David Gilmour – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 17 Aug 2025 20:00:38 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Divine Divane Visioni (Cinema porno) – 76 https://www.carmillaonline.com/2016/12/15/divine-divane-visioni-cinema-porno-76/ Thu, 15 Dec 2016 21:00:29 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=34800 di Dziga Cacace

Fuck the game if it ain’t sayin’ nuttin’

ddv7601876 – Librianna, Bitch of the Black Sea di anonimo cane, USA 1979 Librianna è un bidone, ma non solo il film, pure la giunonica eponima protagonista, una sorta di santona del sesso che predica a colpi di bacino la controrivoluzione in URSS. Sinceramente non ricordo come ho fatto a imbattermi in questa roba mostruosa ma una volta saputo che esisteva un fake che pretendeva di essere il primo e unico porno dell’era sovietica non ho saputo resistere: [...]]]> di Dziga Cacace

Fuck the game if it ain’t sayin’ nuttin’

ddv7601876 – Librianna, Bitch of the Black Sea di anonimo cane, USA 1979
Librianna è un bidone, ma non solo il film, pure la giunonica eponima protagonista, una sorta di santona del sesso che predica a colpi di bacino la controrivoluzione in URSS. Sinceramente non ricordo come ho fatto a imbattermi in questa roba mostruosa ma una volta saputo che esisteva un fake che pretendeva di essere il primo e unico porno dell’era sovietica non ho saputo resistere: ho sbrigliato la mia fibra ottica e, voilà, eccovi il resoconto di quanto ho visto. Purtroppo.
Che si tratti di un’epocale fetecchia è evidente dopo pochi secondi di visione: si parte con il monumento a Lenin e il picchetto d’onore sulla piazza Rossa. Poi scene della ridente Mosca brezneviana, grigia e piovosa. Stacco e c’è una bella bruna che ansima a gambe larghe e un bel tomo le zompa addosso e con voce off si rivolge a noi malcapitati spettatori: “Vi chiederete come mai mi trovi in un posto come questo… Mosca intendo”. Capisco che si arriverà a vette sublimi. Ma come siamo giunti a questo punto? Dunque: Scott è un giornalista di Seattle minacciato di licenziamento; gli fanno vedere un filmino hard e veniamo a sapere che in URSS sta proliferando la pornografia underground con funzione dissidente e la leader è tale Librianna: Scott deve andare a intervistarla, costi quel che costi. E per entrare in Unione Sovietica basta chiedere, no? Il protagonista arriva come turista sul Mar Nero (che non è chiaramente il Mar Nero) in treno (da Seattle!) e poi da lì a Mosca in aereo, con intrattenimento orale gentilmente offerto in volo da una compagna (“Abbiamo infranto la barriera del suono”). Scott finisce sulla piazza Rossa (e c’è sul serio! E fa quasi più impressione che ci sia del contrario!) e si chiede, da vero segugio: come trovare Librianna? Basta andare ai magazzini GUM, e dove, se no? (C’è solo una milionata di russi, del resto, a guardare i prodotti, pochi). È il momento più godibile dell’immonda pellicola: Scott salta fuori qui e là nelle location moscovite come un Paolini in cerca di notorietà. Però gli va sempre buca: decide allora di provare la fortuna alla parata che celebra la Rivoluzione d’Ottobre. Del resto è logico: più gente c’è, più è probabile che si trovi lì anche Librianna… La logica viene ulteriormente violentata grazie a un tizio che vende al mercato nero la dritta verso tale Maya, una con il tatuaggio di una stella rossa su una chiappa, giuro. Ovvia copula ma il lavoro di intelligence va in malora perché Maya è un’agente KGB. Arrestato e interrogato, Scott riesce a scappare (non è dato sapere come: la mai abbastanza celebrata grandezza dell’ellisse narrativo!) ed è Librianna a contattarlo. La leader controrivoluzionaria è una ninfomane che vuole liberarsi del giogo comunista e si masturba con i libri di storia sovietica: sa tutto di Scott e lo ha seguito insieme al suo servo, un personaggio incappucciato chiamato Igor. Riceve lo straniero nel suo covo segreto, lo invita a farsi un bagnetto e gli concede l’agognata intervista. Lui le chiede come mai sia così ricca e riesca nella sua attività porno-politica e lei gli risponde come se parlasse a un deficiente: in URSS sono tutti così timorosi di fare domande che nessuno le fa e questo le permette di prosperare. Ma pensa! E da qui prosegue l’assortimento di bestialità, con una trama pensata da qualcuno che ha ingestito peyote grossi come birilli, farcita di scene pornografiche eccitanti come in un film di Rocco – ma Buttiglione non Siffredi – con fotografia amatoriale, musiche stonate e montaggio e regia che farebbero augurare un’effettiva permanenza in Siberia degli autori di cotanta vaccata. C’è tutto il repertorio: sopra, sotto, davanti e dietro, ma è sempre tutto di una bruttezza indicibile, assolutamente inibente qualunque desiderio sessuale, anche a causa di attori orrendi, senza distinzione di genere, tutti, maschi e femmine, oltretutto pelosi anche oltre le folte abitudini dell’epoca. Lui sembra un Kevin Costner con la frangetta, finito sotto una pressa e senza un bagliore di intelligenza negli occhi ed è un attore bestiale, asinino ma non dove ti aspetteresti che lo sia un attore porno. Lei è una non irresistibole tettona alla Russ Meyer, dal volto cubista e con parrucca platinata. Il top della comicità involontaria è toccato con la scena di seduzione della bionda nei confronti di Scott: passeggiata sulla spiaggia, bacetti, cena a lume di candela e ballo lento, con lui con un completo enorme che andrebbe forse a Galeazzi e lei vestita come Moira degli elefanti. Tra le altre perle la liberazione di Igor da un gulag entro il circolo polare artico, impresa irrisoria perché “sanno impedire alla gente di uscire dai campi, ma non di entrarci”. Infine la conclusione: Scott torna a casa, pubblica il suo articolo e si riguarda beato i filmini della sua avventura, con il degno finale di lui che possiede Librianna con addosso un costume da orso sovietico, scena degna del peggior film porno mai visto, ma mai brutto come questo. (22/8/11)

ddv7602877 – La bestia nel cuore – e temo anche alla regia – di Francesca Comencini, Italia 2006
Premetto: farò di tutto per non scadere nel querelabile. E aggiungo: non escludo che cattiva digestione, ansie professionali e meteopatia possano avere influenzato il mio giudizio. La prendo larga: per quel che mi riguarda questo film è disastroso ed è l’epitome (ehi, ho usato la parola “epitome”) di tanto cinema italiano, tronfio e insopportabile. La cosa che soffro di più è il testo, mortificante, tutto scritto, legato, finto: la regia insistita e non granché originale contribuisce a questo senso di poca spontaneità, in una generale piattezza talvolta interrotta da qualche lampo d’invenzione, alternanza – rara – che insinua il dubbio della casualità e dell’inconsapevolezza. La drammaturgia è gestita come un macellaio tratta un nodino, con improvvisi apici recitativi scomposti, tra urla e gemiti. Poi arriva il momento leggiadro, sentimentale e, zac!, parte la Gnossiénne numero 5: povero Satie, ridotto a stereotipo musicale. Giovanna Mezzogiorno non recita, ma sussurra ai limiti dell’inudibile e sembra avere qualche problema di dizione e siccome l’argomento è scottante la si premia, anche in memoria del padre Vittorio che in vita, invece, ce l’eravamo filati poco nonostante avesse lavorato con Peter Brook. Luigi Lo Cascio se la cavicchia, ma qui non mi sembra un problema di capacità attoriali, ma proprio di gestione delle stesse, con una regia che anestetizza tutto fino alla prossima accelerazione isterica, passando da personaggi narcotizzati a giulivi e poi tragici. In certi momenti il film sembra Boris, ma per comicità involontaria. Finale con rallenti e fermo immagine: non vado oltre se no finisco nel penale. Audio brutto, luci e scene finte, con interni irreali, case vuote, senza tende o persiane (la metafora? Spero di no ma pure potrebbe). Dialoghi da manuale, ma di quelli per principianti: più che indignato, sono incredulo e Barbara mi è testimone dello scempio cui assistiamo. La trama è tratta da un romanzo della regista e si può sintetizzare il più brevemente così: papà è pedofilo e incestuoso, ma la figlia ha rimosso nonostante l’evidenza dei ricordi. E certo, se no il film non si fa. Lei incinta va in USA dal fratello per rasserenarsi dato che la turba l’immagine ricorrente della patta aperta del padre che la raggiungeva nel suo lettino di bimba. E chissà mai cosa sarà potuto accadere. Ma in USA non ha il coraggio di chiedere esplicitamente al fratello. Poi annuncia che è incinta e quando la cognata dice che la gravidanza le farà dimenticare tutto, che questa nascita la salverà, arriva il picco drammatico: “Salva da cosa!?!”, urlando all’improvviso. E da lì rivelazioni a cascata e ritorno in Italia con ulteriori vicissitudini che culminano nella scena stracult del delirio preparto, con camera zenitale che ondeggia sulla Mezzogiorno in deliquio. Candidato per l’Italia al premio Oscar, il film non è stato però premiato e chissà poi perché. Mentre scrivo, cioè il giorno dopo questo supplizio, la Comencini ha presentato il suo nuovo film a Venezia, tratto da un altro suo romanzo. Ci son state risate a scena aperta durante le scene drammatiche. Lei ha accusato i critici maschi, e te pareva. Mi dispiace, ma dopo questo La bestia nel cuore non ho dubbi su chi possa aver ragione. Critico no, ma maschio sì, sorry, e non significa che devo accettare sullo schermo ogni cosa solo perché la regista si ritiene intoccabile per nascita, eh. Vabbeh, basta: ho una fame nera, comunque, e vorrei capire perché se basta una sera per prendere un chilo, serve un mese per abbatterlo e perché a 20 anni mangiavo 5 etti di patatine fritte e non avevo problemi e adesso non posso più farlo. È un mondo cattivo, con la bestia nel cuore, certamente. (Diretta su RaiMovie; 6/9/11)

ddv7603879 – L’incantevole, giuro, Come d’incanto di Kevin Lima, USA 2007
Galeotto fu il trailer in un dvd Disney visto recentemente. Le bimbe pretendono e il pessimo padre obbedisce. Il concept è imbattibile (personaggio da favola, simil-Principessa, immerso in realtà metropolitana odierna) e il risultato finale è ottimo perché si tiene il ritmo delle trovate e non si sbraca mai. La prima parte funziona benissimo ma è anche la più facile (per modo di dire) da scrivere. È la parte destruens, con tutta l’ironia – anche cattiva – sul mondo disneyano e gira a mille con equivoci, gag e anche battute azzeccate. Il primo Shrek era tutto così ed era amabile. Ma era solo così: parodia, geniale perché inedita, ma solo parodia. Diventa difficile però portare avanti il gioco, la parte construens: come far funzionare la trama, come risolvere tutto ed è qui che io batto le mani perché tutto si incastra alla perfezione, sempre con autoironia e plausibilità narrativa. È un ottimo lavoro, sinceramente, e non l’avrei mai detto, ma mai mai mai. Brava la protagonista principale, Amy Adams, e anche il belloccio contemporaneo, tale Patrick Dempsey, che, mi spiega Barbara, si tratta di gnoccolone riverito dall’universo mondo femminile intiero in quanto protagonista di Grey’s Anatomy, uno di quei telefilm di bassa lega che ha conosciuto immensa popolarità in tempi recenti (ne ho visto una volta una puntata e l’unica cosa curiosa era che protagonista fosse una cinese con la faccia più storta che avessi mai visto, tolti due quadri di Picasso). Film adorato dalle bambine (le mie, intendo) e pure apprezzato da me, com’è evidente. (1/10/11)

ddv7604880 – Boris – Il film di Giacomo Ciarrapico, Mattia Torre e Luca Vendruscolo, Italia 2011, non vale il Boris che conoscevamo
La partenza è buona, con la sentenza definitiva sul fare tivù (“è come la mafia: non se ne esce, se non da morti”, confermo) e con il racconto dolorosamente attendibile del sottobosco cinematografico: la cialtronaggine dei produttori finti e veri, le fisime intellettuali degli sceneggiatori, i salari rubati, le pose acculturate. Finisce che René Ferretti accetta di girare un improbabile La casta, provando il colpaccio con un’operazione in stile Gomorra. Ovviamente finirà tutto in vacca, rassegnati – anche su pellicola – a riprodurre le modalità lavorative della televisione. Perfetta la caratterizzazione della grande attrice italiana, che non parla ma sussurra ed è piena di fobie, ritrattino che mi sembra adattabile a un numero imprecisato di attrici (ma facciamoli ‘sti nomi: la Mezzogiorno, la Morante, la sempre nevrotica Buy). Ci sono alcune trovate azzeccate, ma più che ridere si sorride e in alcuni momenti si subiscono stasi esiziali e la questione è che da un film così vorresti avere una brillantezza insuperabile, come nella serie tivù. Invece si rimane in superficie in troppi momenti. La seconda parte ricalca le dinamiche note nella serie, ma senza la freschezza e la velocità cui eravamo abituati e la morale finale l’abbiamo già vista in tre finali di serie, anche se Barbara parte con le ipotesi: e se fosse stato un sogno? Ma non cambia il risultato: René quello sa e deve fare, la tivù cialtrona, ammesso che ne esistano altre possibili. Gli attori sono tutti bravi e ben diretti. Sermonti è l’unico che mi risulta fastidioso, ma non per limiti suoi, ma perché il suo ruolo non ha più misura, è completamente fuori controllo e non credibile nel pur poco credibile livello di realtà. Cameo grandioso di Nicola Piovani che si riscatta dall’amorazzo con Giovanna Melandri e rende meritevole l’Oscar vinto anni fa con La vita è bella. (1/10/11)

ddv7605886 – Babylon A.D., una babelica stronzata di Mathieu Kassovitz, Francia 2008
Questo film fa cacare, ma dolorosamente, con crampi e nebulizzazioni diarroiche tipo spray. È di sconcertante bruttezza, dalla trama intorcinata e inspiegabile, senza alcun fascino visivo e narrativo. Pure le scene d’azione fanno schifo e Vin Diesel non ha una battuta una che sia decente. Di contorno una Rampling truccata come The Joker (e con qualcosa della Moratti, ecco) e un Depardieu conciato da cattivo in maniera grottesca con un nasone immenso e i denti marci. Brutto tutto, la fotografia buissima, la musica che si dimentica subito. Prevedibili gli sviluppi della trama, sono implausibili anche nel campo dell’implausibilità della fantascienza i motori narrativi della vicenda. Tremendo. Rai4 sta comunque diventando il nostro canale preferito del digitale terrestre: ha un programma denso di vaccate assolutamente godibili. Ti siedi, accendi e subisci, sdivanato e assente. Sembra una Italia1 di 15 anni fa, piena di film d’azione di cui uno non sospetta neanche l’esistenza. Barbara s’è vista due film dedicati alla Banlieue 13, che io invece ho assunto a tratti. Scene d’azione sempre godibili, montate freneticamente ma anche con bei cinematismi, inventivi, cosa che nel film di Kassovitz mancava clamorosamente togliendo anche uno dei pochi motivi di visione. Le trame e i dialoghi invece facevano schifo, ma la colpa magari è della traduzione, chissà. (No, non credo). Ad ogni modo il secondo episodio finisce con gli eroi della banlieue (arabi, dropout, punk, delinquentelli, sballati etc.) che fanno tenerezza al presidente francese improvvisamente illuminato, tutti vanno d’amore e d’accordo, egalité, fraternité, Beyoncé, e si completa il piano del cattivone di turno (il capo della flicaille) che voleva bombardare la banlieue per realizzare una pesante speculazione. La si bombarda sì, ma tutti decidono che la si ricostruirà migliore e con del verde. Ma che buffoni! (Diretta su Rai4, 21/10/11)

hqdefault888 – Fulminati e persi ne La Vallée di Barbet Schroeder, Francia 1972
Moglie di diplomatico annoiata conosce 4 hippie storti che nella verdeggiante Nuova Guinea vogliono trovare l’uccello del paradiso in una valle misteriosa. Ovviamente la ciccetta si diletta di ornitologia in altra maniera, con consumo entusiasta di droghe, tronata e libera da convenzioni piccolo borghesi, e l’allegra combriccola intraprende un trekking: il film diventa quasi un documentario, con facce, usi e costumi degli aborigeni e la consueta uccisione dei maiali (sembra un obbligo narrativo degli anni Settanta) presi a legnate in faccia, in una scena abbastanza cruenta e insistita. Il viaggio prosegue imperterrito sinché la compagnia arriva stremata in cima a una montagna. Sono tutti affamati, sporchi, distrutti da fame, sete e fatica e – con un effettaccio tipo TeleTubbies che simula la rifrazione dei raggi solari – la protagonista si risveglia e dice: la vedo, ecco la valle! (letteralmente, come da titolo: la vallée!) e poi “FIN” e buonanotte ai suonatori. Eeeeh? E nonostante ciò il film ha un suo perché: è lentissimo e ipnotico, drogato e drogante, nel senso che non riesci a metterlo giù nonostante l’azione pressoché nulla e il finale stupefacente nel suo lasciarti a bocca asciutta. La Nuova Guinea, è un’isolaccia immensa, pressoché disabitata se non da tribù che vivono su altipiani a 2000 metri e senza quasi risorse alimentari (ho appena letto Armi, acciaio, malattie di Jared Diamond, bellissimo, sull’evoluzione dell’uomo e ‘sti poveretti sono (stati) cannibali per la drammatica mancanza di proteine nella loro dieta). Per altro gli indigeni seminomadi sono fisicamente stranissimi, come degli aborigeni australiani, ma più scuri, con niente in comune con gli orientali né tanto meno gli occidentali. I paesaggi sono maestosi: sembrano alpini, ma con foreste intricatissime, ed è sempre nuvolo, con una percepibile umidità che solo a guardare il film mi sentivo venire i reumatismi. Sono andato su Google Maps a dare un’occhiata e in effetti è ovunque chiazzato di nuvole. La colonna sonora (per canzoni) è dei Pink Floyd, contenuta nell’album Obscured By Clouds, come la valle paradisiaca, sconosciuta e introvabile in quanto non fotografata nelle ricognizioni aeree perché oscurata dalle nubi. La musica è usata poco e male ed è un peccato perché è una delle opere più originali dei Pink. Realizzata in due settimane, praticamente buona alla prima, ha un piglio rock niente male (dall’hard fino a due pezzi invece inusitatamente pop, con David Gilmour in bella evidenza) e stupisce al confronto del coevo Dark Side of the Moon. O forse mi piace perché c’è quell’inconfondibile sonorità, ma su pezzi non così rifiniti, non cesellati, puliti, quasi asettici come nel capolavoro di cui si celebrano in questi giorni i 40 anni con edizioni clamorosamente costose e ricche (di roba inutile: un capolavoro per pulizia progettuale e interpretativa ti viene rivenduto con gli scarti zozzi? mah!). La protagonista Bulle Ogier è interessante, sembra una bambolina, così compita coi suoi occhioni azzurri e i capelli biondi. Gli hippie invece sono mostruosi, non particolarmente convincenti come attori e ce n’è uno che a un certo punto indossa il chiodo da metallaro… in Nuova Guinea! Alle volte, i corto circuiti temporali e climatici, mah! Il film l’ho cominciato a guardare in treno sul computer e al 15° minuto ‘sti qui trombano, come se fosse la cosa più normale del mondo. E forse lo era. (Quando sarebbe interessato a me, no. Dopo neanche. Oggi neppure). Comunque non potevo vederlo col timore che arrivasse alle spalle un controllore mentre due copulano sullo schermo. Vabbeh, l’ho spento e rivisto con più calma a casina mia. Interessante spaccato di vita quotidiana, nevvero? (29/10/11)

ddv7607889 – La libertà irripetibile di Alpe del Vicerè 1973 e Re Nudo di Luigi Salvaggio e Dario Vergani, Italia 2010
Raccolta di documenti visivi (che si accompagnano a un divertente libro di Matteo Guarnaccia) che rinuncia programmaticamente alla forma filmica e alla nostalgia. Si tratta di diversi reperti storici dei primi raduni pop in Italia, genuinamente underground e realizzati con pochi soldi e tanta energia e idee. Le immagini sono attualizzate con interviste ai testimoni dell’epoca, realizzate tecnicamente un po’ coi piedi e con poca severità nei tagli, ma comunque interessanti e congruenti allo spirito rievocato. E non puoi che voler bene a queste persone che non ostentano alcun reducismo post sessantottino. Nelle immagini vediamo maree di giovani e c’è meno politica “parlata” di quanto si possa credere, piuttosto tanta politica praticata. Le sequenze di Alpe del Vicerè sono straordinarie e c’è un Battiato che se non lo vedi non ci credi. Ha una testa di capelli che al confronto Angela Davis era una dilettante calva: magrissimo e simpaticissimo, era già geniale allora, ma questo lo sa chiunque abbia ascoltato Fetus. Tra i protagonisti dell’epoca anche Finardi che racconta sullo sfondo di San Michele di Pagana, tra Rapallo e Santa Margherita. Quando lo vedo, penso: ma quegli scogli io li conosco! Incredibile: questo va da sempre nella spiaggia in cui andavo io da bambino (ho un evidente legame sotterraneo con Eugenio Finardi: veniva d’estate anche a Champoluc e oggi abita vicino a me: prima o poi devo intervistarlo). Dopo questo tuffo nella memoria, emozionante e per nulla compiaciuto, mi son rifatto la bocca con il finale del grandioso Trappola d’amore, un disastroso thriller sentimentale con un risibile Richard Gere al top della forma, tra pianti e scenate isteriche: prima o poi si impone una visione integrale con doverosa disamina critica. (3/11/11)

ddv7608890 – Il grande freddo di Drive, di Nicolas Winding Refn, USA 2011
Raggelato, stilosissimo, intrigante: il kitsch anni Ottanta che diventa stile. Mi ricorda uno Scorsese, ventenne nei temi e cinquantenne nella forma, ma c’è molto di più, è chiaro. C’è il Vivere e morire a Los Angeles di Friedkin, per esempio, e altre cose ancora che i critici seri sanno e io non ricordo più e neanche ho voglia di farlo. Drive è girato benissimo, con una lentezza ostentata che va di pari passo col mutismo del protagonista: non ricordo se l’ha detto Ryan Gosling o Refn proprio, ma sarebbe un sogno, o potrebbe esserlo, con le sequenze finali come uniche ambientate nella realtà. Ma non mi interessa, il film viaggia bene così. Titoli con lettering e colori fluo a sottolineare la curiosa adesione estetica di cui dicevo: si veda anche la musica di plastica, decisamente azzeccata (anche se a film finito non la sentirei manco sotto tortura). Bravi gli attori, bello il montaggio e intelligenti le piccole deviazioni narrative che ti ingannano per pochi secondi. (12/11/11)

ddv7609893 – Altrimenti ci arrabbiamo!, sempre!, di Marcello Fondato, Italia Spagna 1974
In realtà lo abbiamo visto a rullo per un mesetto circa, ma con continuità io l’ho rivisto solo stasera. E con che stolido piacere, signori miei. Pochissimo dialogo, tutto memorabile però, nella sua semplicità archetipica: quando l’ho visto nell’agosto 1979 ricordo che con Pier Paolo citavamo a memoria – e dopo una sola visione – tutte le frasi del duo Bud and Terence, manco declamassimo versi dell’Ariosto. E oggi lo vedo fare a mia figlia. I due protagonisti erano in stato di grazia e affiatatissimi, ma anche i personaggi di contorno sono perfetti (su tutti Donald Pleasance!), così come le caratterizzazioni (i duri della banda nemica, il killer Paganini). Le musiche dei fratelli De Angelis alias Oliver Onions sono eccezionali (e non solo la frizzante Dune Buggy, anche il Coro dei pompieri, Across the Fields che accompagna il rally iniziale e Il ballo, in tutte le scene danzerecce). Un giorno m’è venuto lo sghiribizzo di fare un controllino e ho verificato che lo stadio era quello dell’Atletico Madrid (Google Map è uno strumento prodigioso: certe volte passo un’ora a passeggiare virtualmente in posti che conosco. Sono un cretino, lo so). Poi ho googlato e trovato un sito con estensione Tokelau di un simpatico matto che ha perlustrato Madrid ritrovando tutti i luoghi del film 40 anni dopo. Vabbeh. Di solito coi film amati nell’infanzia, quando si rivedono dopo tanto tempo, si prova una sensazione agrodolce, scoprendo quanto fossero irrisolti, salvati dalla benevolenza della memoria. E invece no: Altrimenti ci arrabbiamo sta in piedi non solo dignitosamente, ma proprio benissimo e potrebbe correre la maratona. L’incasso fu stratosferico e non ho né voglio cercare le pezze d’appoggio, ma insieme a Fantozzi e a Ultimo tango a Parigi credo sia uno dei film più visti dal popolo italiano. D’accordo che c’erano le seconde visioni, le terze e i parrocchiali (io il film – del 1974 – l’ho visto al cinema sia nel 1979 che nel 1980) e la televisione era quella del monopolio Rai (e non ancora del monopolio Nano), ma Benigni, Aldo Giovanni e Giacomo, Zalone e Giù al sud, gli fanno una pippa ad Altrimenti. E anche non fosse un semplice calcolo sui biglietti staccati o sugli incassi, io parlo proprio di immaginario, perché non c’è persona tra i 40 e i 50 che non sia stato segnato dalla visione di questi film. Comunque che si continui a parlare d’incasso più grosso di tutti i tempi basandosi solo sul valore nominale dell’incasso e non sull’effettivo valore considerando la svalutazione, beh, è una coglionaggine che non ha veramente senso. (5/12/11)

ddv7610895 – Voglio i Gremlins di Joe Dante, USA 1984
Approfittando del sonno pomeridiano della piccola Elena, Sofia e io ci concediamo una peccaminosa visione di un film che mamma Barbara sconsiglia. Ma vinciamo noi e, non avendo visto il film all’epoca, capisco a chi si riferisca il nome della band attualmente à la page dei Mogwai. Noto anche che il mio amore Phoebe Cates era proprio patatissima, nonostante certe camicette emetiche tipicamente anni Ottanta. Invece il protagonista non l’ho mai più visto. Dunque: siamo alla vigilia di Natale e un inventore senza arte né parte regala al figlio un curioso mostricciattolo peloso scovato in un robivecchi cinese. Ma, attenzione: niente luce, niente acqua e guai a dargli da mangiare dopo mezzanotte. Cose che puntualmente accadono e mentre sulla tivù girano prima La vita è meravigliosa e poi L’invasione degli ultracorpi, la cittadina viene invasa da mostruose creature devastatrici. È una fiaba di Natale horror, dove il buonismo spielberghiano viene sbeffeggiato (complice Spielberg stesso che produce). Rimandi cinefili e tanta ironia: altro che E.T.: questi gremlins sconquassano lo status quo, pervertono e perturbano anarchicamente tutto, sfasciano, fumano, sbevazzano, fanno pure giustizia dei tanti personaggi negativi della cittadina, ma ovviamente l’orrore sano non può vincere su quello reale, di un paese ormai finto, che finge di credere a Babbo Natale e che si sente assediato dagli stranieri (tantissime volte, se ne parla e si vedono prodotti esteri). Insomma, ne esce un film più intelligente di quanto vuol dare a vedere – con la sua estetica infantile e smaccatamente falsa (ma i mostri finti in modo pacchiano sono anche un omaggio alla fantascienza maccartista degli anni Cinquanta). Però rimane il solito problema: si ride e si scherza e si dicono pure cose non banali, ma il film non va bene per gli adulti (a meno che non siano un po’ rimbambiti) né per i bambini, perché al di là della vicenda (molto prevedibile) i temi sono fin troppo alti. Sofia ha visto tutto senza fare un plissé né reagendo al clamoroso spoiler: Babbo Natale non esiste! (9/12/11)

ddv7611897 – Fumata nera per Habemus Papam di Nanni Moretti, Italia 2011 Dvd
Naaaa. Non riuscito. Parte con un tema interessante che però non viene granché sviluppato: la solitudine della scelta di un uomo sembra lasciata esattamente al protagonista e la regia e la trama non provano a darci altre indicazioni. Un po’ comodo, quando invece si indugia su stupidaggini autoreferenziali (la partita a pallavolo che non finisce più, il tormentone prevedibilissimo della mancanza di accudimento) o alcune macchiette irritanti (il giornalista del Tg2 che poi, per fortuna, viene perso di vista). Un’occasione persa, insomma. C’è l’intelligenza di Moretti, ci mancherebbe, ma anche tante scorciatoie che lasciano l’amaro in bocca. A me che Nanni faccia Nanni, un po’ incazzoso e monomaniaco, non dispiace. Oh, è ben per questo che lo abbiamo amato, ma non si può cadere nella parodia di sé. Cosceneggiatori Francesco Piccolo (che ha venduto mille milioni di copie di un trascurabile liberculo intitolato Momenti di trascurabile felicità) e la genovese Federica Pontremoli che mai sono riuscito a incrociare tra Lumière e altro. (11/12/11)

ddv7612899 – Le colpe dei padri… Children of the Revolution di Shane O’Sullivan, Irlanda/Germania 2011
Curioso documentario dal repertorio iconografico storico clamoroso che racconta la storia di due madri “rivoluzionarie”, Fusaku Shigenobu e Ulrike Meinhof, e delle loro figlie, figlie della rivoluzione, senza padri e sballottate per il mondo, senza identità. Il film è apologetico e non “critico” o storiografico: sceglie di non dedicarsi alla storia delle madri in maniera approfondita, non entra nelle polemiche sui crimini commessi o meno né si occupa granché della morte della Meinhof. Circoscrive l’indagine privilegiando gli aspetti privati ed essendo un ritratto emotivo fallisce proprio perché rimane asettico, senza far scattare una vera empatia. Mai una scintilla, dell’affetto, una partecipazione, anche tra gli stessi protagonisti. Bettina Meinhof è una derelitta incarognita che ha pagato eccome per le colpe della madre, se la madre ne ha avuto, ancora ossessionata dai fan postumi. Le amiche di Ulrike che la raccontano sono delle anziane borghesi che sembrano non aver capito il travaglio della Meinhof (che a loro si ribellava) e tendono a giustificarla dando la colpa – ‘anvedi – alle cattive compagnie o ai problemi neurologici della giornalista (che si portava una bella piastra di metallo in testa che potrebbe averle cambiato la personalità). Mah. Delle due storie la più riuscita è decisamente quella di May Shigenobu, persona realizzata e dalla vita interessante. La madre Fusaku Shigenobu è stata partecipe in maniera onorevole, proprio secondo l’accezione giapponese – che non conosco, ma ci siamo capiti – della lotta palestinese per la libertà, assieme al FPLP, e non si può che provare simpatia quando la traducono in carcere, indifesa, innocua, dopo 30 anni di latitanza e lotta ideale, giacché dopo la partecipazione ai dirottamenti degli anni Settanta non ha più fatto nulla, se non vivere in fuga. I vecchi compagni della Shigenobu sono invece dei mai domi compagni nipponici, sorridenti, capaci di ironia, ancora irrequieti. Come del resto lei, di cui si vedono le immagini della cattura nell’aprile 2011, salda e sicura. Edizione sottotitolata in inglese quando i protagonisti non lo parlano direttamente (alcuni militanti palestinesi in maniera atroce e incomprensibile). Film interessante, non so quanto riuscito. (16/12/11)

(Continua, forse – 76)

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Divine Divane Visioni (Cinema porno 08/11) – 73 https://www.carmillaonline.com/2015/10/01/divine-divane-visioni-cinema-porno-0811-73/ Thu, 01 Oct 2015 20:02:26 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=25013 di Dziga Cacace 

ddv7301E pensare che io, fosse per me, chissà cosa farei

812 – Incazzarsi dibbestia per Noi credevamo di Mario Martone, Italia/Francia 2010 Noi credevamo che fosse un bel film. Perché quando è uscito in poche copie c’è stato il piagnisteo generale sulle pagine ufficiali della cultura di tutti i rispettabili quotidiani borghesi di questo paese: «Ma come! Questo film va visto! Anzi: va fatto vedere!», e del resto il reato di tortura non è ancora contemplato dal nostro ordinamento giuridico. Qualche critico altolocato e diversi colleghi hanno parlato di capolavoro penalizzato dalla [...]]]> di Dziga Cacace 

ddv7301E pensare che io, fosse per me, chissà cosa farei

812 – Incazzarsi dibbestia per Noi credevamo di Mario Martone, Italia/Francia 2010
Noi credevamo che fosse un bel film. Perché quando è uscito in poche copie c’è stato il piagnisteo generale sulle pagine ufficiali della cultura di tutti i rispettabili quotidiani borghesi di questo paese: «Ma come! Questo film va visto! Anzi: va fatto vedere!», e del resto il reato di tortura non è ancora contemplato dal nostro ordinamento giuridico. Qualche critico altolocato e diversi colleghi hanno parlato di capolavoro penalizzato dalla miopia nazionale e vai con la solita lagna – dove andremo a finire, signora mia! – che non sappiamo valorizzare le nostre opere e qui e là. La verità, la mia verità, però, è che Noi credevamo è un film inerte, intorcinato, plumbeo, girato in spazi angusti (perché pensato angustamente), senza rispetto per lo spettatore, pensando a sé come autore che fa un po’ il cazzo che gli pare coi soldi dello Stato e poi so’ cazzi tua capire cosa voglio dire. Che non è difficile intuire subito: il Risorgimento nasce in un clima torbido, tra attese e tradimenti, e questo continuo gioco sotterraneo e insincero è la base dell’Italia, un albero dalle radici marce. Solo che a raccontarlo così ti marciscono anche i coglioni e fin dai primi minuti. Allora: un film è un racconto, ma se fai di tutto perché non ti ascolti nessuno, amico mio, allora diventa un soliloquio e il problema è tuo, eh. E mica voglio limitare la voglia di sperimentare con la narrazione o di essere ostico, ci mancherebbe. Però se mi porti nel tuo carruggio e mi fai fare questo giro tortuoso, poi voglio arrivare davanti a un panorama magnifico. E invece qui è come se camminassimo per tre ore sotto il sole a picco, tra sterpi, merde di capra e vipere per arrivare a vedere Punta Perotti. Le vicende narrate precise ve le cercate in Rete – in due parole: tre giovani fanno il Risorgimento, con esiti diversi e comunque comune delusione – vi dico solo che il commissario Montalbano in una precedente incarnazione è stato Francesco Crispi, mafiosetto e coinvolto nell’attentato a Napoleone III che costò la vita a Orsini. Forse (io ci ho sempre creduto, m’è bastata la parola di quell’ira di Dio di Carlo Di Rudio, ecco). Comunque: a me è mancato clamorosamente una narrazione coerente e un’idea di cinema. Ho visto del teatro filmato e neanche bene, senza equilibrio nel racconto. Attori bravi, direi. Ma manca troppo altro: due ore e quaranta di un’opera che si voleva anche didattica, che sapesse celebrare criticamente l’unità d’Italia; e invece abbiamo una pallata, involuta, ostica, respingente. Non ho trovato neanche – perché poi son capace di accontentarmi di un po’ di plasticità, io, che diamine – alcuna invenzione visiva, nessuna immagine che mi abbia fatto sgranare gli occhi: tutto piattissimo, senza vita, inanimato. Che poi, no, qualche bella inquadratura c’è, ma proprio le conti sulle dita e su questa durata è pochissimo: io voglio notare quando l’inquadratura è sciatta, non il contrario. È come se andassi al ristorante e lo chef non si preoccupasse della freschezza delle materie prime, dell’uso dei condimenti e della cottura… a fine cena cosa dico? Però i grissini, buoni? Eddai, Marto’, eh. Giancarlo De Cataldo, cospiratore col regista, nel suo romanzo I traditori – che con Noi credevamo ha molto in comune – usa delle furbizie (sesso e carnazza, duelli etc.), degli accorgimenti, ma anche un controllo astuto della materia narrativa: le storie si aprono e si chiudono. Certo che col romanzo è più semplice, ma nessuno ha ordinato di farne un film: qui è tutto triste ed esangue, ripetuto mille volte, con alcune parti girate praticamente come 24, in tempo reale… C’è un episodio ambientato in un carcere che – giuro – potrebbe essere l’espediente per estorcere confessioni (l’episodio, non il carcere). Vabbeh: gli è venuto male? Forse. E non sarà un problema (anche se sulla faccenda dei soldi pubblici ci sarebbe da discutere, ma lo facciamo un’altra volta). O magari il problema è nostro, penso durante la visione, di fianco a Barbara che sbuffa anch’essa. E poi, all’improvviso, cosa ti vedo sul grande schermo? Una bella struttura scheletrica in cemento armato, a metà Ottocento. Non scherzo. Mi dico: no, un errore non può essere, sarebbe veramente al di là del bene e del male. E allora capisco: la METAFORA (bestemmione da scomunica censurato). L’Italia è il paese la cui edificazione è rimasta a metà, capisci?, coi tondini arrugginiti che escono ancora dai pilastri, aspettando di tirar su le pareti e di completare la costruzione. E allora quando ghigliottinano Orsini e percorrono una scalinata in griglia metallica con cent’anni di anticipo sulla sua concezione, lì, la metafora qual è? Che i francesi avevano direttori di cantiere avantissimo? O sono sciatterie che da Autori ci possiamo permettere, tanto chi se ne frega? Ecco, lì ho perso la testa, lo confesso. M’è venuto lo s’ciupun e ogni cosa, a quel punto è diventata fonte di irritazione, come la prima dell’Hernani o i garibaldini che nella vita combattono e recitano e lo fanno notare più volte… Martone, mabbasta! La mistica del teatro e il pubblico con la sciarpetta che partecipa al rito borghese e poi si va a scofanare un piatto de cozze, a te t’ha rovinato, credimi. Una consolazione, almeno, l’avrò trovata? Massì, la nasuta Francesca Inaudi, qui contessa di Belgiojoso, con quel collo da cigno, il petto affannato e l’aria smarrita come in una tela di Boldini… A tanto mi riduco. (Cinema Ariosto, Milano; 7/1/11)

ddv7302814 – Non è ancora domani (La pivellina) di Tizza Crovi e Rainer Frimmel, Austria/Italia 2009 e la mia intervista al Maestro Bernardo Bertolucci, o quasi
Film tenerissimo, quasi documentaristico: una messa in scena zavattiniana e minimale sovrastata da una ricchezza di sentimenti straripante. Nel quartiere di San Basilio a Roma la signora Patty trova una bimba abbandonata in un parco. Due anni di dolcezza innocente di cui si innamorano tutti, nel campo di roulotte dove Patty vive. E la pivellina cresce tra artisti di strada, improvvisati fratelli maggiori e Patty che vuole sapere di più. Grande intensità e nessun appeal commerciale, ma questo film sa aprirti il cuore, segnatevelo. Ah: in questi giorni s’è consumata una tragedia! Ricordo a quelli di Rolling Stone che il Maestro Bertolucci compie settant’anni a breve, il 16 marzo: urge articolo barra intervista barra celebrazione. Il direttore mi dice: bravo! Va e uccidi! Allora chiamo Bernardo a casa ed è gentilissimo, parla e ascolta il suo fan un po’ scemotto. Ci mettiamo d’accordo per un ulteriore appuntamento telefonico per definire giorno e ora, a Roma, per un’intervista vis-à-vis. Quando lo richiamo alla vigilia dell’incontro lo sento in grande difficoltà finché non mi chiede un po’ scocciato come funzionino le cose a Rolling Stone. Me lo chiedo anch’io, perché sarà Enrico Ghezzi a intervistarlo, nonostante io avessi già ottenuto consenso e stabilito tutto con la redazione. Grande imbarazzo – e di fronte a Ghezzi non mi metto certo a fare casino, anche se la sua intervista in ostrogoto sarà comprensibile a sole tre persone, BB, lui e io – ma il Maestro intuisce il mio disagio e anzi mi consola e mi racconta ancora, soddisfacendo ogni mia curiosità. Parlottiamo un po’ di tutto (anche di Jim Morrison e Agnès Varda o di Pink Floyd e David Gilmour a Sabaudia, suo ospite) però poi, a malincuore, tocca attaccare. Per cui, alla fine, è come se l’avessi intervistato, ma solo per me. Tiè, Ghezzi. (Dvd; 13/1/11)

ddv7303815 – Brutto forte, Jumanji di Joe Johnston, USA 1995
Film per bambini nonostante bordeggi l’horror (sempre per bambini). È ripetitivo, non simpatico, non coinvolgente, con effetti, trucchi e trucco – oltretutto – di scarso valore. La fotografia autunnale è bruttina e il cast presenta assortite facce da scemi su cui spicca Kirsten Dunst con la sua consueta espressione da procione, con gli occhi incavati. Robin Williams è un po’ Re pescatore, un po’ prof da Attimo fuggente, un po’ – insomma – lo stesso personaggio che interpreta sempre. A Sofia il film piace, a me per niente: spero di non doverlo vedere più di dieci volte. (Dvd; 15/1/11)

ddv7304816 – Per la serie “Cartoni che mi vorrei scopare”, Biancaneve e i sette nani di David Hand, USA 1937
La più bella del reame? Ma dove? Ma mille volte la Regina, mi piglio, io! Ma hai visto che occhietti sordidi, quella bella signora un po’ goth girl? E pure esperta in arti magiche… ma t’immagini i giochini che ti fa ‘sta qui se si beve il filtro? E la mela sai dove te la mette? E invece no, l’eroina è la benedetta Biancaneve che, a dispetto di un nome da cocainomane persa, è invece una verginella che rassetta casa, sempre con lo straccio in mano per togliere qualsivoglia filo di polvere, con gli occhioni sgranati e la boccuccia a cuoricino… giusto un principe necrofilo se la può baciare una così, una già morta dentro prima che addenti la renetta avvelenata. Naaa, no way, il Cacace non ci sta! Detto questo, il film è tecnicamente clamoroso, animato benissimo, con sfondi acquerellati da urlo e pieno d’invenzioni visive che danno ritmo a una vicenda esilissima e straconosciuta e comunque variata perché Disney vedeva lontano e conosceva bene la parola “adattamento”. L’avevamo negato a Sofia temendo reazioni scomposte (la cugina Anna non ha mangiato mele per un anno e diceva che mia nonna era la strega cattiva), invece è andata bene anche con la piccola Elena. Bisogna fortificarle fin da piccole, queste: non sanno cosa le aspetta là fuori. Il dvd è ricco di bonus e tra le diverse scene tagliate presenta anche quella clamorosa della gang bang dei sette nani con Biancaneve finalmente scatenata. No, scherzo, purtroppo. Comunque extra interessanti, se siete un po’ depressi e volete vedere come si realizza un cartone. (Dvd; 17/1/11)

ddv7305817 – Preferirei di no, ma Baciami ancora, di Gabriele Muccino, Italia 2010
Menami ancora, dovrebbe chiamarsi ‘sta roba, con riferimento particolare al regista. Non so neanche da dove cominciare… è il sequel de L’ultimo bacio e i difetti del predecessore sono esasperati fino al ridicolo. È tutto gonfiato all’inverosimile e risulta completamente fasullo, come il plot raccontato con nessuna attenzione alla crescita, allo sviluppo, alla definizione psicologica dei protagonisti in una successione di scene madri fuori controllo, montate velocissime, commentate da musiche mixate male, con un sacco di cantato che si sovrappone ai dialoghi. Abbiamo le corse forsennate sotto la pioggia, le urla disperate, i pianti a dirotto, i pentimenti accorati, Stefano Accorsi che canta la Vanoni o che in voce off enuncia perle come “è per la mancanza di cura nelle cose più semplici che facciamo gli errori più grandi” oppure “gli errori si pagano tutti”… Ma l’avete scritto scopiazzando dei Baci Perugina? Nei credits scopro che i cosceneggiatori del regista sono gli ineffabili Rulli e Petraglia, capaci di concepire una scena in cui una madre legge a un bimbo di dieci anni… Moby Dick. Giuro. Mica una versione semplificata, no, proprio Melville. Muccino e i due impuniti hanno presente Moby Dick? Letto a un bambino di dieci anni? E perché non l’Ulisse di Joyce, già che ci siamo? I fratelli Karamazov, no? Mah. (Gli farei l’assolo di Moby Dick, ma dei Led Zeppelin, in testa). Finisce in ulteriore vacca con parti concitate, promesse solenni e già la certezza che si faranno tutti nuove corna con annessi scazzi violenti, bimbi traumatizzati etc. etc. In questa corsa al ridicolo la regia infila due riferimenti kitschissimi a Il cacciatore (quando la compagnia di amici idioti canta in macchina e nelle scene della roulette russa), uno a C’eravamo tanto amati e un omaggio all’amico americano Will Smith, come a rimpiangere qualcuno che, almeno, sa recitare. Perché il vero crollo di un film ambientato in questa città magica, Roma, dove c’è sempre il parcheggio libero sotto casa, sono gli attori. Salvo per amore incondizionato Vittoria Puccini e per simpatia Pierfrancesco Favino, ma il resto del cast sembra una combriccola di amatori in gara per la peggiore interpretazione possibile. Ma non c’è gara, vince con distacco abissale Accorsi: “Quando un attore è stonato e senza talento viene definito cane… ecco il termine è perfetto nel caso specifico”. Infatti, meglio di così era impossibile sintetizzare ciò che si pensa dell’attore che questa frase la pronuncia, un Accorsi, appunto, con la faccia sempre perplessa, come se si chiedesse – giustamente – come sia finito lì. Quanto è carogna Muccino, a fargli enunciare questo epitaffio? Gli altri: il giovane Giannini, Adriano, recita sempre ingobbito, sembrando un incrocio tra sua padre Giancarlo e Silvio Orlando; Giorgio Pasotti è truccato come Giovanni di Aldo, Giovanni e Giacomo quando interpretava Johnny Glamour, ed è francamente inguardabile. Del resto Accorsi è pettinato come Donald Sutherland nel Casanova, per cui tutto torna. Ah: e poi c’è Valeria Bruni Tedeschi, il mistero gaudioso del cinema francese e italiano, l’imbarazzo puro, una che eviteresti di riprendere anche nel filmino delle vacanze. Un solo pregio consolatorio per il pubblico che ha speso i soldi del biglietto di questa troiata: lo vedi e ti senti tutto il tempo Einstein. (Dvd; 22/1/11)

ddv7306818 – Io non ho capito granché Basilicata coast to coast di Rocco Papaleo, Italia 2010
Film che ha ricevuto tanta simpatia critica e anche un discreto riscontro di pubblico. Lo proviamo in una sera in cui Barbara rifiuta i miei documentari bellissimi perché vuole ridere. Figurati! Un gruppo di amici suonatori decide di attraversare a piedi la Basilicata dal Tirreno allo Ionico (o il contrario, ho già rimosso) per arrivare a suonare in una festa di piazza. Contrattempi, amori, canzoni indolenti, incontri, destini che si incrociano e scoperte. Basilicata coast to coast è inerte e inoffensivo, ha lo scatto del ronzino che porta gli strumenti dei nostri eroi, ma come se gli avessero segato i garretti. È un film civile e come fai a parlarne male? Un inno alla Basilicata, alla sua gente discreta, alla sua cucina stratosferica, ai paesaggi clamorosi. Però, ragazzi, manca la storia, c’è solo l’idea. Non una battuta memorabile, canzoni gradevoli che ti passano senza lasciarti nulla, attori con belle facce, costretti da un copione senza nerbo a farci intuire tutto: è un attimo che ti cresca il terzo coglione, eh, e bello gonfio. (Vi do un consiglio: se volete una grande storia d’ambientazione lucana, e ridere e pensare, allora regalatevi un libro di Gaetano Cappelli, datemi retta). (Dvd; 24/1/11)

ddv7307819 – Basito di fronte a Il volatore di aquiloni di Renato Pozzetto, Italia 1987
Surreale è dir poco. Pozzetto (Urca; sì, si chiama così) vola in deltaplano dal suo Lago Maggiore verso il mare, ma rimane incantato da Milano (e avvelenato dallo smog) e atterra a San Siro dove para diversi rigori a Rummenigge. Da qui si dipana un viaggio/omaggio attraverso la città dove la concatenazione degli eventi ricorda più Entr’acte che altri film interpretati dal comico di Laveno. Qui Renato scrive e dirige e si sente: l’omaggio a Milano è personale, nel senso che per quanto si citino e si visitino le opere dei finanziatori (Rinascente, Cariplo – con la presentazione dello straordinario Bancomat! -, Montedison, Metro Milanese, Comune e Max Meyer) il racconto prende deviazioni fantastiche in cui non mancano atti d’accusa allo smog meneghino o alla mancanza di spazi per i bimbi, sempre espressi nel tono sognante e poetico del regista. Detto questo, poi, la pellicola (poco più di un’ora di durata) è pressoché indigeribile nella sua follia. Ci sono momenti più riusciti (la parte con Boldi, con una gara a chi raggiunge le più alte vette del nonsense) e altri sinceramente noiosi, con gag gelide e il ritmo questo sconosciuto. Però Il volatore di aquiloni (da una canzone di Jannacci) è una cosa talmente stramba che alla fin fine gli vuoi bene, come a un figlio scemo, e pure bruttarello. Uscì direttamente in vhs e credo che non l’abbia visto nessuno. (Dvd; 26/1/11)

ddv7308820 – Ancora agghiacciante: Children of the Stones di Jeremy Burnham, Trevor Ray, Peter Graham Scott, Gran Bretagna 1976
Questo Prigionieri delle pietre lo dava al pomeriggio RaiDue, credo nel 1979. Sul mitico televisore Voxson in bianco e nero avevo visto tutti gli episodi fuorché l’ultimo e la cosa mi bruciava da più di trent’anni, anche perché nessun mio coetaneo ne aveva un ricordo utile. Poi, con la magia della Rete ho ritrovato i sette episodi in una versione scintillante, con sottotitoli in italiano (e Dio ringrazi i volenterosi anonimi). Ricordavo poco dell’impianto narrativo generale, ma una marea di particolari che, puntualmente ho ritrovato: le musiche angoscianti (tutte sospiri asmatici e urla), il senso di mistero, le luci allucinate, il costante senso di smarrimento e pericolo. Trama: l’astrofisico Adam Brake e il figlio Matthew raggiungono il paesino di Milbury, un borgo da 50 anime sorto su un antichissimo cerchio megalitico. La popolazione è decisamente ebete e il circo è condotto dal sinistro astronomo Hendrick. Gli estranei si insospettiscono e tentano la fuga e… E mo’ vi cercate voi l’ultima puntata. Che questa roba che mescola paganesimo, buchi neri, altre dimensioni e bolle temporali fosse pensata per un pubblico infantile ha dello straordinario: da molti quarantenni inglesi (fonte Wiki https://en.wikipedia.org/wiki/Children_of_the_Stones) lo sceneggiato viene tuttora ricordato come un’esperienza terrificante. Discreta fattura (anche se le luci negli interni sono sempre smarmellate… “Everything open!” avrà detto il direttore della fotografia, alla Boris), attori bravi, inglese limpido, abbigliamento seventies semplicemente vomitorio, oltretutto cromaticamente rallegrato dal consueto buongusto albionico. Ambientato nel paesino di Avebury (che adesso non visiterei manco se pagato) gli episodi sono sette e durano 25 minuti, con pausa intermedia (!): generalmente Barbara cominciava a rantolare verso i 15 minuti per crollare presto prigioniera di un sonno di pietra. Ad ogni modo: mini-serie che è una figatina, anche dopo tutti questi anni e seppur indirizzato a un pubblico di ragazzini, come me, del resto. (Gennaio 2011)

ddv7309821 – Piccolo e bello: L’uomo fiammifero di Marco Chiarini, Italia 2009
Sincero, toccante, realizzato con poco – materialmente – ma mettendoci tantissimo cervello, idee, invenzioni. Fin troppe. L’universo fantastico di un bimbo che vive con un padre tanto distante quanto bestialmente affettuoso. Pannofino (il papà, già inarrivabile René Ferretti in Boris) è bravo anche in un ruolo drammatico, così come i piccoli attori (anche se ridoppiati). Dell’infanzia, questo film ci restituisce lo stupore per il meraviglioso, con effetti magici nella loro semplicità, come faceva certo cinema d’inizio secolo, ma quell’altro. È un film per bambini per adulti (è piaciuto più a me che a Sofia, per capirci) e non saprei come definirlo altrimenti, se non come intelligente e meritevole. Forse non riuscito fino in fondo ma molto più che dignitoso. Non è vero che il cinema italiano sia in crisi, sono in crisi gli italiani, spettatori e non al cinema. (Dvd; 28/1/11)

ddv7310822 – Truffa truffa ambiguità: Valzer con Bashir di Ari Folman, Israele/Germania/Francia 2008
La strage di Sabra e Chatila, come incubo rimosso. Non solo dal protagonista del film, anche dal regista, direi, che alla fine assolve se stesso e in qualche modo quella generazione di israeliani che combatté l’ennesima sporca guerra. Del conflitto sembrano non capirci niente lui e i suoi commilitoni, che assistono sgomenti al prevalere della follia, della paura e del cinismo dei generali. Il film è amaro, plasticamente splendido, inventivo, spiazzante e crudele e riesce a farti provare pietà e costernazione con dei disegni animati, forse l’unico modo impensabile per mettere in scena un orrore che ci si è rifiutato di vedere per troppi anni. Però la sensazione di un discorso autoassolutorio mi mette in difficoltà e nel cervelletto, incastonata come una pietruzza dell’Intifada, rimane parecchia insoddisfazione. In termini puramente estetici, il film è comunque notevolissimo. Saran contenti i palestinesi. (Dvd; 29/1/11)

ddv7311824 – Il disincanto sia con te: Guerre stellari di George Lucas, USA 1977
Questo l’ho visto la prima volta nell’estate del 1978 in un cinema di Rapallo, con mia madre. Dovevo, se no ero fuori dal dibattito. Non ero rimasto folgorato come invece era avvenuto a molti miei coetanei (però mia madre mi offrì cinquemila lire dell’epoca pur di uscire tra primo e secondo tempo e io rifiutai testardamente, rinunciando a una fortuna) e oggi son curioso di capire che reazione possa avere Sofia che però di anni ne ha due meno di me – all’epoca – ed è decisamente più sveglia – di me, oggi. E apprezza. E io? Mah! Film lineare, sempliciotto, con effetti speciali allora innovativi e oggi ingenui, continua a sembrarmi narrativamente troppo easy, ma anche popolare nel senso migliore: epico, archetipico, con diversi richiami alla cultura pop USA (Il mago di Oz, il cinema western – vedi Han Solo). Elegantissime le guardie imperiali, evidenti i rimandi iconografici al nazismo per le divise dei comandanti dell’Impero Galattico, molto anni Settanta le capigliature, squallido – quasi casual – l’abbigliamento dei ribelli, con una predominanza arancione da operaio dell’autostrada e caschi che sembrano dei wok rovesciati. Alec Guinness è il miglior Padre Pio della galassia, Luke esibisce un kimono felpato (ma a un certo punto tira fuori un poncho alla Eastwood) e la principessa Leila ha due grossi bagel di trecce sopra le orecchie. Non c’è mai sangue, mai mai mai, e aleggia una sottile tensione amorosa tra Luke e Leila che subito Sofia individua – ah, l’intuito femminile – e mi sa che qui ci scappano anche i due seguiti, maledizione. (Dvd; 9/2/11)

(Continua – 73)

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