De Sade – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 31 Jul 2025 08:49:34 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Anatomia del potere nel teatro di Pasolini https://www.carmillaonline.com/2022/06/26/lanatomia-del-potere-nel-teatro-di-pasolini/ Sun, 26 Jun 2022 21:00:27 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=72726 di Paolo Lago

Georgios Katsantonis, Anatomia del potere. Orgia, Porcile, Calderón. Pasolini drammaturgo vs Pasolini filosofo, Metauro, Pesaro, 2021, pp. 298, euro 22,00.

La dimensione del corpo è indubbiamente fondamentale nell’intera opera di Pasolini: nella poesia, in cui spesso ad essere rappresentato è lo stesso corpo del poeta, rivestito della sua dimensione fisica più autentica, senza filtri estetici; nella narrativa, da Ragazzi di vita, in cui la stessa città di Roma sembra trasformarsi in corpo che cresce e soffre insieme ai corpi dei ragazzi sottoproletari, fino a Petrolio, in cui il [...]]]> di Paolo Lago

Georgios Katsantonis, Anatomia del potere. Orgia, Porcile, Calderón. Pasolini drammaturgo vs Pasolini filosofo, Metauro, Pesaro, 2021, pp. 298, euro 22,00.

La dimensione del corpo è indubbiamente fondamentale nell’intera opera di Pasolini: nella poesia, in cui spesso ad essere rappresentato è lo stesso corpo del poeta, rivestito della sua dimensione fisica più autentica, senza filtri estetici; nella narrativa, da Ragazzi di vita, in cui la stessa città di Roma sembra trasformarsi in corpo che cresce e soffre insieme ai corpi dei ragazzi sottoproletari, fino a Petrolio, in cui il corpo emerge nei suoi aspetti più strettamente legati ad un eros annientatore; nel cinema, in cui ad essere rappresentati sono i corpi di sottoproletari votati al sacrificio, come Accattone, Ettore o Mamma Roma, o quelli di personaggi inseriti in un «carnevale di stili e di sessi», come ha scritto Barthelemy Amengual a proposito di Medea. Sicuramente, anche nel teatro pasoliniano il corpo riveste un ruolo di primo piano, basti ricordare questi versi di Calderón: «Tu sei qui perché hai un corpo. / Senza corpo non ci sarebbe vergogna, sofferenza e morte, / e quindi non ci sarebbe espiazione». Adesso, ad analizzare la ‘funzione-corpo’ nel teatro di Pasolini, interviene un ricco e ben documentato saggio di Georgios Katsantonis, oggetto del quale non è tanto «definire la centralità del corpo» nel teatro dell’autore, quanto invece «capire come essa si esprima e quali segni emetta».

Il saggio si concentra su tre tragedie di Pasolini: Orgia, Porcile e Calderón. Come specifica l’autore, «l’analisi condotta indaga i seguenti snodi tematico-testuali: 1) il corpo in preda al desiderio sadomasochistico (Orgia), 2) il corpo con la sua viscerale motivazione erotica che sconfina nella zooerastia (Porcile), 3) il corpo imprigionato tra scissione e visionarietà (Calderón)». Le tre opere selezionate «illustrano un tentativo di lettura del potere nelle sue varie declinazioni simboliche», con lo scopo «di far risaltare la concezione filosofica e l’impegno politico che si nascondono dietro le drammaturgie pasoliniane». Viene quindi attuata una vera e propria «anatomia del potere» nelle tre opere teatrali di Pasolini dimostrando come, in esse, sia lo stesso potere a manovrare i corpi degli individui: un potere, come quello della società dei consumi del neocapitalismo, che assume connotazioni simboliche che lo avvicinano a quello attuato da dittature sanguinarie come il fascismo e il nazismo.

L’analisi di Katsantonis parte da Orgia, un’opera teatrale composta (come le altre) nel 1966, l’unica allestita da Pasolini stesso. I due protagonisti, l’Uomo e la Donna, marito e moglie, sono chiusi nella loro camera borghese e praticano esperienze sadomasochiste «per scoprire una nuova libertà all’interno della prigionia sociale». Entrambi sono desiderosi della morte e si uccidono, «trascinati nella confusione tra vittima e carnefice dalle loro pulsioni oscure e violente». L’autore prende in esame Orgia mediante un’ottica comparata, a partire da una lettura della Philosophie dans le boudoir di Sade. Questo rapporto erotico basato sul sadomasochismo, sullo scambio di ruoli fra vittima e carnefice, assume le connotazioni metaforiche di una riflessione critica sulla società e sul potere. Il corpo appare schiavo delle dinamiche imposte da quest’ultimo, all’interno di un feticismo che diviene anche e soprattutto feticismo delle merci. Gli oggetti dell’adorazione feticistica – che rappresentano le merci nella società consumistica – sono diventati le catene che schiavizzano i corpi dei personaggi, nello stesso modo in cui l’adorazione della merce schiavizza i corpi degli individui all’interno della società neocapitalistica. Se l’Uomo appare totalmente schiavizzato nel corpo da questo rapporto feticistico dominato dal potere, la Donna assume diverse connotazioni di resistenza a quello stesso potere. Infatti, come nota lo studioso, spesso, «le donne nell’opera di Pasolini rappresentano l’elemento di rottura e di resistenza alla corruzione e all’ideologia dominante della società. Hanno un ruolo socio-politico eversivo che definisce una figura frequente nel cinema e nel teatro pasoliniano: quello della vittima del Potere, in cui si crea anche una sorta di parallelismo tra il “diverso” e la donna». Possiamo ricordare Anna Magnani-Mamma Roma, figura materna e prostituta (le prostitute, infatti, secondo Sade – e non da ultimo anche secondo Pasolini – come scrive l’autore, «sono le uniche donne degne di rispetto e le più sagge»), oppure Medea, interpretata da Maria Callas, vera e propria rappresentante del sacro nella società desacralizzata della Grecia in cui regna Creonte e nella quale viene condotta da Giasone, una società che rappresenta la razionalità della moderna borghesia; oppure, ancora, Silvana Mangano-Lucia in Teorema (1968) o, nello stesso film, Emilia, interpretata da Laura Betti, l’unica che, toccata dalla sacralità dell’Ospite, si distacca da una società borghese per fare ritorno agli spazi di un’Italia paleoindustriale e contadina che sta scomparendo. Se il sesso, in Orgia come in Teorema, è un sostituto del sacro, una espressione vitale e innocente (come nella Trilogia della vita), l’eros imposto dal potere, come in Salò, è invece una violenza effettuata sui corpi degli individui, come l’obbligo del godimento all’interno della società dei consumi.

Il secondo capitolo prende in esame Porcile, un’altra pièce teatrale pasoliniana abbozzata nel 1966 e riscritta tra la fine del 1967 e l’inizio del 1968, attraverso un’analisi comparata che include anche il film omonimo del 1969. Julian, il giovane figlio di un ricco industriale della Germania del 1967, non è né ubbidiente né disubbidiente nei confronti dell’autorità paterna e perciò, secondo lo studioso, presenta un carattere spiccato di alterità. Quest’ultima si configura come un’assenza di identità sociale: Julian rifiuta qualsiasi aspetto della sua vita borghese, incluso l’amore della giovane Ida, per ritirarsi a compiere infinitamente il suo unico atto d’amore, l’accoppiamento con i maiali. Se in tale atto è da intravedere appunto una marginalità sociale del personaggio all’interno della quale appare evidente la sua omosessualità, esso presuppone comunque anche una qualche forma di protesta, che emerge soprattutto durante il dialogo con Spinoza nel porcile (scena che sarà poi eliminata nella versione cinematografica). Secondo il filosofo, Julian una decisione, invece, la ha già presa da tempo, cioè quella di sparire, di rifiutare di sottoporsi al rutilante gioco spettacolare del potere che celebra i suoi fasti in una vera e propria catena di montaggio linguistica, in cui le battute si susseguono le une alle altre intervallate da espressioni come «urrà» o «trallallà», scegliendo la dimensione dell’afasia, definita dallo studioso come un vero e proprio spazio eterotopico. Nel frattempo, il Potere si ricicla, rinasce dalle sue ceneri: gli industriali della Germania del 1967 non sono altro che ex criminali nazisti votati alla civiltà dei nuovi consumi «nell’inferno del totalitarismo tecnocratico in cui si neutralizzano le diversità, falsamente accettate dal Potere mediante un’accorta politica di tolleranza fittizia». Julian, come il giovane cannibale che, nella versione cinematografica, viene condannato a essere sbranato dai cani, subisce un vero e proprio sparagmos, uno smembramento, «requisito necessario per la costruzione di una nuova immagine che sfugge ad ogni tentativo di contenimento entro sistemi organici».

La lente dello studioso, analizzando Porcile, si focalizza anche sulla presenza degli animali, nella fattispecie dei maiali. Questi ultimi assumono una doppia valenza: animali veri, come quelli che sono nel porcile, ma anche animali metaforici, «i padri capitalisti e borghesi, nel metaforico porcile della Germania neocapitalista». Se gli animali veri si situano al di là del male e del bene, su quelli metaforici ricadono invece gravi colpe. Inoltre, «l’animale in Porcile è il luogo in cui svelare i meccanismi su cui poggia la società capitalistica»: da questa stessa società, gli animali sono stati appiattiti nella funzione di materia prima dell’industria di macellazione di massa. In un mondo in cui il Potere si riveste cupamente di connotazioni totalitarie, in una orrenda continuità fra industrializzazione degli anni Sessanta e crimini nazisti, gli animali appaiono come le vittime innocenti imprigionate per essere spedite ai macelli, veri e propri nuovi lager contemporanei. L’autore ricorda in modo appropriato una lettera che Pasolini scrisse ad Anna Magnani, pubblicata su «Tempo» nel 1969, in cui il poeta paragona i vagoni fermi ai confini, pieni di animali destinati al macello, a quelli che trasportavano gli esseri umani verso i lager nazisti. Se nelle parole di Pasolini non emerge una vera e propria etica animalista, si può pensare a una volontà dello scrittore di «fare un ritratto dei totalitarismi soprattutto sulla base dell’equazione uomini-animali al macello». Del resto, si potrebbe ricordare anche un altro esempio, non riportato dallo studioso, in cui Pasolini riflette, mosso da una vera e propria pietas, sul destino degli animali destinati al macello. In Storia burina (1956-1965), un racconto che l’autore rielabora utilizzando la tecnica del non finito, poi incluso in Alì dagli occhi azzurri, spicca la descrizione delle vacche destinate al macello: «Venerdì, fiesta dell’Ammazzatore. Passano, passano, vacche magre, trasparenti, passano vacche secche come alici, passano in fila, trasparenti come l’osso, buone buone, con la morte negli occhi, come ubriachi che tornano la mattina accecati dal sole, bianche come uccelli della neve, e con le croste dello sterco sulle ossa che bucano la pelle tirata come la seta, passano masticando, masticando come per fare le indifferenti, ma sapendo bene quello che le aspetta, passano, passano come ombre cinesi bianche, come grandi pipistrelli bianchi che hanno preso la strada dell’inferno, mentre il sole non passa mai, nero come un toro sopra il monte di Testaccio».

Il saggio di Katsantonis, per mezzo delle sue originali e innovative intuizioni, fa venire delle idee: sicuramente un solido punto di forza per un lavoro critico. Allora, dalle suggestioni legate al confronto fra porcile e campi di concentramento, fra industria della carne e crimini nazisti, potrebbe venire in mente un paragone fra Porcile e Okja (2017), del regista sudcoreano Bong Joon-ho. In quest’ultimo film, i luoghi in cui viene imprigionato Okja, il «supermaiale» sottratto alla sua padroncina negli spazi incontaminati della Corea del Sud e condotto negli Stati Uniti, sono rappresentati come veri e propri nuovi campi di concentramento, circondati da filo spinato, in cui migliaia di «supermaiali» vengono portati alla morte. Anche Bong Joon-ho attua una riflessione sulle dinamiche di potere nella società tecnocratica: quello che decide di uccidere Okja è infatti il Potere delle multinazionali contemporanee, che agiscono nei tessuti più profondi della società per mezzo della digitalizzazione diffusa, capillarmente inserita nelle vite degli individui per mezzo di PC portatili, smartphone e tablet (oggetti assai presenti nelle immagini del film).

Nel capitolo finale del suo saggio, lo studioso affronta la tragedia pasoliniana Calderón ponendola a confronto non solo con La vita è sogno di Pedro Calderón de la Barca, a cui lo stesso Pasolini si ispira, ma anche con Un sogno di Strindberg, un autore molto amato e frequentato dallo scrittore bolognese, fino al postumo Petrolio. Secondo Katsantonis, Pasolini, Calderón de la Barca e Strindberg, «si servono del sogno partendo da prospettive diverse e sono legati tra loro da un elemento strutturale: la simbologia carceraria del sogno». Nel dramma pasoliniano, ambientato nella Spagna franchista, Rosaura si risveglia dal metaforico sogno calderoniano aristocratica, sottoproletaria e piccolo-borghese. Se il sogno appare come una via di fuga dalle maglie del Potere, su di esso si esercita un controllo ‘carcerario’ attuato dallo stesso Potere: Rosaura si trasforma in un corpo marionetta di cui il Potere, rappresentato dalla figura di Basilio, il re padre padrone, regge i fili addirittura pilotandone i sogni. Il saggista si serve delle teorie di Goffman per analizzare le dinamiche messe in opera dalle stesse strutture di potere. Gli spazi in cui Rosaura si risveglia assomigliano alle istituzioni totali analizzate dallo studioso (i manicomi, le prigioni) e lo stesso personaggio assume le connotazioni di un internato. Come osserva Katsantonis, «in Calderón Pasolini mette in luce la sopravvivenza del sistema concentrazionario nelle società contemporanee; il grado zero della libertà individuale a causa dell’estensione del controllo capillare delle masse e della loro omologazione». D’altronde, il medesimo sistema concentrazionario si è messo in moto in occasione della recente pandemia da Covid 19, la quale ha messo in luce «il furore autodistruttivo del capitalismo, che non si ferma neppure di fronte alla prospettiva della vita abolita».

Un’immagine emblematica del potere che controlla gli individui, secondo lo studioso, è quella della marionetta. L’uomo è una marionetta (basti pensare a Che cosa sono le nuvole?), i cui fili sono tenuti da un Potere oscuro ed imperscrutabile che immerge gli individui negli inferni del cieco sviluppo, portato avanti ad ogni costo, deturpando la natura e gli scorci paesaggistici. All’interno di questo sistema di potere – osserva lo studioso – le stesse forze rivoluzionarie sono l’espressione di un illuminismo borghese che obbedisce agli schemi della dialettica servo-padrone. In questa dinamica rientrerebbe anche «l’avversione nutrita da Pasolini per il movimento studentesco» durante gli scontri del Sessantotto, tema, comunque, molto complesso, che meriterebbe ulteriori spunti di riflessioni. A mio avviso, infatti, Pasolini non aveva nessuna avversione per il movimento studentesco, anzi: l’intera poesia Il PCI ai giovani!!!, in cui il poeta prendeva posizione a favore dei poliziotti, andrebbe letta in una chiave ironica e autoironica, come scrisse lo stesso Pasolini. Si tratta di un pezzo di ars retorica, un testo provocatorio, che va letto al di là del suo significato letterale tanto che Pasolini, in una «Lettera al Presidente del Consiglio» uscita su «Tempo» nel settembre del 1968, definiva la Resistenza e il Movimento Studentesco come «le due uniche esperienze democratico-rivoluzionarie del popolo italiano».

In definitiva, il saggio di Georgios Katsantonis risulta estremamente interessante perché srotola un tema, come quello delle dinamiche del potere nell’opera pasoliniana, anche oggi molto attuale, in un’epoca in cui lo stesso Potere cerca di controllare in tutti i modi la vita degli individui, anche in forma invisibile e spettrale per mezzo della diffusa digitalizzazione di massa. Ha inoltre il pregio di affrontare tre opere fondamentali del teatro pasoliniano in modo nuovo ed inedito, portando esempi, confronti, analisi comparate che mai erano state affrontate in precedenza e offrendo, come già notato, lo spunto per nuove analisi e riflessioni. Che non dovrebbero mai venire a mancare riguardo a una figura complessa e fondamentale come quella di Pasolini, a maggior ragione oggi che ricorrono i cento anni dalla nascita. Ricorrenza che però non dovrebbe soltanto comparire nelle sembianze di un salottiero ircocervo di accademiche celebrazioni fini a se stesse, ma dovrebbe rappresentare l’occasione per dare nuova vitalità a espressioni artistiche, teoriche e letterarie che provengano da una cultura dal basso e militante.

]]>
Cervello nero, invenzione sporca (Nightmare Abbey 15/2) https://www.carmillaonline.com/2020/07/25/cervello-nero-invenzione-sporca-nightmare-abbey-15-2/ Sat, 25 Jul 2020 21:03:16 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=61675 di Chiara Meistro e Franco Pezzini

(Qui la prima puntata in margine all’esame del volume Giovanni Battista Piranesi, Le carceri. Spazi immaginali dal caos, Ghibli, Milano 2019).

Fin qui sulla vertigine dell’opera in esame. Le peculiarità delle Carceri non si esauriscono però nella struttura architettonica per cui Piranesi è diventato tanto noto: se esaminiamo con attenzione il contenuto delle tavole, notiamo infatti qualcos’altro. Qualcosa che richiama sì al “dilettoso orrore”, ma in modo persino più macabro. Infatti, le funi e le macchine notate da De Quincey come evocanti [...]]]> di Chiara Meistro e Franco Pezzini

(Qui la prima puntata in margine all’esame del volume Giovanni Battista Piranesi, Le carceri. Spazi immaginali dal caos, Ghibli, Milano 2019).

Fin qui sulla vertigine dell’opera in esame. Le peculiarità delle Carceri non si esauriscono però nella struttura architettonica per cui Piranesi è diventato tanto noto: se esaminiamo con attenzione il contenuto delle tavole, notiamo infatti qualcos’altro. Qualcosa che richiama sì al “dilettoso orrore”, ma in modo persino più macabro. Infatti, le funi e le macchine notate da De Quincey come evocanti “impiego di enorme forza e superamento di resistenza” – come in una versione fantastica della rivoluzione industriale – sono in realtà finalizzate a usi assai più sinistri. Già nella Carcere oscura del 1743, la didascalia identificava un’“Antenna pel suplizio de’ malfatori”: e nelle Carceri quel che l’occhio non coglie facilmente – ma qualcosa, a studiarle con calma, emerge dal chiaroscuro – è rivelato proprio dalle didascalie, per le quali rimando al volume in esame. È anzi possibile notare l’aumento tra la prima e la seconda serie di strumenti di supplizio e immagini di prigionieri torturati: e se le immagini hanno ben poco a che vedere con le prigioni settecentesche e rinviano piuttosto a quelle dell’antica Roma tanto cara all’artista, si tratta di invenzioni, cioè di una rilettura fantastica. Per la disamina delle tavole presentate dall’edizione in esame ci appoggiamo all’analisi di Malcolm Campbell, Piranesi and Innovation in Eighteenth-Century Roman Printmaking (in Art in Rome in the Eighteenth Century, a cura di Edgar Peters Bowron e Joseph J. Rishel, Philadelphia Museum of Art / Merrell 2000).

La tavola I di frontespizio, dove vediamo anzitutto una fantasia architettonica, mostra nell’edizione definitiva un “Interno di prigione con scale e passerelle, strumenti di tortura, catene; in primo piano, in basso, una ruota ad aculei; in alto una figura urlante in ceppi”. A parte quest’ultima – sorta di versione carceraria dell’Urlo di Munch con tutta la surrealtà di tale posizione appollaiata –, la ruota ad aculei che sembra emergere dall’inventiva di qualche cattivo re ariostesco sarebbe pronta a straziare le vittime o forse a impalarle (gli interpreti sono perplessi), cioè si tratterebbe di un’immagine del tutto fantasiosa delle macchine da supplizio. Certo, può far rammentare alcuni meccanismi rotanti inventati per la corte di Nerone o le stesse deliranti modalità di esecuzione che la fantasia dell’imperatore avrebbe partorito: ma tutto passa al filtro di una fantasia quasi onirica, dove l’enormità degli ambienti e delle stesse macchine è in diretto rapporto con la monumentalità delle rovine nelle tavole antichistiche.

Nella II, si specifica che “due carnefici torturano un condannato” ed è forse l’unica tanto esplicita, nel senso che altrove si tratta di suggestioni sfumate e più di frequente l’immagine dello strumento di supplizio prende il posto della scena in atto. Non a caso, questa tavola – come la V – viene aggiunta soltanto nella seconda edizione: e si è osservato che in entrambe le incisioni le figure più piccole recano abiti settecenteschi, con l’aria perplessa dei turisti inglesi a zonzo tra le rovine di Roma. Alla dimensione cronologica dei ruderi antichi devono invece appartenere torturato e torturatori, raffigurati come più grandi: non tanto quali statue ma – si è ricostruito, con attento scavo filologico – come una sorta di visione o tableau vivant dei supplizi fatti infliggere da Nerone tramite Tigellino ad alcuni oppositori. Un teatro, insomma, della crudeltà, con tutta la dimensione di messa in scena che il concetto suggerisce (compresa la scelta del tiranno paradigmatico, oltretutto famoso persecutore di cristiani): ed è inevitabile ripensare alle dimensioni di teatro paludato di storia offerte dal gotico e dallo stesso Sade.

Continuando l’esame delle tavole a partire dalle didascalie, troviamo nella III, “a sinistra, a mo’ di quinta, una grande forca” (noi l’avremmo identificata con un più innocuo supporto per carrucola, ma un concetto non esclude l’altro); nella IV, “in basso, strumenti di tortura” (ruota da supplizio, pali appuntiti…). Per quanto riguarda invece le tavole V-VII – la V, come già detto, viene aggiunta nella seconda edizione – le didascalie citano solo corde, catene e pulegge: ma, studiandole con un po’ di attenzione, è possibile riconoscere raffigurazioni di prigionieri pronti ad bestias (ci sono anche leoni: V), un fuoco dall’aria molto sinistra (per rogo o abbruciature?: VI) e macchine di tortura (VII).

Le didascalie delle tavole VIII e IX non esplicitano particolari minacciosi, e la prima mostra in effetti enormi panoplie in stile Castello d’Otranto; ma la seconda, sia per i dettagli un po’ sfuggenti in primo piano, sia per l’immane ruota che occupa quasi tutta la scena, non lascia troppo tranquilli. In realtà, non sembra neppure che la struttura possa definirsi propriamente ruota, pare più una cornice circolare o l’angosciosa, titanica versione carceraria di una sfera armillare, con travi curve e ponteggi su cui si affaccendano figure.

Il tema dei prigionieri torna però nella tavola X, con “un gruppo di condannati legati sopra una grande mensola sporgente a sinistra. A destra grosse catene”: a parte la strana figura urlante appollaiata nel frontespizio, questa tavola è l’unica che già nella prima serie mostri dei prigionieri. La didascalia della tavola XI presenta solo una menzione a cordami, ma la XII evoca tra il resto “strumenti di tortura” e la XIII addita “appesa in alto una ruota ad aculei” (a parte “una lanterna pendente da una forca” e varie amenità sparse in giro come arredi). Di nuovo la tavola XIV cita solo i cordami, ma guardando bene si nota appesa a una trave una gabbia per sospendervi i prigionieri: in sostanza si tratterebbe di un’“Antenna pel suplizio de’ malfatori”, come in quella precedentemente citata. La XV non sembra mostrare dettagli disturbanti.

Un discorso a parte va poi fatta sull’ultima, la tavola XVI, che ostenta una “stele con due teste entro nicchie e la scritta ‘Impietati et malis artibus’” – ma in realtà le scritte sono varie, e sia pure con qualche libertà Piranesi le mutua da autori latini. Qui le attrezzature da carcere ci sono, ma sembrano abbandonate, e le persone presenti appaiono piuttosto dei visitatori: si è discusso a lungo sul significato e, quanto ai dettagli, i pareri sono variegati, ma una linea interpretativa di fondo sembra ormai consolidata. Se anche grazie alle due tavole inserite nella seconda edizione – in particolare quella con la scena di tortura – si evocava la barbarie della tirannide neroniana, qui sembra invece esaltata la severa e austera giustizia della res publica “sana” in termini morali, politici (si veda la citazione da Livio su una colonna, che rinvia alla scelta sotto Anco Marzio di edificare la prima prigione di Roma “ad terrorem increscentis audaciae”) ed estetici (l’enfasi anti-greca). Altre frasi in latino più o meno riconducibili a Livio richiamano agli episodi dell’Orazio uccisore della sorella che aveva visto piangere per uno dei Curiazi, e della giustizia rigorosa di Bruto liberatore dai Tarquini contro i suoi stessi figli cospiranti per il ritorno del re tiranno (le teste nelle nicchie). Una specie di lieto fine della serie, insomma, ma fino a un certo punto: i richiami a questo tipo di giustizia inflessibile evocano nel complesso un messaggio altamente repressivo, con cui Piranesi affida le Carceri ai posteri.

Lasciando alla critica specializzata l’indagine su un senso globale di queste tavole quanto a motivazioni dell’artista (anche mutate, eventualmente, dalla prima alla seconda versione), di significati dichiarati o meno, e di pulsioni legate alla sua fantasia, resta il fatto che le Carceri entrano in circolo nel mondo culturale recandovi un impatto impressionante. L’attenzione si sofferma soprattutto, come abbiamo visto, sulle febbri dell’immaginario architettonico; tuttavia, almeno in subordine, emerge l’altro aspetto, ovvero la disturbante festa dei supplizi. Si aprono così tre fronti di riflessione, di cui ci limitiamo a fornire alcune note.

Il primo riguarda più strettamente il linguaggio artistico e ritorna in particolare sul sentimento del sublime, a cui si è già fatto cenno in precedenza a proposito dell’influenza che le Carceri esercitarono su Walpole e sulle sue descrizioni degli interni de Il castello d’Otranto. Lo storico dell’arte Giuliano Briganti, nel suo volume del 1977 dal titolo quanto mai eloquente I pittori dell’immaginario. Arte e rivoluzione psicologica, afferma: “è nell’opera di Piranesi che si manifesta la prima concreta attuazione artistica del Sublime, a cominciare dalle Carceri”. Nell’analisi che ne segue, Briganti mette in luce, con una prosa dalla grande forza immaginifica di cui vale la pena riportare alcuni stralci, le diverse sfaccettature che l’estetica del sublime assume nelle due serie di acqueforti. Ne rileva in primis un aspetto più severo dove il terrore, con la messa in scena di condannati, carnefici e strumenti di tortura, funge da ammonimento, da exemplum virtutis, evocando “la celebrazione della lex romana e dell’idea repubblicana di giustizia” e, più in generale, della “grandezza morale che emana dalla «magnificenza» di Roma”. Insomma, come appena ricordato, tutti quei valori che sembrano essere veicolati e messi in risalto dall’emblematica e conclusiva tavola XVI.

Tuttavia – sostiene Briganti –, l’efficacia di questo “terrore che ammonisce” può attivarsi soltanto attraverso “la distorsione della realtà, l’irrazionale stravolgimento della scala normativa delle proporzioni, il ricorso totale alla funzione rievocativa della fantasia”. Ed ecco irrompere un’altra valenza del sublime, più onirica e cupa, in linea con il contenuto dell’Enquiry di Burke, che si traduce “nella grandiosità vertiginosa, nella fantastica complicazione prospettica e nell’ancor più fantastico stravolgimento architettonico e spaziale delle Carceri, così come nel loro aspetto minaccioso e tenebroso”. Piranesi gioca sulle ambiguità strutturali e su prospettive irreali, generando nello spettatore un disorientamento profondo, angoscioso – che ci riporta all’aspetto più famoso e apprezzato delle sue acqueforti.

In questi spazi immensi, destabilizzanti, a tratti labirintici e potenzialmente infiniti, si aggiunge infine un’altra componente, ovvero “quell’effetto di oscurità che, secondo il Burke, era fondamentale per ottenere la sublimità nell’architettura”, e che interessa in particolar modo la seconda versione delle Carceri, dove l’uso del chiaroscuro viene prepotentemente accentuato.

Si rilevano insomma tre declinazioni di grandiosità: una morale, l’altra spaziale e infine una grandiosità di tenebre, che insieme contribuiscono a delineare nelle acqueforti di Piranesi una predominanza del sublime terrifico. Tuttavia, osservando la tavola IV, ci pare di poter cogliere un’ulteriore suggestione, soprattutto per l’esemplare nel primo stato. Nel fregio scolpito che sovrasta l’arcata, col suo susseguirsi di personaggi che sembrano afferire al mondo bucolico e mitologico, sembra trovare eco il sublime “chiaro” e altrettanto grandioso vagheggiato da Winckelmann di fronte alle vestigia dell’antichità classica. È pur vero che anche qui l’oscurità incombe: i conci in ombra dell’apertura in primo piano diventano un’inquietante cornice per le strutture architettoniche più interne; inoltre, i cordami neri tagliano la continuità del bassorilievo, quasi come metaforici sfregi. Eppure, questa rievocazione dell’antico, per quanto pressata da zone buie poco rassicuranti e, nella seconda versione, minacciata nella sua serena grandezza dalla sinistra presenza di spaventose macchine di tortura, riesce comunque a non essere fagocitata del tutto dal “dilettoso orrore”, conservando un suo spazio luminoso.

Il distacco dalle idee di Winckelmann diventa quindi maggiormente evidente nella seconda edizione delle Carceri; tuttavia, per quanto Burke affermi nell’Enquiry che “tutti gli edifici calcolati in modo da suscitare l’idea del Sublime dovrebbero essere oscuri e tetri”, è altrettanto vero che l’intensità delle tenebre risulta tanto più dominante quanto più deve contrapporsi all’incedere della luce.

Il che traghetta a una seconda riflessione. Osserva Praz che “Con le Carceri il Piranesi è il solo deg’italiani ad affacciarsi sull’abisso del caos – quel caos che di più in più diventerà appannaggio del mondo moderno”. Verissimo, ma in questo caso si tratta di un caos nel segno non dell’anarchia, ma della repressione autoritaria, “tirannica” o meno. Badiamo, la forza critica delle Carceri sta già nella struttura architettonica evocata. Se, come osserva Yourcenar, la vertigine di fronte alle tavole è “provocata non dalla mancanza di misure (perché mai Piranesi fu più geometra), ma dalla molteplicità di calcoli che si sanno esatti e che conducono a proporzioni che si sanno sbagliate”, l’ordine che ne emerge è nel segno dell’assurdo e della perdita, in un mondo privo di centro e angosciosamente, indefinitamente espandibile: un ordine come labirinto privo d’uscita, come affaccendarsi brulicante di omini dalle soggettività incomprensibili, un’immagine insomma – forse persino al di là di quanto l’autore possa concepire con lucidità – profondamente trasgressiva.

Tuttavia, il problema si ripropone con l’oggetto, con quei supplizi. Intendiamoci, tutta l’arte della prima età moderna gronda simile gore, e si può immaginare che gli osservatori delle tavole lo notino fino a un certo punto – tanto più che il tipo di evocazione dice e non dice, mostra e nasconde, denuncia asciuttamente nelle didascalie e infratta coi chiaroscuri. Ma è chiaro che i riferimenti al supplizio nelle incisioni di Piranesi sono qualcosa di molto diverso dal “macabro con santi” ostentato con compiacimento nelle chiese, o dagli infiniti orrori presentati nelle stampe correnti d’epoca. Qui c’è una monumentalità laica, prekafkiana delle scene, e oltretutto una serialità. Piranesi conosce certamente la ferocia della giustizia veneziana, ha potuto senz’altro vederla amministrare (si pensi solo agli omosessuali impiccati in Piazzetta) ed è al corrente almeno in parte di ciò che avviene nel chiuso di quelle carceri terribili. Altra giustizia la vede a Roma, gestita dai boia del papa re, col ricordo oltretutto (appannato ma non certo rimosso) dell’epoca “d’oro” dell’Inquisizione: non c’è bisogno di riesumare Nerone, anche se ovviamente il suo mondo lontano si lega a stretto filo al resto della produzione piranesiana sulle antichità dell’Urbe. In ogni caso, qualunque significato – di presa d’atto o di critica velata dell’esistente – si attribuisca al livello soggettivo dell’artista, quel che salta agli occhi è il teatro di un’istanza repressiva forse mai resa nell’arte con altrettanta forza. Rendendo infinito il labirinto, crudeli i particolari, stranianti quelle tavole dove i distinguo tra supplizi in nome di una o dell’altra giustizia non sono immediatamente percepibili allo spettatore (che, anche informato sul senso della tavola XVI, non si sente troppo sollevato), e a denunciare tra opposte e angosciate vertigini “che ciò che è in basso è come ciò che è in alto e ciò che è in alto è come ciò che è in basso”, Piranesi fa delle Carceri l’immagine mitizzata, archetipica del rapporto del mondo nuovo con la repressione.

Anche se è improbabile che possa desiderarlo, Piranesi diventa così un ideale “precursore della Rivoluzione con quell’ossessione di colossali bastiglie”, aiutando a vederne l’intollerabile mostruosità. Del resto, nello stesso 1764 del Castello d’Otranto, Cesare Beccaria pubblica Dei delitti e delle pene, che nel 1766 finisce all’Indice per la distinzione tra reato e peccato: è chiaro che discorsi improntati a una dimensione – diremmo oggi – di innocuo umanitarismo presentano al tempo una carica provocatoria diversa e considerata sovversiva. Ma al di là dello specifico di quella stagione storica, nella chiave monumentale, esagerata e ambigua di una provocazione nata come estetica (il “Capriccio”) e poi forse evoluta in altro, le Carceri pongono in scena in termini mitici – cioè esemplari, di macchina per pensare – il teatro degli orrori autoritari di tutte le possibili realtà storiche, e in particolare di quell’età moderna che lì sta nascendo. Denunciandoli come roba vecchia, anticaglia tirannica, un Mondo Vecchio che però insidia e corrode qualunque Mondo Nuovo: dove quella vecchiezza è più una connotazione intrinseca che un dato cronologico – e i caratteri retrivi, retroflessi dell’istanza repressiva riemergeranno e riemergono a tutt’oggi di continuo. In questo senso, le antiquarie Carceri di Piranesi inscenano il teatro della sopravvivenza nell’oggi di un certo tipo di istanza sanzionatoria, dei suoi piccoli uomini, del labirinto sociale attraverso cui si perpetua, nonché una sfida alle società via via succedute a verificare lì i propri paradigmi punitivi. Perché non accada che, come di fronte alla tavola XVI, si fatichi a tirare un sospiro di sollievo.

Fin qui sulla provocazione artistica e su quella ideale, potenzialmente giuridica, politica. Ma c’è un terzo fronte: lo scavo nel passato evocato dal mix di suggestioni delle Carceri è anche lo scavo in dimensioni labirintiche dell’interiorità. Già dice qualcosa che Piranesi lo avvii come un Capriccio: non tanto quelli dei decori rococò (del resto si è già visto come tratta le sue Grottesche) quanto altri più algidi, i terribili capricci della tradizione libertina. All’apollineo di Winckelmann, Piranesi oppone un dionisiaco rabbioso, estatico ma aggredito dalla malinconia libertina (quella che l’ottocento riverserà sui vampiri letterari): il vedo/non vedo dei supplizi da lui posti in scena in un apparato grandioso finisce con l’usare i chiaroscuri come uno spioncino. Se nei coevi mondi novi – macchine ottiche di intrattenimento popolare – proprio su uno spioncino si poneva l’occhio, uno solo, in quella ben diversa macchina ottica a scene mutanti che sono le Carceri, Piranesi permette di puntare idealmente il “solo” occhio ciclopico dello spettatore sul Mondo Vecchio dei supplizi in scena.

In un’incisione allegorica che nel 1764 Piranesi trae da un disegno del Guercino, al centro si può riconoscere una tavolozza da pittore con la scritta tra i colori: “col sporcar si trova” (cfr. Francesco Dal Co, “Piranesi e la malinconia”, in La Rivista di Engramma, gennaio 2001, n. 5). Nel dialogo tra Didascalo e Protopiro, gli interlocutori della sua principale opera teorica, il Parere sull’architettura (1765), si comprende cosa intenda: lo sporco è anzitutto il risultato dell’azione corrosiva del tempo e per afferrarne l’essenza chi inventa deve sporcare, usare l’impurità e giocarvi, avventurarsi con audacia tra “ornamenti tutti stranieri” per trovare correttivi. Sporca e impura è appunto l’architettura, dove la magnificenza si trova accompagnata costantemente da un polveroso decadere, e sta all’architetto tentare di mitigarlo confrontandosi di continuo con esso (come hanno fatto, secondo lui, i romani con la magnificenza ormai corrotta e sporca dell’arte greca). Qualcosa del genere riguarda il torbido delle Carceri, uno sporco di chiaroscuri fatto mordere alla lastra di rame dallo sguardo ciclope dell’artista melanconico – uno sguardo ciclope che è anche quello di un’epoca che va scoprendosi moderna, tra diversi tipi di Lumi e d’illuminazioni, talvolta molto livide.

Così Piranesi inserisce quei corpi prigionieri in un carcere sporco di secoli e di magnificente grandezza; osserva con freddezza quelle formiche umane torturate o torturanti, senza prender parte ai loro drammi sul palcoscenico di un mondo dove regnano il caso e l’assurdo (merita ricordare quell’amico di Walpole, George Augustus Selwyn, 1719-1791, nato solo un anno prima di Piranesi e appassionato cultore di scene di morte, sui patiboli e non solo); connette i supplizi ad attrezzature d’invenzione dall’ingombro quasi steampunk, a un passo dal corpo-macchina dei libertini e prefigurando le macchine di Sade. Se la vita è metafora del tempo, anch’essa e il corpo stesso tendono alla corruzione, allo sporco: e l’invenzione ha per Piranesi il posto che l’immaginazione ha per Sade. Il chiaroscuro a quel punto non è solo un effetto d’acquaforte, ma forse qualcosa nella morsa acida dell’animo, uno spioncino che gioca col suo sporco. Di Piranesi, con tutti i suoi misteri, e in fondo del mondo moderno.

]]>
LUDD ovvero dell’insurrezione permanente https://www.carmillaonline.com/2018/07/26/ludd-ovvero-dellinsurrezione-permanente/ Wed, 25 Jul 2018 22:01:27 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=47303 di Sandro Moiso

La critica radicale in Italia. LUDD 1967-1970, con una Introduzione e una memoria di Paolo Ranieri e una ricostruzione storico-politica a cura di Leonardo Lippolis, NAUTILUS, Torino 2018, pp. 570, € 25,00

In questi giorni bui, in cui di fronte al riproporsi di un governo reazionario e razzista l’antagonismo sociale non sembra saper far altro che riproporre modelli di azione politica e di organizzazione ripescati pari pari dai vecchi Fronti popolari e dalla peggiore tradizione catto-comunista e stalinista, questo primo volume del progetto destinato a ripercorrere le vicende della critica radicale italiana dalla fine degli anni Sessanta [...]]]> di Sandro Moiso

La critica radicale in Italia. LUDD 1967-1970, con una Introduzione e una memoria di Paolo Ranieri e una ricostruzione storico-politica a cura di Leonardo Lippolis, NAUTILUS, Torino 2018, pp. 570, € 25,00

In questi giorni bui, in cui di fronte al riproporsi di un governo reazionario e razzista l’antagonismo sociale non sembra saper far altro che riproporre modelli di azione politica e di organizzazione ripescati pari pari dai vecchi Fronti popolari e dalla peggiore tradizione catto-comunista e stalinista, questo primo volume del progetto destinato a ripercorrere le vicende della critica radicale italiana dalla fine degli anni Sessanta alla fine degli anni Settanta costituisce un’autentica boccata d’aria pura. Un po’ come aprire una finestra di un appartamento situato al centro di una grigia e inquinata metropoli per scoprire, inaspettatamente, che questa si affaccia su un magnifico paesaggio montano di nevi eterne, dirupi scoscesi e boschi verdissimi e selvaggi.

Le edizioni Nautilus che fin dai loro inizi pubblicano e ripubblicano testi di quel pensiero radicale che ha avuto nel Situazionismo una delle sue massime espressioni ma che, prima di tutto, affonda le sue radici nella insorgenza giovanile e proletaria che ha contraddistinto da sempre e, in particolare, fin dal secondo dopoguerra la “naturale” reazione di classe rivoluzionaria sia al capitalismo occidentale che al suo mostruoso alter ego rappresentato dal cosiddetto “socialismo reale”, con questo volume iniziano un’operazione che più che d’archivio pare essere più di riscoperta (per i lettori più giovani) e rivendicazione di un pensiero e di una pratica che dell’insorgenza continua contro ogni forma di potere costituito e ogni formulazione teorica tesa alla conservazione dell’esistente hanno fatto la propria ragione d’essere.

I due volumi che sono annunciati per il prosieguo dell’opera si occuperanno successivamente dei testi, giornali, bollettini e volantini prodotti all’interno del Comontismo, di Puzz, Insurrezione e Azione Rivoluzionaria e si intitoleranno Comontismo 1971-1974 e Insurrezione 1975-1981 e andranno ad affiancarsi ai due testi già precedentemente editi che raccoglievano tutti i numeri della rivista prodotta dall’Internazionale Situazionista1 e tutti i bollettini pubblicati dalla precedente Internazionale lettrista.2

Se, però, l’esperienza dell’Internazionale Situazionista è stata in qualche modo parzialmente digerita dal sistema mediatico e politico attuale, ben diversamente potrà avvenire per una produzione testuale e, lo ripeto ancora una volta, per una pratica militante che fin dagli esordi furono tacciate sia dal PCI che dai gruppuscoli nati alla sua sinistra (in primis l’orrido Movimento Studentesco di Mario Capanna) come provocatorie, irresponsabili e, in alcuni casi, “fasciste”.

Anche se l’opera non intende affatto costituire una celebrazione di pratiche e militanti come Giorgio Cesarano, Riccardo D’Este, Eddie Ginosa, Gianfranco Faina, Mario Perniola e molti altri ancora, senza dimenticare la vicinanza con Danilo Montaldi, poiché come afferma Paolo Ranieri nella sua introduzione:

“E’ ora, infatti, di dire basta alla moltiplicazione incessante e interessata di manifestazioni “in memoria”. Come il Primo Maggio […] ideato per essere l’appuntamento annuale con quel vagheggiato sciopero generale che spostava la presenza potenziale dell’insurrezione possibile insieme con l’assenza di rivoluzione attuale: da quando, con l’iterazione e la corrosione del tempo passato e il sequestro della produzione di memoria da parte delle istituzioni, ci si è scordati di questo, si è definitivamente degradato in una sorta di Pentecoste, rito lagnoso di una neo-religione per schiavi, aspiranti schiavi e liberti, meritevole di essere fuggito come la peste […] E lo stesso si può affermare senza esitazioni per il 25 aprile, il 12 dicembre, il 14 luglio […] ciascuno con le precise specificità che gli valgono un posto in questo martirologio della laica religione della disfatta, celebrata senza posa e senza vergogna dai voltagabbana incartapecoriti dalla nostalgia e dai militanti del conformismo”.3

Come si può ben comprendere fin da queste poche righe, che danno la cifra esatta del discorso anti-retorico e di rottura che la critica radicale italiana ha portato avanti fin dai suoi albori, non vi è possibilità di mediazione, di reciproco seppur parziale coinvolgimento e neppure di pace armata tra una miserabile concezione della politica di “sinistra” che ha fatto della sconfitta e della collaborazione di classe la sua terra d’adozione ed una visione che dell’iniziativa rivoluzionaria ed insurrezionale dal basso, proletaria e giovanile, ha fatto la sua ragione di esistere.

Continua, anzi anticipa, poi ancora Ranieri:

“Non possiamo nascondere a noi stessi che operazioni-memoria come la presente – intese a isolare una vicenda del passato raccogliendone i documenti in un’edizione che, elaborata dai superstiti stessi, aspira a mostrarsi critica, completa, definitiva, TOMBALE – rappresentano uno dei mille espedienti che l’universo delle merci adotta per frenare la propria inarrestabile entropia”.4

Sì, perché è proprio l’universo mercantile, con la rapida diffusione della sua capacità di affascinare e addomesticare l’immaginario proletario e sociale, l’altro obiettivo della critica radicale che, però, non intende semplicemente destrutturarne le basi e i principi ma, molto più semplicemente, distruggerlo insieme ai rapporti sociali e di produzione che lo alimentano. La necessità potrebbe rivelarsi essere proprio quella, già enunciata da De Sade, che l’insurrezione debba costituire la condizione permanente di ogni repubblica.

La sintetica ricostruzione storica della formazione, a Genova, prima del Circolo Rosa Luxemburg e poi di LUDD – Consigli proletari fatta da Leonardo Lippolis permette al lettore-militante di riscoprire le origini di tali formulazioni ed ipotesi non solo a partire dalle occupazioni studentesche delle Facoltà universitarie fin dal 1967, che impressero una spinta decisiva in quella direzione, ma fin dalle insurrezioni operaie e proletarie di Berlino Est nel 1953, dell’Ungheria nel 1956 e nelle rivolte italiane del luglio del 1960 e di Piazza Statuto nel 1962 a Torino.

Insieme alle interpretazioni che sorgevano dalle riletture dell’esperienza rivoluzionaria sulle pagine di “Socialisme ou Barbarie”, nei primi numeri dei “Quaderni Rossi” e successivamente dell’Internazionale Situazionista si evidenziava però sempre il fatto di come l’insorgenza proletaria fosse una costante, dalla Comune di Parigi in poi e allo stesso tempo come le trame “partitiche” finissero sempre con l’ingabbiare e limitare l’espressione del desiderio di rivoluzione e superamento dell’esistente compreso all’interno dell’esperienza dei Consigli.

Anche se proprio la scelta del nome del gruppo di cui sono raccolti principalmente i materiali in questo primo volume, LUDD, rinvia ad esperienze precedenti ed egualmente radicali. E’ proprio sulla tracci dell’interpretazione data dallo storico inglese Edward P. Thompson, nella sua opera più importante,5 del luddismo che si forma la convinzione che la rivolta spontanea del lavoratori delle campagne inglesi contro l’introduzione delle macchine fosse tutt’altro che una forma primitiva, arretrata e tutto sommato conservatrice di lotta di classe. Negando così un’interpretazione “progressista” del capitalismo che nelle sue conseguenze ha finito col trasformare i partiti “socialisti” o “comunisti” che la sostenevano in strumenti di conservazione politica, economica e sociale. Insomma i proletari inglesi dell’epoca delle guerre napoleoniche erano già più avanti di coloro, ad esempio i cartisti, che si sarebbero poi fatti loro portavoce e rappresentanti come tutta la deriva tradunionista, socialdemocratica e infine stalinista che ne sarebbe poi conseguita.

E’ proprio per questo motivo che i fondatori del movimento andarono progressivamente allontanandosi da quella componente operaistica di cui avevano inizialmente condiviso una parte del cammino. E che contribuì ad allontanare alcuni di loro anche da Raniero Panzieri che, proprio a proposito della rivolta di Piazza Statuto, in un primo momento aveva commentato la giovanile rivolta operaia come “quattro meridionali che tirano le pietre”. Questa memoria, contenuta nella ricostruzione di Lippolis, mi fa ha fatto tornare in mente che fu proprio in occasione di quella rivolta, e degli atteggiamenti assunti nei suoi confronti da Pajetta e dal PCI, che due proletari come Sante Notarnicola e Giuseppe Cavallero decisero di stracciare la tessera del Partito. Mentre esponenti dell’operaismo come Antonio Negri e Mario Tronti decidevano in quegli stessi anni di praticare una forma di entrismo nello stesso. Come dire che l’istinto proletario batte la riflessione filosofica 1 a 0.

“La Lega operai-studenti, che rivendicava l’eredità dei Consigli operai, insisteva invece sulla necessità di trovare nuovi canali di insubordinazione, non necessariamente legati alla fabbrica, rigettando l’impostazione gerarchica e centralizzatrice leninista. La Lega operai-studenti negava ogni valore alla lotta rivendicativa di natura economica a scapito di una critica radicale del lavoro salariato, bollato come inumano e assurdo […] «La critica rivoluzionaria – recita il significativo passaggio di un manifesto del gruppo – deve interessarsi di tutti gli aspetti della vita. Denunciare la disintegrazione delle comunità, la disumanizzazione dei rapporti umani, il contenuto e i metodi dell’educazione capitalistica, la mostruosità delle città moderne» (I 14 punti della Lega degli operai e degli studenti)”.6

I documenti riportati in più di trecento pagine sono innumerevoli ed interessanti: dai testi prodotti dalla Lega degli operai e degli studenti che si andò formando nella cerchia di militanti del Circolo Rosa Luxemburg a quelli prodotti dal Comitato d’azione di Lettere fino ai tre bollettini prodotti da LUDD e all’Appello al proletariato infantile contro l’infantilismo borghese passando per il testo di critica ai gruppuscoli scritto da Jean Barrot: Sull’ideologia ultrasinsitra.

Non costituiscono però tutto il materiale raccolto nel sito Nel Vento, nato a partire da un progetto contenuto nel preambolo a Psicopatologia del non vissuto quotidiano di Piero Coppo nel settembre del 2006. In cui si affermava:

“Dalla metà degli anni ’60 si è sviluppato in Italia un movimento che, sotto diversi nomi e sfumature differenti, ha condotto una battaglia teorico-pratica per l’affermazione di una rivoluzione che, nella propria concezione, non poteva che avere come base la critica della vita quotidiana. Precursori dei tempi, questi gruppi inquadrarono la questione della rivoluzione in termini anti-ideologici fuori e contro il militantismo caratteristico di quegli anni e del decennio successivo.
Le donne e gli uomini che si unirono in questi gruppi sono stati i primi e gli unici a porre come criterio, per cogliere il senso di un vissuto rivoluzionario diversi concetti che oggi sembrano evidenti […] Il Progetto Critica Radicale è di raccogliere e pubblicare i materiali prodotti dai gruppi e dagli individui che si sono riconosciuti in quelle idee”.

Idee, non dimentichiamolo mai, che non si espressero in spazi angusti o in eburnee ed intellettualistiche torri, ma sempre direttamente sul fronte del cambiamento esistenziale e politico, giorno per giorno nelle lotte e in una pratica che vedeva nel PRESENTE e non in un lontano passato oppure in un altro ancor più lontano futuro la possibilità di realizzare il cambiamento sociale necessario alla piena realizzazione dell’essere umano. Sia come singolo individuo, sia come specie.

Indispensabili, a parere di chi scrive, ancora oggi, nonostante alcune iperboli linguistiche ed alcune ammaccature dovute al trascorrere del tempo, per una discussione ed una pratica sociale e politica che non voglia rimanere chiusa all’interno della rappresentazione spettacolare dei valori borghesi travestiti da antagonismo e delle merci ideologiche che ne derivano.


  1. Internazionale Situazionista 1958-1969, Nautilus, Torino 1994  

  2. Potlatch. Bollettino dell’Internazionale lettrista 1954-57, Nautilus, Torino 1999  

  3. Paolo Ranieri, CRITICA RADICALE. GLI ANNI DI LUDD 1967-1970. Introduzione in La critica radicale in Italia, pag. 7  

  4. P. Ranieri, op.cit. pag. 5  

  5. Edward P. Thompson, Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra, il Saggiatore, Milano 1969  

  6. Leonardo Lippolis, L’occupazione definitiva del nostro tempo, in La critica radicale in Italia, pag. 35  

]]>
L’arte di intonare i mammiferi morti https://www.carmillaonline.com/2017/06/29/larte-intonare-mammiferi-morti/ Wed, 28 Jun 2017 22:01:44 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=38991 di Sandro Moiso

Hans Rickeit, The Squirrel Machine, Eris, Torino 2017, pp. 190, € 16,00

L’ambientazione vittoriana della fiaba poco educativa, recentemente pubblicata in italiano da Eris Edizioni, rinvia sicuramente, per le autentiche diavolerie tecnologiche rappresentate nelle bellissime tavole di Hans Rickeit, all’immaginario steampunk. Ma, in realtà, nello sfogliare, osservare, leggere e divagare sulle sue pagine i riferimenti più prossimi sembrano essere piuttosto “L’arte dei rumori” di Luigi Russolo, i “Quaderni di un mammifero” di Erik Satie, il cinema onirico di David Lynch e il delirio erotico-libertino del “divin marchese” De Sade.

[...]]]>
di Sandro Moiso

Hans Rickeit, The Squirrel Machine, Eris, Torino 2017, pp. 190, € 16,00

L’ambientazione vittoriana della fiaba poco educativa, recentemente pubblicata in italiano da Eris Edizioni, rinvia sicuramente, per le autentiche diavolerie tecnologiche rappresentate nelle bellissime tavole di Hans Rickeit, all’immaginario steampunk. Ma, in realtà, nello sfogliare, osservare, leggere e divagare sulle sue pagine i riferimenti più prossimi sembrano essere piuttosto “L’arte dei rumori” di Luigi Russolo, i “Quaderni di un mammifero” di Erik Satie, il cinema onirico di David Lynch e il delirio erotico-libertino del “divin marchese” De Sade.

Potrebbe apparire strano che nell’elencare i possibili riferimenti per un’opera a fumetti manchino completamente i riferimenti ad autori e lavori che si muovano nel settore dei comics, ma la potenza espressiva e simbolica, oltre che onirica, delle tavole di Hans Rickeit è tale da superare qualsiasi paragone con altri disegnatori. Al massimo, per certi aspetti del rapporto tra corpo e macchina , si potrebbe ancora fare riferimento a “Tempi moderni” di Charlie Chaplin e al “Tetsuo” di Shinya Tsukamoto oppure al teatro della crudeltà di Antonin Artaud. Ancora film e teatro, ancora autori visionari seppur di epoche differenti.

L’unico autore di fumetti cui Rickeit sembra essere debitore è sicuramente Winsor McCay che con il suo Little Nemo, pubblicato sul supplemento domenicale del New York Herald tra il 1905 e il 1911 e successivamente su quelle del New York American tra il 1911 e il 1913, raggiunse agli inizi del XX secolo vertici simili, sia per complessità e bellezza delle tavole che per dimensione onirica. Cosa che spinse il pubblico dei tempi a costringere McCay a riprendere ancora il suo personaggio tra il 1924 e il 1927 (nuovamente sul New York Herald).

L’autore, statunitense, è nato nel 1973 a Ashburnham, Massachusetts, in quella parte di America dove sembrano essersi concentrati tutti gli incubi dei Padri fondatori e del loro puritanesimo. E proprio dagli incubi e dai suoi sogni il cartoonist americano ammette di trarre gran parte dei suoi materiali, fin dalle short stories e dai cortometraggi che hanno agli inizi caratterizzato il suo percorso artistico ed espressivo. Così, tenendo conto che Rickeit si è anche esibito talvolta con la musicista Katt Hernandez,1 si può affermare che il disegnatore americano, pur avendo scelto il cartoon come suo principale strumento d’espressione, sia nei fatti un artista multimediale.

D’altra parte le vicende di The Squirrel Machine sono difficilmente narrabili dal punto di vista di una logica consequenziale oppure “romanzesca”, mentre il flusso delle immagini che rivelano poco per volta le vicende dei due protagonisti, i fratelli Edmund e William Torpor, e di coloro che li circondano, appartengono di più al mondo del sogno o dell’improvvisazione musicale, quando questa abbandona la partitura per rivelarci mondi e sonorità, impressioni e sensazioni inaspettate. Talvolta deliziose e talvolta inquietanti.

Il titolo stesso può essere tradotto in italiano sia come La macchina scoiattolo, con un richiamo alle macchine che sfruttano i corpi morti degli animali presenti nelle vicende narrate, sia come La macchina (molto) eccentrica, più adatto il secondo a definire gli strumenti utilizzati ed inventati (forse soltanto sognati?) dai fratelli Torpor e la “macchina narrativa” costruita dall’autore.

Addentratevi in questo mondo con la mente aperta e senza nutrire aspettative. Datevi tempo per entrarci dentro, tenendo questo libro poggiato sul comodino. Leggetene una manciata di pagine prima di addormentarvi, come per un rito preparatorio. Vi è mai successo di sognare di cadere e durante la caduta rendervi conto di essere in un sogno, e ricordarvi di aver già sognato più volte quella caduta nella vostra vita, e al risveglio ricordarvi nel dormiveglia il sogno con chiarezza «sapendo» che il «ricordo» dei sogni precedenti non era che parte di un sogno che stavate facendo per la prima volta? Gli attori dell’opera di Hans sono in caduta continua, e nella caduta ogni cosa è uguale”. Così afferma E. Stephen Frederick in una sorta di introduzione al testo e non potrebbe riassumere meglio la sensazione che si prova leggendolo.

Una caduta del lettore e della sua immaginazione in un vortice di macchine sonore che sembrerebbero tratte direttamente dagli intona-rumori di Luigi Russolo, se non fossero invece realizzate con teste di maiali, carcasse di vacche e piccoli scoiattoli morti o meccanizzati. Un vortice in cui la caduta, seppur tragica nel finale, è pur sempre estremamente liberatoria. Una caduta in cui le storie di ragazzine vittoriane, destinate a perdere l’innocenza e la vita, si accompagnano alle vicende di una sorta di affascinante e maledetta Circe campagnola, a giovani amanti che si accoppiano tra improbabili ingranaggi oppure che fanno l’amore tra milioni di lumache, e a quelle della madre dei due fratelli, sospesa quest’ultima tra una perversa attività creativa, la malattia mentale e il puritanesimo di facciata più rigido allo stesso tempo.

Un mix di situazioni in cui il “delitto” artistico ci attende sempre appena dietro la porta, come nella migliore musica contemporanea e nell’improvvisazione che la caratterizza. Un viaggio in cui Rickeit, come un hobo americano degli anni Venti, salta da un treno in corsa ad un altro, da una carrozza all’altra, senza preoccuparsi che noi, gli inseguitori, si riesca davvero a stargli dietro e non si finisca invece stritolati dalle ruote dell’ingranaggio. Annullamento che, però, potrebbe rivelarsi piacevole poiché di incubi inquietanti si tratta, ma mai terrorizzanti.

L’arte è pericolosa. O dovrebbe esserlo. Il suo scopo non è quello di tranquillizzare.
E’ lo stesso Rickeit ad affermarlo in una recente intervista rilasciata in occasione del Napoli Comicon 2017,2 in cui ha rivelato anche altri aspetti del suo lavoro: “Ai miei occhi le macchine sono sia estensioni delle persone che replicanti. Per me le persone sono oggetti, oggetti con il dono della consapevolezza. Non so da dove venga la loro scintilla vitale ma sono tutti oggetti preziosi e c’è poca differenza. Il confine tra persone e cose è labile.”

In queste premesse sta probabilmente il segreto della complessità e, allo stesso tempo, dell’attrattiva esercitata da The Squirrel Machine sul lettore: una sorta di metafora della ricerca e della libertà di espressione artistica in cui, proprio come succede ai due fratelli protagonisti del fumetto, l’autore è semplicemente un tramite che non crea, ma che si limita a “fare” ciò che la realtà o i sogni di cui si alimenta gli suggeriscono. Fino alle più estreme conseguenze.
Dando così vita ad un vertiginoso viaggio nel perturbante e nel gotico americano, quell’autentico magma di desideri, paure e rimozioni che si agitano appena sotto la superficie di tanta letteratura (da Poe ad Hawthorne o all’attuale Ligotti), pittura e musica popolare statunitense.

A questo punto, per concludere il discorso, si rende però necessario tornare con la mente a Isidore Isou, fondatore del Lettrismo e precursore dell’Internazionale Situazionista, che negli anni ’50 immaginava una nuova architettura in grado di “far emergere i desideri dimenticati e la creazione di desideri totalmente nuovi” utilizzando “In luogo dei vecchi materiali poveri e limitati (legno, mattone, metallo) – altri totalmente – “nuovi: fiori, libri, legumi, comete, meteore, farfalle o elefanti, o parti di cadaveri o esseri viventi“.3 Assunto, allo stesso tempo artistico, politico e psichico, che Rickeit, con le sue immagini, sembra realizzare compiutamente, anche se forse inconsapevolmente.

Una perfetta lettura per le vacanze di chiunque abbia ancora tempo per il sogno, anche ad occhi aperti. Una sorta di livre de chevet da tenere sempre a portata di mano per far fronte alla calura e alla noia estiva. Da riprendere a leggere in qualsiasi punto e da qualsiasi pagina, procedendo in avanti oppure all’indietro come forse ogni buon libro dovrebbe permettere di fare al lettore. Magari in attesa che, in un prossimo futuro, le edizioni Eris vogliano offrirci la versione italiana di un’altra magnifica opera di Rickeit: Cochlea & Eustachia (di cui si propone un assaggio con la tavola riprodotta qui a fianco).


  1. Nata nel 1974 ad Ann Arbor nel Michigan, la violinista si è dedicata fin dagli esordi alla musica microtonale e all’improvvisazione e vive oggi a Stoccolma pur mantenendo forti legami con gli ambienti artistici di Boston e Filadelfia  

  2. http://www.panorama.it/cultura/fumetti/hans-rickheit-the-squirrel-machine-intervista/  

  3. Mirella Bandini, L’estetico e il politico, Officina Edizioni, Roma 1977, pag.47  

]]>