Dario Paccino – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Fri, 01 Aug 2025 20:00:30 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Ecologia conflittuale e di classe. Da Dario Paccino a Michael Löwy https://www.carmillaonline.com/2024/09/17/ecologia-conflittuale-e-di-classe-da-dario-paccino-a-michael-lowy/ Tue, 17 Sep 2024 19:37:12 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=84405 di Marc Tibaldi

L’ecologia politica di Dario Paccino – Tra l’imbroglio ecologico e le lotte contro il nucleare, a cura di Gennaro Avallone e Sirio Paccino Ombre corte, Verona 2024, 139 pagine, 13 euro

Nel volume collettivo dedicato a Dario Paccino, i due curatori, assieme a Giulia Arrighetti, Angelo Baracca, Lucia Giulia Fassini, Giorgio Ferrari, Vincenzo Miliucci, Alfonso Natella e Roberta Pompili, propongono una serie di contributi che si concentrano su due questioni fondamentali utili per i movimenti sociali ed ecologisti contemporanei. La prima riguarda la centralità del concetto di “imbroglio ecologico”, per comprendere la gestione tecnocratica dall’alto della crisi climatica [...]]]> di Marc Tibaldi

L’ecologia politica di Dario Paccino – Tra l’imbroglio ecologico e le lotte contro il nucleare, a cura di Gennaro Avallone e Sirio Paccino Ombre corte, Verona 2024, 139 pagine, 13 euro

Nel volume collettivo dedicato a Dario Paccino, i due curatori, assieme a Giulia Arrighetti, Angelo Baracca, Lucia Giulia Fassini, Giorgio Ferrari, Vincenzo Miliucci, Alfonso Natella e Roberta Pompili, propongono una serie di contributi che si concentrano su due questioni fondamentali utili per i movimenti sociali ed ecologisti contemporanei. La prima riguarda la centralità del concetto di “imbroglio ecologico”, per comprendere la gestione tecnocratica dall’alto della crisi climatica e ambientale in corso; la seconda è relativa alla rilevanza dell’ecologia politica per capire quanto sia necessario sostenere l’abbandono dell’energia nucleare in ogni sua forma, civile o militare.

Questioni fondamentali affrontate a partire dal metodo di lavoro di Paccino e ripercorrendo le lotte dei movimenti. Ricordiamo che Ombre corte, nel 2023, ha ripubblicato L’imbroglio ecologico, uno dei testi chiave dell’ecologismo internazionale. È in sintonia con questi intenti anche il libro di Löwy. L’ecosocialismo per lui è una corrente di pensiero e di azione ecologica che fa proprie le conquiste fondamentali del marxismo mentre le libera dalle sue scorie produttiviste. La logica capitalista del mercato e del profitto, così come quella dell’autoritarismo burocratico del defunto “socialismo reale”, è incompatibile con le esigenze di salvaguardia dell’ambiente. Ma l’ecosocialismo critica anche gli attuali vicoli ciechi dell’ecologia politica, che non mette in discussione il potere del capitale, e propone una proposta una trasformazione radicale dei rapporti di produzione, dell’apparato produttivo e dei modelli di consumo dominanti, rompendo con i fondamenti della civiltà capitalista/industriale.

Ecosocialismo – Un’alternativa radicale alla catastrofe capitalista, di Michael Löwy, Ombre corte, Verona 2024, 156 pagine, 14 euro

Molto interessante il confronto che Löwy ingaggia con pensatori e movimenti, a iniziare da alcuni saggi di Walter Benjamin, in cui il filosofo – negli anni ’20 del Novecento – precorre le riflessioni degli ecologisti sociali, denunciando l’idea di dominio della natura e proponendo una nuova concezione della tecnica: non più dominio della natura da parte dell’uomo ma “dominio del rapporto tra natura e umanità”. Benjamin riprese anche alcune intuizioni di Charles Fourier, che già a inizio ‘800 aveva sognato un lavoro ben lontano dallo sfruttare la natura.

Nel libro, è dirimente il confronto con il pensiero di Serge Latouche e del movimento della decrescita. Löwy – pur sottolineando che questa corrente è lungi dall’essere omogenea e mettendo in luce la giusta demistificazione dello “sviluppo sostenibile” – attacca il rifiuto in blocco dell’umanesimo e del pensiero illuminista, l’attaccamento etnocentrico territoriale che sconfina nella condanna delle migrazioni e delle ibridazioni, del loro relativismo culturale, etc. Non è un caso che Latouche si sia confrontato con l’ideologo ultradestro Alain de Benoist e che alcuni suoi libri siano stati tradotti anche da editori ambigui.

Altri confronti interessanti sono quelli con il pensiero di André Gorz, di Joel Kovel, di Murray Bookchin. Utilizzando le parole di Löwy: “Questo libro non è un’esposizione sistematica delle idee o delle pratiche ecosocialiste, ma più modestamente il tentativo di esplorarne alcuni aspetti, terreni ed esperienze. Non mira a codificare una nuova dottrina né a fissare una qualche ortodossia. Una delle virtù dell’ecosocialismo è proprio la sua diversità, la sua pluralità, la molteplicità di prospettive e approcci, spesso convergenti o complementari ma anche, a volte, divergenti”, come dimostrano gli interessanti documenti pubblicati in appendice, che provengono da diverse reti ecosocialiste. Per sintetizzare e concludere, possiamo dire che in questo libro Michael Löwy presenta le idee di chi vuole che “il valore di scambio sia sostituito dal valore d’uso”, e “la produzione sia organizzata in funzione dei bisogni sociali e delle esigenze di tutela ambientale”.

Merita un elogio Ombre corte per l’attenzione editoriale ad autori che riflettono sulle questioni ecologiche e ambientali; oltre ai due titoli di cui abbiamo parlato, segnaliamo: Jason W. Moore (Ecologia-mondo e crisi del capitalismo), Dipesh Chakrabarty (La sfida del cambiamento climatico), James O’Connor (La seconda contraddizione del capitalismo), Razmig Keucheyan (La natura è un campo di battaglia), Jacopo Nicola Bergamo (Marxismo ed ecologia).

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Fascismo e lavoro https://www.carmillaonline.com/2022/04/20/fascismo-e-lavoro/ Wed, 20 Apr 2022 20:00:41 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=71439 di Dario Paccino

[Originariamente pubblicato sulla rivista “vis-à-vis – Quaderni per l’autonomia di classe” n. 2, primavera 1994 –ght]

Anche senz’alcun altro riferimento storico, basterebbe, per una corretta interpretazione del radicale mutamento dell’Italia dopo l’assunzione (1922) di Mussolini al governo da parte di Vittorio Emanuele, confrontare la legislazione attinente capitale e lavoro prima e dopo la “marcia su Roma”.

Non che la democrazia prefascista si sia mai caratterizzata per particolare sensibilità sociale. Ma c’era stata Caporetto, e fu così giocoforza spronare i soldati al fronte con miraggi sociali, quale ad esempio la concessione della terra ai diseredati (almeno il novanta per [...]]]> di Dario Paccino

[Originariamente pubblicato sulla rivista “vis-à-vis – Quaderni per l’autonomia di classe” n. 2, primavera 1994 –ght]

Anche senz’alcun altro riferimento storico, basterebbe, per una corretta interpretazione del radicale mutamento dell’Italia dopo l’assunzione (1922) di Mussolini al governo da parte di Vittorio Emanuele, confrontare la legislazione attinente capitale e lavoro prima e dopo la “marcia su Roma”.

Non che la democrazia prefascista si sia mai caratterizzata per particolare sensibilità sociale. Ma c’era stata Caporetto, e fu così giocoforza spronare i soldati al fronte con miraggi sociali, quale ad esempio la concessione della terra ai diseredati (almeno il novanta per cento dei contadini, che erano allora , in percentuale demografica, largamente maggioritari) a conclusione vittoriosa del conflitto. E c’era Lenin popolarissimo, tanto che riecheggiando il suo nome esplose (1917) la rivolta armata di Torino. E s’era temuto, finita la guerra, di perdere il controllo delle “masse” nell’infuriare d’una crisi economico-sociale che scuoteva il mondo.

È così che i lavoratori qualcosa, nell’immediato dopoguerra, avevano ottenuto nonostante il terrorismo fascista volto a soffocare cruentemente le loro lotte, distruggendo inoltre le forme organizzative di mutualità che s’erano date nei passati decenni. Conquiste – quelle strappate alla democrazia liberale prefascista – del tutto cancellate dal fascismo con distruzione d’ogni organizzazione partitica e sindacale del movimento operaio.

 

L’obiettivo prioritario del fascismo

Questo il fascismo mussoliniano in un’ottica sociale: l’espropriazione di quanto i lavoratori avevano saputo prendersi, non infrequentemente a prezzi di sangue e di lunghi anni di carcere, una generazione dopo l’altra; e ciò a vantaggio dei poteri forti dell’economia e della finanza, sostenuti da un’industria di Stato, attraverso la quale, come rilevò Ernesto Rossi, si socializzavano le perdite, privatizzando i profitti.

Il tutto fondato sulla violenza, e giustificato, filosoficamente, dall’identificazione dello Stato fascista come incarnazione dello Stato etico, e, alla luce della teologia economica, dall’accumulazione vista come bene supremo, sia della patria (nel quadro del tradizionale imperialismo straccione italiano), sia per i posti di lavoro che lo sviluppo produttivo avrebbe portato con sé.

Che il fascismo sia stato determinato prevalentemente dalla volontà d’un controllo del lavoro, autoritario e del tutto funzionale all’accumulazione capitalistica, si può cogliere in quanto osserva Primo Levi a proposito del nesso fra il Lager in cui era detenuto e le ragioni della produzione del nazismo in guerra, nazismo con peculiarità proprie rispetto al fascismo nostrano, ma della stessa natura di quest’ultimo alla luce appunto del binomio capitale-lavoro.

Secondo una valutazione di Shirer (Storia del Terzo Reich) i lavoratori coatti in Germania nel 1944, notava Levi (Se questo è un uomo), erano almeno nove milioni. Risulta dalle stesse pagine di questo libro quale intimo rapporto legasse l’industria pesante tedesca con l’amministrazione dei Lager: non era certo un caso che per gli enormi stabilimenti della Buna fosse stata scelta come sede proprio la zona di Auschwitz. Si trattava di un ritorno all’economia faraonica e ad un tempo di una saggia decisione pianificatrice; era palesemente opportuno che le grandi opere e i campi di schiavi si trovassero fianco a fianco.

I campi non erano dunque un fenomeno marginale e accessorio: l’industria bellica tedesca si fondava su di essi; erano una istituzione fondamentale dell’Europa fascistizzata, e da parte delle autorità naziste non si faceva mistero che il sistema sarebbe stato conservato, e anzi esteso e perfezionato, nel caso di una vittoria dell’Asse (l’alleanza militare nazi-fascista, ndr). Si prospettava apertamente un Ordine Nuovo su basi ‘aristocratiche’: da una parte una classe dominante costituita dal Popolo dei Signori (e cioè dai tedeschi stessi), e dall’altra uno sterminato gregge di schiavi, dall’Atlantico agli Urali, a lavorare e obbedire. Sarebbe stata la realizzazione piena del fascismo: la consacrazione del privilegio, l’instaurazione definitiva della non-uguaglianza e della non-libertà.

 

I due antifascismi

Ma se questo è l’obiettivo primario del fascismo, naturale che non siano pochi i quesiti storico-politici che s’affollano alla mente, visto che (per limitarci al nostro paese): a) l’azzeramento dello stato sociale, in questi ultimi anni, è stato opera non già dei dichiarati eredi di Mussolini, bensì di coloro che si rifanno alla Resistenza come valore ideale fondativo della Prima Repubblica, b) che da parte di costoro si va ora all’attacco dei vincitori del 27-28 marzo in nome proprio di quell’antifascismo che Amato, Ciampi, Occhetto, Trentin hanno socialmente rinnegato, imponendo, con una violenza invisibile (democratica), ciò che il fascismo impose a suo tempo con manifesta, ostentata violenza.

Scontato: niente da obiettare al “Guardian” che scrive che l’Italia il 27-28 marzo “ha eletto separatisti, neofascisti e opportunisti di destra sotto la guida di un avventuriero”. Ineccepibile però anche quanto lo stesso “Guardian” scrive in chiusura, e cioè che “è giusto preoccuparsi (al presente, ndr) non di una possibile rivoluzione fascista, ma di un ulteriore declino delle istituzioni politiche in Italia”.

Indispensabile perciò, per un corretto (quanto meno in prima approssimazione) orientamento interpretativo, riandare a quanto abbiamo rilevato in precedenti testi, e cioè che due sono gli antifascismi che hanno operato fra le due guerre, e poi nella guerra fredda: quello rosso, prevalentemente comunista, con reale obiettivo l’arresto della reazione socio-politica guidata da Mussolini (lo stesso antifascismo rosso impegnato poi in Spagna, nel ’36-’39, volto ad arrestare la fascistizzazione del continente), e poi quello sulle orme di Stalin (costretto nel ’41, volente/nolente, all’alleanza antifascista con Churchill e Roosevelt), antifascismo introdotto in Italia da Togliatti nel ’44 con la “svolta di Salerno”, l’ibrido antifascismo capital- comunista-democristiano, pregiudicato, per il momento, da “tangentopoli”, e che ha al proprio capezzale, per la propria riabilitazione, la più alta autorità (dopo quella del Fondo monetario internazionale e della Nato) dominante in Italia, quella del presidente della Fiat.

 

L’antifascismo di Toglaitti

Puntuale, su questo antifascismo continuazione democratica del fascismo mussoliniano, Rosario Piccolo, che osserva (“La Comune”, anno 6, numero 14, inverno 1993, pp.25-26):

Togliatti con l’amnistia (ai fascisti, ndr) limitò fortemente l’epurazione delle burocrazie fasciste presenti nello stato. Per vent’anni i capi della polizia proverranno dalla Repubblica Sociale Italiana. Il capo della polizia dal 1953 al 1960, Giovanni Carcaterra, proveniva dalla segreteria personale del ministero degli Interni fascista; Angelo Vicari – dal 1960 al 1973 al posto di Carcaterra – fece parte della segreteria particolare del ‘duce’. In seguito Mario Scelba, sempre con il beneplacito di Togliatti, compì la restaurazione del fascismo nel ceto chiamato a esercitare la repressione statuale. Insomma il dispositivo di polizia per tutti gli anni ’50 è interamente nelle mani di funzionari di provenienza fascista.

Si deve ricordare inoltre, continua Rosario Piccolo,

la funzione avuta dal Codice Rocco nella repressione delle lotte sociali in tutti questi anni. La coincidenza tra fascismo e diritto è dunque la caratteristica anche della Prima Repubblica, anzi c’è stato un palese peggioramento grazie alla legislazione d’emergenza degli anni ’70, anche in questo caso avallata dal Pci contro i Movimenti antagonisti, emergenza che è poi diventata metodo di governo delle contraddizioni sociali, politiche, economiche. Più in generale negli anni ’70 fino a oggi è possibile ricostruire l’intreccio tra vecchio e nuovo, tra continuità e innovazione, tra fascismo e Prima e Seconda Repubblica. (…) La delegittimazione della classe operaia, l’attacco formidabile condotto contro le sue conquiste (…) è la traduzione pratica della rottura avvenuta tra lotte operaie e sviluppo capitalistico. Lo stato si attrezza come macchina di guerra contro le istanze del sociale, riassume in sè fascismo e democrazia rappresentativa per meglio governare processi sociali, economici, politici che necessitano di strumenti più raffinati…

 

… e quello di Agnelli

Un brutale dir pane al pane la denuncia di Rosario Piccolo, con pieno rispetto però della sostanza del processo storico da allora a oggi, come conferma l’antifascistica (alla Togliatti) presa di posizione di Agnelli del 16 aprile scorso alla riunione confindustriale di Verona sul tema “Uomo, impresa, politica, tre dimensioni per lo sviluppo”. Presa di posizione sormontata il giorno seguente (“Stampa”, 17/4/94) da questo titolo a tutta pagina:”L’Avvocato difende la concertazione e mette in guardia dagli eccessi del liberismo – Agnelli: ha vinto la libera impresa”.

Adesso, si legge nel testo (in parte virgolettato, in parte riferito con discorso indiretto) sottostante il titolo,

è il momento di manifestare fiducia nella ripresa, di assumersi dei rischi, di dispiegare appieno quello spirito d’intrapresa di cui gli industriali italiani hanno già dato così importanti dimostrazioni. Niente stravolgimenti, però. ‘Ci vuole concretezza e senso della misura’ e ‘nè la maggioranza nè l’opposizione devono trincerarsi dietro vecchie ideologie già condannate dalla storia’. Agnelli invita alla cautela in particolare per i rapporti con i sindacati. Esalta l’importanza del patto del luglio scorso ‘sul costo del lavoro, frutto della concertazione fra governo, sindacati e imprenditori’. Quegli accordi vanno ‘salvaguardati’ e le relazioni industriali vanno sviluppate ‘tenendo conto delle specificità storiche di ciascun Paese’. Prudenza viene sollecitata poi per la mobilità del lavoro. Agnelli ricorda che gli ammortizzatori sociali (come la cassa integrazione o i contratti di solidarietà) consentono alle aziende di ristrutturarsi. Niente imposizioni, non si possono “applicare nel nostro continente sistemi bruschi” (fascisti alla vecchia maniera, ndr) che provocherebbero turbative sociali. Anche per la politica economica nessuna rivoluzione: ‘I due ultimi governi di Amato e Ciampi hanno ben operato.’…

Cose, verrebbe fatto di dire, dell’altro mondo: la Fiat, già colonna portante del fascismo mussoliniano, che oggi ammonisce i “nuovi” ad attuare il programma socio-plitico dei progressisti. Cose però, purchè si rifletta un sol momento, del tutto conformi alla temperie di questi nostri giorni, nella quale l’espropriazione di lavoro e risorse deve avvenire democraticamente, con assoluto rigore nella cittadella della Nato, nonché, nei limiti delle possibilità oggettive, nelle periferie del mondo.

 

Metodologia democratica nel centro…

Per la nostra cittadella, più di un trattato di pedagogia politica, appare istruttivo, in tema di metodologia democratica dell’espropriazione, l’editoriale della “Stampa” del 20 aprile dal titolo “Chi ostacola una nuova sinistra”.

Al suo ingresso in politica Berlusconi, osserva l’articolista, è stato snobbato (dalla pubblicistica progressista, “Stampa” in testa, ndr) in quanto ‘dittatorello sudamericano’, e solo all’ultimo momento se ne è avvertita la prepotente capacità egemonica. Recriminare oggi su questi errori di valutazione è inutile, perché la rivoluzione conservatrice avrebbe vinto comunque.

Importante è quanto Agnelli, che in campagna elettorale sostenne, con la “Stampa”, il progressismo (votato, del resto, in occasione dell’elezione a Torino, lo scorso autunno, del nuovo sindaco), manda ora a dire ai “compagni” di via Botteghe Oscure.

Importante, scrive infatti il giornale,

è riconoscere come tale fenomeno (la vittoria dell'”avventuriero” Berlusconi, ndr) abbia stravolto la stessa conformazione storica della sinistra: una sinistra che conquista il collegio borghese della collina torinese, perdendo invece i collegi operai di Mirafiori, rappresenta uno schiaffo alla memoria di Gramsci; una sinistra che prende più deputati in Basilicata che in Lombardia ha ormai del tutto essicate le sue radici riformiste.

Analiticamente, questa la realtà:

Piuttosto che la sua funzione naturale di rappresentanza del mondo del lavoro, è sopravvissuto, nella percezione del Paese, il vincolo di appartenenza della sinistra all’esperienza (“tangentopolista”, ndr) della Prima Repubblica, nonché la sua continuità di apparati, di linguaggi, di facce (a cominciare da quelle di Occhetto e D’Alema). Questi apparati, questi linguaggi, queste facce non paiono oggi adeguati a misurarsi con le inevitabili contraddizioni che la rivoluzione conservatrice – dopo i primi momenti di euforia – inevitabilmente genererà: la difficoltà della ricetta liberista a misurarsi con i problemi dei grandi apparati industriali di base; le contraddizioni fra i modelli di vita televisivi’ che essa propone e la realtà della vita di tutti i giorni; la necessità di assegnare comunque allo Stato un ruolo nelle politiche sociali.

Le teste – questo chiedeva Agnelli attraverso il proprio giornale – di Occhetto e D’Alema nell’interesse tanto della sinistra partitica e sindacale che della Fiat, dal momento che, con la decapitazione dei due maggiori responsabili della batosta del 27-28 marzo, si salva il partito, spianandogli la strada (con nuovi leader fuori del non ancora del tutto prosciugato guazzo “comunista”) a una credibile prospettiva centrista; e col partito congruamente aggiornato si rinverdisce il più genuino antifascismo togliattiano, l’unico che possa dare fondate speranze di salvaguardia della “pace sociale” (necessaria ad Agnelli come l’aria che respira) in questi tempi di turbativa berlusconiana.

Decapitazione con l’onore delle armi, come si coglie nella conclusione: “Occhetto e D’Alema hanno avuto coraggio, cinque anni fa, nel guidare la svolta post-comunista. Ma la brusca accelerazione della storia, per quanto ciò possa apparire crudele, oggi indica nella loro stessa leadership l’impedimento a che fiorisca qualcosa di nuovo anche a sinistra.”

 

… e in periferia

Emblematico quanto l’establishment bianco è riuscito a fare, tenendo fede alla metodologia democratica, in periferia nel caso specifico del Sudafrica.

Per un bel po’, sappiamo, quell’establishment s’è comportato contro la maggioranza nera in forme repressive, che neanche Hitler avrebbe potuto fare di più. Ecco però che viene il momento che l’establishment deve prendere atto, sul fondamento della propria peculiare logica costi-ricavi, che l’uso esclusivo della violenza avrebbe finito per essergli svantaggioso. Di qui la decisione di accogliere la rivendicazione nera “una testa, un voto”, che avrebbe fatalmente comportato il passaggio di leadership governativa: dalla bianca alla nera.

Ciò senza perderci, e anzi guadagnandoci, grazie alla vigente fase di mondializzazione, che consente, come appunto è avvenuto in Sudafrica, la consegna all’opposizione di un paese interamente spolpato, essendosi la leadership bianca assicurato il controllo di tutta l’attività economico-finanziaria che le interessa, nello stesso tempo che: a) ha legato le mani ai neri con una costituzione immutabile per cinque anni; b) ha scaricato loro addosso un debito strumentale col Fondo monetario internazionale, destinato a mettere in ginocchio i governanti neri così come ha messo in ginocchio, in questi anni, quelli russi.

“Gioco” particolareggiatamente illustrato da “Le Monde diplomatique” del 20 aprile (fuga di capitali, creazione all’estero di società fittizie, legali truffe bancarie ecc.), che conclude:

Il sistema economico e relativo potere sono stati modificati a tal punto che, quando i responsabili dell’American National Congress si insedieranno a Pretoria (a elezioni avvenute, ndr), scopriranno che le leve del potere sono altrove. (…) Alla fine del mese di aprile sarà l’euforia a prevalere quando il potere passerà nelle mani del popolo sudafricano e dei suoi dirigenti. Ma mentre i neri in questo paese si chiederanno se il potere che hanno ereditato è reale, in tutto il mondo gli ambienti economici tireranno un sospiro di sollievo”

 

Irreversibile vittoria della reazione?

Se con tanta espropriatrice metodologia democratica è stato possibile operare in Sudafrica (fino a pochi anni fa sinonimo di spietato, totalizzante apartheid), come escludere, così su due piedi, che anche in Italia non sia accaduto qualcosa di analogo, sicché i nuovi governanti non debbano, non solo per innata vocazione capitalistica, ma anche per necessità storica, andare al di là delle loro attuali intenzioni per ritagliarsi la restante polpa, determinando così quelle drammatiche contraddizioni sociali che tanto mostra di temere Agnelli?

D’altronde, come negar verità, se non in toto, quanto meno in parte, al testo introduttivo della citata rivista “La Comune”?

Vien da sorridere, si osserva infatti (p.2) in questo testo, quando si sente parlare di ‘pericoli per la democrazia’ in riferimento agli esiti di questa o quella elezione locale. Non esiste alcuna democrazia. Viviamo, tutto il mondo vive, gli esiti di scelte operate da forze ormai sottratte a ogni controllo, che usano le leve dell’economia come gli dei dell’Olimpo usavano i fulmini.

Insomma, la reazione ha già vinto. Non c’è all’orizzonte alcun pericolo fascista (fascismo inteso come revival mussoliniano, ndr), nè in Italia, nè altrove. La rivalutazione del fascismo (…) è stata semplicemente uno strumento utile per incrinare i capisaldi ideali di vecchi ordinamenti, ormai non più funzionali alle nuove oligarchie. Quel tanto di fascismo che ha potuto approfittare dell’operazione per riscuotere qualche successo in giro per l’Europa, non è che la bava di una vecchia lumaca. Il potere sta altrove, e con esso la minaccia che grava sulle classi subalterne, mai così inermi dalla Rivoluzione d’Ottobre a oggi.

Verità, quest’ultima (“classi subalterne mai così inermi”), confermata in “Le Monde” da Alain Touraine, della stessa razza, in contesto francese, della nostra intellighenzia di “Ragiona Italia”, e perciò del tutto immunizzato dal pericolo di sospettare la responsabilità del capitalismo in ordine all’insanabile piaga dilagante a livello di massa di “invendibili” (coloro che non hanno più possibilità oggettive di trovare acquirenti per la propria forza-lavoro) e di “malvenduti” (la moltitudine del precariato).

Gli Stati Uniti, scrive Alain Touraine, hanno creato decine di milioni di posti di lavoro, ma riducendo i costi salariali e, soprattutto, moltiplicando gli impieghi del terziario non qualificati e mal pagati. La Gran Bretagna ha creato per lo più posti di lavoro a tempo determinato o part-time. Le classi medie italiane reclamano, attraverso la Lega, che ci si sbarazzi di un terzo del territorio e della popolazione per ridare vigore all’economia del Centro e del Nord. La Spagna ha già messo un terzo della sua popolazione potenzialmente attiva fuori del mercato del lavoro. La Francia – dove quelli che potrebbero (in realtà, hanno necessità di, ndr) lavorare, e non ci riescono, sono più vicini alla soglia del 20 che del 12 per cento – scopre che numerosi settori di attività cercano di abbassare fortemente i costi salariali per cercar di sopravvivere.

Questo il dilemma, così stando le cose, per Alain Touraine:

1. “Gettare la zavorra (invendibili e malvenduti, ndr) per cercar di riprendere quota, e accettare quindi che il risanamento non trascini verso l’alto tutta la società francese, ma solo il 70 per cento della popolazione. Il resto sarebbe in parte confortato da misure assistenziali e in parte abbandonato alla violenza della ‘controsocietà’: mafia, droga, tumulti.”

2. “Rafforzare il nostro settore competitivo, il nostro armamentario tecnologico e, grazie alle risorse che questo ci fornisce, creare un nuovo ‘Stato provvidenza’, incaricato di limitare (sempre, dunque, resterebbe ‘zavorra’ da gettare, ndr) quei costi umani ,estremamente elevati, determinati dai rapidi cambiamenti sociali e dalla terziarizzazione accelerata dell’economia.”

Altrimenti detto: o la soluzione di tipo nazista (illustrata, come s’è visto, da Primo Levi, e già per tanta parte reale), o un ritorno a Keynes storicamente impossibile, se non altro per la mondializzazione in atto, sicché, come riconosce lo stesso Alain Touraine, “la frontiera fra sviluppo e sottosviluppo non passa più tra Nord e Sud: attraversa tutti i paesi (la quasi totalità dei quali espropriata della propria sovranità, ndr) e li divide in due parti.”

 

Il vero dilemma

Diagnosi (quella della “Comune”: la reazione ha vinto ed è in condizioni di operare come, a suo tempo, Giove con i fulmini) che ha un suo contenuto di verità, ma che non per questo par di poterla accreditare come esaustiva dato l’apparente oblio di due punti fondamentali della riflessione marxiana: a) la necessità che i capitalisti si divorino fra loro; b) l’eventualità che il conflitto capitale-lavoro determini la distruzione di entrambi gli antagonisti.

Se è sembrato, nell’immediato post-muro, e poi nella imposizione dell’America – con lo sterminio del Golfo – della propria egemonia planetaria, che la necessità denunciata da Marx non avesse più consistenza in ragione della gerarchia fra i grandi capitali venutasi a determinare, al presente Germania, Russia, Cina, Giappone preannunciano, nei fatti, nuove guerre interimperialistiche quanto meno sul terreno economico-finanziario, guerre che fatalmente determineranno nuove ridistribuzioni di profitti di tale entità, da non potersi escludere a priori il passaggio, più o meno indiretto, alle armi.

Per limitarci alla Germania, si consideri il suo processo storico dal crollo del muro a oggi: a) l’asse Parigi-Bonn è saltato, e mentre la Francia corre il rischio di trovarsi, economicamente, nella non invidiabile posizione dell’altro defunto impero occidentale, la Gran Bretagna, la Germania ha ripristinato il suo tradizionale impero economico nell’Europa centrale e orientale; b) l’annessione dell’ex Repubblica Democratica è stata fatta pagare a tutti gli alleati europei della Germania senza che nessuno abbia potuto farci niente; c) “Nella crisi jugoslava (“Le Monde diplomatiqe” citato) le tesi tedesche sul riconoscimento della Slovenia e della Croazia nel 1991 hanno avuto la meglio sulla prudenza raccomandata dalla Francia con le conseguenze tragiche che conosciamo.” d) si è tornati alla situazione immediatamente precedente la prima guerra mondiale, quando i due più grandi imperi quanto a capacità produttive ed espansionismo economico erano Stati Uniti e Germania, principali protagonisti di quella guerra e della successiva (’39-’45); e) posizione di forza, al presente, che quasi sicuramente consentirà a Bonn di entrare nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu.

Il tutto da collegare con l’esistenza d’una Russia che, cinicamente depredata dall’Occidente (in particolare dall’America), ha ruotato di 180 gradi rispetto alla prima gestione Eltsin, e sta marciando a livelli di interscambio russo-tedesco ch’erano prima esclusivi dell’asse franco-tedesco; e con la presenza in Germania di una massa di disoccupati di quattro milioni, quanti ve n’erano, nota il citato “Le Monde”, alla vigilia dell’ascesa al potere di Hitler, riuscito elettoralmente vincente con un nazionalismo che avrebbe avuto, nel suo paese, gli stessi effetti sociali (in connessione col forte impulso all’industria bellica) del keynesismo adottato fra le due guerre negli Stati Uniti.

Donde la conclusione di “Le Monde”: “Ambizioni da grande potenza all’esterno, malessere sociale grave all’interno, due ragioni, per coloro che non hanno dimenticato una storia troppo recente, per guardare alla nuova Germania con occhio vigile.”

Ora la Germania non vale solo per la citata asserzione marxiana circa il fatale, inesauribile cannibalismo intercapitalistico, ma anche per le potenzialità distruttive dei suoi quattro milioni di disoccupati (ufficiali, e dunque, praticamente, almeno il doppio). Una Germania economicamente altrettanto forte dell’America, e tuttavia incapace di rimediare in qualche modo a una disoccupazione, che già ha concorso a rendere dirompenti razzismo e xenofobia, e che non ci vorrebbe niente per far esplodere nelle forme di violenza di massa che si son viste nel “marzo francese”, tanto che anche là, come qui da noi, i poteri forti dell’economia e della finanza sembrano aver optato, per le prossime elezioni politiche, per la “sinistra”, ritenuta più idonea della destra a puntellare la “pace sociale”.

La realtà è che in Germania, come in Francia, in Inghilterra, in America, ecc., il capitalismo ha dato concretezza alla prospettiva d’una fatale distruzione della civiltà uccidendo, per così dire, la gallina dalle uova d’oro, da esso generata con l’accumulazione originaria: la necessità-possibilità d’uno sfruttamento di massa attraverso il lavoro salariato.

La tecnologia gli permette, al capitale, uno sviluppo che, invece d’accrescere, riduce i posti di lavoro. D’altra parte la tecnocrazia politico-militare gli dà il modo di frammentare, su scala planetaria, le strutture produttive così da poter disporre in abbondanza di lavoro a buon mercato nelle più convenienti periferie del mondo. E poi, perchè investire in attività produttive, quando la rendita finanziaria frutta in un battibaleno – spostando da un capo all’altro del pianeta in pochi minuti masse di miliardi da capogiro – quanto e più dell’imprenditoria in un arco di tempo incomparabilmente più lungo?

Di qui la bomba atomica sociale: la massa crescente di invendibili a malvenduti.

Un’ovvietà che per un non-proprietario lavoro, nella società dello scambio, è sinonimo di autoriproduzione (soddisfazione quanto meno dei bisogni elementari), mancando il quale non resta che finirla con la vita, o entrare nei circuiti malavitosi, possibilmente quelli più redditizi (droga e armi), “consociativi” con i governi su scala mondiale. Il che dà ragione del fatto che nel paese-guida dell’Occidente, l’America, principale problema interno sia la criminalità, contro la quale sono partiti in guerra elevando da 4 a 64 i delitti punibili con pena capitale, e comminando l’ergastolo dopo tre crimini non meritevoli di morte.

Fenomeno, questo della criminalità diffusa al punto da indurre ad adottare contro di essa metodologie sterministe, che ha un precedente nella Francia prerivoluzionaria, dove i “poveri” ricavavano di che sostenersi taglieggiando, con masse d’urto irresistibili, campagna e città. Il rimedio fu trovato, a rivoluzione avvenuta, elevando i “poveri” a “proletari”, ridotti all’impotenza etica dal socialismo democratico. che trasformò, come scrivono i suoi apologeti, le “folle” in “popoli”.

Ma come rimediare oggi rappresentando il capitalismo l’ultima spiaggia, e dovendo considerarsi la guerra scatenata contro la criminalità perduta in partenza, unica alternativa al crimine diffuso non potendo essere altro che il generalizzarsi del modello Los Angeles?

Problema senza possibilità di soluzione (tanto più che senza soluzione appare anche il problema del costante aumento demografico), e che segnerà sicuramente la fine del capitalismo, senza coinvolgere la sua antitesi (il lavoro) solo se sarà riuscita a farsi soggetto rivoluzionario su scala mondiale, coinvolgendo invece essa pure, se la risposta sarà stata l’esclusiva opzione criminale: dilemma chiaramente non ponibile in esclusiva dimensione soggettiva, base di tutto essendo, come sempre, la materialità storica.

 

Perché vince il capitalismo

Marx, sappiamo, pur non escludendo la prospettiva catastrofica del conflitto capitale-lavoro, sempre ha optato per quella ottimistica, il trionfo del lavoro che, negando se stesso (come lavoro salariato, schiavitù – per i non-proprietari – della libertà in democrazia), avrebbe liberato l’intero genere umano.

Oggi però, ben più di quando le scrisse, appaiono attuali le parole di Brecht sulla pace e la guerra dei capitalisti, guerra “che si sviluppa dalla loro pace, come il figlio dalla madre”, una “guerra che uccide quanto la loro pace ha lasciato in vita”.

Realtà che don Ersilio Tonini, da quel sant’uomo che è, neanche riesce a immaginare, se, nell’articolo di condanna (“Manifesto”, 23/4/94) della citata mostruosità americana di elevare da 4 a 64 i reati punibili con la pena di morte, scrive, scandalizzato, che

quando questo accade, vuol dire che la ragione non serve più da guida, l’aggressività bestiale ne ha preso il posto; sicché si pensa che alla violenza (la violenza, in questo caso, a essere realisti, come adeguamento alla violenza genocida del mercato, ndr) non ci sia altro rimedio che una maggiore violenza. Il che è poi lo stesso ragionamento che conduce alla guerra; la stessa logica. Se questo è, con la sua decisione il governo americano riconosce di non poter più contare su un’adeguata riserva di risorse morali e neppure sul contributo delle forze educative.

A ben vedere, però, quando mai un governo americano ha puntato su “un’adeguata riserva di risorse morali”? Non è in America – notava Marx – che il capitalismo, a differenza di quello europeo, deve considerarsi da sempre genuinamente totalizzante mancanti come sono, alle sue spalle, i regimi precapitalistici del nostro continente? Non consiste, la differenza fra la suprema barbarie dei Lager, e la suprema barbarie di Hiroshima, nel fatto che la prima s’è consumata come sfruttamento del lavoro nel tempo, mentre l’altra, nucleare, ha inaugurato la nuova tecnocrazia dello sfruttamento totale (planetario per un verso, e senza più distinzione fra tempo di lavoro e tempo libero per l’altro) fondato su sterminio istantaneo, come s’è visto da Hiroshima al Golfo, sterminio che, dando luogo a un controllo assoluto su lavoro e risorse, ha finito col creare il vigente dualismo sociale caratterizzato (come Primo Levi pensava di poter attribuire esclusivamente alla barbarie nazista) da un’élite di signori e da una sterminata moltitudine di schiavi?

In particolare per quanto concerne il nostro paese come non vedere che il dualismo signori-servi è arrivato qui da noi al punto da trasformare il conflitto capitale-lavoro in una guerra intercapitalistica, condotta da una parte da capitani di ventura modello Agnelli e De Benedetti, e, dall’altra, modello Berlusconi, i primi illuminati protettori di una sinistra partitica e sindacale funzionale all’accumulazione, mentre il secondo, in difficoltà per il venir meno delle forze politiche su cui poteva contare grazie al leader socialista Craxi, ha dovuto immettersi direttamente in politica per non soccombere, a costo di allearsi – per la conquista democratica del potere statuale – con figuri politicamente e moralmente impresentabili?

Ma lo stesso non ha fatto la sinistra protetta dagli illuminati capitani di ventura, esibendo, nella manifestazione clou del 25 aprile a Milano, quei figuri cui si deve, in conseguenza della cancellazione della scala mobile e dello stato sociale, se un po’ di gente s’è gettata dalla finestra o s’è data fuoco per la perdita del lavoro e/o della casa, mentre altra è tornata al creatore prima del tempo non disponendo della necessaria assistenza sanitaria?

Materialità storica e soggettività, s’è detto, e naturalmente solo nella mente degli dei sarebbe possibile leggere come – con l’operare e interagire di queste componenti – andrà a finire circa le due prospettive marxiane: vittoria del lavoro o finale catastrofico per entrambi i contendenti e lo stesso sistema della vita, visto che esso pure è vittima dell’assolutizzazione del valore di scambio (il genocidio-ecocidio del mercato).

Una cosa comunque appare certa, oggi così come quando Brecht le dette espressione letteraria: non è che, lottando contro il capitalismo, si perda perché esso è spregiudicatamente cattivo, il contrario di noi costituzionalmente buoni, dovendosi in realtà imputare la nostra sconfitta a tutta una serie di fattori materiali e soggettivi, in primo luogo quello dato dalla differenza abissale fra noi e il capitalismo: che mentre quest’ultimo non smette mai di far guerra, riuscendo anche a farla in modo che i suoi apologeti possano spacciarla, medialmente, come pace, per noi, così come per don Ersilio Tonini e il “Manifesto”, vale la granitica persuasione che basti optare per la “cultura di pace” per aver così risolto ogni problema, a incominciare da lavoro, casa, vettovagliamento.

Roma 26 aprile 1994

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L’imbroglio ecologico https://www.carmillaonline.com/2021/08/05/limbroglio-ecologico/ Thu, 05 Aug 2021 21:00:01 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=67424 di Dario Paccino

Dario Paccino, L’imbroglio ecologico. L’ideologia della natura. Introduzione di Gennaro Avallone, Lucia Giulia Fassini, Sirio Paccino, Ombre corte, Verona, 2021, pp. 235, € 20,00

[Torna in libreria il volume di Dario Paccino, L’imbroglio ecologico, pubblicato originariamente nel 1972 da Einaudi, con una nuova edizione curata da Ombre corte che, nella scheda di presentazione, ricorda come alla sua uscita il testo accogliesse «quelle istanze sociali che dagli anni Sessanta cominciavano a denunciare con forza il nesso tra assetto capitalistico del lavoro, salute, nocività in fabbrica e degrado ambientale. Al centro del [...]]]> di Dario Paccino

Dario Paccino, L’imbroglio ecologico. L’ideologia della natura. Introduzione di Gennaro Avallone, Lucia Giulia Fassini, Sirio Paccino, Ombre corte, Verona, 2021, pp. 235, € 20,00

[Torna in libreria il volume di Dario Paccino, L’imbroglio ecologico, pubblicato originariamente nel 1972 da Einaudi, con una nuova edizione curata da Ombre corte che, nella scheda di presentazione, ricorda come alla sua uscita il testo accogliesse «quelle istanze sociali che dagli anni Sessanta cominciavano a denunciare con forza il nesso tra assetto capitalistico del lavoro, salute, nocività in fabbrica e degrado ambientale. Al centro del lavoro di Paccino vi è la dimostrazione che il rispetto dell’uomo e della natura è strutturalmente incompatibile con il modello di sviluppo capitalistico, con un’economia di mercato che produce a prezzi sempre più bassi beni di consumo sempre meno utili e con una obsolescenza programmaticamente sempre più breve. Denunciando la contraddizione fra l’apparente e improvviso amore per l’ecologia dei paesi ricchi e industriali, esploso nei primi anni Settanta, e i devastanti inquinamenti, guerre, distruzione delle foreste – inevitabili conseguenze del successo economico dei ricchi e che colpiva e rendeva più poveri i due miliardi di abitanti poveri del pianeta –, Paccino ribadiva con forza che l’ecologia pensata e tradotta politicamente senza aver presenti i rapporti di produzione e di forza sociali, rappresentava ipso facto un imbroglio. È quest’uso ideologico e mistificato della natura che l’autore contesta e problematizza in tutto il suo lavoro teorico e militante, cercando di mettere al centro del dibattito i rapporti di potere ed i meccanismi socio-economici che determinano lo squilibrio, con l’obiettivo di dare vita a una ecologia conflittuale finalizzata a costruire un rapporto equo ed armonico tra gli esseri umani, le organizzazioni sociali e la natura. Non c’è dubbio che quanto era già chiaro cinquant’anni fa, oggi appaia ancora più drammaticamente evidente, in epoca di pandemie, riscaldamento globale e sfruttamento illimitato delle fonti energetiche» – Dalla scheda di presentazione di Ombre corte].

Dario Paccino (1918-2005), partigiano nella Resistenza, è stato giornalista e saggista oltre che militante del movimento antinuclearista, anche attraverso la direzione delle rivista Rossovivo. Tra le sue numerose pubblicazione ricordiamo: Arrivano i nostri (1956); I colonnelli verdi e la fine della storia (1990); L’ombra di Confucio. Uomo e natura in Cina (1976); La guerra chiamata pace (1992); Gli invendibili (1994). È stato responsabile del periodico Natura e Società.

[Di seguito si pubblica un saggio sulle tematiche trattate dal libro scritto da Dario Paccino per la rivista Vis-à-vis – Quaderni per l’autonomia di classe n. 4, 1996. I riferimenti al testo riguardano ovviamente la sua prima edizione  – ght]

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Naturalismo verde fine millennio

di Dario Paccino

Ovvio, a prima vista, l’attributo di naturalista a chi si qualifica come verde. Ovvio infatti lo è, ma non nel senso che suggerisce l’aggettivo naturalista in connubio col verde (col suo rappresentarsi la vita, il suo mestiere di ambientalista).

Ogni parola, si sa, è un poliedro, sicché immancabilmente necessita – nel discorso scientifico – un’indicazione preliminare circa il lato del poliedro prescelto.

Sia consentito in questo caso, nell’intento di fornire l’indicazione richiesta, un richiamo all’Imbroglio ecologico, nel quale si esplicita, fin dalle prime battute, l’intenzionalità liquidatoria del naturalismo ambientalistico, che per altro nel ‘72 – quando uscì il libro – ancora non s’era degradato all’attuale trasformismo politico.

L’Imbroglio apre con un’Avvertenza scandita in quattro brevi capoversi, di cui il primo così articolato: “Questo libro è dedicato a coloro che per guadagnarsi il pane devono vivere in habitat, che nessun ecologo accetterebbe per gli orsi del Parco Nazionale del Gran Paradiso: gli operai delle fabbriche e dei cantieri”.

Assunto dell’opera, si dichiara nel capoverso che segue “la proposta di mettere l’ecologia con i piedi sulla terra, la terra che tutti gli uomini, e perciò anche delle loro verità e ideologie: il sistema dei rapporti di produzione. E ciò in polemica sia con gli ecologi che si librano al di sopra delle parti, sia con quei materialisti storici che accolgono la riduzione idealistica della storia naturale alla storia umana”.

Pretesto della documentazione, tendono ad allargare il discorso sulla parzialità della scienza e sul disarmo teoretico di quei materialisti storici – ufficiali e no – che lasciano la natura agli scienziati”.

1. Non casualmente quel primo capitolo, che può essere saltato da chi “sappia tutto di ecologia”, ha come titolo Storia naturale, e si prende – fra testo e note – 24 pagine del libro. Ciò per spiegare come ecologia altro non sia che un ramo della storia naturale, inconcepibile astraendo dall’uomo, che è sì natura come tutti gli altri viventi, ma anche altro dal momento che ha coscienza della natura e di sé, e produce – attraverso un incessante ricambio organico con la natura – le proprie condizioni di vita, fondate sulla triade lavoro-guerra-discorso, donde il concretarsi e fluire della storia sociale. Storia che, in quanto tale, diviene incessantemente altra col divenire incessantemente altreo di uomo e natura, da lui senza tregua trasformata per le proprie esigenze di sopravvivenza materiale e di elaborazione culturale.

Puntuali, in proposito, i due capoversi finali di quel primo capitolo (p.25): “Vita, uomo, ecc., risultano (…) concetti astratti, oltre che nel discorso logico, anche in natura, dove vita è in realtà vita-ambiente, uomo è in realtà l’insieme degli uomini e degli elementi biotici e abiotici che consente agli stessi uomini di vivere, generare, stabilire rapporti di produzione”.

“Astratte, conseguentemente, sono biologia (che ci dà uno spaccato della vita tanto opportuno per l’apprendimento scientifico, quanto inadeguato per la conoscenza dei nessi ambientali) ed ecologia (che considera prevalentemente l’ambiente). Solo con la ricerca bioecologica (storia naturale) si può conoscere la natura vivente, fatta di inerte, organismi, ecosistemi. Senza peraltro trascurare storia umana, economia politica, sociologia, se si hanno di mira uomini ed ecosistemi, che non possono più identificarsi, dopo millenni di civiltà, con quelli della storia naturale”.

2. Biasimevole imbroglio, dunque, il naturalismo ambientalista alla luce di un marxismo critico anni settanta (che cercai di far mio nella redazione dell’Imbroglio), e che non può, non deve più essere quello di oggi, ma col quale non può non avere in comune il paradigmatico “umanesimo” marxiano riflesso nel concetto “uomo radice dell’uomo”.

Di qui la perdurante validità del dilemma rappresentato nell’imbroglio fra umanesimo nel senso del citato concetto marxiano, e naturalismo ambientalista, lo stesso, nella sostanza, di quello imposto al mondo dal capitalismo a partire dal diciottesimo secolo.

Parole – va da sé – che richiedono un’esauriente articolazione, che rimandiamo però al paragrafo che segue, premendo qui rilevare come, per focalizzare il biasimevole naturalismo verse, si possa partire, oltre che dall’umanesimo marxiano, anche dall’universo teologico del cristianesimo.

Esemplare, in questo caso, il testo del teologo Chrisstoph Turcke, Quanto è morale la difesa dell’ambiente?, pubblicato in Germania nel 1985, e tradotto in Italia (pp. 52-58 in Violenza e tabù, Garzanti editore) sei anni dopo.

Coerentemente con quanto dovrebbe essere di rigore nel discorso scientifico (e cioè quel che si è già rilevato: precisare preliminarmente il lato prescelto del “poliedro”), il Turcke dice di voler “chiarire subito quale sia la vera origine del concetto ‘ambiente’”. Esso, scrive, “proviene dalla biologia e indica il limitato ambito vitale di cui un organismo ha solitamente bisogno per conservare se stesso e la propria specie”.

Nel caso dell’uomo, però, l’ambiente è il pianeta, oltre che da un punto di vista naturale, anche sociale, visto che nell’epoca moderna il mondo antropologicamente abitato “è stato reso un tutto articolato dal colonialismo europeo che, nel corso della sottomissione pianificata del cosiddetto Terzo Mondo, ha tessuto intorno al globo una rete di commerci, cultura e sfruttamento, e ha così finito per rendere gli essere umani cittadini del mondo, creando un mercato universale del quale da allora siamo dipendenti. E mentre diventa sempre più chiaro che è soltanto questa interrelazione mondiale costruita negli ultimi secoli che minaccia prima o poi di spezzarsi, tutto il mondo parla di ambiente minacciato”.

Una semplice “trascuratezza di linguaggio, priva di importanza?”

In realtà trattasi di una “trascuratezza dalla quale si può desumere che gli uomini, che non sono padroni del proprio linguaggio, non lo saranno neppure delle proprie condizioni di vita. Se per definire un problema globale, del quale sono responsabili unicamente un determinato modo di produzione e un preciso tipo di economia, viene impiegato un concetto che appartiene al regno animale e vegetale, già nella scelta di questo vocabolo si nasconde una manovra diversiva”.

C’è di più. C’è il fatto che, grazie all’ambiguità linguistica del temine ambiente, non si considera natura quella “modificata dall’uomo”. Si “distilla” così il concetto, “finché diventi così puro come lo vuole l’uso linguistico odierno”.

Il risultato allora è che “l’ambiente è un contesto naturale fatto di acqua pura, ricche materie nutritive tratte dalla terra e grande varietà di piante e animali, che costituì un pacifico equilibrio biologico fino al momento in cui la grande industria vi portò lo scompiglio”.

“Così, non potendosi riesumare l’era preindustriale, e apparendo del tutto utopistico voler comandare a chi decide della produzione, si richiede “un mutamento sostanziale del modo di pensare, un cambiamento radicale nel rapporto con la natura”.

Si richiede “una nuova etica ecologica”, fondata su questi principi: a) rispetto per la vita, b) considerazione preventiva dei rischi e coscienziosa valutazione dei vantaggi e dei danni in caso di interventi umani in natura”.

Il secondo di questi principi “non riguarda affatto la morale: richiede solo un calcolo dei costi e degli utili (…). Quanto all’altro, all’apparenza lo è molto (morale, ndr), in quanto per rispetto per la vita non si intende solo quello per la vita umana: ogni vita dovrebbe essere considerata sacra”.

È Albert Schweitzer, osserva Turcke, “che rese popolare questa concezione”, senza però prenderla tanto sul serio, se è andato nella foresta vergine a Lambarenè per pianificare l’annientamento della vita di innumerevoli agenti patogeni”. Sicché “in quanto medico ha dato alla vita umana quella precedenza che le negava come moralista. Ha agito in modo umano, non restando fedele alla propria morale”.

Donde la conclusione che “prendere in parola il rispetto per la vita significa da un lato morte sicura (…); dall’altro significa lasciare tutto com’è: anche quella di chi vegeta nella fame e nella miseria è vita, e quindi sacra. E alla fine significa puro egoismo, in quanto si vuole sacra anche la propria vita. In tal modo questo tipo di etica rende impossibile ciò che essa stessa postula, e si annulla da sé”.

Parole apparentemente più grevi di macigni, ma che rispecchiano in realtà quell’istanza materialistica donde è necessario muovere mirandosi ad un’autentica conciliazione di uomo e uomo e uomo e natura, istanza che è tanto del razionalista Spinoza (che irrideva la fede nei miracoli in ragione della ferrea materialità della legge naturale) quanto del materialismo dialettico di Marx (sarcastico schernitore d’ogni filantropismo compatibile col naturalismo capitalistico).

Si richiede, osserva infatti a questo punto Turcke, “una maggiore connessione degli uomini con tutti gli altri esseri viventi, cose se la storia umana non ne avesse mostrata abbastanza, cose se gli uomini non avessero trattato reciprocamente se stessi e anche la natura in modo bestiale, come se non avessero impiegato contro la natura – quella umana e quella non umana – mezzi desunti dalla natura stessa: come quello spietato e brutale del divorare ed essere divorati (…) quale oggi (…) viene nobilitato attribuendogli il titolo di equilibrio biologico”.

E qui si dispiega la salutare contrapposizione da noi più sopra contraddistinta come umanesimo e naturalismo.

“Il cieco progredire della natura sopra i cadaveri dei suoi figli, che non è assolutamente così pacifico come vorrebbero i propugnatori dell’equilibrio ecologico, scrive infatti Turcke, è stato in passato, per gli antichi, la quintessenza dell’orrore mitico. l’etica dovrebbe sottrarre gli esseri umani a questo orrore. Che non vi sia mai riuscita, non dipende dal fatto che essi fossero troppo poco legati alla natura, ma dal fatto che lo erano troppo. Nel dominio di pochi uomini su molti, dei liberi sugli schiavi, sulle donne e sui bambini, la violenza naturale trova la propria prosecuzione; nelle guerre e nelle carneficine assume dimensioni ignote alla creatura priva di ragione, e in queste circostanze la violenza contro gli esseri umani è sempre stata accoppiata a quella contro il resto della natura. Gli abusi che si commettono sulle creature sono soltanto il rovescio della sottomissione alla natura della società umana”.

Si deve al mistificante concetto di ambiente dei verdi, se si è ormai così volenterosamente soggetti al dominio della natura, da ritenersi apodittica la mancanza di alternative al naturalismo, sicché “le leggi del mercato mondiale passano come leggi di natura in modo cieco e spietato sopra tutto ciò che è loro sottomesso; che ancora esse abbiano reso necessità economica l’avvelenamento delle acque, l’inquinamento dell’aria e lo sterminio degli animali allo stesso modo delle crisi di mercato, della disoccupazione di massa e della catastrofe della fame…”

Quel che i Verdi lamentano è che “gli esseri umani stanno per distruggere la natura, quando invece stanno in realtà sottomettendosi ad essa, in quanto stanno per estinguere se stessi e produrre un equilibrio naturale fatto di acque marine, paesaggio lunare e forse qualche ameba…” Il tutto non già per un ineludibile operare di industria e tecnica, non essendo problema industriale e tecnico “quello di impedire che il petrolio si disperda in mare, le automobili scarichino gas, e che gli esseri umani vengano rovinati alla catena di montaggio. La concorrenza costringe a calcolare ciò che è più vantaggioso, e in tale calcolo le materie prime, la forza-lavoro e gli acquirenti sono ridotti a meri numeri. È la concorrenza economica (la naturalistica guerra di tutti contro tutti, ndr) che costringe ad un costante logoramento di cose ed esseri viventi per mantenere attiva la macchina della produzione, che non può procedere senza continuare a gonfiarsi, ma che minaccia di morte tutte le creature appena non sia in grado di correre o si fermi. Un capitalismo senza plusvalore è come un cattolicesimo senza papa”.

Sicché “la morale della difesa dell’ambiente è fondamentalmente d’accordo con il corso attuale (il naturalismo capitalistico, ndr) del mondo. (…) Il nuovo rapporto con la natura di cui tanto parla (l’ambientalismo verde, ndr), potrebbe instaurarsi soltanto se venisse intrapreso qualcosa di serio contro la sottomissione della società umana alla natura”.

3. Qualcosa di serio, in buona sostanza, per l’abrogazione della produzione capitalistica, che segna l’avvento del naturalismo della modernità, la cui fenomenologia digiungla a dimensione planetaria è irrefutabilmente dimostrata dal grafico che va sotto il nome di Coppa di Champagne.

Grafico di cui ha la paternità la sezione delle Nazioni Unite per lo sviluppo, che ha condotto una ricerca, a livello mondiale, sulla distribuzione del reddito.

Grafico, riprodotto in Cuba e la ragione cinica di Heinz Dieterich (la piccola Editrice, Cellano, 1994), che raffigura stilizzata una coppa con un gambo che si va via stringendo dall’alto al basso.

Nel concavo della coppa figura il reddito del 20% della popolazione mondiale più ricca: nel gambo si indicano via via (un 20% dopo l’altro) i restanti quattro quinti. dal che risulta che il 20% della popolazione più ricca dispone dell’82,7% del reddito mondiale, mentre al 20% più povero tocca l’1,4. Fra il concavo della coppa e la fascia più bassa, il primo dei tre quinti incamera l’11,7%, il secondo il 2,3, il terzo l’1,9.

Percentuali che danno ragione ben al di là di quanto immaginasse a Karl Polanyi della grande trasformazione.

Polanyi, esule ungherese rifugiato a Londra nel 1933 dopo l’avvento di Hitler al potere, pur attingendo all’opera di Marx, ne prese le distanze in conseguenza della propria concezione storiografica, nella quale non c’era posto per la dialettica nei processi della storia, donde l’assurdità, ai suoi occhi, di pensare che dal male del capitalismo possa venire il bene della futura liberazione dell’umanità: il marxiano passaggio dal regno della necessità naturalistica del capitalismo al regno della libertà dell’uomo radice dell’uomo.

La grande trasformazione vide la luce a Londra nel 1944, e fu poi tradotta dall’Einaudi trent’anni dopo con aggiunta del sottotitolo Le origini economiche e politiche della nostra epoca.

Occupava la scena del mondo, nel ‘44, la seconda guerra mondiale con i suoi due fronti contrapposti fascista e antifascista, quest’ultimo sostituitosi dopo che l’Urss aveva arrestato, nell’inverno ‘41 – ‘42, quella che era stata fino a quel momento l’invincibile armata tedesca. Ed è dunque più che naturale che Polanyi abbia cercato di spiegare, alla luce del passato, il fenomeno fascista, specie quello in veste nazista, ch’era il nemico da battere.

“Per capire il fascismo tedesco, scriveva Polanyi (p. 39, ed. italiana), dobbiamo ritornare all’Inghilterra ricardiana”, l’Inghilterra della “economia classica” di Ricardo, appunto, e di Adam Smith, fondamentali teorizzatori della “società di mercato”, nata in Inghilterra con l’affermarsi del capitalismo.

Sempre, nel corso storico, prima del capitalismo, i mercati, rammentava Polanyi, erano stati “un elemento accessorio del sistema sociale regolato e controllato dall’autorità politico-amministrativa”. È quando il capitalismo s’impone, dapprima con l’accumulazione originaria frutto di un’espropriazione su scala mondiale che può ben dirsi nazista ante litteram, e poi con la rivoluzione che ha spalancato le porte al moderno, che il mercato diventa centrale, sicché tutto ha un prezzo, compresi “uomo, terra (la natura, ndr), moneta”.

Come dunque pensare, se questa è l’origine del capitalismo, che la società di mercato possa mai produrre effetti benefici? Non era il fascismo, nella Germania sconfitta della prima guerra mondiale, frutto dell’estrema violenza di un capitalismo come quello tedesco, proteso alla rivincita per ridare alla Germania il ruolo di potenza egemone nel continente europeo?

D’altra parte, se la centralità del mercato tutto riduce a merce, uomo e natura compresi, come non dedurne che il capitalismo, oltre che come promotore di guerra permanente, opera pure come processo distruttivo del sistema socio-naturale?

“Permattere al meccanismo di mercato (Polanyi, pp.94-95), di essere l’unico elemento direttivo del destino degli esseri umani e del loro ambiente naturale, e perfino della quantità e dell’impiego del potere d’acquisto, porterebbe alla demolizione della società. la presunta merce ‘forza lavoro’ non può infatti essere fatta circolare, usata indiscriminatamente e neanche lasciata priva di impiego, senza influire anche sull’individuo umano, che risulta essere il portatore di questa merce particolare. Nel disporre (come avviene attualmente nell’universo della “flessibilità”, ndr) della forza-lavoro di un uomo, il sistema disporrebbe tra l’altro dell’entità fisica, psicologica e morale ‘uomo’ che si collega a questa etichetta. Privati della copertura protettiva delle istituzioni culturali (come avviene nella presente “mondializzazione”, ndr), gli esseri umani perirebbero per gli effetti stessi della società, morirebbero come vittime di una grave disorganizzazione sociale, per vizi, perversioni, crimini e denutrizione”.

Quanto alla natura “essa verrebbe ridotta ai suoi elementi, l’ambiente e il paesaggio deturpati, i fiumi inquinati, la sicurezza militare messa a repentaglio e la capacità di produrre cibo e materie prime distrutta. Infine, l’amministrazione da parte del mercato del potere d’acquisto liquiderebbe periodicamente le imprese commerciali poiché le carenze e gli eccessi di moneta si dimostrerebbero altrettanto disastrose per il commercio quanto le alluvioni e le siccità nelle società primitive”.

4. La grande trasformazione, s’è visto, è del ‘44. L’anno prima c’era stata, con Stalingrado, la svolta decisiva della guerra, e Roosevelt e Churchill s’erano affrettati a Teheran (novembre-dicembre) per incontrarsi con Stalin col quale firmare il comunicato (1 dicembre ‘43) nel quale è detto fra l’altro (Da Teheran a Yalta, ed. Riuniti, 1965, pp. 81-82): “La perfetta intesa cui siamo giunti è sicura garanzia che la vittoria sarà nostra. Nei riguardi della pace, abbiamo la certezza che la nostra concordia la farà durevole”.

Dopo aver garantito che “i nostri attacchi non conosceranno tregua e andranno aumentando d’intensità”, Churchill, Roosevelt e Stalin, firmatari del Documento, annunciamo al mondo: “Alla fine di questi nostri cordiali colloqui, guardiamo con fiducia al giorno in cui tutti i popoli della Terra potranno vivere una vita libera, non oppressa da tirannide e conforme ai desideri e alla coscienza di ciascuno”.

Il compimento dei minacciati attacchi alleati, che non conosceranno tregua, e andranno aumentando d’intensità, si concretò l’anno seguente con i due eventi che non lasceranno sussistere dubbio alcuno circa la disfatta tedesca: lo sbarco in Normandia e l’inizio dell’offensiva sovietica che avrebbe portato l’Armata Rossa a Berlino (rispettivamente 6 e 23 giugno 1944).

È in questa atmosfera di sicura vittoria sull’imperialismo tedesco e di altrettanto sicuro sradicamento del fascismo dal mondo, che l’11 febbraio ‘45 sarà firmato da Churchill, Roosevelt e Stalin il Comunicato di Yalta (pp.189-196), nel quale campeggia la solenne promessa al genere umano di “distruggere il militarismo tedesco e il nazismo, e far sì che la Germania non sia mai più in grado di turbare la pace mondiale”.

Ciò nel quadro di “una organizzazione generale internazionale per il mantenimento della pace e della sicurezza”. In particolare, per quanto concerne il nostro continente, si dichiarava “La fondazione dell’ordine in Europa e la ricostruzione della vita economica nazionale (dei vari paesi, ndr) devono essere perseguite mediante procedimenti che mettano in condizione i popoli liberati di distruggere le ultime vestigia di nazismo e di fascismo, e di creare istituzioni democratiche di loro propria scelta”.

Scopo dichiarato dei tre firmatari: “Un ordine mondiale retto dalla legge e rivolto alla pace, alla sicurezza, alla libertà e al benessere generale del genere umano”.

In conclusione (i due capoversi finali): “Solo attraverso una continua e sempre maggiore collaborazione e comprensione tra i nostri tre grandi paesi e tra tutte le nazioni amanti della pace si potrà realizzare la più alta aspirazione dell’umanità: una pace sicura e duratura che, secondo le parole della Carta atlantica “garantisca a tutti gli uomini di tutti i paesi di vivere liberi dal timore e dal bisogno”.

“Si ritiene che la vittoria in questa guerra e la costituzione della progettata organizzazione internazionale creerà la maggiore opportunità che si sia mai avuta di creare negli anni futuri le condizioni essenziali della pace”.

5. È in questa temperie che Polanyi, pur cogliendo l’essenziale verità dell’essere il fascismo generato dal capitalismo, si illuse che si trattasse di parto non inevitabile.

Non combattevano “democrazie” e “comunismo” la stessa guerra contro il mostro nazista, assicurandone l’irreversibile estinzione? E non si impegnavano per una pace di compromesso fra “libero mercato” capitalista ed economia dirigista sovietica?

E’ il teologo Leonardo Boff che rileva, ai nostri giorni, che quel dirigismo, qualunque sia la valutazione che par giusto darne circa la sua natura (socialismo, capitalismo di stato, ecc.), ha realizzato, in Urss e nei paesi del “Terzo mondo” nei quali s’è affermato, la “rivoluzione della fame”, lo scorporo dal mercato dei bisogni primari dell’uomo, cosa che il capitalismo non potrà mai fare, anche se, per assurda ipotesi, se lo proponesse.

Non si può dire, naturalmente, se Polanyi avrebbe condiviso questo giudizio di Leonardo Boff. Certo, in ogni caso, che non può non aver influito sul suo pensiero la prospettiva d’una pace di compromesso fra la giungla “democratica” del mercato e l’”umanesimo” sociale sovietico concernente i bisogni primari della comunità. Donde la liceità, per cosìdire, della sua illusione circa la non inevitabilità della filiazione del fascismo dalla matrice capitalistica.

Non si illuse invece sulla fondatezza di quel compromesso Klaus Fuchs, figlio, informa Robert Jungk (Gli apprendisti stregoni, Einaudi, 1958, pag. 196) “di un pastore evangelico tedesco (esule in Inghilterra, ndr) che si professava quacchero socialista religioso”. Fisico nucleare, era considerato “uno dei membri più intelligenti del team inglese” (dell’organizzazione tecnico-scientifica del Progetto Manhattan, ndr).

Giunto negli Usa alla fine del 1943, e a Los Alamos (dove si lavorava alla megabomba) nel dicembre 1944, “aveva stretto molte amicizie, e col suo modo di fare quanto mai timido aiutava come poteva i suoi colleghi”.

Fu proprio in quel dicembre ‘44 che venne la resa dei conti di scienziati e tecnici del Progetto con la propria coscienza. È in quel mese infatti che il fisico di Liverpool Joseph Rotblat fece le valigie tornando in Inghilterra.

Era stato Einstein a garantire a Roosevelt, in forza della propria autorità scientifica, il “miracolo” di una bomba contro la quale non si dà difesa, determinando la scissione dell’atomo. L’aveva fatto (un suggerimento del fisico ungherese Leo Szilard) per il timore che gli scienziati tedeschi, rimasti in patria nonostante l’avvento al potere di Hitler, stessero preparando l’arma che avrebbe permesso al nazismo di impadronirsi del mondo.

Quando però alla fine del ‘44, l’intelligence americana poté accertare senza ombra di dubbio che la Germania non stava costruendo la bomba, si impose a scienziati e tecnici il che fare in coerenza con i propri principi morali.

L’unico a decidere lì per lì fu Joseph Rotblat, che oggi, ottantacinquenne, motiva la propria scelta dichiarando: a) d’aver appreso che lo scopo del Progetto era di “sottomettere i russi”, b) d’aver sempre pensato che la scienza “debba lavorare per il benessere dell’uomo, e non per la sua distruzione” (Repubblica, 21-6-95).

(Inciso che non par esagerato definire pedagogico: due mesi prima, il 21 aprile, l’Unità aveva stimato opportuno pubblicare un’intervista di De Felice a Norberto Bobbio, che, alla domanda dell’intervistatore se lui l’avrebbe buttata la bomba su Hiroshima, aveva risposto: “Probabilmente sì. Gli americani furono costretti a costruire una bomba atomica e a buttarla”).

Invece, Klaus Fuchs, altrettanto “umanista” di Rotblat, ma più politico di lui, restò presenziando (per lo più in silenzio) al dibattito nel quale si affrontavano tre correnti: a) quella dell’estremista (“ipernaturalista”) Edward Teller, deciso fin da allora a passare, una volta realizzata la bomba con la scissione, a una incomparabilmente più distruttiva, risultante dalla fusione nucleare; b) quella moderata di Leo Szilard, che si rivolse nuovamente a Einstein per convincerlo a spiegare, in una lettera a Roosevelt che, dileguatasi la paventata prospettiva dell’atomica tedesca, l’eventuale uso dell’atomica americana avrebbe aperto un’apocalittica corsa agli armamenti atomici, non potendosi pensare che l’Urss non avrebbe a sua volta realizzato questo strumento di sterminio irreversibile; c) quella opportunista di Oppenheimer, prono, con Fermi e gli altri suoi pari (la grande maggioranza di scienziati e tecnici), ai voleri dell’esecutivo.

Esecutivo che il 12 aprile ‘45 cessò di essere impersonato da Roosevelt, morto improvvisamente, sicché le due lettere (quella di Einstein e quella di accompagnamento di Szilard) “giacevano ancora inevase sulla sua scrivania” quando Truman gli succedette alla Casa Bianca (p.188).

Invano Szilard cercò di avvicinare Truman, dovendo infine accontentarsi di parlare con un suo collaboratore, James Byrnes, esponente del partito democratico al potere, che, ascoltato l’autorevole postulante “con la cordialità ‘routiniere’, cole l’hanno innata i politici di professione”, commentò “Non sarà che lei si preoccupa troppo senza motivo? A quel che so io, in Russia non esiste uranio”. (p.189).

Così Fuchs, al corrente come Rotblat, che il vero obiettivo della superbomba era la Russia, con minaccia di mortale pregiudizio, in ragione delle contaminazioni, per un’area ben più vasta (comprensiva fra l’altro del nostro continente), non vide alternativa all’applicazione dell’aurea massima naturalistica della realpolitik: essere l’equilibrio militare necessari, anche se non sufficiente, per garantire la pace.

Massima che fece propria nell’unico modo che gli era possibile: “Rivelando all’agente sovietico Raymond (…) tutto quel che sapeva della bomba atomica”. (p. 196)

Impossibile dire, per quanto ne sappiamo, se questa rivelazione sia giunta ai sovietici come informazione determinante per la costruzione della propria superbomba, o se invece, come pare, stessero già costruendola dal momento che passarono solo quattro anni da Hiroshima all’esplosiaone dell’atomica “rossa”, e che arrivarono prima di Teller alla bomba nucleare.

Più che probabile comunque che le motivazioni di Klaus Fuchs siano riflesse in queste parole del padre (pp. 197-198):

“Mi rendo conto del suo (di Klaus, ndr) grande sgomento dal momento in cui s’accorse di lavorare alla bomba (destinata alla Russia, ndr). Se avesse detto ‘Non ci sto’, tutto il pericolo sarebbe continuato a incombere sull’umanità. Così trovò la via d’uscita da una situazione senza uscite. Né lui, né io abbiamo mai rimproverato al popolo inglese di averlo condannato. Egli sopporta la sua sorte coraggiosamente e decisamente e chiaramente. Secondo la legge inglese è giustamente condannato. ma ci saranno sempre uomini che si macchieranno di una simile colpa e sopporteranno le conseguenze con forza e volontà, pensando di vedere più chiaramente dei potenti che per il momento decidono. Non dovrebbe già essere chiaro che anch’egli ha agito nell’interesse del popolo inglese più chiaramente del suo governo? Ha messo a repentaglio una splendida posizione lautamente pagata e un futuro ancora più splendido. Io non posso che chinarmi rispettosamente dinanzi alla sua decisione…”.

6. Abbia o no contribuito Klaus Fuchs a promuovere nel breve periodo un equilibrio atomico, che ha scongiurato l’annientamento nucleare dell’Unione Sovietica, e, per effetto delle contaminazioni (come può inferirsi da Cernobil), del resto d’Europa, annientamento che era nei piani di Truman e Churchill, perfettamente al corrente che il governo giapponese aveva già chiesto la resa ben prima di Hiroshima, sicché la stessa Hiroshima non può intendersi altrimenti che come minaccia di morte all’alleato sovietico, se Stalin non avesse rinunciato a quanto, in forza dell’epica difesa e controffensiva dell’Armata Rossa, gli era stato riconosciuto a Yalta. Abbia o no contribuito Klaus Fuchs a scongiurare questo disegno (che per altro per Churchill sarebbe stato un suicidio), va preso atto che con Hiroshima e Nagasaki s’è determinata una cesura nella storia del mondo.

La cesura tra il tempo della guerra come calamità “naturale” inidonea ad arrestare il cammino dell’umanità, e il tempo della guerra come sterminismo totale e irreversibile, donde non si vede come non possa non venirne la fine del mondo, sia che l’atomica e lo sviluppo tecnologico militare che ne è conseguito (come s’è visto nel Golfo) valgano a sottomettere ogni antagonista del sistema raffigurato nel grafico della Coppa di Champagne, sia che il livello di scontro (Sud-Nord, Est-Ovest) porti ad un’inarrestabile generalizzarsi del terrorismo che fanno presagire, per un verso, la formula del Pentagono (operante attualmente nei Balcani) “Guerra dal cielo, pace in terra”, e, per l’altro la metodica serie di attentati nella Francia di Chirac, vindice di musuln-bosniaci e fascisti croati nello stesso tempo che dissemina la morte atomica nel Pacifico.

Ciò sul piano militare: l’altra faccia – abbinata con quella sociale – della stessa medaglia, pervenuti come siamo a quella che David Harvey (La crisi della modernità, Il Saggiatore, 1993) definisce “l’accumulazione flessibile”.

L’accumulazione del tempo in cui la disoccupazione, da “fisologica” (operante col cosiddetto esercito di riserva), s’è fatta di massa, su scala planetaria, con la conseguenza di un’organizzazione del lavoro che Harvey chiama del centro e delle due periferie: il centro dato da una sorta di task-force d’élite, garantita e ben remunerata, con una prima periferia costituita dalla truppa, malpagata, comunque con possibilità di accasermamento, e la seconda (la più numerosa) del caporalato (istituzionale e no) e dell’emarginazione, marca di confine tra lavoro legale e criminalità diffusa.

Invendibilità e malvendita, planetaria e irreversibile della forza-lavoro, condizione che costituisce la materialità sociale di quella che, negli Invendibili (Datanews, Roma, 1994) si presenta come la quarta guerra mondiale, dopo le prime due fra il ‘14 e il ‘45, e la terza, “fredda”, conclusa con l’egemonia mondiale degli Stati Uniti.

Quarta guerra esplosa nel ‘90-’91 nel Golfo, e ora in atto nei Balcani in un conflitto che, comunque vada a finire, ridurrà il numero dei “grandi” da sette a due: Usa e Germania, gerente (quest’ultima) di un’Europa in via di libanizzazione, e sottoposta a un’organizzazione del sistema finanziario mondiale in condizioni di teleguidare anche gli Stati più potenti (non importa se di sinistra o di destra), dei quali si avvale come di altrettanti bracci armati nella quotidiana rapina planetaria.

Cosa che Harvey documenta col più scrupoloso screening scientifico, ma che basta avere occhi per coglierne fattezze e operare, a incominciare dal nostro paese, dove il “dilemma” elettorale è ormai fra un centro-sinistra con sponsor la trimurti Agnelli-Cuccia-Bundesbank, e un polo di destra condizionato dalla Fininvest, diversa, politicamente, dalla “galassia nordica” solo perché finanziariamente meno poderosa, e, quanto a cultura, meno “illuminata”.

7. Non dispera tuttavia David Harvey, come si può dedurre dalla parole che seguono: “Anche se la attuali condizioni sono molto diverse sotto svariati aspetti, non è difficile notare come gli elementi e le relazioni invariabili che Marx riteneva fondamentali per ogni modo di produzione capitalistico siano ancora ben evidenti, in molti casi più evidenti che nel passato, sotto la spuma superficiale e l’evanescenza – caratteristiche dell’accumulazione flessibile. E allora l’accumulazione flessibile è semplicemente una versione più vivace della stessa vecchia storia del capitalismo? Questo sarebbe un giudizio troppo semplicistico; vorrebbe dire considerare il capitalismo in modo astorico, come un modo di produzione non dinamico, mentre tutto sembra dimostrare (anche le argomentazioni espresse da Marx) che il capitalismo è una forza costantemente rivoluzionaria nella storia del mondo, una forza che rimodella eternamente il mondo in configurazioni nuove e spesso inattese. l’accumulazione flessibile, quindi, sembra essere quanto meno una nuova configurazione, e perciò è opportuno analizzare le sue manifestazioni, utilizzando, tuttavia, gli strumenti teorici ideati da Marx”.

Parole nelle quali sarebbe bello poter avere assoluta fiducia, se non l’impedissero: a) il fatto che l’accumulazione flessibile avviene nel quadro della quarta guerra mondiale diretta, oltre che contro il Sud e l’Est, anche contro il nostro continente; b) il quadro tracciato dallo stesso Harvey di sussunzione reale del mondo da parte del capitalismo finanziario al punto che oggi non fa più differenza fra destra e sinistra, l’una e l’altra funzionali, quanto ai verdi, al naturalismo del mercato.

Ma allora, si chiederà, come non disperare? E, in tal caso, perché continuare, da parte del sottoscritto, a redigere articoli, saggi, libri?

Quesiti pertinenti in generale, ma non è di questo – nello specifico – che si tratta.

Non è ammissibile, evidentemente, non si dice disperazione, ma semplicemente scoramento sul piano rivendicativo in questo nostro tempo in cui l’espropriazione capitalistica tende – al pari del nazismo – a un utilizzo del lavoro a costo zero. Niente dunque è da tralasciare (sempre che si tenga fede ala propria coerenza) per arrestare, e, possibilmente, capovolgere il processo in atto.

Ma guai se ci si nega alla consapevolezza di trovarci in una situazione analoga a quella che indusse Klaus Fuchs al “tradimento”. Come dire, in concreto, che se veramente si opta per una speranza non semplicemente autogratificante, s’ha da porre a discrimine tra la nostra politica e quella del nemico il più fermo impegno di lotta per liberarci dal naturalismo, umanizzando la natura, nello stesso tempo che si naturalizza noi stessi, prendendo atto del nostro fondamento naturale, donde la necessità del ricambio organico con la natura attraverso un lavoro non più salariato.

Concetto, chiaramente, che esigerebbe un testo ben più diffuso e argomentato del presente sul naturalismo verde fine millennio, che è tanto dei Rambo di Greenpeace quanto dei revenants (fantasmi) “comunisti”, fabulatori di una decisiva riscossa sociale sulla base del concluso accordo elettorale col centrosinistra inteso a “battere la destra”. Evidente però che sarebbero necessari altro tempo, altra carta, nonché appelli alla pazienza dei lettori, donde la necessità di un rinvio – per chi ci sta – a un’altra “puntata”.

Vis-à-vis – Quaderni per l’autonomia di classe n. 4, 1996

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