostiene che “l’anarchismo deve costantemente testimoniare la sua realtà. Deve accettare che la sua dimensione incredibile – per la coscienza comune come per la coscienza filosofica – non potrà mai essere dissipata dal fatto, dall’attualità degli avvenimenti”. Un’idea inesauribile.

La società anarchica, che deve costantemente reinventarsi per sfuggire alla sclerosi, sembra impensabile, irrappresentabile. Ma, soprattutto, rimane l’oggetto di una preoccupazione viscerale, “l’identità dell’anarchismo e l’esperienza traumatica”, riassume Malabou. Rinunciare al governo significa accettare senza garanzie la “plasticità dell’essere anarchico” e l’imprevedibilità della vita, che duemila anni di pensiero politico hanno ribadito come necessaria per arginare la marea di impulsi morbosi e distruttivi. Nessun filosofo ha preso sul serio la possibilità che la vita senza governo possa svolgersi non come auto-annullamento ma come spontaneo “mutuo soccorso”, per citare Kropotkin. Ci vuole coraggio per fare il passo in più che Malabou ci invita a fare: il passo verso una società fondata sul “rifiuto di qualsiasi ordine” – che, forse, sta già bussando alla porta.

Dopo la lettura del libro, per iniziare un dibattito, si potrebbe rilanciare con un aspetto che
Malabou volutamente non prende in considerazione: la prassi, l’azione. L’anarchismo
infatti non è solo analisi e riflessione sui sistemi di dominanza, ma ribellione ad essi. Anzi
è proprio il confronto tra pensiero e azione che può dare nuovi frutti concettuali e nuove
pratiche di lotta.

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Tutto è permesso, tranne perdersi https://www.carmillaonline.com/2023/03/17/tutto-e-permesso-tranne-perdersi/ Fri, 17 Mar 2023 21:00:04 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76332 di Gianfranco Marelli

Marco Rovelli, Soffro dunque siamo. Il disagio psichiatrico nella società degli individui, Castelvecchi 2023, pp. 261.

Parto dalla fine. Dopo aver letto l’ultimo libro di Marco Rovelli, un viaggio-inchiesta che l’autore, musicista-filosofo, ha compiuto in questi tre anni di pandemia, trascrivendo il disagio, l’ansia, la paura delle persone e di coloro che – dagli infermieri ai medici, dagli psicologi agli psicoanalisti e finanche agli psichiatri – hanno provato a comprendere il perché di tali sofferenze, mi è tornato in mente lo spettacolo che Giorgio Gaber tenne al lirico di Milano nel 1974 e al quale, come tanti, [...]]]> di Gianfranco Marelli

Marco Rovelli, Soffro dunque siamo. Il disagio psichiatrico nella società degli individui, Castelvecchi 2023, pp. 261.

Parto dalla fine. Dopo aver letto l’ultimo libro di Marco Rovelli, un viaggio-inchiesta che l’autore, musicista-filosofo, ha compiuto in questi tre anni di pandemia, trascrivendo il disagio, l’ansia, la paura delle persone e di coloro che – dagli infermieri ai medici, dagli psicologi agli psicoanalisti e finanche agli psichiatri – hanno provato a comprendere il perché di tali sofferenze, mi è tornato in mente lo spettacolo che Giorgio Gaber tenne al lirico di Milano nel 1974 e al quale, come tanti, ebbi la fortuna di assistere.

In particolare la canzone che chiudeva lo spettacolo scritto con Sandro Luperini, “C’è solo la strada”, rispecchiava quel determinato momento, quando la speranza di poter cambiare la realtà, uscendo dall’isolamento delle proprie confortevoli case, si coniugava con il desiderio nell’essere protagonisti di un’onda collettiva capace di innaffiare la vita quotidiana con gocce di speranza creativa. Ricordate?

C’è solo la strada su cui puoi contare
La strada è l’unica salvezza
C’è solo la voglia e il bisogno di uscire
Di esporsi nella strada, nella piazza.
Perché il giudizio universale
Non passa per le case
In casa non si sentono le trombe
In casa ti allontani dalla vita
Dalla lotta, dal dolore, dalle bombe (qui)

Da allora qualcosa è cambiato. Cosa, quando, ma soprattutto perché? Immediatamente ho ripreso la lettura del libro fin dal primo capitolo, individuo vs condindividuo, in cui l’autore descrive il tempo della pandemia come una pandemia del tempo, percepito improvvisamente come un tempo sospeso fra l’eccesso di averne troppo e la penuria di non averne abbastanza, al punto che la realtà stessa, finora considerata “normale”, è stata posta in questione.

Ma quando si pone in questione qualcosa, occorre avere le risorse per dare delle risposte. E se queste risorse non si hanno, si sta male. E il malessere, il disagio, la sofferenza psichica in questo tempo sospeso sono cresciuti enormemente. Ma questa esplosione del disagio – sintomi depressivi o ansiosi generalizzati – non è un’irruzione improvvisa, una comparsa di alieni dallo spazio. Essa è da intendersi proprio alla luce della nostra mancanza di risorse per far fronte a una crisi già in atto. Il tempo della pandemia è un’accelerazione di processi di lunga durata. Che riguardano il nostro modo di abitare il mondo.[p.10]

Molti e infiniti sono gli spunti che conducono a leggere un libro, e questo si presta ai più svariati: da guida accompagnatrice nel mondo misterioso e affascinante della mente umana, a prontuario medico farmacologico più usato, e non poche volte abusato, in questi lunghi anni di pandemia; da stimolante lettura dell’intreccio fra filosofia e psicanalisi – coinvolgente i principali personaggi della cultura occidentale dai tempi di Spinoza sino ai tempi di Lacan, Deleuze, Foucault –, all’impressionante aumento della violenza su se stessi [anoressia, autolesionismo] e sull’Altro [bullismo, revenge porn] da parte dei giovani, soprattutto delle giovani, al punto da non riuscire a sostenere lo sguardo degli altri e rifugiarsi nella propria cameretta, perché lo sguardo degli altri è come il basilisco: ti incenerisce, in quanto può svergognarti in ogni momento.

Diverse, infatti, sono le piste seguite dall’autore in questo viaggio-inchiesta che è facile rimanere imbottigliati nel traffico di informazioni, tutte preziose, registrate dalle voci dei diretti protagonisti di questo tempo improvvisamente vuoto che ha posto il problema di come riempirlo per non sentirsi vuoti. Fra queste abbiamo prediletto la pista che Rovelli ha seguito per evidenziare lo iato che separa non solo il prima e il dopo della pandemia, ma il prima dell’affermazione ideologica racchiusa nella celebre frase di Margaret Thatcher – «Non esiste nulla che possa definirsi società. Esistono gli individui, i singoli uomini e le singole donne, ed esistono le famiglie» – e il prossimo futuro, segnato sempre più da emergenze indotte e pilotate da interessi economici nei vari settori produttivi [dall’industria agro-alimentare all’industria militare, dall’industria estrattiva di minerali e risorse energetiche, alle ripercussioni negative sull’assistenza sanitaria, l’istruzione, i servizi sociali di tutti i popoli del mondo] nel loro insieme votati ad avere un impatto sulla natura e su chi vi abita dagli esiti nefasti.

Eppure “vivere senza tempo morto, gioire senza ostacoli” – una fra le tante gocce di speranza creativa dello tsunami sessantottino – invocava la libertà di essere i protagonisti della propria vita combattendo i pregiudizi culturali, i sensi di colpa religiosi, i rimorsi per non aver fatto il proprio dovere imposto da una società patriarcale, maschilista, ma soprattutto finalizzata al dominio della merce attraverso il consumismo e il suo illimitato sviluppo, sbandierato come progresso della modernità. Altri tempi.

Adesso senza tempo morto si è obbligati a vivere, come obbligati si deve gioire per qualsiasi genere di merce sentiamo il desiderio di comprare, senza più ostacoli ai nostri bisogni indotti da una società permissiva. Permissiva in che cosa? Certo, se tu vuoi tutto è possibile, ma devi saperlo realizzare autonomamente poiché tu sei il responsabile, il creatore e l’imprenditore di te stesso. Dopotutto, scrive Rovelli, «Il punto è chiaro: la nostra società non si regge più sulla contrapposizione tra permesso/vietato, ma tra possibile/impossibile. Tutto è possibile: Just do it. E se ti è impossibile, se non ce la fai, la responsabilità è solo tua» [p.32]; insomma, non è più il senso di colpa legata alla legge che vieta, ma di vergogna legata al fallimento per non esser stato capace di diventare imprenditore di te stesso. Perché volere è potere, e se non possiedi il potere dentro di te per divenire ciò che gli altri si aspettano da te – e tu non vuoi deluderli, vero? – cosa ti resta se non la vergogna del tuo fallimento?

Cosicché, il “tu puoi” diventa il “tu devi” – l’imperativo categorico della società dello spettacolo – immediatamente tramutato in “tu non puoi”, perché non ti impegni abbastanza, non segui i tempi, non ti sai promuovere e tanto meno vendere. Allora corri [letteralmente] ai ripari: ti inventi l’immagine più accattivante in grado di catturare l’attenzione su di te, trascinando la tua esistenza sotto un continuo stress, un’ansia egocentrica, accompagnata dall’esaltazione per i piccoli successi ottenuti eliminando i tuoi diretti avversari più deboli, inesperti, bamboccioni. Risultato: ti ammali perché la società è ammalata di bipolarità.

Sì, la bipolarità tra mania e depressione è quella che meglio si presta a descrivere un modello sociale che si muove tra imperativo continuo della prestazione, della necessità imprescrittibile e inderogabile del conseguimento di un oggetto, di un obiettivo (che in questo contesto identifichiamo, in base all’etimologia stessa di ob-jectum, con ciò che ci sta davanti, e su cui proiettiamo il desiderio), e la conseguente tonalità depressiva quando non si raggiunge l’oggetto (e l’oggetto, propriamente, non lo si raggiunge mai), quando si è costretti a mollare la presa, quando per un evento qualsiasi affiora il vuoto – poiché l’iperattività è una forma di difesa dal vuoto che ci abita, un moto perpetuo di difesa contro la depressione.[pp. 41-42]

Ecco, viaggiando a capofitto in questo “vuoto che ci abita”, Marco Rovelli ci conduce passo dopo passo ad esplorare e a interrogarci sulle cause patologiche del disagio, non più soltanto genetiche e strettamente organicistiche, risolvibili con una pastiglia, un TSO, un ricovero di sollievo; perché il vuoto dentro di noi rispecchia il vuoto fuori di noi causato dalle illusioni generate dall’iperedonismo neoliberale per un godimento senza limiti smentito dalla realtà, soprattutto da quando l’epidemia ha dissipato e fatto implodere la retorica sociale del merito e delle infinite possibilità che ciascuno di noi ha nel mettersi in gioco al fine di primeggiare sugli altri concorrenti. Infatti, questa è «l’epoca del godimento come nuovo imperativo sociale, un godimento in cui non ha più parte il desiderio come desiderio dell’altro, ma che si pone come un’affermazione narcisistica dell’io ideale, che ha reciso ogni legame con l’altro» [p.145]; di modo che:

la pulsione securitaria che appare oggi esorbitante, ed è sotto gli occhi di tutti nell’età di sovranismi, identitarismi e razzismi, è inscritta immediatamente nel pensiero di una società che esiste solo successivamente agli individui. Questo dato di fatto balza agli occhi in maniera più evidente ora che il desiderio di sicurezza, e la tendenza a costruire l’altro come nemico, si fa più pressante e presente perché la propria condizione di godimento viene percepita come a rischio.[p. 149]

Come uscirne, se non insieme? Ma cosa vuol dire “insieme” nella società degli individui? Comprendere innanzitutto che il non sentirsi a proprio agio – una sorta di spaesamento in casa [oikos] e nel mondo [phisis] – è una condizione condivisa e generalizzata in grado di mostrare l’unica possibilità che la società dello spettacolo vieta: perdersi! Perdersi come i bambini quando giocano; come gli innamorati quando si amano; come chi immagina la realtà per trasformarla e liberarla dalla sua addomesticata follia. Quando, se non ora?

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I movimenti aberranti di Deleuze https://www.carmillaonline.com/2020/11/20/i-movimenti-aberranti-di-deleuze/ Fri, 20 Nov 2020 21:30:12 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=63511 di Paolo Lago

David Lapoujade, Deleuze. I movimenti aberranti, a cura di C. D’Aurizio, Mimesis, Milano-Udine, 2020, pp. 335, € 24,00.

È uscita recentemente per Mimesis, nella collana “Le Dehors”, la traduzione italiana, realizzata da Claudio D’Aurizio, del volume di David Lapoujade (docente alla Sorbona e allievo di Giles Deleuze), Deleuze. I movimenti aberranti (pubblicato nel 2014 per i tipi di Minuit). Merita sicuramente soffermarsi sul nome della collana: “Le Dehors”, cioè “il Fuori”. Questo nome non è stato scelto a caso ma fa riferimento a un preciso contesto filosofico-culturale della Francia del [...]]]> di Paolo Lago

David Lapoujade, Deleuze. I movimenti aberranti, a cura di C. D’Aurizio, Mimesis, Milano-Udine, 2020, pp. 335, € 24,00.

È uscita recentemente per Mimesis, nella collana “Le Dehors”, la traduzione italiana, realizzata da Claudio D’Aurizio, del volume di David Lapoujade (docente alla Sorbona e allievo di Giles Deleuze), Deleuze. I movimenti aberranti (pubblicato nel 2014 per i tipi di Minuit). Merita sicuramente soffermarsi sul nome della collana: “Le Dehors”, cioè “il Fuori”. Questo nome non è stato scelto a caso ma fa riferimento a un preciso contesto filosofico-culturale della Francia del secondo Novecento: secondo quanto scrive Jean-Paul Sartre, “non è in un ipotetico rifugio che scopriamo noi stessi, ma per la strada, per la città, in mezzo alla folla, cosa tra le cose, uomo tra gli uomini” (e si possono ricordare anche gli elogi della strada attuati da Céline già nel 1932, nel suo Viaggio al termine della notte, quel “c’è solo la strada” ripreso da Gaber e Luporini in una nota canzone). Come nota Fabrizio Palombi nella prefazione, dehors diventa “la parola d’ordine di una comune missione teorica e vitale. La ritroviamo nelle pagine di Gaston Bachelard, negli scritti di Maurice Blanchot, nelle pieghe di Gilles Deleuze, nei testi di Jacques Derrida, nelle analisi di Maurice Merleau-Ponty e, soprattutto, nelle pagine di Michel Foucault”, autore, quest’ultimo, di un’opera intitolata Il pensiero del fuori. Ed è proprio attraverso gli strumenti offerti da quest’ultimo studioso che si presta ad essere analizzato il periodo che stiamo adesso vivendo, in cui il “Fuori” viene continuamente negato e interdetto. La pratica del lockdown, il mantra dello “state a casa”, le dinamiche di controllo armato rivolte a chi esce di casa ‘senza motivo’ sono semplicemente l’ipostatizzazione di un controllo diffuso già a partire dalla modernità, ampiamente analizzato da Foucault. Mettere in discussione tali pratiche, perciò, in questo periodo, non significa assolutamente negare la pericolosità del virus; si tratta, bensì, di una messa in discussione che investe alcuni meccanismi di controllo preesistenti alla diffusione del virus e che, grazie ad esso, emergono allo scoperto. Comunque, tornando a Deleuze, si può notare, con Palombi, che “il libro di Lapoujade c’invita ad affacciarci continuamente sul Fuori per respirare ancora una volta, proprio come Deleuze sosteneva a proposito di Sartre e di Foucault, una boccata d’aria fresca proveniente dal dehors”.

È bene mettere subito in chiaro che non si tratta di una lettura semplice. Come osserva D’Aurizio nella postfazione, “la difficile ascesa teorica alla sua cima ripaga il lettore con la possibilità di dominare, tramite uno sguardo teoretico d’ampio respiro, molti dei problemi centrali della filosofia di Deleuze. La lettura di questo libro, infatti, implica l’attraversamento delle spesse nebbie evenemenziali e delle fitte selve logiche che popolano il suo pensiero”. L’importanza maggiore del libro di Lapoujade sta nel fatto che esso non rappresenta una semplice “introduzione” a Deleuze; non si limita a ripeterne formule e concetti “ma ne dispiega diversamente il tessuto per comporre delle immagini nuove, contemporanee”. Come nota Lapoujade nell’introduzione, “la filosofia di Deleuze si presenta come una filosofia dei movimenti aberranti o dei movimenti forzati. Costituisce il tentativo più rigoroso, più smisurato, ma anche più sistematico, di catalogare i movimenti aberranti che attraversano la materia, la vita, il pensiero, la natura, la storia delle società”. Ricordiamo che “aberrante” (da “ab”, moto da luogo e “erro”) in senso etimologico, può significare sia “vagare senza una meta precisa” sia “sbagliare”. Perciò, la funzione dei movimenti aberranti, come scrive l’autore della postfazione, “è quella di condurci sino ai limiti del pensiero, dell’immaginazione, della memoria, della sensibilità, del linguaggio e di spingerci oltre, di farceli oltrepassare, conducendoci così all’impensabile, all’inimmaginabile, all’immemorabile, all’insensibile, all’indicibile che lavorano costantemente queste facoltà. I movimenti aberranti comunicano con l’aldilà del limite, con il rovescio della frontiera. In una parola: con il Fuori”.

Per Deleuze, “un movimento è tanto più logico quanto più sfugge a ogni razionalità. Più è irrazionale, più è aberrante, più è logico”. Uno fra i più significativi movimenti aberranti analizzati da Deleuze è ciò che egli chiama “deterritorializzazione” in Mille Piani (scritto insieme a Félix Guattari) e “sfondamento” in Differenza e ripetizione. Come scrive Lapoujade, “la deterritorializzazione è il movimento aberrante della terra. La deterritorializzazione della terra è il più grande, il più potente di tutti i movimenti aberranti, quello che, in un modo o nell’altro, alimenta tutti quanti gli altri. La deterritorializzazione sta alla terra come il senza-fondo sta al fondamento”. I nomadi sono coloro che seguono la terra nella sua deterritorializzazione, sono “i più liberi rispetto alla nozione di territorialità”. Sono anche coloro che deterritorializzano la terra. Se per l’Anti-Edipo, le formazioni sociali sono tre (Selvaggi, Barbari, Civilizzati), per Mille Piani sono almeno cinque: le società primitive di lignaggio, gli apparati di Stato, le società urbane, le società nomadi, le organizzazioni internazionali. I nomadi si servono della “macchina da guerra” nomade per distruggere gli Stati e per seguire la loro linea di deterritorializzazione mentre lo Stato, a sua volta, si appropria della stessa “macchina” per consolidare la propria potenza politica. Ma una “macchina da guerra” è anche quella attraverso la quale il capitalismo “instaura una guerra potenziale – lo status quo nucleare – come fondamento di una pace terrificante, di una politica securitaria postfascista e di una distruzione della terra abitabile senza precedenti”. C’è un combattimento costante che attraversa Mille Piani: nomadismo contro imperialismo. Se l’asservimento dispotico integrava le popolazioni umane in una “mega-macchina imperiale”, “le nuove tecnologie integrano le popolazioni umane in nuove macchine sotto forma di banche dati, di algoritmi, di flussi d’informazioni”. E allora, Lapoujade giunge alla conclusione che viviamo in un mondo-schermo, un mondo composto esclusivamente di immagini mentre non esiste più un mondo esteriore in cui agire. C’è solo uno schermo o “una tavola d’informazione con cui interagire”. Si tratta di un mondo esterno che manca di esteriorità, un “mondo senza fuori”. La distinzione interno/esterno non ha più senso perché tutto accade in uno “spazio di informazione” stracolmo di cliché.

Il concetto di “terra”, in Deleuze, è strettamente collegato a quello di “deserto”. Quest’ultimo è assai presente nelle opere del filosofo francese: in Differenza e ripetizione, ne L’anti-Edipo, in Mille Piani, in Cinema 2. L’immagine-tempo. La stessa filosofia – scrive Lapoujade – ha bisogno di un deserto. Il deserto non è “l’utopia di un altro mondo, ma una a-topia all’interno di questo mondo. È un luogo di giustizia; è in nome della giustizia del deserto che noi possiamo denunciare le ingiustizie di questo mondo”. È il deserto dei “cristalli di tempo” che ritroviamo nel cinema di Fellini, Antonioni, Pasolini. In quest’ultimo autore, il deserto è l’a-topia dove riecheggiano le grida di giustizia degli ultimi della terra contro l’ingiustizia sociale che in essa regna sovrana. È uno spazio-tempo separato da dove può forse partire l’attacco di una nuova macchina da guerra nomade per sovvertire le griglie degli apparati di stato. Perché Lapoujade fa suo e rinnova un importante grido filosofico di Deleuze: che si combatta, sempre e ovunque, la lotta a favore delle minoranze, di ciò che è intrinsecamente minore, “la guerra molecolare”. Vi sono tante “minoranze di fatto”, nel mondo, che intraprendono una “lotta molecolare assoluta”, come le lotte operaie, le battaglie femministe, la guerra dei Palestinesi, le Black Panthers, le lotte nel Terzo Mondo. Legata a queste lotte, nell’opera di Lapoujade, è la “necessità di pensare e di creare continuamente una nuova terra o molteplici nuove terre”.

Attraverso la questione della creazione di una nuova terra, I movimenti aberranti dialoga inoltre con uno dei filoni di ricerca contemporanei più rilevanti. La catastrofe ecologica (tema attualissimo, legato anche alla diffusione dei virus), la “fine” del nostro mondo e la costruzione di un mondo a venire sono problemi che Lapoujade discute in una prospettiva multidisciplinare che coinvolge la teoria politica, l’antropologia, la sociologia e la filosofia stessa. L’opera di Lapoujade analizza la logica della territorialità in Deleuze evidenziandone le potenzialità strategico-politiche. A tal proposito, particolarmente significativa – e più che mai attuale, si potrebbe aggiungere – appare una riflessione che Lapoujade squaderna concludendo il suo saggio: “La macchina da guerra ci distruggerà o distruggerà i limiti che ci assoggettano e ci asserviscono? Non si può saperlo in anticipo, è tutta una questione di sperimentazione”. E lo sperimentiamo sulla nostra pelle in un difficile presente: in questo caso, rovesciando il noto verso di Manzoni, non “ai posteri”, ma a noi “l’ardua sentenza”.

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Lo sguardo non banale della follia https://www.carmillaonline.com/2018/05/12/lo-sguardo-non-banale-della-follia/ Sat, 12 May 2018 21:23:23 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=45533 di Paolo Lago

Charles Folie e Iuri Lombardi, Il Vice Presidente venne dopo sette secondi (racconti), 96, rue de-La-Fontaine Edizioni, Torino, 2016, pp. 136, € 12,00.

Dopo Freud – scrive Michel Foucault – la follia è diventata una “prodigiosa riserva di significati”, una lingua che non dice niente proprio perché è dotata di un doppio linguaggio. Condotta al di fuori della reclusione manicomiale, la follia si è insinuata nelle pieghe del discorso, della voce, della parola, fino a divenire negazione della parola stessa. “Amici patetici, che appena mormorate, andate con la lampada spenta [...]]]> di Paolo Lago

Charles Folie e Iuri Lombardi, Il Vice Presidente venne dopo sette secondi (racconti), 96, rue de-La-Fontaine Edizioni, Torino, 2016, pp. 136, € 12,00.

Dopo Freud – scrive Michel Foucault – la follia è diventata una “prodigiosa riserva di significati”, una lingua che non dice niente proprio perché è dotata di un doppio linguaggio. Condotta al di fuori della reclusione manicomiale, la follia si è insinuata nelle pieghe del discorso, della voce, della parola, fino a divenire negazione della parola stessa. “Amici patetici, che appena mormorate, andate con la lampada spenta e rendete i gioielli. Un nuovo mistero canta nelle vostre ossa. Sviluppate la vostra legittima stranezza”: così suona una frase di René Char citata da Foucault nella prefazione della sua Storia della follia. I personaggi della stupefacente raccolta di racconti, Il vicepresidente venne dopo sette secondi di Charles Folie e di Iuri Lombardi sviluppano la loro legittima stranezza nella forma della narrazione, di una contingenza di situazioni raccontate che si situano come negazione della normale parola, della banalità del discorso, del lato più scontato della voce. Perché, come leggiamo nell’esergo da Flaubert, “in ogni cosa c’è un lato inesplorato” e “la minima cosa contiene un punto d’ignoto”. Probabilmente, riuscendo a guardare con il peculiare punto di vista di questa “follia” “riserva di significati”, si riesce anche ad esplorare i numerosi punti di ignoto ancora presenti nella realtà che ci circonda.

Se la follia è presente persino nel nome francesizzante, pseudonimo di uno degli autori, Carlo Follia (traduzione italiana, appunto, del nome francese) è anche il protagonista di uno dei racconti di Charles Folie, I Cacciatori del Tempo. Follia, “insegnante presso l’asilo nido dell’Ateneo La Sapienza di Roma”, vive sommerso dai libri e si immerge in una lettura tutta personale della Recherche proustiana, avendo forse scoperto il varco verso quel “punto d’ignoto”, verso una lettura non banale della realtà e della letteratura stessa, della narrazione, probabilmente in modo più autentico e misterioso di quanto non facciano i professori universitari che gli affidano i propri figli per recarsi alle lezioni, perduti in vuote e prefabbricate interpretazioni della cultura e dell’arte. Legato all’universo della follia è anche il racconto successivo di Folie, Non voglio morire solo, in cui il folle Flammery, all’interno di una struttura di degenza, ossessionato dalla paura di morire da solo, è forse capito veramente soltanto da Saviers, un altro internato che si crede psichiatra, colui che scavalca le rigide “griglie” psicanalitiche freudiane (per dirla con il Deleuze e Guattari de L’Anti-Edipo) per un approccio più umano e spontaneo con la malattia mentale.

Il racconto che apre la raccolta (e che le dà il titolo), sempre di Charles Folie, mette in scena una situazione dominata da un assurdo straniante: il Vice Presidente Responsabile del Consiglio di Amministrazione di una azienda se ne va in giro in una freddissima giornata di novembre cercando di fare acquisiti con una banconota da cinquecento, unico denaro che ha in tasca. Questo racconto, a mio avviso possiede un’impronta – mi si passi il termine – profondamente ‘marxista’ in quanto si incentra sui meccanismi del potere economico che regolano la società e sui rapporti fra gli individui di diverse classi sociali. Il Vice Presidente è ingessato nella sua immagine di uomo di potere (e di potere economico) per il modo di vestire, per l’arroganza e il cinismo con cui tratta chiunque, ma soprattutto per il suo mettere in mostra continuamente e in maniera quasi feticistica quella famigerata banconota da cinquecento (il tipo di moneta, tra l’altro, non viene mai specificato, ma questo alla fine non conta). L’esposizione spettacolare del potere economico avviene così di fronte a due anziani baristi, a un tassista, a un cameriere-cuoco di un povero ristorante del quartiere operaio, a un albergatore, a un altro barista e a un gruppo di avventori ubriachi. In tutto questo infernale e assurdo rondò, l’autore ripete quasi fino alla nausea il ruolo sociale del protagonista, quella parola “Vice-Presidente”, nauseante di burocrazia e di potere, che finisce per non assumere più nessun significato nel vortice picaresco di incontri e avventure nel quartiere operaio. E non è un caso, credo, che una buona parte delle vicende del racconto si svolga in questa peculiare ambientazione, caratterizzata, ancora una volta marxisticamente, dall’aggettivo “operaio”. Il protagonista si muove all’interno di questa realtà come in un mondo alieno, lontano da sé, un mondo che osserva con uno sguardo distaccato e quasi ‘schifato’. La bravura dell’autore sta nel farci osservare spaccati di mostruosità sia nel protagonista e nella sua classe di appartenenza, vuota e cinica, sia nell’universo proletario e suburbano che il personaggio si ritrova a percorrere, abbandonato a se stesso e attraversato da plaghe irrisolte di crudeltà e di violenza.

Il racconto successivo, firmato dall’altro autore, Iuri Lombardi, e intitolato Iuri dei miracoli, ci conduce all’interno di una dimensione più intimistica e introspettiva. La sapiente e magica scrittura di Lombardi allestisce un ritratto autobiografico in chiave di riflessione sul proprio passato e sulla propria esperienza. Ma la dimensione di realtà che dovrebbe essere sottesa al genere dell’autobiografia viene completamente scardinata da un impianto onirico e visionario. Il sé così raccontato non è immerso nella realtà, ma in una dimensione parallela nella quale si possono scorgere con più chiarezza i lati più inesplorati dell’esistenza. Ancora una volta si distende sul mondo uno sguardo non banale, si apre l’impronta di una follia creativa e immaginifica che prelude a non scontati orizzonti. Con uno stile poetico che mi ha fatto pensare all’Ecce Homo di Nietzsche, Lombardi costruisce un intarsio magico di ricordi, di momenti, di situazioni legati alla figura del sé che sta mettendo in scena e questa figura del sé è costruita mediante un chiaro impianto di formazione. Quasi come un visionario Bildungsroman, profondamente venato di afflati poetici (mi sono venute in mente anche certe composizioni di Dino Campana), il racconto dispiega uno scenario e una ambientazione contemporaneamente reali e fantastici, venati di magia, come le descrizioni della campagna e di una Firenze irretita dal gelo della nevicata dell’85. Numerosi personaggi, accanto alla figura del sé, si avvicendano nelle pagine del racconto e scaturiscono dalla scrittura come tante appendici del paesaggio e dell’ambiente e quasi in sinergia con esso. Ambiente, cose e persone sono l’inequivocabile tessuto ritmico del racconto, un filo che si dipana in immagini che si dipingono di significativa poesia visionaria.

Non meno pervaso di poesia è un altro, interessante racconto di Lombardi presente nella raccolta, Roma, che si apre con l’arrivo di una carovana di giostrai nella campagna romana. Questi ultimi, quasi messi di una follia che nega la banalità della parola in nome di inenarrabili corrispondenze, sono i sovvertitori dell’ordine quotidiano, culturale e sociale, creatori di un nuovo ordine sociale, mentre dintorno il paesaggio si accende di un “barlume di allegria” e di “spensieratezza”. Alfieri di una nuova e visionaria rivolta sociale, come il predicatore friulano Giovanni che si aggira nei dintorni della Capitale, i giostrai sono i ‘nomadi’ giunti da un altrove, sono figure quasi dionisiache che mirano a perturbare l’ordine stanziale della quieta e balzana borghesia, rappresentata dal marchese Annibale De Caro Da Roccasecca e da don Giuseppe, prete del Vaticano, ma anche da Alba Satriani, annoiata signora borghese che cerca conforto fra le braccia dei sottoproletari dai nomi latineggianti di Attilio e Tiberio. Non a caso, i giostrai verranno allontanati, scacciati dalla città (come succede agli indesiderati campi rom nelle nostre città) per essere ricollocati in un luogo lontano, dove, con la loro smagliante ‘diversità, non possono più disturbare la perbenista banalità del quotidiano. Lo stesso Giovanni, “il pazzo saccente, il nuovo messia, fu imprigionato e portato lontano, in una clinica psichiatrica” (stessa sorte era toccata a Dioniso nelle Baccanti di Euripide).

Ma lo sguardo non banale della follia, la “sua prodigiosa riserva di significati” continuerà a scavare la realtà interpretandone i lati inesplorati, come capiamo leggendo gli altri racconti di Lombardi e Folie presenti in Il presidente venne dopo sette secondi. È tempo, quindi, che la mia voce si taccia per poterli direttamente scoprire e leggere, alla scoperta di nuovi, inusitati “punti di ignoto”.

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