Dacca – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Mon, 15 Dec 2025 23:23:38 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Morire a Dacca/3 https://www.carmillaonline.com/2016/08/12/morire-a-dacca3/ Fri, 12 Aug 2016 01:53:21 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=32513 di Alexik

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Apex Adelchi Gazipur 2012In Bangladesh “gli investimenti esteri sono incoraggiati ed equiparati a quelli locali per le politiche fiscali e quelle relative alle importazioni/esportazioni…. non vi sono restrizioni al rimpatrio del capitale investito e dei dividendi ed il rischio di esproprio è contenuto. A favore di decisioni ad investire va messo in conto il fatto che il Paese dispone di una vasta base di forza lavoro giovane ed a basso costo”.

Così recitava, alla fine del 2009, il rapporto dell’ICE, [...]]]> di Alexik

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Apex Adelchi Gazipur 2012In Bangladesh “gli investimenti esteri sono incoraggiati ed equiparati a quelli locali per le politiche fiscali e quelle relative alle importazioni/esportazioni…. non vi sono restrizioni al rimpatrio del capitale investito e dei dividendi ed il rischio di esproprio è contenuto. A favore di decisioni ad investire va messo in conto il fatto che il Paese dispone di una vasta base di forza lavoro giovane ed a basso costo”.

Così recitava, alla fine del 2009, il rapporto dell’ICE, l’Agenzia per la promozione all’estero e l’internazionalizzazione delle imprese italiane.1
L’ICE è un ente con personalità giuridica di diritto pubblico che opera all’estero nell’ambito delle Rappresentanze diplomatiche italiane, sottoposto ai poteri di indirizzo e vigilanza del Ministero dello sviluppo economico.
È curioso il fatto che sia un ente pubblico ad occuparsi di promuovere la delocalizzazione all’estero delle fabbriche italiane. Promuovere, cioè, un meccanismo che qui distrugge posti di lavoro dotati di un minimo di diritti e garanzie (anche se sempre meno), condanna al degrado economico e sociale i nostri territori e pesa sulle risorse pubbliche, sulle quali ricade l’onere degli ammortizzatori sociali.
Il tutto per spostare la produzione in luoghi dove si spara sugli operai, si torturano i sindacalisti, la nocività e l’insicurezza sul lavoro sono ai massimi livelli, i salari rimangono sotto la soglia di povertà.
Il rapporto ICE glissa su questi ultimi aspetti delle così dette politiche ‘investment friendly’, però dice altre cose interessanti. Per esempio che gli investimenti diretti italiani in Bangladesh del 2009 “sono concentrati nel settore tessile, tessuti (gruppo Berto), confezioni e maglieria (gruppo Ferri), nel settore dolciario (Perfetti) e nel settore delle calzature (Filanto, Adelchi)”.
Scopriamo così che anche il distretto calzaturiero salentino è andato a morire a Dacca.
O almeno, lo scopre chi non è leccese, visto che gli abitanti del Capo di Leuca questa storia la conoscono molto bene, avendone sperimentato direttamente gli effetti nefasti.
Il declino pilotato di questo frammento di made in Italy è un emblema del defilarsi furtivo (furtivo in tutti i sensi) dei nostri ‘capitani coraggiosi’, in fuga verso più profittevoli lidi di approdo.

Il Bangladesh a sud di Lecce

> Io ho cominciato a lavorare alle scarpe a nove anni
> A nove anni ! E si può ? Si poteva ?

> In quei periodi si poteva, perché la mattina andavamo a scuola, e il pomeriggio si lavorava.
> Addirittura ! Da ‘lu mesciu 2
> ‘Lu mesciu’, come si chiamava questo mesciu ‘Uccio’.

1961. Lavorazioni alla Filanto.

1961. Lavorazioni alla Filanto.

L’intervistato ai microfoni de ‘L’indiano’, trasmissione di approfondimento di Telerama3, si chiama Giorgio, operaio calzaturiero da quando aveva 9 anni.
‘Lu mesciu Uccio’ invece era il defunto Antonio Filograna, Cavaliere del Lavoro e fondatore del calzaturificio Filanto di Casarano (LE), ai tempi in cui nel basso Salento lavoravano in fabbrica anche i bambini delle elementari. Più o meno come in Bangladesh.

Alla fine del secolo scorso le fabbriche de lu mesciu Uccio erano arrivate ad occupare nella provincia di Lecce 3.300 dipendenti diretti, senza contare l’indotto.  Con un ritmo di 50.000 paia di scarpe al giorno si attestavano ai vertici della classifica dei produttori europei.
Il sindacato non ci metteva piede. Trent’anni fa ci aveva provato Rosa, un’operaia dello stabilimento di Patù, ad iscriversi alla CGIL, ma lu mesciu Uccio considerava l’iscrizione al sindacato quasi un’ offesa personale: all’ ‘interesse’ dei suoi operai ci pensava lui ! Così Rosa era stata licenziata in tronco. Più o meno come in Bangladesh4.
Con gli anni, come vedremo, Antonio Filograna sul sindacato cambierà idea.

Alla fine del secolo scorso, in seconda posizione fra i calzaturieri salentini, si era attestato Adelchi Sergio (Sergio è il cognome), nipote di Filograna, con 2.500 dipendenti negli stabilimenti Adelchi e Nuova Adelchi fra Specchia a Tricase (LE).
Intorno alle due concentrazioni, una miriade di piccole aziende e laboratori permetteva a lu mesciu Uccio e a suo nipote di attingere facilmente da una rete di decentramento a basso costo e a chilometro zero. Laboratori dove la regola era quella della ‘doppia busta’. Nel senso che di buste paga gli operai ne avevano due: una ufficiale e un’altra ufficiosa, molto più leggera della prima5.
In ogni modo, i salari erano comunque calmierati dai patti territoriali, contratti provinciali di gradualità che permettevano agli imprenditori salentini del tessile, abbigliamento e del calzaturiero di stare al di sotto delle retribuzioni previste dai contratti collettivi nazionali di lavoro.
Così come erano calmierate altre tipologie di ‘pretese’: le malattie professionali da collanti e i loro danni permanenti alla salute si sistemavano informalmente, con quattro soldi alla famiglia e la consegna del silenzio.
Poi, un bel giorno, il Bangladesh sotto casa a Filograna e a suo nipote cominciò a non bastare più.
Per questo sottoposero i loro imperi  a processi di frammentazione e delocalizzazione all’estero. Due fasi strettamente connesse fra loro.

Delocalizzazioni all’italiana

Fu Adelchi Sergio a sperimentare per primo la strategia del ‘cluster’.
Si trattava della creazione di una rete di unità produttive intestate a parenti o amici e formalmente indipendenti dalla casa madre, ma in realtà tutte riconducibili ad essa.
Un sistema che non avrebbe avuto nessun senso da un punto di vista industriale, se non quello di attivare un gigantesco gioco delle tre carte dove soldi, dipendenti e macchinari apparivano e sparivano. Soprattutto sparivano: i dipendenti salentini in mobilità, e i soldi, i macchinari, il know how, il portafoglio clienti in Albania, Etiopia e Bangladesh.

Tirana. Stabilimento Donianna.

Tirana. Stabilimento Donianna.

Il ‘gioco’ ebbe inizio nella seconda metà degli anni ’90, quando La Nuova Adelchi attraversò l’Adriatico per costituire a Tirana la Donianna, una joint venture italo/albanese. Un bel posto, Tirana ! Un posto dove un operaio delle scarpe prende 200 euro lordi al mese6.
Nello stesso anno (1996) a circa 7.000 km di distanza, un certo Elahi Manzur, proprietario di concerie in Bangladesh, mentre si chiedeva se non fosse il caso di porre termine alla sua fallimentare avventura nel settore calzaturiero, trovò ‘un collaboratore italiano che era disposto a fornire i disegni, aiutarlo ad aumentare la produzione e la commercializzazione’ di scarpe7. Adelchi Sergio, of course.

Lo spostamento all’estero di alcune fasi produttive della Nuova Adelchi in realtà era iniziato nel 1989, ma non aveva comportato un disimpegno negli stabilimenti salentini, le cui esportazioni erano ancora sostenute dalle svalutazioni competitive della lira8.
A ridosso del nuovo millennio, il decentramento cominciò però a trasformarsi in una lenta, ma coerente, strategia di smobilitazione, agevolata dalla costruzione in madre patria di un sistema di scatole cinesi.
La prima fra queste, primogenita del cluster Adelchi, fu la Selcom Srl, un aziendina molto dinamica che appena nata provvide subito a 400 assunzioni ed al relativo inoltro della domanda per ottenere i benefici della 488/92.
Per inciso, la legge 488/92 è quella che prevede ancor oggi contributi a fondo perduto e finanziamenti agevolati per le imprese che creano ‘nuova occupazione’ in aree svantaggiate del nostro belpaese.
Peccato che per la Selcom non si trattasse esattamente di ‘nuova occupazione’, ma di 400 ignari lavoratori della Nuova Adelchi, che “passarono da un’azienda all’altra, a loro insaputa. Sparì il rigo sulla busta paga relativo alla data di assunzione, livello e scatti di anzianità. E questo successe sia sulle buste paga Selcom, sia su quelle della Nuova Adelchi, tutto per camuffare il passaggio degli operai“.9

Visto che il meccanismo funzionava, da lì a poco si replicò con un’altra azienda del cluster:

Calzaturificio Adelchi.

Calzaturificio Adelchi.

Nel 2000  quattro  catene  di  montaggio,  circa duecento  persone,  vengono  trasferite  dalla  Nuova  Adelchi  al calzaturificio Adelchi: è il secondo trasferimento in due anni. Il concetto è questo: l’azienda dichiara lo stato di crisi, ma sono stati loro stessi, negli anni, a costruire la crisi con i vari passaggi: se trasferisco sei catene, i miei incassi diminuiscono perché diminuisce la mia capacità produttiva“.10

E così via. La Nuova Adelchi  passava le linee produttive e il relativo fatturato alle sue diramazioni informali (C.R.C. Srl, K.N.K. srl, Magna Grecia Srl, Sky Srl, G.S.C. Plast Srl, Sergio’s). Poi si dichiarava in ‘crisi’ e metteva i dipendenti in mobilità, in modo da farli riassumere nelle aziende figlie, che a loro volta potevano così usufruire, per milioni di euro, dei forti sgravi contributivi destinati a chi assume dalle liste di mobilità, e dei finanziamenti della 488.
Gli operai si trovavano a lavorare per una ditta diversa, pur restando negli stessi capannoni, davanti alle stesse macchine di sempre.
Nel frattempo i macchinari nuovi, acquistati con i finanziamenti della 488, prendevano la strada dell’est, ceduti in ‘prestito d’uso gratuito’ alle ditte albanesi, romene e bulgare della rete di decentramento estero11.

Ovviamente non veniva svelata la natura fittizia della crisi, che anzi veniva addebitata a tutt’altri motivi: per esempio alla fine dei contratti provinciali di gradualità, che costringeva (orrore) a pagare agli operai i salari pieni.
Ma soprattutto imperava il mantra della ‘globalizzazione’. Della serie: ‘la crisi c’è perché i clienti vanno a comprare all’estero’ (… cioè, dalle mie filiali delocalizzate!). L’argomento era particolarmente esilarante, dato che era stata proprio la Nuova Adelchi a portare all’estero il suo portafoglio clienti.

Apex Adelchi Footwear 2006

Assemblea annuale Apex 2006. Adelchi Sergio è il 3° da sinistra.

Comunque, ufficialmente la povera Nuova Adelchi si dibatteva nelle difficoltà, seguita dalle sue aziendine satelliti che intorno al 2005 cominciarono  a mettere pure loro i dipendenti in cassa integrazione.
Ma nel frattempo, come se la passava in Bangladesh Elahi Manzur ?
Benissimo !
La sezione calzaturiera del suo gruppo (Apex), che fino a 10 anni prima sembrava avviata verso un destino fallimentare, grazie al socio italiano andava a gonfie vele.
Nel 2006 Adelchi Sergio era entrato in joint venture con lui, costituendo la Apex Adelchi Footwear Limited, con un investimento di 1.739.330.43 euro12.
In pratica, mentre in Italia piangeva miseria mettendo la gente in cassa integrazione, i soldi per investire in Bangladesh li aveva trovati eccome ! E nella joint venture ci metteva non solo i capitali, ma anche la partecipazione tecnica e di marketing. Sovraintendeva alla creazione di marchi dai nomi italiani accattivanti, e soprattutto indirizzava la produzione bengalese al suo parco clienti, lasciando senza acquirenti la casa madre salentina.
Inizialmente le scarpe prodotte in Bangladesh almeno transitavano per lo stabilimento di Tricase, prima della consegna ai clienti europei.
Agli operai del Capo di Leuca era affidata l’ultima ‘rifinitura’, quella che rende un paio di calzature veramente di classe: “Noi, negli ultimi anni, abbiamo per la gran parte solo cambiato il marchio alle scarpe che ci arrivavano già belle e pronte dall’estero. Via il Made in Albania o il Made in Bangladesh, ci appiccicavamo il Made in Italy”.13

Manzur Elahi e suo figlio Nasim.

Manzur Elahi e suo figlio Nasim.

Fino a che la triangolazione non è sembrata troppo costosa, e l’Apex  Adelchi Footwear Limited non ha cominciato a spedire direttamente il prodotto finito ai clienti  europei, e poi a fatturarglielo senza più passare per la Nuova Adelchi.
In questo modo le esportazioni della Apex schizzarono nel 2007 a 58,87 milioni di $, ed a 72,37 milioni di $  nel 2008, e via crescendo14.  Vampirizzando la Nuova Adelchi. E non solo l’Apex le sottraeva il fatturato. Le accollava pure le perdite !
Nella maggior  parte  dei  casi,  la  merce  può  arrivare al cliente con dei difetti; il cliente che si trova in Germania non rimanda la merce  in  Bangladesh  per  farla  ricondizionare, sosterrebbe un costo enorme; la merce torna a Tricase; La Nuova Adelchi se  la  prende  in  carico  per  il  ricondizionamento;  costi  di  trasporto,  in  andata e  in ritorno,  costi  di  riparazione,  tutto  a carico  della  Nuova  Adelchi“.15

Non stupisce che in queste condizioni gli stabilimenti italiani fossero condannati al tracollo.
Fra il 2006 e il 2007 la maggior parte delle aziende del cluster sono state liquidate. Sopravvive solo la Sergio’s, per il mercato del lusso.
La Nuova Adelchi è fallita, spolpata fino all’osso. Prima di chiudere, dai suoi magazzini sono scomparse rimanenze per 53 milioni di euro, occultate ai controlli tramite la falsificazione dei bilanci.
L’Apex, al contrario, è diventata il primo produttore di scarpe del subcontinente indiano. Ne produce 4,5 milioni di paia all’anno per 130 clienti (grosse catene distributive) in 40 paesi, e tre milioni di paia per il mercato domestico, distribuite tramite i suoi 550 outlet, destinati alla classe media.
Non dipende più da Tricase, nemmeno per  la ricerca & sviluppo, che viene fatta in un grande centro a Taiwan, anche se ha mantenuto il vezzo dei nomi italiani per le sue linee (Nino Rossi, Venturini). E’ un’azienda ‘etica’, che paga gli operai addirittura l’equivalente di 90 euro al mese16, molti di più dei 61 del salario minimo vigente in Bangladesh.  In pratica, con il loro salario Apex, gli operai Apex possono comprarci un paio di scarpe Apex, e gli rimangono pure 10 euro !
Non ci è dato sapere quanto Adelchi Sergio abbia beneficiato di tanta fortuna, che è girata tutta estero su estero. Né lo andrebbe a dire in giro.
Inquisito per truffa aggravata ai danni dell’Inps e bancarotta fraudolenta17, oggi è un tenero vecchietto che dice di vivere con la pensione di 700 euro al mese18, impossibilitato a pagare i molteplici creditori. (Continua)

[Nella foto in alto: operai alla Apex Adelchi Footwear Limited, 2012.]

 


  1. ICE, Aggiornamento al 2° semestre  2009, Bangladesh, p.7. 

  2. ‘Maestro’ in dialetto salentino. 

  3. Danilo Lupo, Scarpe rotte – la parabola della Filanto, il declino di Casarano , Telerama, gennaio 2014. 

  4. Scarpe di lusso stipendi da fame. Così il Salento è diventato una colonia del Made in Italy, min. 2,20 

  5. Idem. 

  6. Francesco Clemente, Albania, la Cina vicina che fa le scarpe all’Italia, Linkiesta, 1/09/2012. 

  7. Naazneen Karmali, Bangladesh’s Apex Group Emerges As Shoemaker To The World, Forbes, 27/08/14 

  8. Gianfranco Viesti, Francesco Prota, Delocalizzazione e Made in Italy: il caso pugliese

  9. Tommaso, ex dipendente di La Nuova Adelchi, in: Michele Frascaro, Adelchi, il vero volto della crisi, in “L’impaziente’, n. 21, dicembre 2009, pp. 8/18. 

  10. Idem. 

  11. In particolare: le albanesi Berttoni Shpk, Donianna Shpk e Green Shoe hpk, la romena S.C. Montana S.A e la bulgara Oraden srl. Tricase: nei guai il fondatore del gruppo calzaturiero e il figlio, La Gazzetta del Mezzogiorno, 12/10/07. 

  12. Ajoy Paul, Supply Chain and Business Strategy of Apex Adelchi Footwear Limited, 2/12/11. 

  13. Rocco, ex operaio Nuova Adelchi, in: Tiziana Colluto, Scarpe all’estero e cassa integrazione nel Salento: per i 700 operai Adelchi è la fine, Il Fatto Quotidiano, 20/01/2012 

  14. Ajoy Paul, op.cit. 

  15. Michele Frascaro, op. cit. 

  16. Naazneen Karmali, op. cit. 

  17. Maxitruffa all’Inps sequestrati 8 mln ad Adelchi di Tricase, La Gazzetta del Mezzogiorno, 16/05/2011. Chiara Spagnolo, Adelchi, bancarotta da 53 milioni a processo il re delle calzature, La Repubblica, 9/05/2013. 

  18. Giuseppe Cerfeda, La fine di un impero, Il Gallo, 22/01/2016. 

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Morire a Dacca/2 https://www.carmillaonline.com/2016/07/17/morire-a-dacca2/ Sat, 16 Jul 2016 22:30:51 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=31957 di Alexik

Bangladesh maggio 2006[A questo link il capitolo precedente.]

Una ventina di giorni fa Rashida, Sabina e Najma sono state ferite in pieno giorno, in una strada affollata di Gazipur City (Bangladesh), dai colpi di fucile di un gruppo di uomini armati. Se si fosse trattato di tre ragazze occidentali assalite da un commando jihadista forse avrebbero fatto notizia. Ma sono solo tre operaie della Kojima Lyric Garments Ltd, e gli uomini armati che le hanno colpite avevano le uniformi della polizia bengalese. Erano scese in piazza, Rashida, Sabina e Najma (25 anni a testa) per [...]]]> di Alexik

Bangladesh maggio 2006[A questo link il capitolo precedente.]

Una ventina di giorni fa Rashida, Sabina e Najma sono state ferite in pieno giorno, in una strada affollata di Gazipur City (Bangladesh), dai colpi di fucile di un gruppo di uomini armati.
Se si fosse trattato di tre ragazze occidentali assalite da un commando jihadista forse avrebbero fatto notizia. Ma sono solo tre operaie della Kojima Lyric Garments Ltd, e gli uomini armati che le hanno colpite avevano le uniformi della polizia bengalese.
Erano scese in piazza, Rashida, Sabina e Najma (25 anni a testa) per richiedere all’impresa l’aumento dell’indennità di presenza e il pagamento pieno del bonus per l’Eid-ul-Fitr, la festività che segna la fine del Ramadan. Accanto avevano centinaia delle loro compagne e compagni, fra cui si contano altri venti feriti per le pallottole, i lacrimogeni ad altezza d’uomo, i colpi di bastone sferrati dalla polizia1.

Gazipur, giugno 2016. Fonte: The Daily Sun.

A Rashida, Sabina e Najma è andata relativamente bene. Hanno rischiato di fare la fine di due loro coetanei, Badsha Mia e Ruma Akter, uccisi il 19 novembre del 2013 mentre protestavano davanti alla fabbrica.
Una provocazione palese, questi due morti, calati nel bel mezzo della grande lotta per l’innalzamento del salario minimo, che nel novembre 2013 aveva svuotato le fabbriche di abbigliamento e riempito le strade di tutti i principali distretti industriali. Vale la pena raccontarla, anche per capire che aria tira – ancora oggi – in Bangladesh.

Il 6 novembre 2013 il governo bengalese presieduto da Sheikh Hasina Wazed aveva preannunciato la decisione di innalzare il salario minimo mensile da 3.000 a 5.300 tk (61 € al cambio di oggi).
Subito erano insorte le maggiori associazioni imprenditoriali del settore abbigliamento2 che non volevano sborsare più di 4.250 tk al mese (€ 48,98), sostenendo che i brand internazionali non sarebbero stati disposti a pagare di più la loro merce.
Insorsero però anche i lavoratori, che lottavano da mesi  per un aumento del salario minimo a 8.114 tk (€ 93,52), poco al di sopra della soglia individuale di povertà. Da mesi ‘8.114‘ era la loro parola d’ordine, scandita nei cortei e nei blocchi stradali.

Savar, novembre 2013. Fonte: The Daily Star.

Savar, novembre 2013. Fonte: The Daily Star.

La rabbia per i salari da fame si aggiungeva a quella per il recente crollo del Rana Plaza. Sei mesi dopo il disastro i feriti e i parenti delle operaie morte avevano ricevuto solo delle elemosine dal governo, e solo uno dei brand che si servivano delle subforniture di quelle fabbriche aveva provveduto ad un magro risarcimento. Vivevano una situazione simile anche i superstiti dell’incendio della Tazreen Fashions, dove erano morti 112 lavoratori l’anno prima3.
La tensione era dunque oltre il limite. Si era già espressa negli scioperi di maggio e di settembre, e raggiunse l’apice in prossimità dell’emanazione del decreto del governo sul salario minimo.

Morire di polizia

Il 3 novembre 20.000 lavoratori della Niagara Textile Limited di Kaliakair interruppero il lavoro. Tirarono giù le vetrate della Niagara e delle fabbriche vicine, e assieme ad altri 10.000 operai della zona industriale bloccarono l’autostrada. La polizia li disperse con granate assordanti e lacrimogeni. Quel giorno chiusero settanta fabbrica della zona4.
Una settimana dopo, 2.500 lavoratori della cintura industriale di Ashulia (periferia nord di Dacca) bloccarono la strada Jirabo-Bishmail al grido di ‘8.114’. Difesero il blocco con i copertoni incendiati e i lanci di mattone. Dieci operai rimasero feriti nelle cariche della Polizia Industriale5.

Si, perché in Bangladesh c’è la ‘Polizia Industriale‘ un particolare corpo della polizia di Stato dedicato alle agitazioni sindacali. La sua home page recita così:
Il settore industriale sta giocando un ruolo vitale nell’economia nazionale del Bangladesh. Circa l’ottanta per cento di valuta estera deriva dal settore abbigliamento…  Per salvare la nostra economia è stata richiesta una forza di polizia specializzata per far rispettare la legge e l’ordine nella zona industriale“.

Gazipur, novembre 2013. Fonte: The Daily Star.

Gazipur, novembre 2013. Fonte: The Daily Star.

Malgrado l’Industrial Police, l’11 novembre i blocchi stradali si estesero da Ashulia a Savar. Trentamila operai di 350 fabbriche di abbigliamento uscirono dagli stabilimenti, scontrandosi con la Guardia di Frontiera del Bangladesh, schierata dall’amministrazione del distretto. Lanci di mattoni contro lacrimogeni e proiettili di piombo e di gomma, per un bilancio di 50 feriti6.

Due giorni dopo fu il turno del distretto di Gazipur, dove le autorità avevano disposto la chiusura di alcune fabbriche a scopo precauzionale. Fra queste l’Islam Industrial Group di Konabari, la cui proprietà era particolarmente schierata contro l’innalzamento del salario minimo a 8.114 tk. Quando i lavoratori arrivarono per il turno del mattino trovarono i cancelli serrati, non si dispersero e vennero caricati dalla Polizia Industriale. Diecimila operai delle fabbriche circostanti scesero a dargli man forte, e in 45 rimasero feriti dai proiettili di gomma e dai bastoni.  Gli scontri a Konabari continuarono anche nel pomeriggio, quando un gruppo di manifestanti diede fuoco alla fabbrica della Standard Garment7.

Il 15 novembre ad Ashulia 5.000 lavoratori di oltre 100 fabbriche bloccarono il traffico della Dhaka-Tangail. Il blocco gli costò 35 feriti, ricoverati nei centri medici della zona dopo essere stati colpiti da manganelli e pallottole di gomma8. Dopo tre giorni  a bloccare quel tratto di strada scesero 12.000 scioperanti degli stabilimenti di Ashulia e di Savar. Questa volta i feriti furono 50. Fra questi Babul, operaio della AM Design Limited, era il più grave, colpito da sette pallottole di gomma9.

Joydebpur, novembre 2013. Fonte: The Wall Street Journal.

Gazipur, novembre 2013. Fonte: The Wall Street Journal.

Il 19/11 a Kashimpur, gli operai della GMS Composite Knitting Ltd uscirono dai cancelli per protestare contro l’aggressione fisica di una loro collega da parte di un funzionario della ditta. Erano in 10.000, tutte le maestranze al completo. Fra loro Badsha Mia e Ruma Akter. La polizia li ha attaccati con proiettili e gas lacrimogeni: Badsha è morto per una pallottola in testa, Ruma non ce l’ha fatta dopo essere stata ferita in più punti. Altri 50 manifestanti sono stati colpiti. La polizia, tuttavia, ha sostenuto che gli operai si sono feriti sbattendo sulle pareti nel tentativo di uscire dalla fabbrica10.
La GMS Composite Knitting Ltd, sul suo sito internet declama tuttora la sua attenzione all’ambiente e alle risorse umane.

Il 21 novembre, dopo un’altra giornata di scontri e feriti ad Ashulia11, il governo decretò ufficialmente l’aumento del salario minimo a 5.300 tk.  La lotta per ‘l’8.114’ subì una battuta d’arresto e la frequenza degli scontri diminuì, ma il conflitto è rimasto sempre sottotraccia, pronto a riemergere per ogni ritardo nei pagamenti, per ogni furto sui salari.

Joydebpur , giugno 2016. Fonte: The Daily Star.

Gazipur , giugno 2016. Fonte: The Daily Star.

Morire sotto tortura

Se ai lavoratori in sciopero vengono riservati manganelli e proiettili, ai sindacalisti spettano arresti,  sequestri e torture.
La libertà sindacale in Bangladesh è una conquista recente. Il diritto di organizzazione e di adesione a un sindacato è stata ottenuto con le mobilitazioni degli operai tessili del 2006, a colpi di scioperi, scontri e fabbriche incendiate (con quel ciclo di lotte si ottennero anche il riposo settimanale, il congedo di  maternità, i contratti vincolanti anche per il padrone). Il diritto formale non serve però a fermare gli arresti, i pestaggi e gli assassini di sindacalisti.

Aminul Islam. Fonte: Clean Clothes Campaign.

Aminul Islam. Fonte: Clean Clothes Campaign.

Il 16 giugno 2010 Aminul Islam, ex operaio tessile e membro dello staff del Bangladesh Center for Workers Solidarity (BCWS) venne arrestato,  pestato e minacciato di morte dalle forze di sicurezza. Aminul venne picchiato a lungo, perché i suoi aguzzini volevano che rendesse false testimonianze contro altri membri dell’organizzazione.

Il BCWS era particolarmente sotto tiro. Gli era stato appena tolto lo status legale di ONG, come rappresaglia per l’appoggio dato ai lavoratori della Nassa Global Wear, un’impresa  di proprietà di ex militari molto influenti. La Nassa produceva per i marchi statunitensi (K-Mart, WalMart, Gap Inc., Sears, AMC/Target Corporation, J.C. Penney, Woolrich) ed europei (George, ASDA, Primark, Carrefour, Tesco, H&M, C&A, Sainsburry, Metro AG). Era un’azienda ufficialmente molto ‘impegnata nel sociale’: finanziava borse di studio per studenti ‘poveri e meritevoli’, elargiva donazioni per gli alluvionati…
Peccato che gli operai che cercavano di organizzarvi il sindacato venissero assaliti da scagnozzi al soldo dell’impresa, sia dentro che fuori dalla fabbrica. Decine di attivisti sindacali vennero feriti in questo modo12.

Bangladesh, dicembre 2010. Arresto di Moshrefa Mishu.

Bangladesh, dicembre 2010. Arresto di Moshrefa Mishu. Fonte: bdnews24.

In generale, nell’estate 2010 il clima nel paese era molto pesante. Migliaia di lavoratori dell’abbigliamento scendevano in strada contro la riforma del salario minimo, che il governo stava per fissare a 3.000 tk. C’erano centinaia di arresti che coinvolgevano anche molti attivisti sindacali. Fra questi Kalpona Akter, direttrice esecutiva del BCWS (un’ex bambina operaia) e Babul Ahkter, direttore esecutivo della Bangladesh Garment and Industrial Workers Federation (BGIWF), accusati di “aver fomentato disordini”.
A fine anno venne arrestata anche Moshrefa Mishu, presidente del Garment Workers Unity Forum. In prigione venne maltrattata e minacciata.

Nell’aprile 2012 le minacce contro Aminul Islam si trasformarono in realtà: il suo corpo, pesantemente torturato, con ferite alle gambe e le dita dei piedi spezzate, venne buttato sul ciglio di una strada a 100 km da Dacca13.

Munirizzaman Monir. Fonte: Clean Clothes Campaign.

Munirizzaman Monir. Fonte: Clean Clothes Campaign.

Due anni dopo (maggio 2014) Munirizzaman Monir, dirigente della National Garment Workers Federation (NGWF) venne trovato privo di sensi, con una gamba rotta ed altre lesioni, sul ciglio di una strada a 45 km da Dacca.
La sua colpa era quella di aver supportato 32 lavoratori della Pioneer Knitwear Factory, licenziati per aver tentato di organizzare un sindacato. La Pioneer Knitwear Factory, un’impresa di Jamirdia, produceva per la catena danese C&A e la svedese H&M.
Monir disse che era stato rapito da un gruppo di uomini armati che agivano su ordine della dirigenza della Pioneer Knitwear.
Nello stesso giorno vennero vandalizzati e saccheggiati l’ufficio locale del sindacato e la casa di Monir. Altri due dirigenti sindacali della Pioneer vennero picchiati con spranghe di ferro, tenuti in ostaggio sotto tiro. La famiglia di Monir fu costretta ad abbandonare la propria casa, temendo per la propria incolumità, dopo che il cognato del sindacalista venne aggredito, ferito e minacciato14. (Continua)


  1. 3 RMG workers shot in clash with cops over Eid bonus, The Daily Star, 22 giugno 2016 

  2. La Bangladesh Garment Manufacturers and Exporters Association e la Bangladesh Knitwear Manufacturers and Exporters Association. 

  3. Clean Clothes Campaign, Still waiting. Six months after history’s deadliest apparel industry disaster, workers continue to fight for compensation, 2013, p. 27 

  4. 70 Gazipur RMG units shut after worker cop clash, The Daily Star, 3 novembre 2013. 

  5. 10 hurt in Ashulia worker-cop clash, The Daily Star, 10 novembre 2013. 

  6. RMG unrest in Savar, Ashulia. 50 units shut after worker-cop clash, The Daily Star, 11 novembre 2013. 

  7. 70 hurt in cop-RMG worker clash in Gazipur, Savar, The Daily Star, 13 novembre 2013. 

  8. Unrest in Ashulia: 100 factories shut, The Daily Star, 15 novembre 2013. 

  9. 50 hurt in cop-RMG worker clash, The Daily Star, 18 novembre 2013. 

  10. 2 Killed in Gazipur as RMG workers clash with cops, The Daily Star, 19 novembre 2013. 

  11. 10 hurt in Ashulia worker-cop clash, The Daily Star, 20 novembre 2013. 

  12. Clean Clothes Campaign, Bangladesh labour leaders fearing for physical safety, 10 agosto 2010 

  13. Clean Clothes Campaign, Bangladeshi labor rights activist tortured and murdered, 11 aprile 2012. 

  14. Union leader tortured, CCC 7/01/15 

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Colui che sussurrava nel buio: H.P. Lovecraft https://www.carmillaonline.com/2016/07/14/colui-sussurrava-nel-buio/ Wed, 13 Jul 2016 22:01:26 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=31673 di Sandro Moiso

H.P. Lovecraft H.P. LOVECRAFT, DA ALTROVE E ALTRI RACCONTI, scritto e disegnato da ERIK KRIEK, Edizioni Eris, Torino 2014, pp. 112, € 16,00

Colui che sussurrava nel buio. Un titolo misterioso, accompagnato da una delle enigmatiche copertine di Karel Thole, attrasse la mia attenzione tra le centinaia di romanzi di SF che riempivano gli scaffali di un negozietto della Barriera di Milano. Alla metà degli anni sessanta, in uno dei quartieri più proletari di Torino, avvenne così il mio primo incontro con il solitario di Providence: Howard Phillips Lovecraft (1890 – 1937).

Quella sera lessi il primo dei [...]]]> di Sandro Moiso

H.P. Lovecraft H.P. LOVECRAFT, DA ALTROVE E ALTRI RACCONTI, scritto e disegnato da ERIK KRIEK, Edizioni Eris, Torino 2014, pp. 112, € 16,00

Colui che sussurrava nel buio.
Un titolo misterioso, accompagnato da una delle enigmatiche copertine di Karel Thole, attrasse la mia attenzione tra le centinaia di romanzi di SF che riempivano gli scaffali di un negozietto della Barriera di Milano. Alla metà degli anni sessanta, in uno dei quartieri più proletari di Torino, avvenne così il mio primo incontro con il solitario di Providence: Howard Phillips Lovecraft (1890 – 1937).

Quella sera lessi il primo dei tre racconti contenuti in quella breve antologia e da quel momento i rumori della vecchia casa di campagna in cui passavo l’estate non sarebbero più stati gli stessi.
Poco tempo dopo, la lettura di una più ricca antologia, comparsa nel frattempo,1 mi avrebbe fatto percepire in quell’autore, autentico maudit dell’America puritana, qualcosa di più dell’orrore e della paura.

urania Avrei scoperto che l’orrore e la paura vera non derivano da esseri più o meno mostruosi nascosti nelle tenebre e neppure soltanto dalla morte. Era la vita stessa che poteva terrorizzare.
Fin da bambino i miei sonni erano stati interrotti o rinviati dal pensiero del nero, inimmaginabile nulla rappresentato dalla morte. Ma quello scrittore ateo, materialista, razzista, sessuofobo, morto di cancro all’intestino a quarantasette anni, mi rivelò un’altra ben più atroce verità.

La vita stessa, l’esistenza quotidiana potevano nascondere un nulla ben più spaventoso e orripilante. Forze oscure, vecchie, insensibili ai destini individuali e collettivi della specie umana dominano il nostro destino e lo determinano in maniera assolutamente casuale.
A differenza di altri scrittori del genere fantastico o gotico, Lovecraft non crede in una lotta tra il male e il bene, non propone tormenti cui la morte può porre, comunque, termine.
Non c’è nella sua scrittura possibilità di salvezza, lieto fine o anche solo di una dolorosa trasfigurazione o palingenesi.
C’è solo l’assoluta certezza della vanità ed inutilità della vita e del cosmo stesso.
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Lovecraft è figlio del Novecento e delle forze demoniache che lo hanno fondato.
Ne è lo spietato e disilluso cantore.
I suoi dei ciechi e idioti che ballano nudi al centro dell’universo al suono di una blasfema cacofonia di flauti e tamburi, che strisciano o sorgono da abissi innominabili per condurre nella propria perdizione gli esseri umani che li evocano, possono davvero rappresentare una delle più terribili metafore delle forze che hanno agitato il secolo appena finito.

Attraverso la sua opera conobbi il nichilismo.
L’uomo muore, il cosmo muore e la morte stessa finirà con il morire.
E quegli dei vivono da morti e nutrendosi di morte.
Non vi può essere condanna più spietata della condizione umana e della vita stessa. E dell’inutile desiderio di conoscenza che anima la scienza.
Troppo esplosivo, troppo distruttivo per essere maneggiato con vantaggio da chi difende l’esistente, il solitario di Providence condivide con Céline uno spazio unico nella letteratura del ventesimo secolo. Con buona pace degli intellettuali organici e da salotto.

Che non hanno mancato di tacciarlo spesso di inconsistenza per l’esilità delle trame, gli scarsi dialoghi e il mancato approfondimento psicologico dei personaggi. Non cogliendo così il lavoro di scavo nella psiche di un intero secolo svolto in anticipo, all’inizio del ‘900, dall’autore americano.
Come ben ricorda la postfazione di Milan Hulsing alla raccolta di storie di Lovecraft disegnate da Erik Kriek, una sorta di omaggio, molto importante, che le Edizioni Eris con il volume qui preso in esame hanno voluto porgere ad uno dei più importanti autori del fantastico del ‘900.

H.P.Lovecraft-1 Importante perché le sue storie sono state sempre molto difficili da trasporre sul piano delle immagini, sia al cinema che nei fumetti. L’orrore cosmico scaturito dai suoi sogni e dalle sue pessimistiche riflessioni sul divenire universale, così terrificante e profondo per la mente del lettore attento, non ha mai trovato una realizzazione “visibile” soddisfacente.

Certo alcune tavole realizzate da svariati autori e dedicate soprattutto a rappresentare lo stesso Lovecraft accompagnato da alcuni dei suoi incubi sono indubbiamente efficaci, così come lo sono stati un paio di film del regista americano Stuart Gordon2 nel ricreare l’atmosfera delle sue storie, ma, anche in anni recenti, il tentativo di trasferire un’intera sua storia, o anche solo ispirata dal suo personale universo di orrori, sulle pagine a fumetti o sullo schermo cinematografico è risultato quasi sempre deludente e fallimentare.

Ci è riuscito pienamente invece l’olandese Kriek3 che, ispirandosi ancora una volta ai disegnatori americani della EC Comics degli anni cinquanta, in particolare Al Feldstein, Warren Kremer e Johnny Craig, ha rappresentato con giusto senso del terrore e dell’orrore cinque storie ben adatte ad illustrare l’universo maledetto del creatore dei miti di Chtulu.

Le immagini, che sembrano appena uscite da vecchi albi a fumetti pulp quali Eerie, Tales from the Crypt, Spook, Black Cat Mistery o Crime SuspenStories, servono egregiamente a riproporre il clima lovecraftiano e il bianco e nero dominato dall’utilizzo di tutte le possibili sfumature del grigio rende davvero superfluo l’uso del colore. Oggi forse fin troppo importante nel fumetto mainstream dalla Marvel alla DC Comics passando per la pessima abitudine, anche nostrana, di ricolorare storie a fumetti originariamente comparse in bianco e nero.

Soprattutto ne “Il colore venuto dallo spazio4 i grigi di Kriek sembrano richiamare immediatamente quel colore maledetto che trasforma la tranquilla campagna del Rhode Island e del Massachusetts in una landa aliena in cui la vita non cessa, ma si trasforma in qualcosa di mostruoso e pieno di dolore.

il colore venuto dallo spazio 1 Autentica, involontaria, anticipazione degli orrori dell’inquinamento e della radioattività, la trama della vicenda, in cui ignoranza, senso della proprietà privata, avidità e paura contribuiscono all’inevitabile catastrofe, è rappresentata dal disegnatore di Amsterdam con ineguagliabile senso di disperazione e di disordine che rinvia immediatamente alle geometrie blasfeme dei sogni dell’autore americano fin dall’impostazione grafica delle pagine.

Così come altrettanto angoscianti sono le pagine che illustrano le vicende di “La maschera di Innsmouth” (altra classica storia lovecraftiana), in cui un uomo in fuga da un’orrida progenie derivata dall’incrocio di esseri umani ed esseri provenienti dagli abissi marini, scopre di essere discendente dalla stessa stirpe che, sempre per avidità, l’ha fondata. Oppure degli altri tre racconti contenuti nel libro della Eris: “L’estraneo”, “Da altrove” e “Dagon”.

Un’altra estate calda, in tutti i sensi, sembra attenderci e le storie di Lovecraft riprodotte da Kriek potrebbero costituire un ottimo, anche se insicuro, rifugio dalle banalità di base dell’orrida informazione quotidiana (dalla mai avvenuta “miracolosa” parata di Buffon nell’incontro calcistico tra la nazionale italiana e quella tedesca alla pirandelliana diatriba interna al PD sulla scelta tra il Sì oppure il No per il referendum autunnale).

Magari accompagnate dalla musica degli psichedelici H.P. Lovecraft, formatisi a Chicago e poi trasferiti a San Francisco con due album registrati nel 1967 e nel 1968, pieni di titoli ripresi direttamente dal loro ispiratore,5 a metà strada tra i sapori della West Coast e la Metal Machine Music di Lou Reed. Oppure dal Re-Animator di Paul Roland, pubblicato nel 2005 dall’etichetta genovese Black Widow o, ancor meglio, dal terrificante ed angosciante LENG TCH’E dei Naked City di John Zorn, Bill Frisell,Wayne Horvitz, Fred Frith Joey, Baron e Yamatsuka Eye uscito negli anni ’90 per l’etichetta Tzadik. Non direttamente riconducibile, quest’ultimo, all’universo del solitario scrittore, ma adattissimo a rappresentarne la sovrumana e, allo stesso tempo, subumana coscienza del dolore.

Buona lettura e… buon ascolto!


  1. H.P. Lovecraft, I mostri all’angolo della strada (a cura di Carlo Fruttero e Franco Lucentini), Mondadori 1966  

  2. Re-Animator (1985) e From Beyond (1986)  

  3. Di cui abbiamo recensito poco tempo fa l’altrettanto bello In The Pines , pubblicato ancor una volta dalle Edizioni Eris, https://www.carmillaonline.com/2016/06/15/tombe-sul-bordo-della-strada/  

  4. Che era anche uno dei tre racconti pubblicati, per la prima volta nel 1963, nell’antologia di Urania insieme a “Colui che sussurrava nel buio” e “Il modello di Pickman”  

  5. Uno per tutti: “At The Mountains of Madness“, “Le montagne della follia” uno dei racconti lunghi più visionari del solitario di Providence, ripreso anche nel titolo di un album del 2005 degli Electric Masada di John Zorn, Marc Ribot, Ikue Mori, Jamie Saft, Trevor Dunn, Joey Baron, Kenny Wollesen e Cyro Baptista  

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