David Maria Turoldo – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 30 Apr 2025 21:35:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 David Maria Turoldo: il mio amico don Milani https://www.carmillaonline.com/2024/03/09/david-maria-turoldo-il-mio-amico-don-milani/ Sat, 09 Mar 2024 22:55:12 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81652 di Francisco Soriano

Il mio amico don Milani è un libro di appunti scritto da David Maria Turoldo a testimonianza del rapporto umano e spirituale vissuto con il parroco di Barbiana fino alla sua scomparsa, avvenuta nel 1956 a Firenze. La premessa che Turoldo riserva a questo testo appare necessaria al fine di definire con chiarezza i contorni di una vicenda drammatica e polemica, che ha riguardato fino ad oggi la figura e l’opera pedagogica di don Milani. La prova che il dibattito rimane ancora vivo è stato l’intervento di qualche mese fa del maître à penser della destra nostrana Marcello Veneziani, [...]]]> di Francisco Soriano

Il mio amico don Milani è un libro di appunti scritto da David Maria Turoldo a testimonianza del rapporto umano e spirituale vissuto con il parroco di Barbiana fino alla sua scomparsa, avvenuta nel 1956 a Firenze. La premessa che Turoldo riserva a questo testo appare necessaria al fine di definire con chiarezza i contorni di una vicenda drammatica e polemica, che ha riguardato fino ad oggi la figura e l’opera pedagogica di don Milani. La prova che il dibattito rimane ancora vivo è stato l’intervento di qualche mese fa del maître à penser della destra nostrana Marcello Veneziani, in un articolo apparso su «La Stampa» il 27 maggio scorso, dove si apostrofava negativamente l’azione pedagogica del parroco definendola addirittura come una nociva utopia.

David Maria Turoldo nell’introduzione al testo ci informa della sua intima necessità, in un momento storico connotato da stravolgimenti sociali e politici, di emergere dal silenzio e finalmente parlare di don Milani: Quando qualche volta mi è capitato di confessarlo, allora veramente ho sentito, per merito di lui, quanto grande e misterioso è questo sacramento della fraternità e del perdono. Cose troppo delicate per dirle in un qualsiasi articolo. Anzi, è questa una delle ragioni per cui io su don Milani ho preferito piuttosto tacere. E però questa volta, davanti a certe manipolazioni e storpiature, il silenzio poteva essere anche una colpa. Da sottolineare che, molto spesso, alcuni atteggiamenti della classe dirigente italiana hanno rappresentato in generale nei confronti della proposta di cambiamento sociale e di un fermo richiamo all’uguaglianza sul terreno dei diritti più elementari, la proiezione di una ideologia fortemente conservatrice animata da un visionario ritorno al passato con la prospettiva esplicita di consolidare uno status presente di privilegio e potere.

Nella polemica sull’opera di don Milani è emersa talvolta una tendenza a derubricare la figura del parroco a personaggio di culto, rendendo meno pregnante la sua idea di scuola finalmente e realmente democratica. Dal ’68 in poi, una parte consistente di persone ha sostenuto che la pedagogia di don Milani sia stata negativa e controproducente: un esempio ideale e pratico di un modello che preconizzava una scuola non dei ricchi ma di tutti, col professore uguale ai suoi alunni, dialogante, senza bocciature e senza autorità, perché “l’obbedienza non è una virtù”. Sul concetto di potere e autorità ritengo che il pensiero di don Milani sia stato ampiamente frainteso.

David Maria Turoldo intervenne già ai suoi tempi, titolando uno dei suoi interventi: Don Milani non era come dite voi! Nonostante fra don Milani e Turoldo vi fossero differenze quasi abissali, per molti aspetti permaneva la comune idea e la necessità di fare luce sulla statica e sonnolenta posizione del cattolicesimo italiano, rintanatosi in una sorta di strategica e comoda stabilizzazione frutto della “vittoria” elettorale del 18 aprile 1948.

Al fine di non servirsi di dati non riferibili, di interpretazioni fasulle, o finire in cliché di parte, Turoldo ammette di aver sempre stentato a parlare di lui: un uomo con cui non si può scherzare; un uomo di denuncia e di radicale rottura e assoluta: denuncia che provoca resistenze a non finire, e condanne a diluvio come tutti sappiamo. In tempi in cui soprattutto intellettuali come Pasolini argomentavano sul dopoguerra italiano, macroscopicamente si determinavano contraddizioni sociali fortemente drammatiche, per il passaggio inevitabile da una civiltà agraria a quella industriale e l’esplosione di infiniti problemi di cultura, società, religione. Società in sfacelo; moltitudini di poveri senza speranza; tempi di industriali-vampiri; valori e ideali in terribile crisi. Era da questo momento e da questo spazio, dove su tutto campeggiava il protagonista e la vittima: il povero, che nasceva don Milani.

Per Turoldo l’amico don Milani era soprattutto un uomo concreto. Era questa una chiave di lettura ineludibile se si voleva comprendere la complessità di questo personaggio. Uomo incarnato in fatto di fede, perché rimasto intimamente ebreo, Turoldo ci fa capire perché il parroco di Barbiana pensasse che l’antico testamento non va disgiunto dal nuovo, quanto la legge non va disgiunta dallo spirito, la giustizia dalla carità. […] È la sua conversione che è la chiave per entrare nel suo segreto. Dunque la concretezza rappresenta lo spazio della vera complessità che sfugge anche alle più raffinate sintesi teoriche: per questo don Milani era monoliticamente determinato all’azione e al fare. Quella di don Milani era una Torah e una chiesa osservata e vissuta fino alla scrupolosità; una realtà da mai più abbandonare, costi quel che costi, anche il martirio se necessario. […] Una fede sempre rapportata al povero, basata sullo stesso istinto ebraico, chiamata a farsi corposità, appunto, storia.

Don Milani era un prete poco fiducioso nei confronti degli intellettuali, perché basava la propria vita sulla concretezza, la corporeità, così poco propenso ad accettare il piano astratto delle cose. Come uomo di fede reputava l’ingiustizia come un peccato del mondo, la povertà rappresentava il culmine di questa divaricazione in seno alla società fra chi poteva definirsi un uomo libero e chi invece era costretto allo sfruttamento e alla sudditanza. E non lontano da questa dinamica che è alla base delle lotte e delle contraddizioni, profetizzava quel male che sarebbe presto sfociato negli eccidi: egli vide alla fine del secondo millennio «l’ora della resa dei conti… quando tutto il nostro mondo sbagliato sarà stato lavato in un immenso bagno di sangue».

Turoldo ha contribuito con il suo saggio su don Milani a chiarire un punto focale della dottrina religiosa e umana di quest’uomo duro, seppur umile, violento quanto dolce nel perseguire la sua idea di giustizia sociale. Il rapporto con l’autorità era uno di questi punti decisivi, soprattutto se si considerava che egli riconosceva l’autorità ma non il potere, sia nella battaglia che condusse contro i militari, sia nel rapporto con la chiesa. Infatti non accettava «la chiesa carismatica, invisibile e piena di umori», bensì il corpo, il corpo di Dio e, per relazione, il corpo della chiesa, che vuol dire organizzazione, disciplina e autorità. Dicendo infatti che l’obbedienza non era una virtù, affermava che il potere spersonalizza, al contrario dell’autorità che, liberante, fa crescere. Per questo motivo egli si scagliava contro il potere e con la opposta ferma convinzione rispettava l’autorità: potere e autorità erano per don Milani inversamente proporzionali.

L’ultima considerazione, infine, va fatta per l’uomo di fede, che don Milani incarnava in modo assoluto. La sua era la fede di un convertito: per questo divenne «ragione di vita o di morte, un assoluto». Per Turoldo infatti il convertito, il neofita, assume le posizioni estreme di chi vuol cambiare il mondo, e lotta per raggiungere il fine con qualsiasi mezzo e a qualsiasi costo. Don Milani era anche questo.

La sua azione incentrata sul povero si basava sulla lotta alla prima e originaria ingiustizia che era la sua condizione di ignoranza, la sua mancanza di conoscenze che non consente di affrancarsi dal potere, appunto, e dallo sfruttamento. La sua pastorale si fondava su una convinzione: prima educhiamo e formiamo l’uomo, poi l’uomo penserà da sé. Su questo assioma e con questa fede la sua opera è stato l’esempio più lampante e coraggioso del messaggio evangelico dell’uomo di Nazareth.

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Udii una voce (parte quarta) https://www.carmillaonline.com/2024/01/07/udii-una-voce-parte-quarta/ Sun, 07 Jan 2024 22:55:08 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80704 di Francisco Soriano

Giuseppe Ungaretti, nella premessa scritta alla silloge poetica di David Maria Turoldo Udii una voce, così sottolinea:

la poesia di Davide Turoldo è poesia che scaturisce da maceramento per l’assenza-presenza dell’Eterno, presenza in tortura di desiderio, assenza poiché dall’Eterno ci separa l’effimero nostro stato terreno, al quale tiene tanto la nostra stoltezza.

Come spesso accade nella poesia di Turoldo, alcuni versi introducono l’intera raccolta con postulati che gettano il lettore in una malinconica e un’intima attesa: Non per me il pulito verso. / Uno scabro sasso la parola / nelle mie mani. / Intanto che gli affetti dissepolti / [...]]]> di Francisco Soriano

Giuseppe Ungaretti, nella premessa scritta alla silloge poetica di David Maria Turoldo Udii una voce, così sottolinea:

la poesia di Davide Turoldo è poesia che scaturisce da maceramento per l’assenza-presenza dell’Eterno, presenza in tortura di desiderio, assenza poiché dall’Eterno ci separa l’effimero nostro stato terreno, al quale tiene tanto la nostra stoltezza.

Come spesso accade nella poesia di Turoldo, alcuni versi introducono l’intera raccolta con postulati che gettano il lettore in una malinconica e un’intima attesa: Non per me il pulito verso. / Uno scabro sasso la parola / nelle mie mani. / Intanto che gli affetti dissepolti / marciscono come foglie staccate / dalla pianta. Questi i miei giorni vuoti di pudore, / i miei canti senza note / la verità senza amore. Anche in questa occasione la negazione, in una funzione argomentativa, è l’ammissione di una condizione opposta, che avviene alla stregua di un vuoto, fra canti senza note e verità senza amore. Nell’assenza infatti si sperimenta senza veli quanto sia fugace-inutile-apparente un esistere lontano dal concepimento dell’eterno, dell’irripetibile, del sorprendente. Canti della solitudine ma anche racconto della nostra stoltezza, inappagante status misto a vanità ed effimera soddisfazione: testi forse rivolti a chi è oceano oscuro / in onda esausta sulla rupe / in un risucchio agli argini.

In Turoldo stupefacente è la parola, momento-spazio-contenuto, non solo segno che assolve in pieno al tentativo di uno smascheramento, che funge da metodo e processo analitico, che compie la sua iperbole schiantandosi nel dubbio e nell’arcano. Così specificava Turoldo nella sua autobiografia, parlando dell’ispirazione di Pascal nella scrittura de Il Grande Male: in quanto il mio timore fondato circa questa nostra civiltà non è tanto il viaggio dal Nulla verso il Tutto quanto, per inversione di marcia, un andare – se non è anche un precipitare – verso il Nulla. Noi moriremo perché adoriamo cose da nulla, i nostri sono gli dei del Nulla, il Grande Vuoto. Questa onnivora passione del Nulla.

Dunque la domanda di Turoldo è a cosa affidare “la vittoria finale sul nulla”. Egli narra della sua relazione e del suo dialogo quasi quotidiano sulla morte, soprattutto sul problema di che cosa sia e di quanto si “ami” la morte stessa. Nello stesso tempo, in modo speculare, gli stessi quesiti vengono posti per il senso della vita, definita come questo grido senza eco lanciato sull’infinito. E proprio questo è il punto sulle difficoltà di percorrere le strade che ci conducano verso soluzioni almeno soddisfacenti, perché senza il confronto, il dubbio e le asperità che produce, a nulla è possibile giungere: ogni proposito sarà vano, imperfetta ogni decisione, e quindi sbagliata. La consapevolezza che ogni bagliore di grazia come ogni disperazione saranno al tempo stesso legittimi e vani. Per descrivere questo stato di cose, Turoldo narra con la solita immane forza poetica, seppure in prosa autobiografica, la condizione di questa “traversata” che è l’esistenza nel quotidiano: tutti felici e sempre inquieti: appunto, con la gioia nel cuore e “con la morte sulle braccia”, con la cenere posata sulle stesse parole che cantano la gioia, con i denti legati di cenere appena tu assapori i frutti dell’albero. Ecco la sintesi impossibile, il vero e il vano insieme, la vita con le sue pulsazioni e il nulla profondo che ci getta in un vortice di ambigua permanenza. Dunque, che rimane? Turoldo dice a chiare lettere e senza dubbio di sorta che la poesia è salvezza.

Nell’analisi sulla funzione del cantare poetico, Turoldo argomenta con la perizia di un uomo di fede le proprie convinzioni. Come premessa al suo dissertare, afferma infatti che una qualsiasi fede non basta. Qual è l’origine della poesia? Da dove nasce? La risposta in apparenza semplice nasconde invece complessità, perché è proprio nel modo di credere che si ritrova il senso e anche una discriminante per chi intende narrare in poesia: ogni poeta si distingue da un altro per il suo peculiare e inconfondibile modo di credere. Di più: là dove mette in atto la sua fede, lì è inconfondibile poeta; tutto il resto finisce nel generico, nell’ammasso lirico; finisce nella confusione letteraria del “de comune”. In questa verità chiara e incontestabile ritroviamo il senso del nostro poetare, ma anche il giudizio che diamo a noi stessi nella ricerca di una dignità nello scrivere che si ottiene con lo studio, l’onestà, vivide lacerazioni e vorticose gioie. Turoldo sottolinea che la prima cosa da chiedere a un poeta è in cosa crede, al fine di sentire cosa e come canti!

Lungi dal ritenere la fede come qualcosa di legato indissolubilmente a un credo religioso specifico, la sua dimensione risiede in una visione cosmica, che Turoldo definisce come intuizione. La fede è, infine, stato di grazia, bagno nel mistero, partecipazione di tutto l’essere all’essere del mondo: fede come discesa al regno delle madri, come folgorazione dentro il lampo della notte, dentro la tempesta: per cui tu vedi le cose mentre si inceneriscano le pupille. Fede come immersione nel noumeno. Perciò nessuno parli mai di un poeta ateo. Se è ateo non può essere poeta. Ateo sarà perché rifiuta un Dio che non c’è; allora anche io sono ateo.

Non è importante per Turoldo credere in Dio o meno, soprattutto è necessario dargli un volto, un nome, una croce. Semmai sia possibile, questo è ancora il punto cruciale, un concetto di Dio che resista al vaglio della ragione. Qual è il nome da dargli? È possibile l’interscambio degli opposti? Quella che il mistico definisce come concordia oppositorum, alla stregua di un oceano dove precisamente il naufragare è dolce? È allora il momento in cui specificare che nella ricerca del senso delle cose e della loro stessa sintesi è Dio l’infinito, non solo cosmico, e che potrebbe essere il silenzio primordiale o il suono, o la Parola generata dal silenzio: Verbo, logos, che vuol dire intellegibilità dell’essere, fonte della coscienza del mondo. Dunque il dramma che viene generato consiste nell’intervento del Tutto, in forma di Dio e di essere assoluto che, nello stesso suo esistere, postula subito come limite necessario: il Nulla. Il Nulla assolve infatti alla sua funzione, è necessario quanto l’Essere e il Tutto perché davanti al Nulla il Tutto afferma se stesso e dal Nulla trae tutte le cose: esso è il limite di demarcazione fra noi e Lui, fra Lui e la creazione che continua a fiorire dal suo essere, a fiorire e a morire. Noi di qua dal limite e Lui di là, nel suo essere, a fare argine: a tenerci sempre in vita con l’attrarci sempre a sé e, a un tempo, partecipandoci la sua stessa voluttà d’essere: Lui senza mai poter comunicarsi tutto a noi, noi senza mai riuscire totalmente a essere in Lui, essendo quel limite invalicabile. Sta qui anche il mistero di un’eucarestia; in vista di un’impossibile traversata del Nulla.

Ma dobbiamo illuderci. / Onde poter durare. / Ah, forse io non credo / che per gli altri, / io devo consolare / e cibarmi dell’altrui pena. / Sono un pugno di terra / viva; ogni parola / mi traversa / come una spada: è così che David Maria Turoldo canta in poesia un dolore cristallino, puro come la gioia, consapevole della spada che gi attraversa il cuore senza ucciderlo, lui pugno di terra viva, a sublimare la parola sulle pendici dell’Eterno.

 

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David Maria Turoldo: Il Grande Male (parte terza) https://www.carmillaonline.com/2023/12/07/david-maria-turoldo-il-grande-male-parte-terza/ Thu, 07 Dec 2023 22:55:47 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80288 di Francisco Soriano 

Sempre sul ciglio dei due abissi / tu devi camminare e non sapere / quale seduzione, / se del Nulla o del Tutto, / ti abbatterà…: è questo l’esergo, Ultima lapide, alla silloge Il Grande Male, che ci getta in un dilemma quasi inestricabile e precipita il cuore del mondo nella seduzione di un interrogativo inevitabile. David Maria Turoldo incide versi su pietre invincibili, dissemina dubbi e consapevolezze senza temere che si rimanga fedeli a un’idea sacra di esseri umani, donne e uomini sospesi sull’abisso del nulla, del perché, del nonostante tutto, del forse e del giammai.

Il Nulla [...]]]> di Francisco Soriano 

Sempre sul ciglio dei due abissi / tu devi camminare e non sapere / quale
seduzione, / se del Nulla o del Tutto, / ti abbatterà…: è questo l’esergo, Ultima
lapide, alla silloge Il Grande Male, che ci getta in un dilemma quasi
inestricabile e precipita il cuore del mondo nella seduzione di un interrogativo
inevitabile. David Maria Turoldo incide versi su pietre invincibili, dissemina
dubbi e consapevolezze senza temere che si rimanga fedeli a un’idea sacra di
esseri umani, donne e uomini sospesi sull’abisso del nulla, del perché, del
nonostante tutto, del forse e del giammai.

Il Nulla o il Tutto, comunque, ti abbatterà: incenerisce, destabilizza, incanta al
tempo stesso il lettore, che ricerca in queste parole un cammino che appare
sempre in bilico, forse in equilibrio sul filo sottile di un lungo vagare senza mèta
ma con la visione-prospettiva di una consapevole ricerca. Il dunque è per il
poeta la scansione di uno status, condizione che universalmente attraversa ogni
essere umano. Il poeta definisce, leopardianamente, la misura del dolore: Non un
frammento di cristallo a riflettere / nel pauroso buco nero dell’universo / una
scintilla di luce: / non più che una lacrima / di tua luce / in questa tenebrosa
Notte.

Nulla può essere tralasciato, abiurando alla ragione, o sacrificato al non-senso,
anche nella possente consapevolezza della sua fede in Dio: Non contro te, o
Ragione, ma oltre / ho teso il cuore: / così – lavati i sensi – / con volontà più
calma / varcherò la Notte! Varcheremo la notte, forse, dopo aver teso il cuore
oltre il visibile, il deducibile, il raziocinante, oltre il limite di ciò che ci viene
concesso dal vuoto e dall’inestricabile, imperitura ricerca dell’arcano. Il lume
che arde silenzioso e quasi invisibile nel cuore, tuttavia, non può che infittire la
Notte. L’approdo è incerto, negato è di sapere / come avverrà. Pertanto, è
l’ardimentosa impresa, / anima mia, che di notte in notte / come un cristo
solitario intraprendi / e t’incammini lungo / una via ove né madre né cireneo /
alcuno ti soccorre, / ed è tanto se, caduto, / l’abisso non ti involi. Ogni essere
umano è una monade di sofferenza: ancora sospesi e in fragile equilibrio sul
borro della propria anima nella buia sostanza del viatico; il tutto rischia di
infrangersi ed essere avvolto dal vuoto e il suo labirinto. Che cos’altro può
essere il vuoto, se non un labirinto senza pareti, un vagare senza fili che ci
possano condurre in un disperato ritorno?

Ecco il lume che rende, tuttavia, la stessa oscurità abitabile, e fa della Notte la
casa / sonante di gemiti. E poi il dubbio nelle attese estenuanti: Mio lume: /
desiderio di cosa? / Ricerca che mi consuma… Non si arresta il via vai di
uomini soli, di un’alba sul mondo, ancora una, altra luce, un giorno mai vissuto
da nessuno, ancora qualcuno è nato: con occhi e mani, e sorride. Nessuno in
fondo sa dove dirigersi, nel frastuono dei giorni normali sempre diversi, appena

la notte si avvera e il cielo s’imbrunisce. Infatti tutto deve ancora avvenire nella
pienezza, storia è profezia sempre imperfetta. Ma dove risiede il cono d’ombra,
il piano inclinato, il canto del gallo: Guerra è appena il Male in superficie: il
grande Male è prima, il grande Male è l’«Amore-del-Nulla».
David Maria Turoldo diceva di sé di essere un uomo di poche letture: il libro che
più mi ispira è il volto umano. Quanto debba essere necessario scoprire la
profondità di questa affermazione, oggi, in un mondo sospeso fra nuove
dinamiche, assetti e identità, è chiaro e visibile. La violenza è la negazione
dell’altro, la sua disumanizzazione, la sua cancellazione, è il volto dello
straniero, il barbaro, il nemico. Così come lo si riscontra in Emmanuel Lévinas,
che Turoldo cita nella sua autobiografia. Inoltre egli segnala quanto nell’etica di
questo filosofo sia determinante il faccia a faccia con l’altro, e scopre che in
questa verità è nascosto il segreto supremo della vita, pur nella pessimistica
consapevolezza che il volto che abbiamo di fronte mai si riuscirà ad afferrare per
intero, riconducendolo a noi stessi. Quel volto che non può essere solo una
statistica di dati fisici, bensì la domanda che ci rivolge, che è al contempo una
richiesta di aiuto e una minaccia: è da questa condizione che nascono in
Turoldo l’ordine e l’obbligo. Per il poeta dunque non solo Lévinas, nella ricerca
del senso del male e della violenza che caratterizza l’approccio fra gli uomini
che non intendono riconoscersi se non, molto sovente, con il volto del nemico,
ma il sottolineare quanto Dostoevskij sosteneva, quando affermava che tutti
sono colpevoli per tutti, ma io più di tutti.

Nessuno scampo per il poeta che amava guardare dietro gli anfratti del cuore
umano, apparentemente dentro questa litania di racconti che sembrano narrati
in tanti romanzi e che invece sono sempre inediti e imprevedibili. È il Turoldo
cercatore, che ritrovava nei classici russi la comprensione di quanto, in un
mondo popolato da peccatori, questi ultimi fossero insieme innocenti. Ritrovava
in Dostoevskij la teoria del doppio pensiero, che considerava come una delle più
grandi intuizioni dell’anima umana. Il doppio che gli consentiva la
sperimentazione poetica di cui era artefice profondo, e soprattutto la ricerca del
vortice entro il quale gli esseri umani si dimenano in dubbi e resistenze, ragione
e fede, amore e odio. Dagli opposti e dalla reticenza, non solo come figure
retoriche all’interno dei testi, Turoldo traeva energia e plastica fantasia,
creatività.

Restano le parole a scandagliare gli spazi e gli spiriti abitati da altri spiriti a
volteggiare in un vuoto in cui l’ultima àncora di salvezza rimane la pietà
cristiana come il solo baluardo in cui sia possibile odiarsi e amarsi nella polvere
del mondo.

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Chi sono? La profezia incompiuta in David Maria Turoldo (parte seconda) https://www.carmillaonline.com/2023/11/19/chi-sono-la-profezia-incompiuta-in-david-maria-turoldo-parte-seconda/ Sun, 19 Nov 2023 22:55:19 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80041 di Francisco Soriano

Nel primo capitolo dell’autobiografia di David Maria Turoldo, La mia vita per gli amici: vocazione e resistenza, il poeta così afferma: «Credo che nessuno possa rispondere a una domanda simile: dire di sé chi sia. Se lo sapesse, sarebbe la fine. Non è con questo che non ne riconosca la legittimità; dico solo che è una domanda che non può avere una risposta esauriente e persuasiva, tanto meno se espressa dall’interrogato. È un problema che rimanda alla storia, per quanto anche la storia sia lo spazio della profezia imperfetta, cioè della profezia incompiuta. Quel giorno che si adempisse perfettamente [...]]]> di Francisco Soriano

Nel primo capitolo dell’autobiografia di David Maria Turoldo, La mia vita per gli amici: vocazione e resistenza, il poeta così afferma: «Credo che nessuno possa rispondere a una domanda simile: dire di sé chi sia. Se lo sapesse, sarebbe la fine. Non è con questo che non ne riconosca la legittimità; dico solo che è una domanda che non può avere una risposta esauriente e persuasiva, tanto meno se espressa dall’interrogato. È un problema che rimanda alla storia, per quanto anche la storia sia lo spazio della profezia imperfetta, cioè della profezia incompiuta. Quel giorno che si adempisse perfettamente la profezia, segnerebbe la fine della storia. Così è di ogni vita: quel giorno che uno sapesse dire chi è, la sua storia sarebbe compiuta».

Il merito principale di questo irraggiungibile poeta è la capacità di interloquire con il lettore e destabilizzarne ogni possibile convinzione. David Maria Turoldo ha progettato un metodo, come in Odisseas Elitis quello del dunque, che attraversa lo spirito umano in spazi e mondi invalicabili, talvolta distopici, altre volte cristallini come nel paesaggio di una primavera assolata. La profezia è termine di significato intenso. Soprattutto nella ricerca del fine e del dove: la nostra umanità da sempre cerca affannosamente una risposta plausibile fino alla costruzione di un riferimento divino presente in tutte le religioni, in particolar modo quelle dotate di un libro sacro, in cui tutte le conseguenze delle vicende umane vengono ricondotte a un disegno, verso il quale tende uno sforzo spesso inconciliabile con la ragione, che consiste nella interpretazione o manifestazione di una profezia. L’incompiuto e l’irrisolto sono in questo autore linfa vitale e, forse, la deduzione della profezia-non-profezia consiste proprio nell’impossibilità di definire i contorni e il senso del nostro esistere.

Per Turoldo l’Io è irriducibile a qualsivoglia definizione, sfugge alle categorie, non può essere sottoposto a cristallizzazione: in questa visione in cui si esalta la persona emergono tratti di una teoria libertaria senza precedenti, perché l’impossibilità della codificazione dell’individuo è territorio caro a chi lo ritiene sacro nel suo essere pensante e nel suo corpo, in cui tutto trova conferma e sintesi. Turoldo afferma che è sempre parziale e inadeguato il giudizio o l’immagine degli altri, quanto inadeguato e insufficiente è il giudizio che di volta in volta noi, come singoli, rivolgiamo a noi stessi.

La visione positiva e immanente dell’idea che il fondo inesplorato e inesplorabile è la sorgente principale del cantare del poeta ci lascia chiaramente comprendere quanto incisiva nella concezione poetica di Turoldo sia questa intuizione. Si scopre a questo punto un Turoldo polemico, che afferma il suo Io non nei termini di un Io grammaticale come invece è quello diffuso nella poesia italiana a lui contemporanea, ma di un Io storico, cioè protagonista del proprio tempo, civile, politico, impegnato, sociale, combattivo, carico del suo bene e del suo male, carico di grazia e di peccato, che dispera e spera insieme, che benedice e maledice. Il procedimento che segue nei suoi scritti si evolve per contrapposizioni estreme, sospensioni e negazioni: è pratica stilistica propria del poeta, che svolge una intensa e complessa attività retorica nella sua poesia e nella sua prosa, straordinariamente sconvolgente e sorprendente perché si insinua nell’intimo di ognuno di noi concretandosi in valori irrinunciabili. Questo Io che è sempre in lotta, dice il poeta, che non vive di rimpianti, non è un Eden perduto, bensì da raggiungere.

Turoldo pone a se stesso quesiti semplici ma irrisolvibili: da dove vengo, di chi sono figlio, da quale terra provengo, quale terra mi porto dentro, per quali vie mi sono avventurato per il mondo. Le risposte sono date solo nell’incompiuta profezia, procedendo per negazioni e scrutando dal precipizio che ci conduce nel vuoto-nulla dove l’unico approdo rimangono le parole, la poesia, il canto. Non è un caso che Turoldo fosse un frate, un mistico più che un religioso, un povero e mai un’istituzione, un soffio sul dorso della mano e non una torre d’avorio.

Uno scaricatore del porto di Dio, amava definirsi, conciliando la fatica dell’umile-ultimo al servizio del prossimo, una immagine che lo conduceva al cuore della sua poesia, il sublime atto di amore di ciò che è inusitato nel bene e nel male. E in questa direzione, commovente, drammaticamente terreno, così affermava: È come se, impossessatasi della chiave di lettura, mi si spii dalla cella dell’anima. Perché questa è la mia abitazione – o è stata una delle mie dimore più lunghe – l’abitazione del Male, la frequentazione della mia miseria. Quanto manca David Maria Turoldo nei nostri giorni, nel nostro quotidiano, nella nostra angusta vita, è facilmente percepibile. Oggi, grazie agli strumenti che con i suoi scritti il poeta ci pone come punti di riflessione, possiamo dedurre quanto il peccato è generatore primo della nostra esistenza, segnando la frattura ontologica dell’esistenza con l’Essere. Momento irrinunciabile nella poetica di Turoldo e nella sua architettura teorica di un pensiero assolutamente originale e fondante alcuni valori della civiltà occidentale. Turoldo rappresenta uno dei massimi pensatori del Novecento italiano ed europeo, scopre l’originarietà del male e disserta sulla sua positiva quanto rigenerante forza negli esseri umani. Così, nella ricerca che compie attraversando meandri impercettibili alla moltitudine, percepisce[sente] che il concetto di peccato non può essere banalmente ricondotto a semplice evento di tipo moralistico, bensì è momento di angoscia, strappo metafisico, disperazione.

Il peccato come fonte unica del gemere e del cantare mi riconduce ancora una volta a Odisseas Elitis, che usava con la stessa carica riflessiva e tragica la parola fonte, la quale trasformava il male, la tortura, la lapidazione in parole d’amore e di perdono. Per questo spesso rifletto sulla inconciliabilità della vendetta in chi ha sedimentato dentro il suo corpo, le sue cellule, nel proprio Io pulsante, la pietas e la carità come pregiudiziali all’incontro, alla scoperta del volto dell’altro. Turoldo ricorda che in tempi di guerra gli sarebbe piaciuto accedere con più facilità a documenti di difficile consultazione, pensando di laurearsi sul concetto di confessione nei romanzi di Dostoevskij, per dire quanto il bisogno di gridare il proprio peccato, l’angoscia del peccato, è il segno strutturale e fisiologico della condizione umana; per dire quanto la necessità di superarlo e di liberarci sia insopprimibile alla stessa natura dell’uomo, e nello stesso tempo quanto sia rivelazione di un dramma mai risolto, e neppure solubile con le forze umane.

Pensava, il poeta, all’avvilito costume della confessione cattolica, lui frate di una chiesa in cui non riconosceva il potere degli uomini che discorrevano in nome di un Dio: a quell’appressarsi del penitente allo sportello di un confessionale, come un affacciarsi dell’uomo alla grata dell’Infinito, dove riversare il carico della sua miseria. Era di là della grata che mi si apriva il porto di Dio; e io come scaricatore appunto di quel porto.

Turoldo esce fuori dal Tempio. Smaschera, deduce, argomenta, canta versi di intima dolcezza, affronta ogni male che ci conduca alla scoperta dell’altro, del nemico, dell’amico, che si specchia fra luci rigogliose di un mattino appena cominciato e le tenebre di una notte che avvolge senza rendere una sola speranza. La sua poesia mi disorienta. Mi attraversa e mi lacera. Conquista ogni spazio abitato nel mio corpo, mi getta sconsolato nell’irrisolto, nell’inappagato, nel mondo altro, nella poesia. Lode a padre Turoldo, ora e per sempre nei secoli a venire:

Voglio chiederti una cosa:
per te, Signore.
Per me non è necessario che ti spieghi:
sento la tua gloria (e la tua
rabbia, il tuo sdegno)
oltre le infinite delusioni:
tu non puoi non amarmi,
ti sono necessario.
Questo chiedo.
Che ti liberi
Dai devoti di ogni religione!

 

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L’ultimo canto di David Maria Turoldo https://www.carmillaonline.com/2023/11/04/lultimo-canto-di-david-maria-turoldo/ Sat, 04 Nov 2023 05:50:31 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79851 di Francisco Soriano

Fratello ateo nobilmente pensoso / alla ricerca di un Dio che io non so darti, / attraversiamo insieme il deserto. / Di deserto in deserto andiamo oltre la foresta delle fedi, / liberi e nudi verso il nudo Essere e là, / dove la parola muore, / abbia fine il nostro cammino: accolgo come ateo l’esortazione di questo magnifico uomo e poeta, il mistico David Maria Turoldo, al quale sono grato soprattutto per questi suoi Canti ultimi. I suoi versi hanno sedimentato in me la convinzione che, per gli esseri umani, perché intraprendano un cammino esistenziale degno del proprio essere, [...]]]> di Francisco Soriano

Fratello ateo nobilmente pensoso / alla ricerca di un Dio che io non so darti, / attraversiamo insieme il deserto. / Di deserto in deserto andiamo oltre la foresta delle fedi, / liberi e nudi verso il nudo Essere e là, / dove la parola muore, / abbia fine il nostro cammino: accolgo come ateo l’esortazione di questo magnifico uomo e poeta, il mistico David Maria Turoldo, al quale sono grato soprattutto per questi suoi Canti ultimi. I suoi versi hanno sedimentato in me la convinzione che, per gli esseri umani, perché intraprendano un cammino esistenziale degno del proprio essere, è necessario dirigersi davvero liberi e nudi, là, dove la parola muore.

Padre David nacque in Friuli, a Coderno di Sedegliano, in provincia di Udine, nono figlio di una famiglia poverissima di contadini, il 22 novembre 1916. Frate e sacerdote nell’Ordine dei Servi di Maria, visse presso il Convento di San Carlo al Corso a Milano gli anni della Resistenza e della ricostruzione civile del Paese. In quel contesto diede vita alla Messa della Carità insieme al confratello Camillo de Piaz presso il centro culturale Corsia dei Servi. Allontanato da Milano per le sue posizioni, pagò con l’esilio. Quando riuscì a tornare in Italia visse in comunità nei conventi di varie città tra cui Firenze e Udine, presso la Madonna delle Grazie, dove scrisse, sceneggiò e produsse il film Gli ultimi, con la regia di Vito Pandolfi. Dal 1963 si trasferì a Fontanella, frazione di Sotto il Monte, ridando vita all’antica Abbazia di Sant’Egidio e al centro culturale ed ecumenico Casa di Emmaus. Oggi molti sono i visitatori che fanno riferimento alla sua eredità spirituale e culturale. Sulla sua scia una comunità di frati Servi di Maria mantiene viva la sua presenza e le sue intuizioni. Nel piccolo cimitero locale riposa sotto una croce lignea dopo la morte, avvenuta a Milano il 6 febbraio 1992. Scrittore, poeta, saggista, conferenziere, intervenne nella vita culturale, sociale e religiosa del Paese con libri, articoli, interviste e famosi interventi in radio e televisione, coinvolgente per la sua irruenza profetica e la visione esigente e alta dell’uomo, della società e della chiesa.

E là dove la parola muore ci siamo ritrovati a riflettere e dirigerci verso le cose del mondo, spesso profondamente incomprensibili e dominate da un vuoto talvolta inquietante. La poesia è soprattutto vocazione alla parola e, nello stesso tempo, testimonianza: due dimensioni straordinariamente complesse nel labirintico cosmo dell’espressione verbale. Per Turoldo come ancora oggi per molti di noi, forte è la consapevolezza che, a differenza della maggior parte delle arti, la poesia ha un futuro radioso, mai adombrato dal già detto, già fatto, già pensato. Questa sorta di genetica e originaria natura della poesia, che sa di eterno e di inespugnabile, smaschera gli epigoni e i volgari propagatori di edulcorati sincronismi verbali che hanno solo il merito di modellarsi sul fatale mainstream del momento.

Ma è la storia e il tempo, questa volta benefico e riparatore, a compiere il gesto chiarificatore. David Maria Turoldo, uomo di vocazione e di testimonianza, rende eterna la parola, perché quest’ultima sopravvive alle intemperie essendo ora e sempre trasgressione, vortice e vuoto.

Come ben asserisce Giovanni Giudici nella sua prefazione a questa straordinaria opera, Canti ultimi, con l’inversione dell’aggettivo nel titolo del libro si ha una sorta di messaggio escatologico, l’attesa dei Novissimi, lo svelamento degli estremi misteri, dell’ignoto di un Dio qui colto nell’inedita rappresentazione della sua sofferenza per un Male scaturito, suo malgrado, dalla sua stessa Volontà che paradossalmente non può più scongiurarlo. Di questa affermazione-condizione, che serba una enorme consapevolezza, Turoldo diviene onestissimo narratore: come accettare che non sia più scongiurabile il male derivato dalla stessa volontà di chi, sorprendentemente, lo combatte? È questo uno dei punti topici del dramma umano che è reso misterico dalla impossibilità a una razionale spiegazione: ogni uomo si trova a vivere nei momenti di criticità fisica e morale, quella dimensione del dolore e del Male.

Per capire meglio l’opera di questo poeta, figura unica e ingombrante per molti, è bene rappresentare la struttura ideologica e spirituale dell’uomo e del sacerdote che si definiva come un pellegrino, un vagabondo. Negli anni Cinquanta fu costretto a lasciare l’Italia: dal 1953, da Milano in un monastero tedesco tornando a Firenze e poi di nuovo a Londra; poi negli USA, in Canada, in Messico e in Sud Africa. In ogni contesto egli confermò questa sua disponibilità al viaggio, ma sempre serbando nel cuore la sua terra natale, il Friuli.

I confratelli dicevano di lui che aveva una vita da rivoluzionario tradizionalista. Infatti, oggi più di ieri, l’opera di Turoldo va assolutamente riproposta e analizzata: rappresenta il piano mai obliquo di una conquista straordinariamente attuale. La scoperta è conoscere il volto dell’altro, del nemico, dello sconosciuto. Certo, la ricerca non poteva che essere condotta sui medesimi paralleli binari del volto del Cristo, interpretato comunque e sempre come un uomo non esente dal dubbio, soprattutto, e dalle fragilità di chi osserva con la Grazia del divino.

Gli amici definivano la sua voce come baritonale, da cattedrale e da deserto, e questo appare anche dal tono delle parole scritte e tributate alla poesia in questa mirabile raccolta, Canti ultimi. Turoldo era un vero visionario, l’esempio di un uomo quasi impossibile da incontrare nel quotidiano, nel nostro abitare i luoghi del mondo. Fu sempre dalla parte dei poveri e degli oppressi nella comprensione di ciò che è alla base della loro condizione. Tutto questo attanagliava la mente raziocinante di un uomo di fede, che ben conosceva l’emarginazione degli ultimi e dei dimenticati da parte di un mondo consapevole di questa ingiustizia. Egli affermava, infatti, in merito alla vocazione religiosa e alla sua lotta nel sociale: se ha un senso, è nella misura in cui ci si dona all’uomo per liberarlo. Un sentimento che lo ha spinto e reso partecipe alla Resistenza contro il fascismo. Negli anni Ottanta, prima di essere stroncato da un tumore al pancreas, si distinse (anche in questo precursore) nelle lotte ecologiste per una umanità che doveva diventare espressione consapevole del disagio prodotto dalla devastazione della natura per mano dell’uomo. In un creato benedetto e illuminato dall’incarnazione del Cristo-logos, Turoldo richiamava all’amore e alla bontà del creato, non distaccandosi mai e poi mai dalle cose terrestri. Il disturbatore delle coscienze, come amava definirlo il cardinal Martini, trovava la Bibbia un testo-codice culturale con una irrinunciabile valenza universalistica, utile alla liberazione di questa umanità così pervasa e caratterizzata da limiti, che siano personali o collettivi. Per la biografia di Turoldo si ricordano la celebrazione del suo funerale da parte del cardinal Martini nel febbraio del 1992 e la sua presenza al funerale di Pier Paolo Pasolini a Casarsa, nella “loro” Friuli, nel novembre del 1975, non senza uno strascico di polemiche. Importante ricordare che Turoldo scrisse e declamò una lettera di solidarietà e pietà umanissima alla madre del poeta assassinato, così prossimo in molte idee e battaglie a quest’ultimo, contro il capitalismo aggressivo e vorace e la disumanità che ne derivava. Il gesto del cardinal Martini, d’altra parte, fu importante perché proprio nel momento della scomparsa del poeta si volle riconoscere e legittimare la sua voce asimmetrica alle logiche del potere, come manifestazione eclatante della ingiustizia e della sopraffazione, mettendo fine alla emarginazione e all’ostracismo subìto soprattutto dalle autorità ecclesiastiche. Ad ogni modo, a conferma della personalità complessa e multiforme nel senso del pensiero divergente su questioni che penetravano aspetti sociali abbastanza praticati nelle polemiche politiche di quei tempi, egli ebbe amicizie con figure importanti del secolo scorso come Primo Mazzolari, Alda Merini e Andrea Zanzotto, Giorgio la Pira, Ernesto Balducci, Ernesto Cardenal.

Il ragionamento poetico di Turoldo è chiaramente improntato al dubbio, nella forma di un dialogo con il lettore, con l’altro, lo sconosciuto, con il volto altrui. Forma dialogica, dialettica e dubitativa sono l’esempio manifesto che la poesia è sintesi di tantissime attività, dinamiche e dimensioni del pensiero umano. Turoldo inoltre compie un’operazione verbale e di ricerca davvero originale, non molto praticata dai suoi posteri, che si dirige principalmente verso la scoperta dei misteri, degli inappellabili vortici del nulla e del vuoto, del piano inclinato di un disfare quotidiano della pace e della pietas, quest’ultima alla base di ogni umanesimo e di ogni pratica che riconduca all’amore, alla pace e all’amicizia. Che il volto del Cristo sia stato, soprattutto nei suoi ultimi anni di vita, la condivisione di una sofferenza e di un dolore cosmici, segno della fragilità di una umanità che appare talvolta insanabile nelle sue logiche fondate sulla ingiustizia, appare chiaro e incontestabile. Con questa ultima ricerca-esperienza ha voluto dare l’unica soluzione-risposta al quesito di una intera esistenza. La poesia è tragitto-modalità-domanda-risposta-dialogo che Turoldo ha interpretato con lo spirito di un mistico e il cuore di un povero. Chi è il poeta, si chiede Turoldo, se non colui il quale è in grado di captare con le antenne dei sensi suoni e silenzi delle cose.

Esagono è una composizione dei Canti ultimi che racchiude, appunto, sei frammenti poetici di rara imperscrutabile armonia. Proprio gli ultimi due parlano di perdono, delle parole impossibilitate a compiere il loro atto poetico, e poi di ricerca dell’occulto e dell’invisibile che eterna. La forma prismatica della visione rende chiara l’idea poetica di Turoldo, con le sue sfaccettature, gli incastri, le scomposizioni, le variazioni, i misteri, il non visibile. Già per aver osato dire / perdono ti chiedo: / anche se sarò recidivo / e vedrò le parole cadere / come foglie: è la prima parte del quinto frammento e Turoldo con una aposiopesi ci lascia in un vuoto, sospesi e in attesa di un nuovo verso, che ci conduca fuori dal labirinto delle parole, già riverse sul selciato del nostro cammino. Reticenza, in questo caso e per paradosso, come forma di dialogo con il lettore. L’aver osato esige un perdono, al costo della sofferenza più estrema: le parole-foglie volteggiano sospinte nell’immane nulla. Rabbrividite parole / ancor prima di raggiungere un suono: è verso dirompente, straordinaria tragedia che neppure i greci hanno saputo sublimare nel dolore più estremo. Prima del loro compimento, le parole, che siano canto o voce o poesia, suono, verseranno presto in frantumi, / sul pavimento del tempio. Sconvolge e mai riappacifica questo trafiggere, senza speranza, mai riconcilia, e nel buio sembra tutto soffocare: e non un frammento / almeno di vetro / che riluca. Le parole ora foglie cadenti, ancora vetri oscuri in mille pezzi, senza alcuna possibilità di una luce che per un attimo si rifletta, sono la fine della fine.

Nel sesto e ultimo frammento Turoldo manifesta la necessità di una ricerca esistenziale spasmodica, laddove al cospetto dell’immanenza ci informa di una esistenza-entità che al suo interno vivifica, nidifica e ci rende eterni: tu non sei fiume / ma ti nascondi nel fiume, / non sei la foresta / ma sei nascosto nella foresta, / non sei il vento / sei il vento del vento: e senza, non c’è tempo, / perciò viviamo / e saremo eterni. Apparenti sono le anafore che tentano di definire per via negativa, ultimo appello della parola, secondo il modello appunto della teologia negativa: altro non sono quindi che svelamenti, smascheramenti, manifestazioni di un contenuto che è all’origine di tutto e, senza il quale, non esisteremmo e neppure saremmo eterni.

Osip Mandel’štam in uno dei suoi mirabili saggi sosteneva che una poesia non tollera parafrasi. Questa ne è la prova:

 

di te nulla mi importa,

so di cosa ti fai

ragione e segno:

 

o miseria

fiordo della mia speranza

sola moneta di scambio!

 

Quando al mio quotidiano

franare corre

a fare argine

Amore.

 

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