cura – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 17 Aug 2025 20:00:38 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Una questione estetica https://www.carmillaonline.com/2025/03/07/una-questione-estetica/ Thu, 06 Mar 2025 23:39:14 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=87193 di Stefania Consigliere

Matthieu Amiech, L’industria del complottismo. Social network, menzogne di Stato e distruzione del vivente. Prefazione di Elisa Lello. Malamente, Urbino 2024.

Come si comincia la recensione di un testo importante, in un tempo in cui l’umana attenzione è imprigionata nelle macine del plusvalore? Come si fa, fra vacche magroline, a invitare chi legge a sganciare 16 euro per un oggetto tanto fuori corso quanto un libro? E perché ostinarsi ad argomentare, a fronte di un discorso pubblico che non si cura più neppure del principio aristotelico di non contraddizione? Ci proverò in cinque passaggi “clinici”.

Malessere senza [...]]]> di Stefania Consigliere

Matthieu Amiech, L’industria del complottismo. Social network, menzogne di Stato e distruzione del vivente. Prefazione di Elisa Lello. Malamente, Urbino 2024.

Come si comincia la recensione di un testo importante, in un tempo in cui l’umana attenzione è imprigionata nelle macine del plusvalore? Come si fa, fra vacche magroline, a invitare chi legge a sganciare 16 euro per un oggetto tanto fuori corso quanto un libro? E perché ostinarsi ad argomentare, a fronte di un discorso pubblico che non si cura più neppure del principio aristotelico di non contraddizione? Ci proverò in cinque passaggi “clinici”.

Malessere senza nome
È una questione estetica, ha a che fare con la percezione. Molti di noi avvertono in sé una dissonanza, la non-coincidenza fra quel che sentiamo e quel che siamo tenuti a pensare; fra quel che sappiamo e il modo in cui viviamo; fra i timbri della comunicazione e i sussulti del diaframma. A volte la distanza si fa insostenibile e ci si trova allora a fuggire dagli odori dei grandi magazzini; angosciati per le file di TIR in autostrada, di dentifrici al supermercato, di uomini armati in centro città; atterriti dalle rassicurazioni dei politici; perplessi per un biglietto aereo che costa meno di quello del treno per l’aeroporto; attraversati da improvvisi impulsi luddisti – e via dicendo, ciascuno secondo un proprio spettrogramma di sensibilità lese. È raro che la dissonanza arrivi a piena coscienza: più spesso se ne resta nelle retrovie del sentimento come scarto o angoscia senza nome, una fibrillazione da silenziare subito perché, se ascoltata, subito ci renderebbe incoerenti rispetto al mondo in cui viviamo. Folli, dunque, o più probabilmente depressi, intristiti a morte per qualcosa che sentiamo ma non sappiamo nominare.

Primo e secondo consulto
In linea con la strategia globale della modernità, ogni dissonanza è letta come disfunzione individuale. Depressione, ADHD, crisi di panico, ecoansia, anoressia, paranoie complottiste, dropout scolastico, dolore cronico: tutte queste fratture sono interpretate, diagnosticate e infine curate come malfunzionamenti dell’individuo, pensato – in linea con tutta la filosofia moderna – come entità ontologica a sé stante, autosufficiente, che intrattiene con il mondo e con gli altri soggetti relazioni di tipo estrinseco e utilitaristico, che non ne mutano l’essenza.

Per ragioni del tutto imponderabili, alcuni individui portano in sé difetti di programmazione, bachi fisici o psicologici che non permettono loro di funzionare come si deve. Per fortuna però – così prosegue il ragionamento – grazie al progresso tecnico e alle sue creature, oggi è possibile sopperire a questi malfunzionamenti dei singoli con un mix ben dosato di innesti tecnici, (psico)farmaci e distrazioni.
Su questo piano inclinato si ritrova rapidamente chiunque decida di restarsene al calduccio nella doxa del progresso. Sono pochi, e assai malvisti, i protervi che non si accontentano della via larga e vanno in cerca di altre diagnosi e letture diverse della realtà.
Alcuni di loro atterrano nei cosiddetti movimenti olistici (ex new age), una galassia pirotecnica di filosofie, pratiche di vita e sistemi terapeutici – talvolta seri e affidabili, talaltra ambigui e cialtroneschi – accomunati dal proporre eziologie indubbiamente altre. Dai movimenti delle orbite al flusso del qi nei meridiani, dalla divinazione all’incontro con le piante, queste piste sono rifiutate in blocco dai custodi della verità in quanto non scientifiche. Qui si aprirebbe in discorso lunghissimo, che provo a riassumere nel modo più antipatico possibile: antropologicamente parlando, la scienza è solo uno dei molti modi conoscitivi sviluppati dagli umani e la sua presunzione di superiorità deriva in primo luogo dall’essere il sistema di conoscenza dei colonizzatori (chi avesse voglia di approfondire troverà grandi soddisfazioni nei testi di Philippe Descola, Piero Coppo, Eduardo Viveiros de Castro, Boaventura de Sousa Santos, Mike Singleton, Ramon Grosfoguel).

Qui mi interessa invece sottolineare che, spesso, neanche i movimenti olistici superano il presupposto dell’individualità del dolore: come nella biomedicina, anche qui l’attenzione è quasi sempre messa sul singolo, sulle cause soggettive del malessere e sulla guarigione intesa come processo personale.
Altri, presi da sconcerto davanti a un mondo così incredibilmente malmesso, giungono invece a pensare che la stragrande maggioranza dei malesseri, delle dissonanze e delle insopportazioni che avvertiamo in noi è perfettamente giustificata dallo stato del mondo intorno a noi. Questa consapevolezza è ciò che, nella sfera comunicativa para-totalitaria di questi anni, bisogna rintuzzare a ogni costo: i pochi che provano a dire altro sono subito violentemente irrisi e tacitati, nel silenzio – spesso intimidito, a volte compiaciuto – di una maggioranza che al momento, come cantava De André, sta: come una malattia, una sfortuna, un’anestesia…
In alcuni casi, le operazioni di censura sono fin troppo facili. Forse per via del poco allenamento all’analisi critica, alcuni fra i refuseniks del mondo-così-com’è vengono agganciati da spiegazioni risibili (i rettiliani, QAnon, la grande sostituzione), che i guardiani della ragione non faticano a squalificare. Pur nella loro puerilità, tuttavia, queste narrazioni hanno due pregi notevoli: spostano la causa del malessere dall’interiorità del soggetto allo stato di cose in cui è immerso, e forniscono una ragione per i mali del mondo senza nascondere il disastro il corso (sono quelli che Wu Ming 1 in La Q di Qomplotto chiama “nuclei di verità”; un eccellente approfondimento della questione “complottismo” si legge nella prefazione di Elisa Lello, scaricabile qui).
In altri casi, invece, l’insopportazione allunga le sue radici nell’analisi storica, nel confronto con forme altre di umanità, nell’archeologia filosofica, nell’esperienza di piccole comunità che “fanno altro”: in breve, nel terriccio del grande pensiero critico a cui il libro di Amiech, di fatto, appartiene.

Esame obiettivo
L’industria del complottismo funziona come bussola, come lenitivo e come parte di una diagnosi complessa, in cui sofferenza individuale e stato del mondo, intimo e politica, non sono separabili. Per certi aspetti, l’incedere di Amiech ricorda quello dell’Encyclopédie des Nuisances, una delle più straordinarie imprese contro-culturali transalpine, la cui intelligenza critica non ha perso un grammo di mordente (ne approfitto per menzionare almeno i nomi di Jaime Semprun, René Riesel e Jacques Philipponnau; in Italia, il principale alleato dell’Encyclopédie è stato a lungo Piero Coppo, non a caso pioniere dell’etnopsichiatria: v. sotto).

L’accusa di complottismo, nota l’autore, equivale a una psichiatrizzazione della critica. Se sentiamo di non poterci fidare della narrazione pubblica, non è perché siamo paranoici o psichicamente farlocchi, ma perché leggiamo correttamente i segni: della narrazione pubblica non c’è proprio da fidarsi. La carrellata degli orrori comincia, a ragion veduta, con la storia del nucleare. Attingendo a un altro ottimo libro di recente pubblicazione (J.M. Royer, Il mondo come progetto Manhattan. Dai laboratori nucleari alla guerra generalizzata alla vita. Mimesis, Milano-Udine 2023), Amiech mostra, dati alla mano, come il nucleare sia probabilmente il segreto meglio custodito e la menzogna più colossale di tutti i tempi. Lascio volentieri a chi leggerà il piacere di scoprire i dettagli, un crescendo di atrocità che, diverse volte, mi ha costretta a interrompere la lettura per riprendere fiato. Qui basti dire che, dall’inizio dell’era nucleare, i morti causati dalla sua filiera si contano a decine di milioni e che la crisi climatica stessa potrebbe avere origine dalle sperimentazioni nucleari.
La commistione di interessi industriali, statali, militari e medici rende pubblicamente invisibile e imparlabile ciò che lavoratori e vittime vedono benissimo. Il caso del nucleare è il più colossale, ma non certo l’unico: Amiech prosegue con la storia del piombo e dell’amianto, con la menzogna della transizione green, con il saccheggio delle risorse fossili, con l’estrattivismo “di superficie” spacciato per meno dannoso di quello fossile, con la sciagura dell’informatizzazione coatta descritta come accesso a una vita smart e sicura.
C’è di che mettersi a battere i coperchi.

Diagnosi (dove sta la follia?)

Secondo una celebre ipotesi eziologica, la schizofrenia insorge a seguito dell’esposizione a messaggi contraddittori da parte di qualcuno la cui “versione dei fatti” non può essere contestata. Così, un genitore che malmeni un figlio dicendogli che lo fa perché gli vuole bene, rischia di produrre dissociazione: al figlio, infatti, non è possibile né ipotizzare che il genitore sia disfunzionale, né tenere insieme due messaggi così contraddittori.
L’insieme della comunicazione a cui siamo esposti presenta più di qualche analogia con questa situazione. Qualche esempio: il tecno-entusiasmo, con la promessa che il progresso tecnico risolverà tutti i problemi (e chi non ci crede è un oscurantista), unito alla consapevolezza che lo sviluppo tecno-industriale è la causa prima della catastrofe ambientale; la diffusione dell’agribusiness per “nutrire il pianeta” (e chi non ci crede è un cinico) e le ondate di suicidi fra i contadini; una green transition che punta dritta all’ossimoro del “nucleare pulito” e l’impossibilità di bonificare i siti dei disastri nucleari; il green pass descritto come strumento di prevenzione del contagio e vaccini nel cui bugiardino stava scritto che non proteggevano dal contagio. Per non dire dei molti conti che non tornano: non torna che nel migliore e più progredito dei mondi la maggioranza delle persone sia afflitta da durevole tristezza; che la sola impresa conoscitiva valida non riesca neanche più a prevedere che tempo farà domani; che la lotta di tutti contro tutti possa portare alla maggiore felicità possibile. E via dicendo.

Mala tempora currunt quando la lingua del potere può ignorare la logica e imporre la sua versione unica dei fatti; peggiori ancora, e già prossimi al totalitarismo, quando le menti dei sudditi si acconciano al bipensiero, a tener per vere nello stesso momento due cose contradditorie, a scivolare nella dissociazione pur di non ammettere che la follia è quella del mondo che ci circonda, degli infami che lo governano, della struttura stessa del dominio e del plusvalore.

Cura, cure
I Rage Against the Machine hanno scritto uno dei versi più angoscianti nella storia del rock: There is no other pill to take, so swallow the one that makes you ill. Non c’è cura, finché si resta nell’orizzonte del sistema. Bisogna guardare altrove.
Antropologia medica ed etnopsichiatria hanno descritto un buon numero di sistemi terapeutici non occidentali in cui si fa di tutto per sganciare la malattia dal soggetto che la manifesta, costruendo complesse eziologie sociali. Sono luoghi dove guarire una malattia non significa guarire l’organo malato, e neanche la persona che sta male, ma sciogliere i nodi, gli incastri e i nessi sociali che sono la causa prima del malessere. Coltivata, in tempi migliori, anche dall’antipsichiatria e dalla medicina sociale, questa intuizione è stata poi spazzata via dal riduzionismo e dai protocolli dell’attuale medicina biotech.
Il pensiero critico le è in qualche modo imparentato. Spostando lo sguardo dall’interno all’esterno, dal malessere del singolo allo stato del mondo in cui vive, mette a fuoco il nesso che lega i soggetti all’ecologia complessa in cui sono immersi; accantona le epistemologie della cecità e le ontologie della dissociazione imposte dal pensiero macchinico; non nasconde la portata del disastro in corso; e, nei casi migliori, non rinuncia a cercare strumenti per sciogliere il dolore e rimettere il mondo sulle sue gambe.
Che il nostro mondo è orribile lo sentiamo anche senza saperlo coscientemente. Ma non è l’unico: un po’ perché ancora ne esistono altri (quelli che il colonialismo ci ha insegnato a disprezzare), un altro po’ perché ecologie vivibili di umani e non umani non sono impossibili da immaginare e mettere in pratica. Amiech dà qualche indicazione di massima: disintossicarsi dal digitale; ripensare le forme di autonomia e sussistenza; coltivare la vita comune e le decisioni collettive. E cioè tornare in sé e al proprio mondo.

(Infine, e fra parentesi, un breve nota che riporta all’estetica, alle qualità del sentire. I luddisti non lottavano tanto contro le macchine in sé, quanto contro l’inabissamento dell’autonomia delle collettività e la perdita di qualità – dei prodotti, del tempo, della vita – che ciò comporta. Ebbene, a differenza di quanto accade comunemente presso editori ben più blasonati, il libro di Amiech è ben tradotto, privo di errori di stampa, curato nell’impaginazione e quindi piacevole da leggere. Se lo scopo della rivoluzione è la qualità del nostro quotidiano collettivo, allora bisogna farla finita anche coi libri impaginati a caso, tradotti con DeepL, mai riletti e stampati su carta dozzinale.)

]]>
La colonizzazione del sapere: la storia nascosta dietro le piante medicinali https://www.carmillaonline.com/2021/01/01/la-colonizzazione-del-sapere-la-storia-nascosta-dietro-le-piante-medicinali/ Fri, 01 Jan 2021 22:00:35 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=64035 di Monsieur en rouge

Ogni trasformazione ne implica infinite altre, se si allarga lo sguardo. Il libro La colonisation du savoir di Samir Boumediene, pubblicato nel 2017 in francese e purtroppo non tradotto in italiano, allarga lo sguardo partendo dalla storia moderna delle piante medicinali del “Nuovo Mondo”, e lo fa in maniera intelligente, radicale, appassionante. Che molti prodotti oggi parte integrante delle abitudini di centinaia di milioni di persone in Europa siano originari dell’America (si pensi al tabacco, al cacao, al pomodoro) è un fatto risaputo; ma ridurre tutto a meri spostamenti di risorse attraverso l’Atlantico significherebbe non cogliere [...]]]> di Monsieur en rouge

Ogni trasformazione ne implica infinite altre, se si allarga lo sguardo. Il libro La colonisation du savoir di Samir Boumediene, pubblicato nel 2017 in francese e purtroppo non tradotto in italiano, allarga lo sguardo partendo dalla storia moderna delle piante medicinali del “Nuovo Mondo”, e lo fa in maniera intelligente, radicale, appassionante. Che molti prodotti oggi parte integrante delle abitudini di centinaia di milioni di persone in Europa siano originari dell’America (si pensi al tabacco, al cacao, al pomodoro) è un fatto risaputo; ma ridurre tutto a meri spostamenti di risorse attraverso l’Atlantico significherebbe non cogliere le implicazioni sociali, religiose, politiche, economiche. Ogni oggetto ha una storia incorporata inscindibile dalla materia tangibile. La colonisation du savoir prova a raccontarla prendendo le piante medicinali come indicatori dei rapporti di forza nella società e spiegando che, visto che la storia è incorporata negli oggetti, “tutti i giorni inghiottiamo dei morti” (p. 8).

Il riflesso coloniale
La prima cosa analizzata nel libro è il rapporto contraddittorio tra i popoli colonizzatori e il sapere dei popoli colonizzati. Quando gli europei giungono in America, si trovano al cospetto di un “nuovo mondo medicinale”, abitato da piante mai viste prima utilizzate da popoli mai visti prima in modi mai visti prima.

L’atteggiamento dei coloni è dapprima di indifferenza per l’ignoto: se i coloni attraversano l’oceano è per trovare ciò che cercano (per esempio le spezie asiatiche), non scoprire cosa di nuovo esiste sul posto. Non appena si imbattono in qualcosa di vagamente familiare, usano i nomi delle piante e sostanze che cercano, quelle del Vecchio Mondo, eventualmente limitandosi a precisare la provenienza geografica. In realtà, spesso si tratta di piante molto diverse, simili solo per alcune delle loro proprietà. Spinti dalla volontà di trovare precisi prodotti gli europei esagerano le somiglianze e minimizzano le differenze. Per questo motivo, “le piante americane sono dei mosaici, ricomposizioni di cose conosciute” (p. 72). Questo gioco di specchi in cui gli oggetti europei sono la norma e tutto il resto del mondo non è che un loro riflesso continua ancora oggi, nascosto per esempio nel cripto-razzismo di chi definisce “etnica” qualunque cucina che non sia di origine europea.

Per certe piante americane gli europei provano non indifferenza ma repulsione ed è chiaro che l’origine di tale disgusto non è tanto da cercarsi nelle loro proprietà organolettiche quanto nel razzismo. Il cioccolato è descritto all’epoca come “brodaglia per porci più che per uomini”, il mate è considerato una bevanda diabolica che fa “vomitare come bestie”, la coca e il tabacco sono ripugnanti. Come descritto altrove, lo stesso vale per altre piante: secoli dopo l’importazione e l’acclimatazione di specie nutritive come la patata o il pomodoro, ancora naturalisti e medici europei mettevano in guardia dalle loro presunte “scarse proprietà nutritive”.

Tutto si trasforma
Certi elementi della farmacopea americana poterono attraversare l’oceano ed essere integrati alle pratiche e i saperi medici europei. L’integrazione non fu un semplice passaggio da una sponda all’altra: fu una continua metamorfosi.
Un esempio notevole è costituito dalla china, cui l’autore dedica una buona parte della ricerca. La china si presenta come una “corteccia rossastra e amara”, in grado di curare le “febbri intermittenti”, corrispondenti alla malattia oggi nota come malaria. Per i principi della scienza medica europea dell’epoca (teoria degli umori) l’efficacia della china contro le febbri intermittenti è “inspiegabile”, e in questo contesto nascono accesi dibattiti a suon di libelli, schedule e trattati (p. 209). Come risultato, il sapere medico è rimodellato e ridefinito e lo stesso accade alle visioni del mondo ad esso sottese, portando a profonde conseguenze sulla farmacia europea e sul rapporto medico-paziente nonché all’instaurazione delle prime politiche sanitarie moderne. Inoltre, le proprietà curative della china facilitano la colonizzazione di Africa e Asia e la crescente richiesta di china porta alla degradazione delle condizioni di lavoro e al disastro ecologico nei suoi luoghi d’origine. È chiaro che appropriandosi della china gli europei non si appropriano solo di una pianta, ma della capacità di gestire le sue proprietà (il suo potere).

Insomma, i prodotti che attraversano l’Atlantico non sono semplicemente oggetti che cambiano posizione geografica: cambiano nome, forma, scopo, significato, ovvero cambiano natura relazionale, e con loro cambiano tutti gli attori che con esse vengono direttamente o indirettamente a contatto. La trasformazione, lo spostamento e la redistribuzione della materia si accompagnano a metamorfosi occultate: quelle dei rapporti di forza, dei processi produttivi, dell’ambiente.

Ciascuna di queste trasformazioni interroga le società: il legno di guaiaco cura la sifilide, ma la sua efficacia non rischia di attenuare la paura e condurre alla lussuria? Va bene importare il tabacco, ma sarà permesso fumare in chiesa? La cioccolata è un alimento o una medicina, ovvero è consentito il suo consumo durante la quaresima? Tutte queste domande che oggi fanno sorridere hanno generato dibattiti con difensori e detrattori, ciascuno con la propria posizione di potere, le proprie credenze e valori, i propri interessi da tutelare. La capacità di Samir Boumediene è quella di non limitarsi a riportare i come e i perché di quei dibattiti, ma anche raccontare le storie di cui quei dibattiti sono stati prodotto intellettuale: storie in cui si intrecciano giochi di potere, pirateria, peripezie di libri perduti e ritrovati, intrighi politici e spinte religiose, operazioni di spionaggio, problemi erettili dei Vincenzo Gonzaga di turno (sic!), missioni scientifiche con obiettivi geopolitici, intere carriere costruite su provvidenziali casualità…

La violenza e l’accumulazione
Un merito fondamentale del libro è di rendere con estrema chiarezza la violenza del processo di appropriazione della conoscenza locale da parte delle varie manifestazioni del potere coloniale.
Il sapere sociale relativo alle piante medicinali è stato saccheggiato e spesso estorto con l’inganno e con la tortura. Questo saccheggio culturale riflette una politica genocida fatta di sfruttamento delle risorse, imposizione di un regime di apartheid razziale, lavoro forzato e schiavismo, esperimenti scientifici sui “nudi corpi” degli indigeni disumanizzati, deportazioni e distruzione di intere società.

Gli indigeni, prima profondi conoscitori dell’ambiente circostante e padroni di un sapere tramandato di generazione in generazione in società in cui il lavoro di cura è condiviso da tutta la comunità e “la conoscenza medica è comune” (p. 59), una volta ridotti in schiavitù, separati e deportati per lavorare in veri e propri campi di lavoro magari distanti centinaia di chilometri, una volta morte le persone più anziane custodi di preziose conoscenze, perdono quel sapere, il filo di trasmissione si spezza (pp. 85 e 116). Allora, a fronte della spaventosa crisi demografica, la sopravvivenza degli indigeni si trova a dipendere dagli ospedali organizzati da missionari e gesuiti: in questi luoghi mirati all’indottrinamento e alla “pratica della vita cristiana” si applicano le varie conoscenze strappate ai popoli indigeni, che la capillare rete organizzativa ecclesiastica è invece capace di tenere insieme. Il potere si propone quindi come soluzione a problemi da esso stesso creati, e non deve stupire che ciò si traduca in una maggiore oppressione.

Se la colonizzazione è stata uno spostamento globale verso una distribuzione fortemente asimmetrica delle risorse, più di quanto si fosse mai verificato prima, questa tendenza si è poi intensificata con la nascita del capitalismo e la sua affermazione come forma economica dominante, fino ai giorni nostri con livelli di disuguaglianza inediti nella storia dell’umanità. La relazione tra capitalismo e colonizzazione dell’America ha radici squisitamente materiali: l’accumulazione di risorse naturali, conoscenze e forza-lavoro operata dagli europei sui popoli indigeni americani e sugli schiavi africani della tratta atlantica corrisponde a un processo di accumulazione originaria, momento cruciale per lo sviluppo capitalistico.

«Il rapporto capitalistico ha come presupposto la separazione tra i lavoratori e la proprietà delle condizioni di realizzazione del lavoro… Dunque la cosiddetta accumulazione originaria non è altro che il processo storico di separazione del produttore dai mezzi di produzione. Esso appare “originario” perché costituisce la preistoria del capitale e del modo di produzione ad esso corrispondente» (Il Capitale, libro I)

Marx parla delle enclosures dell’Inghilterra del Seicento che espropriarono le masse rurali delle proprietà collettive ad uso comune, ma queste parole sarebbero altrettanto applicabili alla deportazione degli indigeni come strumento di appropriazione del loro sapere sociale: i “produttori” delle conoscenze mediche (membri delle comunità indigene) e i “mezzi di produzione” (interazione con il proprio ambiente e comunicazione con gli altri membri) sono “separati” tramite meccanismi in parte identici alle enclosures (allontanamento fisico, divieto o impossibilità di riorganizzazione della comunità colpita).

Se l’Europa ha potuto dominare il resto del mondo non solo con la mera forza delle armi ma anche con la sua idea di progresso e la sua scienza, non è mai stato per particolari meriti: come già detto, le condizioni di quel progresso e di quel sapere scientifico sono state il più delle volte estorte con la tortura, il furto o l’inganno e sono state il prodotto di una legislazione sanguinaria.

Dietro la cura
Come già accennato, il potere coloniale limita o vieta l’uso di alcune piante (foglie di coca, pulque, rimedi abortivi, “filtri d’amore”, peyote…). Queste misure sono giustificate in nome della salute degli indigeni (p. 381), ma è difficile credere alla bontà umana dei legislatori. Se sono promulgati decreti repressivi e se nonostante questo gli usi popolari continuano per secoli, è perché ovviamente non è solo questione di piante. In effetti, non è neanche solo questione di salute. Le piante diventano strumenti di affermazione dell’identità indigena e di resistenza.

Allora, il peyote è una pianta medicinale o una pianta rituale? Quando il guaritore della comunità assume il peyote per evocare e interrogare lo spirito sull’origine del male presente nel corpo da guarire e sul rimedio da somministrare, egli si sta richiamando a una concezione della malattia che sarebbe impossibile comprendere fuori da una precisa lettura della realtà, in cui la divinazione tramite allucinazioni fa parte della cura esattamente allo stesso titolo di un decotto di erbe, perché le due cose sono tappe necessarie di uno stesso processo teso alla guarigione (p. 335). Chi usa quelle piante a scopo curativo, si affida a una serie di credenze che costituiscono l’impalcatura spirituale su cui si innestano le pratiche mediche: non esiste medicina senza morale. La distinzione tra pratiche mediche e pratiche non-mediche è una falsa dicotomia.

Per questo, le politiche sanitarie nascondono invariabilmente aspetti diversi dalla gestione della salute. Nessun oggetto, e in particolare nessun farmaco, nessun trattamento, nessun gesto è fatto solo dalla materia sensibile che lo compone: tutto appartiene a una rete di relazioni. Vietare o imporre un oggetto significa anche vietare o imporre la storia incorporata in quell’oggetto, l’invisibile visione del mondo che gli è instrinsecamente legata.

Il potere della medicina
Nel 1751, l’Enciclopedia del sapere illuminista riporta l’aneddoto delle “donne americane che abortivano perché i loro figli non avessero padroni efferati come gli spagnoli” e, attribuendo alla “durezza della tirannia” le cause di una pratica sanitaria, lascia emergere un senso della salute pienamente politico (p. 315). Del resto, come notato sopra, non esiste medicina che non sia espressione di una certa morale.

Sul senso della salute si gioca un conflitto profondo che mobilita diverse concezioni del mondo.
Il potere della medicina è dire cosa è bene e cosa è male per il corpo, che diventa terreno di battaglia, e stabilire se qualcosa è un medicinale, una malattia, una pratica medica, oppure non lo è, relegandolo ad altri campi (religione, superstizione, politica, etica, tecnica…).

Per comprendere come ancora oggi la medicina sia un potere nella misura in cui definisce il confine tra sfera medica e non-medica, facciamo un salto in avanti di qualche secolo. La quarantena, il distanziamento sociale, l’obbligo di mascherina all’aperto, la chiusura dei confini nazionali, il divieto di passeggiata, il coprifuoco notturno… sono misure sanitarie? Lo sono tutte allo stesso modo? In che misura sono sanitarie e in che misura competono a un campo differente? Quali concezioni del mondo e quali letture della realtà sono mobilitate da ciascuna di queste “pratiche mediche”? In che modo e per quali motivi queste pratiche sono diventate terreno di conflitto?

È chiaro che ciascuna delle forze in gioco sullo scacchiere sociale teme che la questione della cura apra orizzonti indesiderati. Perché non lavorare sempre da casa per sfruttare meglio la forza-lavoro? Perché non cogliere l’occasione del lockdown per estendere le tecnologie di sorveglianza? Perché non rifiutare l’autorità degli esperti? Perché non usare d’ora in poi la mascherina per camuffarsi scontrandosi con la polizia? Perché non liberarci dall’economia?
I medici e gli inquisitori “potevano contestare che il mondo visto sotto allucinogeni fosse reale, ma non potevano negare che fosse realmente visto” (p. 336).

Il potere coloniale in America dovette arrendersi: per proteggere le forme di vita, anche quando si vuole farlo per poter continuare a sfruttarle, non è possibile separare la sfera medica dalle altre. Le forme di vita necessitano di un corpo “sano”, ma anche di una storia, di un ambiente, di una vita relazionale “sana”. La dicotomia tra l’esigenza relazionale, affettiva, soggettiva, e la verità fisiologica, scientifica, misurabile, è una falsa dicotomia.

Epilogo
Nella sua opera, Samir Boumediene mette in relazione luoghi ed eventi apparentemente lontani e illustra come la colonizzazione abbia creato legami distruggendone altri: “La colonizzazione del sapere è simultaneamente interdipendenza e frammentazione dei destini” (p. 422). Come non pensare oggi alla catena di eventi che hanno portato alla proclamazione dello stato di pandemia mondiale, al tracollo delle economie e quasi al collasso dei sistemi sanitari di molti paesi?

Ecco, allora, cosa insegna questo libro: prima di tutto, che in questo mondo frammentato anche se iperconnesso, la storia continua a impregnare tutto e a vivere dietro ogni cosa. La resistenza non muore mai. In secondo luogo, che l’appropriazione delle forme del sapere (lingue, usi, conoscenze) non è un contorno della storia della colonizzazione, un effetto collaterale della conquista, bensì un suo punto fondamentale: addirittura una sua condizione, con conseguenze sul significato pratico di decolonizzazione e sulla riflessione politica in seno al movimento antirazzista e anticoloniale.
Ma soprattutto, punto oggi di estrema attualità, rivela ciò che di non scontato esiste dietro la cura e la medicina e come diversi modi di porsi rispetto alla salute, alla cura del corpo e della mente, alla responsabilità verso il prossimo possono essere, anzi certamente sono, dietro ogni gesto.

]]>
Il riduzionismo psichiatrico e la variabile umana https://www.carmillaonline.com/2019/04/03/il-riduzionismo-psichiatrico-e-la-variabile-umana/ Tue, 02 Apr 2019 22:01:55 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=51751 di Gioacchino Toni

Lorenza Ronzano, La variabile umana, Elèuthera, Milano, 2019, pp. 220, € 16,00.

«Vado in ospedale ad ascoltare la sofferenza delle persone, con l’intenzione di trasformare i loro sintomi in qualcos’altro. Lasciate stare le diagnosi, non hanno importanza, raccontatemi la vostra storia, ditemi, com’è andata? Come mai siete qui? Per cosa vivete?» Lorenza Ronzano

«Penso che Lorena Ronzano abbia tutte le carte in regola per raccontarci come le trecento e più partizioni del manuale diagnostico americano siano poche, pochissime, insufficienti per ingabbiare tutti gli umani, perché le diagnosi umane sono almeno [...]]]> di Gioacchino Toni

Lorenza Ronzano, La variabile umana, Elèuthera, Milano, 2019, pp. 220, € 16,00.

«Vado in ospedale ad ascoltare la sofferenza delle persone, con l’intenzione di trasformare i loro sintomi in qualcos’altro. Lasciate stare le diagnosi, non hanno importanza, raccontatemi la vostra storia, ditemi, com’è andata? Come mai siete qui? Per cosa vivete?» Lorenza Ronzano

«Penso che Lorena Ronzano abbia tutte le carte in regola per raccontarci come le trecento e più partizioni del manuale diagnostico americano siano poche, pochissime, insufficienti per ingabbiare tutti gli umani, perché le diagnosi umane sono almeno sette miliardi quanti sono i terrestri, anzi, che dico, sono di più, perché dobbiamo aggiungervi le diagnosi dei tipi umani vissuti finora, di quelli che verranno, e moltiplicare per cento o per mille, perché ognuno di noi non è (ancora) un androide, è mutevole» Piero Cipriano

Come è noto a chi ha letto la “trilogia della riluttanza” pubblicata dalla casa editrice Elèuthera – composta da La fabbrica della cura mentale (2013), Il manicomio chimico (2015) e La società dei devianti (2016) –, e il suo ultimo libro Basaglia e le metamorfosi della psichiatria (2018), Piero Cipriano, pur nella consapevolezza di operare una semplificazione, suddivide schematicamente gli operatori che si confrontano con il disagio mentale in alcune categorie. Ai due estremi, che a volte sembrano finire col toccarsi, colloca i “manicomiali”, che non hanno bisogno di particolari presentazioni nel loro ruolo di integrati e complici del sistema repressivo istituzionalizzato in tutte le sue sfaccettature, e gli “antipsichiatri” che, nel loro comodo restare fuori dalle istituzioni, finiscono per lasciarle agire indisturbate. Tra questi due estremi Cipriano individua almeno altre due categorie: quella degli operatori di “buon senso” e quella dei “riluttanti”. Al primo raggruppamento appartengono i tanti psichiatri, psicologi, psicoterapeuti, infermieri ed educatori, che pur essendo, il più delle volte, “brave persone”, non mettendo mai davvero in discussione le diagnosi ed il ricorso smodato ai farmaci, finiscono con l’accettare l’impianto generale della malattia e della cura psichiatrica senza mai trovare il coraggio di dire che tale macchina di gestione del disagio non aiuta davvero i pazienti. Al secondo raggruppamento appartengono invece gli “anti-istituzionali” (basagliani, para-basagliani, simil-basagliani ecc.), quei “riluttanti” che hanno scelto di combattere la propria battaglia nel cuore delle contraddizioni, cioè dall’interno del sistema per cambiarlo.

Dopo aver passato in rassegna le tappe principali della pratica psichiatria “prima e dopo Basaglia”, nel suo ultimo libro, uscito a quarant’anni dall’entrata in vigore della Legge 180 che sanciva la chiusura dei manicomi, Cipriano cede la parola ad una serie di persone che, a vario titolo, si rapportano con l’universo del disagio mentale in maniera non convenzionale: uno psicologo che preferisce svolgere la sua attività nell’orto anziché nel canonico studio; un giovane psichiatra che non smette di chiedersi se è possibile svolgere la sua attività in maniera più utile rispetto a quella imposta dalle modalità convenzionali; una giovane infermiera irriducibilmente ostile alle fasce di contenzione; un’economista amante di jazz che, pur in assenza di “titoli” alla cura, espone brillanti idee circa le modalità con cui una società dovrebbe prendersi cura di sé; una laureata in lettere che pratica “consulenze filosofiche” colloquiando con i pazienti in un day hospital psichiatrico.

Di quest’ultima “riluttante”, Lorenza Ronzano, è uscito da poco il libro La variabile umana (2019), pubblicato dalla sempre meritoria casa editrice Elèuthera, con un’introduzione dello stesso Cirpriano che, nel presentare l’opera, mette in evidenza come l’autrice sia un’operatrice psichiatrica un po’ particolare. Intanto il fatto che si tratti di una donna che si occupa di tali questioni non è affatto un elemento da sottovalutare, visto che la storia della psichiatria è stata in buona parte scritta da uomini. Ed oltre al fatto che Ronzano non è psichiatra, psicologa e nemmeno infermiera, a rendere tale libro particolarmente efficace, rispetto a «quelli scritti da psi è che la storia della psichiatria, da Pinel in poi, è sempre stata fatta da psichiatri, mai da psichiatrizzati» (p. 18). E Ronzano, come racconta direttamente nel suo contributo pubblicato su Basaglia e le metamorfosi della psichiatria di Cipriano, ha vissuto un’esperienza diretta con i fallimentari tentativi della psicoterapia: «sarebbe stata una giovane psichiatrizzata se a diciotto anni, con un gesto di orgoglio e strafottenza, non avesse ricusato, rigettato, vomitato, la diagnosi che lo psichiatra che aveva in cura suo padre le attribuì: tu sei come tuo padre, le disse, la schizofrenia è genetica, ereditaria, la tua stranezza, le ripeté, è figlia della stranezza di tuo padre, e come la sua stranezza anche la tua stranezza io al chiamo schizofrenia» (p. 18).

Se non bastasse la presenza di tali “anomalie”, rispetto ai dogmi vigenti, a rendere interessante il volume di Ronzano è, secondo Cipriano, il fatto che l’autrice «è una formidabile narratrice, una delle poche persone al mondo (direbbe Roberto Bolaño) che legge o meglio ha letto tutti i diari dei fratelli Goncourt, e dopo questo saggio narrativo (o conte philosophique, o oggetto narrativo non identificato, per dirla con Wu Ming) inevitabilmente esploderà (in senso buono) in seno alla narrativa italiana con i suoi romanzi scritti, appunto, alla Goncourt. Per cui – continua Cipriano – io potrò dire che non solo non le ho fatto la diagnosi né l’ho ricoverata, ma l’ho istigata, dopo che mi fece leggere il suo inedito manoscritto goncourtiano (anche se di primo acchito non lo apprezzai, perché l’insolito, il perturbante, appunto in quanto tale non può piacere, almeno a una prima lettura), a scrivere del suo mestiere di consulente filosofica in un day hospital psichiatrico della sua città. E così è venuto fuori questo libro. Che è una costola del suo romanzo, tutto sommato» (p. 19).

Lorenza Ronzano, dopo aver collaborato per alcuni anni con l’equipe medica di un reparto psichiatrico della sua città svolgendo colloqui individuali con i pazienti che passavano dal day hospital, è giunta alla conclusione che spesso il ricorso alla psichiatria è del tutto improprio. Secondo l’autrice spesso si ricorre allo psichiatra come ad una sorta di factotum in grado di risolvere tutti quei problemi che non si sa bene chi altri potrebbe risolvere. Per certi versi lo psichiatra sembrerebbe aver sostituito il sacerdote a cui, un tempo, si ricorreva perché in lui si individuava la figura deputata ad ascoltare quei problemi che non si sapeva bene a chi altri confidare, ma anche perché, attraverso il religioso, si poteva disporre dei contatti sociali dell’ambiente parrocchiale e questi avrebbero potuto tornare utili al fine di risolvere i problemi.

Se la maggior parte degli individui che si rivolgono ad un servizio psichiatrico lo fanno nella speranza che gli operatori prestino loro attenzione e capiscano i loro problemi, occorre però prendere atto, sostiene Ronzano, che buona parte delle loro sofferenze, dei loro problemi, è di natura sociale e spesso ha a che fare con ristrettezze economiche, con la perdita del lavoro e di conseguenza del reddito, con delusioni affettive, con la solitudine e con l’assenza di cure per gli anziani.

Anche se buona parte di chi ricorre ai day hospital psichiatrici manifesta forme di disagio che non sono di natura psichiatrica, e spesso nemmeno psichica, le diagnosi più frequenti con cui vengono etichettati dagli operatori hanno a che fare con “depressione”, “ansia” e “disturbi della personalità”. Così facendo l’operatore, evitando di affrontare la complessità del caso specifico che si trova di fronte, adempie al suo ruolo di “applicatore di patologie”, con relativa prescrizione farmacologica. Così facendo si riduce la complessità dell’individuo a quella classificazione stereotipata imposta dal manuale diagnostico americano con tutto ciò che ne consegue in termini di negazione della personalità, di controllo e redditività spesso ottenuta attraverso la dipendenza chimica.

Nonostante lo scollamento «tra le arbitrarie classificazioni della psichiatria e ogni essere umano nella sua singola, peculiarissima storia» (p. 26), Ronzano segnala come nella sua esperienza sul campo si sia spesso imbattuta in persone che dai centri di assistenza psichiatrica pretendono una diagnosi sentendosi, in qualche modo, confortate dal poter “far parte” di una condizione sottoposta a vigilanza dalla scienza medica. «Può sembrare paradossale, ma spesso “essere depresso” piuttosto che “soffrire d’ansia” viene percepita come una condizione rassicurante, perché permette di circoscrivere la sofferenza a un preciso ambito, a una causa specifica. Avere la possibilità di individuare in un deficit psichico l’origine del proprio dolore, può alleviare in qualche modo la percezione di sentirsi responsabile della propria infelicità» (p. 27). Inoltre, continua Ronzano, la diagnosi sembra poter donare all’individuo un’identità, cosa che nell’attuale società sembra essere indispensabile. Appartenere alla categoria dei “depressi”, ad esempio, aiuta l’individuo a “sentirsi qualcuno” e piuttosto che trovarsi a corto d’identità è auspicabile vedersi riconosciuto un disturbo mentale. Insomma, meglio essere malati che niente.

Di fronte a pazienti che giungono nei day hospital psichiatrici e che palesano di non avere problemi psichiatrici o psichici, se solo si avesse la pazienza di ascoltare le loro storie evitando di applicare meccanicamente diagnosi dettate dal Manuale e prescrivere medicinali in quantità, sarebbe più onesto da parte degli operatori, scrive Ronzano, ammettere «di non avere il potere né la possibilità di aiutare qualcuno, al limite consigliarlo di rivolgersi altrove […] Se un servizio psichiatrico (o meglio di salute mentale) fosse un reparto seriamente responsabile, ogni giorno dovrebbero essere compilate, oltre alle inevitabili cartelle cliniche, anche “cartelle sociali”, per così dire, in cui stilare un piano di intervento e di collaborazione con le strutture socio-assistenziali presenti sul territorio, per aiutare il paziente a risolvere problemi alla cui origine, evidentemente, concorrono motivazioni ben diverse da quelle personali e patologiche. Sarebbe auspicabile che la psichiatria si trasformasse in un centro di analisi e smistamento dei casi» (pp. 28-29). Esistono in Italia alcuni dipartimenti di salute mentale, come a Trieste, che operano in tal senso. Nulla di impossibile, dunque. Basterebbe volerlo fare.

Ronzano si sofferma anche sull’uso che il potere fa delle parole passando in rassegna alcuni termini a cui ricorre la psichiatria contemporanea al fine di affibbiare le diagnosi più comuni. Ad esempio, il termine “depresso” – che letteralmente significa qualcosa/qualcuno che è stato schiacciato, abbassato, abbattuto – secondo i parametri psichiatrici identifica «una persona che per un periodo di tempo abbastanza lungo “vive di episodi di umore depresso accompagnati principalmente da una bassa autostima e perdita di interesse o piacere nelle attività normalmente piacevoli”. La presunta diagnosi non connota la persona in base a una serie di sintomi inequivocabilmente invalidanti, ma in base alla sua collocazione (la condizione di essere “al di sotto”, richiamata espressamente dai termini di umore “depresso”, “bassa” autostima, “perdita” di interesse e piacere) rispetto a una linea di demarcazione, ovvero rispetto alla soglia della cosiddetta e non altrimenti specificata “normalità”» (pp. 33-34).

Una diagnosi così emessa si preoccupa soltanto sulle «derive del vissuto del paziente, sulla sua iperattività neuronale, sul suo essere schiacciato al di sotto del limite “normale”» (p. 34) e non dice nulla sul vissuto, sullo stato di salute e sull’aspetto umano dell’individuo. Pertanto, la “depressione”, scrive Ronzano, non è in realtà una diagnosi e nemmeno una definizione; si tratta di «un abborracciato giro di parole per imporre categoricamente uno stato di cose, e cioè che esiste una soglia umorale e comportamentale normalmente ritenuta accettabile e valida, al di sotto della quale si diventerebbe automaticamente dei “depressi”. Pura tautologia» (p. 34).

Se è vero che tante persone, pur di affrontare il disagio provato, si rassegnano a “fare i malati”, scrive l’autrice, «è altrettanto vero che i medici, accettando di “curarle” in qualità di casi patologici, hanno la loro buona parte di responsabilità nell’aggravare questo uso improprio della psichiatria. Se di certo si può parlare di concorso di colpa, non c’è dubbio che le equipe psichiatriche, rappresentando l’autorità medico-scientifica, dovrebbero per prime disporre in altra maniera. Nel momento in cui uno psichiatra fornisce una diagnosi e una cura farmacologica è come se statuisse che le origini dei problemi della persona sono: 1. di natura personale, cioè da ricercarsi e imputarsi all’individuo in questione. 2. Di natura chimico-neurale, cioè risiedono in un qualche non meglio specificato disturbo neurotrasmettitoriale» (p. 83).

In questo modo, sostiene Ronzano, la psichiatria riduce un problema che tocca l’intera compagine socio-cultuale al cervello di una singola persona. «L’ambito in cui i problemi andrebbero ricercati e risolti (la società, un’intera cultura) è stato gravemente ristretto non soltanto dal corpo sociale al corpo individuale, ma anche dal corpo individuale al singolo organo. In questa operazione riduzionista, la psichiatria non è per nulla ecologica dal momento che – pur ammettendo, in teoria, che i problemi si formano in ambiente collettivo – nella pratica interviene soltanto sul cervello dei singoli individui» (pp. 83-84).

Attraverso tale pratica riduzionista l’autoritarismo medico-scientifico ottiene un doppio obiettivo. «Ignorando la componente socio-economica nell’origine dei problemi del singolo […] mira a stornare l’attenzione critica dai problemi socio-politici, concorrendo al mantenimento dello status quo per nulla vantaggioso per la maggior parte dei cittadini» (p. 84). Inoltre tende a a decolpevolizzare i singoli «individuando l’origine dei loro problemi non in scelte e comportamenti sbagliati, bensì in un loro presunto malfunzionamento neuronale, in qualche scompenso chimico. La decolpevolizzazione va di pari passo con l’irresponsabilizzazione, attuata attraverso il conferimento di una diagnosi. Infatti una diagnosi è sempre, in prima battuta, l’istituzionalizzazione di un deficit» (p. 85).

Ed il “consulente filosofico”? Cosa accidenti fa il “consulente filosofico” quando si trova di fronte i pazienti al reparto psichiatrico? Dialoga con consultanti, per dirla con Pier Aldo Rovatti. La filosofia rifiuta la cultura terapeutica, ne svela la dimensione autoritaria e coercitiva e cerca altre vie per essere d’aiuto a chi si presenta sofferente. L’invito, a questo punto, è di leggersi il libro di Lorenza Ronzano, una che ha imparato ad ascoltare la gente che si sfoga senza sfogliare il manuale americano, emettere diagnosi e compilare ricette. Non è poco.

]]>