culture giovanili – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 13 Sep 2025 20:04:05 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Estetiche inquiete. Produci(ti), consuma(ti), crepa tra social media e nuove tecnologie https://www.carmillaonline.com/2022/06/23/estetiche-inquiete-produciti-consumati-crepa-tra-social-media-e-nuove-tecnologie/ Thu, 23 Jun 2022 20:01:50 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=72439 di Gioacchino Toni

Si è visto [su Carmilla] come la carica contestataria dello street style, sempre più globalizzato, sia stata in buona parte assorbita dalle logiche della moda contemporanea dei grandi brand. Continuando a seguire le riflessioni di Nello Barile, Dress Coding. Moda e stili dalla strada al Metaverso (Meltemi 2022), vale la pena soffermarsi sui rapporti che nella contemporaneità intercorrono tra moda, street style, social media e nuove tecnologie.

Se a lungo si è guardato ai media come a “sistemi di vampirizzazione” delle culture giovanili, attorno alla metà [...]]]> di Gioacchino Toni

Si è visto [su Carmilla] come la carica contestataria dello street style, sempre più globalizzato, sia stata in buona parte assorbita dalle logiche della moda contemporanea dei grandi brand. Continuando a seguire le riflessioni di Nello Barile, Dress Coding. Moda e stili dalla strada al Metaverso (Meltemi 2022), vale la pena soffermarsi sui rapporti che nella contemporaneità intercorrono tra moda, street style, social media e nuove tecnologie.

Se a lungo si è guardato ai media come a “sistemi di vampirizzazione” delle culture giovanili, attorno alla metà degli anni Novanta tale visione molare del sistema mediale ha iniziato a mostrare i suoi limiti ed il dibattito si è tendenzialmente spostato su «un modello dialogico che vede i media e i detentori del “capitale sottoculturale” in un processo di costruzione reciproca delle rispettive identità» (p. 62). Tale cambiamento di prospettiva, sottolinea Barile, non sottovaluta affatto la funzione svolta dai media nel consolidamento di una moda all’interno dell’ambito mainstream.

Se si tiene presente che, rispetto ai legami forti costruiti su uno spiccato senso di appartenenza – che si instaurano nelle comunità e negli ambiti familiari o amicali –, i legami deboli – che si creano tra individui fisicamente e socialmente lontani o che vantano contatti rari e asistematici– conferiscono maggior dinamismo al sistema in quanto si prestano a facilitare aperture a sollecitazioni esterne e ad agevolare cambiamenti, non è difficile comprendere l’incidenza di Internet nel processo di trasmissione e consolidamento delle tendenze. La capacità del Web di moltiplicare i legami deboli e veicolare anche i contesti sottoculturali si presta alla propagazione di trend che, indipendentemente da come e perché si sono originati, vengo agevolmente dirottati verso finalità commerciali manistream.

In risposta al diffondersi negli anni Novanta di segnali di rigetto nei confronti dei grandi marchi, questi ultimi hanno iniziato a ricorrere alla figura del cool hunter per «intercettare i contesti esperienziali ad alto contenuto di autenticità» (p. 64). Si tratta di una figura che osserva, seleziona ed amplifica le tendenze a cui ricorrono i brand nella loro opera di saccheggio delle culture alternative da cui ricavano suggestioni creative da trasformare in esperienze e lifestyle mercificati.

Quella del cool hunter è necessariamente una figura liminale che pur operando per le aziende non può integrarsi pienamente in esse appartenendo al contempo a quegli ambienti creativi alternativi in cui vive ed opera. Si tratta in sostanza di una sorta di “infiltrato” abile nel trasformare esperienze ludiche in occasioni di reddito, una figura capace di cogliere «il valore strategico della “strada” nello sviluppo prima culturale e conseguentemente economico» (p. 66) delle scena urbana.

A cavallo del passaggio di millennio, con l’affermarsi dei social, sostiene Barile, l’epoca “fisica” del cool hunter tramonta e l’interesse si sposta sulle banche dati offerte da Internet sempre più dettagliate ed aggiornate circa le tendenze in atto; alcune piattaforme approfittano della decostruzione del sistema moda operata dalla fast fashion per sviluppare mappature e sistemi previsionali automatizzati dei trend. La disarticolazione del sistema stagionale della moda e la centralità assunta del consumatore fniscono per rendere indispensabile il ricorso a nuove tecnologie.

Da qualche anno sono stati implementati sistemi di previsione delle tendenze tramite il machine learning e l’intelligenza artificiale. Questo perché i social media sono sempre più i contenitori dei trending topics del momento. L’osservazione dei social consente pertanto di monitorare la reazione dei pubblici di un dato brand, di osservare le tendenze in ascesa, di studiare le preferenze degli utenti tramite tecniche quali-quantitative come la Sentiment Analysis, o di conoscere in maniera più approfondita le conversazioni tra membri di una online community sui contenuti o i prodotti di un brand con la netnography. […] L’introduzione del machine learning e della IA ha trasformato la concezione stessa di trend analysis e forecasting. Questo perché la disponibilità enorme di dati, reperibili tramite social media e motori di ricerca, consente di addestrare le Reti Neurali Artificiali (RNA) che, partendo dall’apprendimento di serie storiche di dati quali-quantitativi, sono in grado di formulare previsioni sullo sviluppo dei trend nel futuro (pp. 67-69).

Si attivano pertanto strategie basate sull’elaborazione dei dati raccolti, ad esempio, tra il pubblico di qualche influencer, dall’analisi degli hashtag, dai profili individuali, dai commenti rilasciati ecc. L’anello intermedio tra la figura del cool hunter e quella dell’influencer, suggerisce Barile, può essere individuata nei fashion bloggers che, con il loro intervento da posizione indipendente, contribuiscono a destrutturare il sistema-moda tradizionale sostituendo l’insieme di competenze in esso sedimentate con uno spontaneismo in linea con un generale processo di orizzontalizzazione – reale o percepito che sia – della comunicazione e della società. Esiste pertanto, sostiene lo studioso, «una linea di continuità che, dall’esautorazione del ruolo dello stilista, iniziata negli anni Sessanta, conduce, attraverso l’epoca del cool hunting, agli influencers e ai sistemi customer-centrici gestiti dall’Intelligenza Artificiale» (p. 71).

L’accelerazione online determinata dalla pandemia ha enormemente rafforzato il ruolo delle piattaforme nella «gestione dell’immaginario visuale e fotografico degli influencer» (p. 71). A differenza delle vecchie figure degli opinion leader, gatekeeper ecc, l’influencer si presenta come «una sorta di prosumer “evoluto”, un produttore/consumatore di contenuti online capace di trasformarsi in vero e proprio medium di se stesso» (p. 71) attento nel rapportarsi ai brand di streetwear a non compromettere la propria credibilità. I contenuti esperienziali confezionati dagli influencer hanno a che fare tanto con «la capacità dei social di “scolpire” le identità online» quanto con «la capacità di “confezionare” le identità trasformate in veri e propri prodotti» (p. 71).

Analogamente a quanto avvenuto nella televisione dei reality e dei talk show a sfondo confessionale, anche la comunicazione della moda opera mediaticamente sulla dimensione quotidiana, questa sembra però, soprattutto grazie alla diffusione della versione virtuale degli influencer, spingersi fino al punto di presentare il digitale stesso come “la nuova moda” a compimento di quella logica del simulacro tratteggiata sin dai primi anni Ottanta da Jean Baudrillard a proposito della trasformazione contemporanea dello star system.

Per definizione, gli influencer virtuali sono persone immaginarie generate dal computer, che simulano caratteristiche e personalità degli esseri umani. Il fenomeno riguarda diverse piattaforme di social media […] dove le virtual influencer giocano sulla sostanziale ambiguità tra essere un personaggio reale che veste in modo stravagante ma plausibile, che frequenta luoghi ordinari del quotidiano, ma che allo stesso tempo produce in chi la osserva un effetto di grande straniamento, tipico della cosiddetta “valle inquietante” (“uncanny valley”), teorizzata dagli studiosi di robotica, ovvero il simultaneo effetto di familiarità e di spaesamento suggerito da queste figure. Come già accade nel caso degli influencer umani, le nuove celebrità sintetiche e pressoché riproducibili illimitatamente, vanno a caccia di unicità, di autenticità, di risorse che possono garantire loro un notevole seguito di follower ma anche un loro sostanziale attaccamento (p. 75).

Se da un lato la loro natura artificiale rappresenta un freno al processo di identificazione del pubblico, dall’altro permettono una costruzione identitaria modulare dell’influencer sintetico in funzione di target specifici analizzati puntualmente anche dal punto di vista emozionale: l’influencer artificiale può così svolgere proficuamente la sua funzione a partire dalle personalità dei follower.

Viviamo in un regime customer-centrico, che pone il consumatore al centro del nuovo ecosistema digitale, per due motivi principali: perché esso produce dati che sono sempre più il vero prodotto della nuova economia dell’attenzione; perché grazie a questi dati è possibile conoscere, prevedere e coinvolgere sempre più le scelte del consumatore. L’utilizzo dell’intelligenza artificiale nella moda espanderà enormemente il processo di centralizzazione e customizzazione dell’offerta, tanto da coinvolgere anche la parte più ideativa e creativa, che storicamente spettava allo stilista. La centralità del consumatore, già paventata nella retorica comunicativa dei marchi anni Novanta, è oggi implementata dal nuovo ecosistema digitale. Per capire meglio tale processo occorre fare un passo indietro, alle origini della mass customization (p.137).

La comunicazione digitale ha stravolto tanto le tradizionali procedure di ideazione, progettazione e confezionamento dei capi di abbigliamento quanto quelle distributive e di reperimento da parte dei consumatori. La centralità di questi ultimi nelle strategie aziendali contemporanee tende a indirizzare verso una “produzione industriale su misura” basata su una «fabbricazione tramite economie di scala di componenti basilari che possono essere riassemblate in modalità differenti per offrire prodotti relativamente diversificati» (p. 140). Ecco allora perché la conoscenza del sistema cognitivo del consumatore diviene centrale: è attorno a questo che si dispiega una strategia di differenziazione volta a soddisfarlo.

Stringendo alleanze con i gradi detentori di dati del Web, le grandi piattaforme on-line dell’abbigliamento stanno sviluppando sistemi di machine learning che operano incrociando quanto disponibile nelle banche dati che raccolgono pareri creativi di operatori del settore e dati offerti dai colossi del Web per proporre configurazioni sempre più individualizzate. «Il sistema si basa su un elevato livello di customizzazione in cui si richiede all’utente di scegliere il proprio mood (triste, allegro, eccitato ecc.), il proprio stile (gotico, rockabilly ecc.) e di tracciare un disegno intorno alla figura umana raffigurata al centro del video, da cui verrà ricavato l’outfit finale proposto dalla piattaforma» (p. 144).

Se il futuro della moda sembrerebbe indirizzarsi verso la sostituzione dello stilista con il consumatore stesso, occorre però interrogarsi non solo a proposito di quale reale grado di libertà disponga quest’ultimo ma anche di quanto sia ulteriormente reso operativo all’interno di una catena produttiva che si estende oltre i terminali dell’ideazione e del consumo del capo acquistato contemplando anche gli aspetti più intimi dell’emotività e della personalità degli individui. Tutto ciò conduce alla creazione di reti che, integrando canali diversi, coniugando esperienza on-line ed esperienza off-line, strutturano un ambiente che circonda l’utente-generatore di dati capace di relazionarsi con quanto si conosce del cliente con finalità predittive.

È in tale contesto che ha preso piede l’idea di Metaverso, concetto formulato dalla letteratura Cyberpunk negli anni Novanta, visto ora come «occasione di rilancio di piattaforme in crisi; è il collettore di una serie di servizi innovativi e a pagamento come gli NFT [NFT – Non-Fungible Token: modalità di identificazione in modo univoco e certo di un prodotto digitale creato su Internet] e le nuove strategie di gamification; è il punto di raccordo tra mondo fisico e virtuale che implicherà ulteriori problemi di protezione dei dati personali dei suoi utenti» (p. 158).

Negli ultimi anni l’interesse dei brand di moda e delle piattaforme di vendita online nei confronti della virtualità, del gaming, degli NFT e del Metaverso, è cresciuto esponenzialmente. Dalla retorica sulla Realtà virtuale degli anni Novanta e inizio Duemila (come nel caso di Second Life), passando per le applicazioni della Realtà Aumentata come nuova frontiera della Quarta Rivoluzione Industriale, giungiamo oggi al Metaverso che rappresenta un punto di sintesi tra le diverse caratteristiche della Realtà Virtuale e della Realtà Aumentata […]. Il termine non è affatto nuovo ma deriva ovviamente dal Cyberpunk, in particolare dal testo di Neal Stephenson, Snowcrash (1992). Nel testo è suggerito un avvicinamento tra mondo reale e mondo virtuale ma tra i due prevale ovviamente il secondo. […] Il nuovo Metaverso rappresenta un punto di convergenza tra reale e virtuale su cui le aziende puntano per moltiplicare i propri servizi e i propri utili. […] Al di là delle promesse mirabolanti e pubblicitarie del Metaverso proposto come nuova esperienza parallela ed extramondana, in accordo con la sua eredità psichedelica degli anni Novanta, il valore di questa innovazione starà nella sua capacità di accordarsi con il mondo della vita dei consumatori, di integrarsi con la loro realtà quotidiana, di aumentarla in maniera non eccessivamente invasiva (pp. 160-166).

A fronte di un tale scenario resta da chiedersi quanto siano ancora distinguibili una realtà quotidiana off-line ed una on-line strutturata dalle piattaforme e quali margini di autonomia, autenticità ed identità restino agli individui sempre più mercificati e costretti a mettersi in vetrina producendosi, vendendosi e, per certi versi, anche a  comprarsi,  prima che faccia capolino l’obsolescenza biologica-merciologica. Insomma, dal produci-consuma-crepa siamo passati al produci(ti)-consuma(ti)-crepa. Un bel passo in avanti, non c’è che dire.


Estetiche inquiete serie completa su Carmilla

 

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Estetiche inquiete. Dalla “K” alla “X”, dall’estremo all’eXtremo https://www.carmillaonline.com/2021/05/04/estetiche-inquiete-dalla-k-alla-x-dallestremo-allextremo/ Tue, 04 May 2021 21:00:19 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=66117 di Gioacchino Toni

A distanza di un paio di decenni dalla sua prima uscita, torna in libreria, in una nuova edizione ampliata e corretta, il volume di Massimo Canevacci, Culture eXtreme. Mutazioni giovanili tra i corpi della metropoli (DeriveApprodi 2020). Entrando nel vivo dei rapporti tra giovani e metropoli, media, scena artistica e musicale, l’autore si sofferma su alcuni ambiti delle culture giovanili degli anni Novanta del secolo scorso che hanno fatto ricorso con una certa frequenza a modalità comunicative caratterizzate da un uso insistito della lettera “X”. Una costellazione sociale ed un immaginario espressioni di un mutamento radicale delle forme [...]]]> di Gioacchino Toni

A distanza di un paio di decenni dalla sua prima uscita, torna in libreria, in una nuova edizione ampliata e corretta, il volume di Massimo Canevacci, Culture eXtreme. Mutazioni giovanili tra i corpi della metropoli (DeriveApprodi 2020). Entrando nel vivo dei rapporti tra giovani e metropoli, media, scena artistica e musicale, l’autore si sofferma su alcuni ambiti delle culture giovanili degli anni Novanta del secolo scorso che hanno fatto ricorso con una certa frequenza a modalità comunicative caratterizzate da un uso insistito della lettera “X”. Una costellazione sociale ed un immaginario espressioni di un mutamento radicale delle forme di vita di un periodo segnato dalla trasformazione del sistema produttivo, dalla scomparsa del Muro, dal dissolversi delle grandi narrazioni e delle strutture politiche tradizionali. Forme embrionali di una trasformazione che, in alcuni suoi tratti, sembra anticipare quell’intrecciarsi di materiale e immateriale che è tra i tratti caratterizzanti l’attualità.

Il contesto attuale si basa su una compenetrazione – ubiqua, sincretica, polifonica e metafeticista – tra materiale e immateriale, tra metropoli comunicazionale e tecnologie digitali che è stato intravisto e in gran parte anticipato in quegli anni, purtroppo senza poter affermare una visione altra rispetto a quella che successivamente sarà dominante (p. 5).

Canevacci affronta la trasformazione della “città industriale”, con le sue specifiche modalità produttive e conflittuali, nella recente “metropoli comunicazionale” attraversata da «soggettività mutanti, culture digitali, movimenti tra asfalto lacerato e social purificato, migrazioni diasporiche» (p. 5). Un nuovo panorama composto da «soggettività connettive», più che collettive, in cui l’impossibilità di distinguere nettamente uno spazio pubblico da uno privato ha sicuramente inciso sulla costruzione delle nuove identità.

Canevacci dichiara esplicitamente di essersi voluto tenere alla larga da quelle sistematizzazioni, classificazioni e comparazioni con cui molti sociologi, antropologi e giornalisti tendono a incasellare “i giovani” in quanto si dice convinto che le culture giovanili restano liquidi frammenti refrattari alle rigide catalogazioni.

Nella prima parte del volume l’autore intende ridefinire gli scenari entro cui si collocano i frammenti giovanili contemporanei e lo fa a partire dalla presa d’atto dell’obsolescenza dei concetti di «controcultura» e di «subcultura». Nato sul finire degli anni Sessanta, esplicitando un intento oppositivo e alternativo nei confronti dell’esistente, il termine “controcultura”, sostiene l’autore, esaurisce la sua parabola vitale all’inizio degli Ottanta quando le culture giovanili non sono più “contro” una cultura dominante che nel frattempo sembra essersi frammentata in una pluralità di poteri, né a favore di una “cultura contro”. «Non esiste più una controcultura perché è morta la politica come utopia che trasforma il mondo impegnando il futuro prossimo» (p. 17). Con la scomparsa dell’ideologia e della politica tradizionali scompare anche il concetto di “contro”. È proprio da tali dissolvimenti che, sostiene Canevacci, si sono liberate le culture giovanili «eXtreme».

Anche il concetto di subcultura, secondo l’autore, ha fatto il suo tempo. Se il termine controcultura ha una matrice politico-alternativa, quello di subcultura indicare invece un sottoinsieme di una cultura più generale di cui è pur sempre parte integrante e, nella sua parzialità, non manca di ereditare i limiti del più generale concetto di “cultura”.

Se non è affatto detto che le culture giovanili siano per forza eXtreme, mette in guardia Canevacci, nemmeno tutte le subculture hanno carattere antagonista.

Lungo i flussi mobili delle culture giovanili contemporanee – plurali, frammentarie, disgiuntive – le identità non sono più unitarie, ugualitarie, compatte, legate a un sistema produttivo di tipo industrialista, a uno riproduttivo di tipo familista, a uno sessuale di tipo mono-sessista, a uno razziale di tipo purista, a uno generazionale di tipo biologista. Quindi, rispetto alle culture giovanili, una subcultura non è per sua natura una controcultura, perché può essere anche una cultura pacificata, ordinata, mistica, ecc. (p. 21)

L’obsolescenza del termine subcultura deriva dalla mancanza di una cultura generale unitaria di cui una parzialità farebbe dunque parte. «Se fin dall’inizio era già difficile definire i punk un’espressione sottoculturale (Hebdige), ora la morte del carattere nazionale – che ordinava una scala gerarchica piramidale da una punta egemonica fino a una base subalterna, sui cui dislivelli si ordinavano queste “culture-sotto” – trascina con sé anche la morte delle subculture» (p. 22).

Canevacci coglie in alcune trasformazioni della comunicazione dei giovani più irrequieti i segni di importanti cambiamenti epocali. «Per un transito multi-narrativo attraverso le interzone delle culture giovanili, si potrebbero assumere come indicatori due lettere: “k” e “x”» (p. 47). La prima rimanda alle controculture giovanili di tipo antagonista degli anni Settanta: in quella “K” «si concentravano grappoli di significati che caratterizzavano il soggetto come portatore di dominio. Così “Kultura” significava che la cultura – come forma libera ed espressiva del sapere – si era trasformata in qualcosa di opposto: in trasmissione di valori autoritari» (pp. 47-48).

A partire dagli anni Ottanta l’equazione K=dominio tende a svanire e si attesta uno slittamento di significati. La “K” non denuncia più l’autoritarismo (la stagione dei “Kossiga”) ma viene fatta propria dagli ambienti antagonisti con finalità per così dire “autocelbrative”, probabilmente per rafforzare la propria immagine di “potenza” (la stagione delle “okkupazioni”). Una transizione semantica che conduce dalla denuncia del potere alla celebrazione della (propria) potenza.

Se la “K” degli anni Ottanta è comunque figlia – cambiata di segno – del sistema politico comunicativo precedente, la “X” degli anni Novanta non sembra derivare dalla conflittualità del passato, salvo il ricorso ad essa in ambito afroamericano – Malcom X – al fine di rimarcare un necessaria riscrittura identitaria. Poi la “X” farà la sua comparsa negli ambienti punk e successivamente in Internet abbinata all’eccesso, all’irregolare, all’alieno, allo scandalo e così via.

Oltre a questa carica semantica di “contro” e di “proibito”, la “X” assume altri concentrati di senso: […] la “X” a poco a poco è divenuta una sorta di ideogramma che, grazie al suono fonetico inglese (x = ecs), ha finito con incorporare il timbro sonoro dell’irregolare. La misura extra-extra-large come incontenibile, la musica hard core come inascoltabile, le immagini-graffiti come insopportabili, il porno XXX come invisibile. Molte forme della comunicazione giovanile oppositiva assumono la “X” come codice (lemma) che salta i confini e che sta contro i confini. E in questo si trovano – e non per la prima volta – vicini, troppo vicini, ai lessici di pubblicitari, serial, siti-web. (pp. 50-51)

Convinto che nel contesto contemporaneo nessun luogo possa essere «una “sezione” di qualcosa di più vasto: un anticipo sull’utopia. Una “prefigurazione”», l’autore decide di abbandonare «metodologie estratte dal sociale per “classificare” queste culture giovanili» preferendo ricorrere a «concetti obliqui, visori-indicatori, moduli sfaccettati che emergono dalla metropoli. Uscire dal sociale ed entrare nella metropoli significa […] percepire le culture eXtreme (X-terminate) in modi mobili, irrequieti, oppositivi». Dunque, Canevacci si prodiga nel «narrare tessuti comunicativi immateriali fatti di frammenti, stili, codici, corpi, techno» (p. 53) dando vita a una ricerca che intende «focalizzare quelle schegge anomiche delle culture giovanili metropolitane che riescono a esprimere conflitti e innovazioni tra i flussi della comunicazione materiale e immateriale. Per questo sono eXtreme» (p. 54). Dunque, l’autore delimita il campo delle culture estreme giovanili

a quelle che si muovono disordinatamente tra gli spazi metropolitani e scelgono di innovare conflittualmente i codici. Di smuovere i significanti statici. Di produrre significati alterati. Di liberare segni fluidi dai simboli solidi. È questo flusso che, per differenziarlo da un generico uso di estremo (sport-sesso-politica-arte), chiamo eXtremo. Culture eXtreme sono quelle che, nel corso della loro autoproduzione, si costruiscono secondo i moduli spaziali dello sterminato. Le culture eXtreme sono sterminate: eX-terminate: nel senso che spingono a non essere terminate, a sentirsi come interminabili, a rifiutare ogni termine alla loro costruzione-diffusione processuale. Culture interminabili in quanto rifiutano di sedersi tra le mura della sintesi e dell’identità, che inquadrano e tranquillizzano. Normalizzano e sedentarizzano. (p. 54)

La parte centrale del volume è dunque dedicata ad un excursus sulle culture giovanili sterminate in un fluire di paragrafi che tratteggiano un’epoca: T.A.Z. – Rewind; Interzone; Merci-tatuate; Fucking Barbies; Fika Futura; Corpi inorganici; Toretta; Torazine; Rave; Fluid Video Crew; Luther Blissett; Cherokee; Anarcociclisti; Decoder; Link; Pirateria di Porta; Brain-Machine; Fin*techlan; Rewind; NDE.

Nella sua parte finale il volume cambia rispetto alla prima edizione: il capitolo “Concetti liquidi” lascia il posto al nuovo “Concetti anomici”: «tensioni che connettono le interzone eXtreme (le correnti differenziate delle culture sterminate) e alcune esplorazioni di senso inconcepite. Culture sterminate, interzone eXtreme, concetti anomici: sullo scorrere di queste tre differenze si articola, innalza e defluisce il testo» (p. 12). Compongono questa nuova stesura i paragrafi: Aporia; Diaspora; E-space; Nonorder; Anomia; Mediascape; Amnesia.

Le ultime pagine sono invece dedicate ad una riflessione dell’autore circa le modalità con cui ha condotto il suo lavoro di ricerca sulle culture eXtreme negli anni Novanta, sul rapporto tra spontaneità e improvvisazione, tra regole e infrazione, liberazione e regressione… sul ricorso ad una «metodologia vagante» nell’ambito della etnografica sulla gioventù contemporanea.

Piacciano o meno, gli anni Novanta hanno lasciato il loro segno sul presente. Si può essere perplessi o dissentire sull’approccio con cui l’autore ha condotto la sua disamina e su alcune sue interpretazioni ma Culture eXtreme resta un testo che a due decenni di distanza dalla sua prima stesura si rivela ancora capace di mostrare risvolti delle culture giovanili degli anni Novanta che tanti sociologi, antropologi e giornalisti non hanno saputo cogliere.


Estetiche inquiete

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Estetiche inquiete. Il nero, il punk, il teschio… Processi di estetizzazione del malessere https://www.carmillaonline.com/2020/08/19/estetiche-inquiete-il-nero-il-punk-il-teschio-processi-di-estetizzazione-del-malessere/ Wed, 19 Aug 2020 21:00:40 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=61486 di Gioacchino Toni

Claudia Attimonelli, Estetica del malessere. Il nero, il punk, il teschio nei paesaggi mediatici contemporanei, DeriveApprodi, Roma 2020, pp. 170, € 13.00

«Attraversando il nero è pressoché inevitabile interrogarsi sulle sue estremità ove si ritrovano mescolate le dinamiche che investono la darkness e la blackness, il lusso e lo sporco, il lutto e l’estasi, il punk e l’uniforme, Grace Jones e Charlotte Rampling, Adolf Hitler e Siouxsie Sioux.» – «Al tramonto degli anni Settanta, dandy e punk ricevettero una consacrazione sancita dall’unione di vertigine e caduta del quale repertorio iconografico [...]]]> di Gioacchino Toni

Claudia Attimonelli, Estetica del malessere. Il nero, il punk, il teschio nei paesaggi mediatici contemporanei, DeriveApprodi, Roma 2020, pp. 170, € 13.00

«Attraversando il nero è pressoché inevitabile interrogarsi sulle sue estremità ove si ritrovano mescolate le dinamiche che investono la darkness e la blackness, il lusso e lo sporco, il lutto e l’estasi, il punk e l’uniforme, Grace Jones e Charlotte Rampling, Adolf Hitler e Siouxsie Sioux.» – «Al tramonto degli anni Settanta, dandy e punk ricevettero una consacrazione sancita dall’unione di vertigine e caduta del quale repertorio iconografico si sarebbe nutrito il mondo della moda e del lusso per decadi a venire senza quasi dover muovere un dito per rinnovarsi.» Claudia Attimonelli

Teschi, vampiri, zombie, junkie ed estetica black da tempo sono parte integrante dell’iconografia occidentale. Visto che le scene urbane e mediatiche contemporanee celebrano l’immaginario dell’anomia e del disagio, viene da domandarsi perché male e malessere hanno proliferato nel corso dei secoli al punto da essere oggi percepiti come del tutto ordinari aspetti del quotidiano.

Attraverso gli studi visuali, la mediologia e la sociosemiotica, Claudia Attimonelli, nel suo Estetica del malessere (2020), uscito per la collana Anomalie Urbane, recentemente inaugurata da DeriveApprodi, indaga l’iconografia di tale fenomeno nel solco della schiavitù dei neri (tragica origine), passando in rassegna una serie di produzioni visuali, musicali, vestimentarie e artistiche coinvolte in questo processo di “estetizzazione del malessere” che integra il male nel quotidiano rendendolo innocuo e banale.

In tale scenario nero – segnato da teschi, macchie, sudiciume, malessere, disagio, anomia e morte –, il male, da pericolosamente banale (H. Arendt), per mezzo di un processo di estetizzazione «attraverso subdoli e lusinghieri travestimenti, continua il suo incedere tardo novecentesco, a tratti indolente, altrimenti risoluto, che con determinazione lo fa capillarmente accomodare tra le pieghe confortevoli del malessere comune del nuovo Millennio». (p. 84)

Nei contesti urbani il disagio è da tempo al centro di forme vestimentarie e cosmetiche derivate dall’intrecciarsi di “sprezzatura del lusso” ed elementi “dell’underground”. L’estetica mainstream ha ampiamente saccheggiato la vita disagiata di strada (dalle culture giovanili metropolitane agli homeless), dando luogo a linguaggi che, pur mantenendo traccia del malessere esistenziale, incarnano forme di coolness o di chic. Il mondo della moda ha attinto a piene mani dall’abbigliamento dei clochard – capi oversize, lacerati, macchiati, indossati stratificati uno sull’altro –, dalle fogge militari già détournate dagli street stile, dal nomadismo urbano giovanile e pendolare: ecco allora i vari “clochard couture”, “military chic” e “treveller style”, in un “contagio delle lontananze” in cui si intrecciano esteticamente hipster e pariah.

Il processo di estetizzazione di anomia e margini, oltre che la moda ha investito l’ambito mediale in un imperversare di estetiche postapocalittiche, paesaggi corrotti e scenari estremi: basti pensare al dilagante fenomeno zombie che, soprattutto a partire dal nuovo Millennio, si inserisce all’interno di una più vasta ascesa di un immaginario survivalista. Secondo Attimonelli il ricorso a

stilemi capaci di esaltare i tratti più vistosamente molli e decadenti quali l’usura dell’abito e le macchie, i buchi, i tagli negli indumenti, i bordi dell’abito che terminano in liminari contorni cenciosi, non vanno intesi come un nuovo decadentismo, né tanto meno come tracce che rinviano all’appartenenza a comunità marginali o vicine al piccolo crimine, bensì, in quanto manifestazioni di un afflato mondano esse incarnano la tragicità del quotidiano détournata in una sorta di disagio agiato. (p. 92)

La studiosa si sofferma anche sull’insistenza con cui viene fatto ricorso nella contemporaneità alla rappresentazione del cuore e del teschio. L’immagine del Sacro Cuore di Gesù – abitualmente posto al centro di una raggiera dorata con tanto di croce, corona alla sommità e intrecci di spine – viene introdotta in epoca barocca ma una volta disgiunta dalla tradizionale collocazione al centro del petto di Cristo, il Sacro Cuore diviene un feticcio a sé.

Dal punto di vista semiologico il trasferimento segnico-simbolico che ha visto il cuore nel corso dei secoli, da organo del corpo umano divenire rappresentazione di un sentimento potente quale l’amore (sia divino che terreno), ha avuto luogo a partire da un “residuo segnico non tradotto” […] un sovrappiù di significato, una sorta di pleonasma semiosico, […] un’eccedenza extra-anatomica, qualcosa che supera il mero organo vitale per espandersi placidamente insieme alla stessa estetica barocca. Ivi, infatti, troviamo un trionfo della significanza (la passione) sul significato (la vita viva) veicolato dal significante (il muscolo cardiaco). Una tale ridondanza semiosica si esprime attraverso la forma semplice e universalmente riconosciuta del cuore, laddove il colore rosso vivo e la collocazione al centro del petto coincidono con l’umanità e, per estensione, anche con i sentimenti connessi con la Vita. Seguendo questo filo rosso ritroviamo la rappresentazione cardiaca nella postmodernità. È il cuore fiammeggiante che gronda sangue, dai riflessi cromati e potenzialmente ammalato di carcinoma quello che oggi abita nelle ampollose ed enfatiche complex emoticon della rete e non più il simbolo scarno degli anni Ottanta né quello noto nelle scritte minimali delle t-shirt I love NY. Non è raro, infatti, rinvenire su schiene, braccia, nuca e polpacci, colorati tatuaggi che riportano il cuore trafitto dalla cui ferita sgorgano gocce lacrimose di sangue; talvolta il taglio della ferita cristiano – una breve linea rossa – diviene un occhio allorché alla misericordia del cuore palpitante di Cristo si associa l’illuminazione del Buddha. (p. 97)

Passando dalle danze macabre medievali, alle orrorifiche immagini barocche e alla sua versione più stilizzata novecentesca, il teschio è giunto sino ai nostri giorni e proprio grazie a questa sua evoluzione minimale, con il suo immaginario mortifero, è stato assorbito dall’industria della moda.

Il quotidiano si è connotato sempre di più di uno spettro immaginifico potente. Il subdolo addomesticamento del memento mori di hamletiana memoria si è insediato viralmente con la sua espressione di vacuità postumana e con la sua macabra onnipresenza ovunque, dalle t-shirt alle custodie per smartphone, soppiantando l’emanazione del terrore maligno che non riusciva più a esprimere la propria vocazione intimidatoria. […] Per la post-umanità del nuovo Millennio l’ordinario è l’anomico che può distinguersi, resistere. Dopo una pandemia che ha allontanato ogni essere umano dall’altro, mentre una marea di corpi si riversa in strada e lancia nelle acque torbide dei fiumi le statue del colonialismo americano, si avverte l’approssimarsi di un futuro che non deve costruirsi sul valore della sola cultura bianca occidentale: black lives matter. Il punk, il dandy, l’afrodark, sono le estetiche radicali del disagio ad alta implicazione segnica e sociale per quanto riguarda il genere, le relazioni interrazziali, i diritti. (pp. 104 e 112)

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Estetiche inquiete. Tribù e bande giovanili catalane, messicane e transnazionali https://www.carmillaonline.com/2020/07/24/estetiche-inquiete-tribu-e-bande-giovanili-catalane-messicane-e-transnazionali/ Fri, 24 Jul 2020 21:00:23 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=61319 di Gioacchino Toni

Carles Feixa, Oltre le bande. Saggi sulle culture giovanili, DeriveApprodi, Roma 2020, pp. 160, €13,00

Mentre sul finire degli anni Settanta Margaret Thatcher si impossessa dei locali londinesi al numero 10 di Downing Street, inaugurando un’era politico-culturale di cui oggi si vedono compiutamente i risultati, in Inghilterra viene dato alle stampe Subculture: The Meaning of Style (1979) di Dick Hebdige, un saggio destinato a cambiare il modo di guardare alle culture giovanili.

Scritto a ridosso della fase eroica dell’epopea punk inglese, prima che la macchina del business si attivasse a [...]]]> di Gioacchino Toni

Carles Feixa, Oltre le bande. Saggi sulle culture giovanili, DeriveApprodi, Roma 2020, pp. 160, €13,00

Mentre sul finire degli anni Settanta Margaret Thatcher si impossessa dei locali londinesi al numero 10 di Downing Street, inaugurando un’era politico-culturale di cui oggi si vedono compiutamente i risultati, in Inghilterra viene dato alle stampe Subculture: The Meaning of Style (1979) di Dick Hebdige, un saggio destinato a cambiare il modo di guardare alle culture giovanili.

Scritto a ridosso della fase eroica dell’epopea punk inglese, prima che la macchina del business si attivasse a pieni giri, il libro viene tradotto in italiano nei primi anni Ottanta incontrando una scena punk nazionale vitale e, almeno in alcuni suoi settori, attiva in ambito antagonista.

Nell’edizione edita da Meltemi nel 2017 tradotta da Pierluigi Tazzi e revisionata da Massimiliano Guareschi, scrive a tal proposito quest’ultimo nell’introduzione al volume:

In quel frangente, Sottocultura forniva preziose chiavi di lettura per decifrare le coordinate di un protagonismo non più inquadrabile nelle forme consuete della militanza politica. Anche nell’autocomprensione delle stesse sottoculture, nonostante il rifiuto di principio che le componenti più oltranziste potevano opporre a qualsiasi sguardo esterno o alle oggettivazioni del sapere accademico, il libro svolse un ruolo non trascurabile.1

L’uscita del libro nei primi anni Ottanta ha rappresentato probabilmente anche una delle prime occasioni per gli studiosi italiani di familiarizzare con i cultural studies successivi alla

assunzione da parte di Stuart Hall della direzione del Centre for Contemporary Cultural Studies di Birmingham e il riorientamento della precedente vocazione prevalentemente storico-letteraria in direzione sia di una focalizzazione su tematiche quali la resistenza attraverso i rituali, la guerriglia semiotica messa in scena dai comportamenti giovanili, la risignificazione dal basso dei consumi, l’interazione fra pubblico e media aggirando le ipoteche delle letture unidirezionali in termini di meccanico travaso di contenuti dall’emittente al destinatario o di moralistica stigmatizzazione dell’abbrutimento delle masse nell’era del consumismo e della massificazione.2

Si può riconoscere al volume di Hebdige il merito di aver indotto in questo paese non solo gli ambienti accademici ma anche settori di quell’universo underground da lui chiamato in causa a guardare con occhi nuovi al mondo delle sottoculture giovanili e ad ampliare l’interesse verso gli studi sulle culture subalterne portati avanti da tempo da autori come Ernesto De Martino e, prima ancora, dallo stesso Antonio Gramsci.

A questi due ultimi studiosi, De Martino e Gramsci, è debitore, come ha modo di ribadire egli stesso nel volume, lo spagnolo Carles Feixa che, con il suo Oltre le bande. Saggi sulle culture giovanili (DeriveApprodi 2020), ha recentemente inaugurato Anomalie Urbane di DeriveApprodi, collana intenzionata a proporre tanto contributi originali che traduzioni e riedizioni di classici dedicati alle culture metropolitiane prendendone in esame, sia da un punto di vista teorico che empirico, linguaggi, spazi e condotte conflittuali.

Lontano dai pregiudizi e dalle etichettature di comodo della politica istituzionale e dei media, la collana, curata da Luca Benvenga, intende dunque affrontare le culture giovanili, siano esse sub o contro-culturali, nelle loro contraddizioni, nei loro splendori e nelle loro miserie. Ad essere indagati sono pertanto, tra gli altri, i processi di soggettivazione prodotti da tali realtà, il ricorso alla violenza e alla mascolinità come strumenti di affermazione del sé sociale, le modalità di convivenza cooperanti e solidali, le questioni etniche, di genere e di classe, la dimensione popolare degli sport nelle comunità…

Il volume di Feixa, docente di antropologia sociale presso l’Università Pompeu Fabra di Barcellona, raccoglie cinque saggi sulle culture giovanili stesi negli ultimi decenni in cui vengono riportati i risultati di un’analisi sul campo relativa alle tribus urbanas spagnole degli anni Ottanta e i chavos banda messicani del decennio successivo, alle bandas latinas della prima metà degli anni Duemila e alle bande transnazionali come “agenti di mediazione” tra Europa, Nordafrica e America.

Nell’impossibilità di prendere in rassegna tutta la casistica affrontata dal libro, in questo scritto ci si limiterà a tratteggiare le differenze principali tra due tipi di bande giovanili: le tribus urbanas spagnole degli anni Ottanta e i chavos banda messicani degli anni Novanta.

Sin dalla sua prima immersione all’interno delle bande giovanili spagnole, lo studioso nota come alcuni interlocutori rispondessero a

identità etniche e di classe precedenti (i pijos, giovani della classe media, in genere studenti, ossessionati dal consumismo e dalla moda, si contrapponevano ai golfos, immigrati della periferia, generalmente disoccupati). Altre classificazioni riconducevano a modelli più universali: reminiscenze del passato (hippies), revivals (mods) e nuove creazioni subculturali (punk, posmodernos). Modelli provenienti da altri tempi e luoghi (la Gran Bretagna degli anni Sessanta e Settanta) e non introiettati in maniera passiva o puramente esteriore, si adattavano a nuove funzioni e bisogni e si mescolavano con le influenze autoctone (la cultura gitana e il nazionalismo catalano).3

Nelle sue prime indagini sul campo nella Spagna degli anni Ottanta, Feixa nota come curiosamente le tribù urbane tendono a essere indicate come fenomeno generazionale nonostante risultino composte da un esiguo numero di giovani e come siano lette come metafora della crisi, un sorta di rielaborazione simbolica del disincanto politico postfranchista, una risposta alla mancanza di lavoro e di futuro per i giovani.

Se in Spagna per i giovani della generazione del dopoguerra lo svago tende a ridursi, salvo qualche festa privata, alle passeggiate lungo la via principale della città, a partire dalla metà degli anni Sessanta le nascenti sale da ballo offrono ai giovani un luogo alternativo in cui impiegare il tempo libero. È però con la morte di Franco, nel 1975, che la gioventù inizia davvero a ritagliarsi uno spazio proprio, regolato da leggi e valori altri, all’interno delle città.

La prima analisi proposta dallo studioso riguarda il formarsi delle tribù giovanili nella città catalana di Lleida ove, nel corso degli anni Ottanta, nella parte antica della città, nella cosiddetta “zona dei vini”, diversi vecchi bar a buon mercato, in cui è possibile ascoltare musica, vestire informalmente e fumare hashish liberamente, si trasformano in uno spazio giovanile frequentato dalle diverse tribù, ognuna connotata dal suo particolare stile. Quim, un interlocutore catalano diciottenne, così spiega la nascita e la diffusione delle bande giovanili: «Senza lavoro, le persone non sono state in grado di adattarsi alla società e hanno creato un gruppo per appartenere a un qualche tipo di società»4.

Il processo di massificazione, sostiene Feixa, ha poi indotto alcuni gruppi giovanili ad abbandonando la “zona dei vini” per differenziarsi. Ad esempio, i progres, studenti di sinistra con influenze controculturali, si spostano nei locali della zona bassa della città, ove si ascolta musica jazz, rock progressivo e cantautori catalani, mentre i pijos optano per la parte borghese della città, ove frequentano locali più costosi caratterizzati da un’estetica più commerciale, un abbigliamento firmato e musica da discoteca. In altre parti della città vengono ricavati da vecchi magazzini grandi locali, detti posmodernos, contraddistinti da un’estetica punk, rockers e musica hard rock. Successivamente, la stessa “zona dei vini” inizia a differenziare nettamente i locali per rispondere a comunità specifiche: hardcores, heavies, rockabillies, acratas, femministe ecc.

Con l’emergere delle tribù urbane, a Lleida si ha una settorializzazione degli spazi urbani dedicati allo svago giovanile. In molti casi, nota Feixa, non si tratta di gruppi con base territoriale, organizzati sul modello della banda; lo spazio di aggregazione tende a concentrarsi nel centro della città ed è lì che i gruppi si ritrovano indipendentemente dalla provenienza territoriale dei membri.

Ogni ragazzo può fare proprio uno stile in modo più o meno radicale, identificarsi in successione con stili diversi o adottarne solo parte degli ornamenti esteriori, o più semplicemente condividere l’amicizia con i componenti del gruppo. Di fatto, la tribù esiste esclusivamente come “mappa mentale” per consentire di orientarsi e interagire quotidianamente con gli altri giovani. I “travestimenti” di solito non vengono indossati a scuola o al lavoro, ma sono prerogativa specifica del fine settimana, quando ci si reca nella zona dei vini al sopraggiungere della sera.5

Nel corso del tempo si sono dati importanti cambiamenti in seno alle diverse tribù e ai loro stili, con non irrilevanti processi di inversione simbolica, come ad esempio l’appropriazione dello stile skinhead, tradizionalmente proprio di frange di proletariato ribelle, da parte di ragazzini di estrazione borghese, spesso di estrema destra e razzisti. Più in generale, sostiene lo studioso, «gli stili maggiormente connessi con la crisi e che hanno come protagonisti giovani operai (punks, heavies) hanno lasciato il posto ad altri stili che, sebbene di origine operaia, riconducono ad altre epoche (gli anni Sessanta) e sono ripresi dai giovani della classe media (mods, skinheads), facendosi interpreti di nuove metafore sociali (il consumismo, il razzismo)»6.

I chavos banda degli anni Novanta presenti in diverse città messicane sono invece composti da giovani disoccupati o attivi nell’economia sommersa dell’ambiente urbano-popolare, tendenzialmente stanziali nei rispettivi quartieri e appassionati di musica rock che si oppongono ai chavos fresa, giovani della classe media, spesso studenti, ossessionati dalla moda e dal consumismo che fanno delle discoteche il loro punt di ritrovo.
Sin dal principio degli anni Ottanta, lo stile chavos banda tende a divenire egemonico tra larghi strati di popolazione giovanile sia maschile che femminile permettendo alla marginalità di fare irruzione sulla scena urbana. Lo studioso, oltre a tratteggiare le esperienze storiche da cui sono derivati i chavos banda, ne indaga l’identità generazionale, etnica, di classe e di genere.

Confrontando i chavos banda messicani con le tribus urbanas spagnole, lo Feixa nota come, al di là degli elementi affini, mentre i primi si sono trasformati in un’esperienza di massa duratura nell’ambiente urbano-popolare, nel secondo caso si è trattato di un fenomeno decisamente minoritario e legato a una particolare congiuntura.

Mentre la banda è una struttura collettiva sufficientemente stabile, con capi e rituali costanti che abbraccia gran parte della vita quotidiana e del percorso di vitale dei chavos, le tribù urbane tendono a essere raggruppamenti instabili, solo occasionalmente di massa, discontinui, i cui membri di rado si lasciano coinvolgere totalmente. Mentre i chavos banda si localizzano prevalentemente nelle periferie delle grandi città e conservano vincoli profondi con il territorio (la cui difesa è il motivo di conflitti endemici con altre bande ugualmente territoriali), le tribù urbane hanno mantenuto come scenario soprattutto il centro urbano, con conflitti episodici e determinati prevalentemente da divergenze di stile o rivalità calcistiche, piuttosto che appartenenze territoriali.7

Mentre i chavos ostentano la loro identità di gruppo sempre e ovunque, l’esibizione dell’appartenenza alle bande urbane è assai più circoscritta, inoltre se i primi tendono a rifarsi a circuiti economici informali o autogestiti, i secondi restano sostanzialmente all’interno del circuito di mercato tradizionale. Le stesse risposte del potere nei confronti delle due esperienze sono differenti: decisamente di stampo repressivo nel caso messicano, più tollerante nel caso catalano.

L’identificazione con questi stili è un processo simbolico, tuttavia l’appropriazione produce in ogni luogo manifestazioni culturali completamente diverse, e ciò confuta le teorie che vedono nella cultura dei giovani un processo di omologazione su scala planetaria. L’esperienza dimostra che i ragazzi provenienti da contesti subalterni, sia nelle zone periferiche che in quelle centrali, possono essere emarginati ma non necessariamente marginali. Attraverso l’identificazione con un modello, l’emarginazione da stigma passa a essere un emblema. Emblema che crea una comunicazione col mondo esterno, che offre un linguaggio universale e quindi mette in crisi l’idea tradizionale della cultura della povertà come un’entità chiusa.8

Per quanto riguarda le altre esperienze analizzate da Feixa, relativamente alle bandas latinas barcellonesi della prima metà degli anni Duemila, lo studioso si propone di mostrare come, al di là egli stereotipi di comodo politico-mediatici, esistano differenti modalità di identificazione dei giovani di identità latina con le bande. Nel volume vengono analizzati anche alcuni fenomeni socio-culturali che in ambito catalano si contraddistinguono per la presenza tanto di una dimensione locale che una globale, mentre un saggio rimanda al progetto TRANSGANG – Transnational Gangs as Agents of Mediation: Experiences of Conflict Resolution in Street Youth Organizations in Southern Europe, North Africa and the Americas – che anziché concentrarsi sui fallimenti e sull’esclusione sociale, si occupa dei casi in cui le bande giovanili sono state protagoniste di percorsi di inclusione sociale. Si tratta di un progetto che, focalizzato sulle esperienze di mediazione delle bande giovanili di due comunità transnazionali (latinoamericane e arabe) in tre ambiti geo-culturali (Europa Merdionale, Africa Settentrionale e le Americhe), mira a favorire politiche maggiormente inclusive in cui i protagonisti esercitano un ruolo attivo di primo piano.


  1. D. Hebdige, Sottocultura. Il significato dello stile, Meltemi, Milano 2017, p. 12. Sul volume si veda: G. Toni, La rivolta dello stile. Dick Hebdige e la “sottocultura”, Il Pickwick, 18 ottobre 2017. 

  2. Ivi, p. 13. 

  3. C. Feixa, Oltre le bande. Saggi sulle culture giovanili, DeriveApprodi, Roma 2020, p. 9. 

  4. Ivi, p. 7. 

  5. Ivi, p. .12. 

  6. Ivi, p. 12. 

  7. Ivi, p. 21. 

  8. Ivi. pp. 22-23. 

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Nero https://www.carmillaonline.com/2020/01/14/nero/ Tue, 14 Jan 2020 22:01:38 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=56917 di Gioacchino Toni

Nonostante in tutte le lingue occidentali esistano numerose espressioni che ricorrono al colore nero per alludere a qualcosa di inquietante, funesto o irriducibilmente non omologabile, non di meno rappresenta anche il colore dell’eleganza formale e del potere. Se il nero lo si vede immancabilmente sfilare nelle passerelle di alta moda, altrettanto caratterizza i guardaroba di diverse culture alternative giovanili e se da un lato identifica le frange estreme di ribellione metropolitana, dai vessilli anarchici, agli autonomen, fino ai black bloc, altrettanto distingue l’abbigliamento dei paladini del binomio law & order, dalle divise di alcuni corpi di polizia alle [...]]]> di Gioacchino Toni

Nonostante in tutte le lingue occidentali esistano numerose espressioni che ricorrono al colore nero per alludere a qualcosa di inquietante, funesto o irriducibilmente non omologabile, non di meno rappresenta anche il colore dell’eleganza formale e del potere. Se il nero lo si vede immancabilmente sfilare nelle passerelle di alta moda, altrettanto caratterizza i guardaroba di diverse culture alternative giovanili e se da un lato identifica le frange estreme di ribellione metropolitana, dai vessilli anarchici, agli autonomen, fino ai black bloc, altrettanto distingue l’abbigliamento dei paladini del binomio law & order, dalle divise di alcuni corpi di polizia alle toghe in uso nei tribunali.

Se oggi viene dato per scontato che il nero sia un colore, non sempre è stato così. Nel corso dei primi secoli dell’Età moderna il nero ed il bianco sono stati allontanati dall’universo dei colori, tanto da rappresentarne un’alternativa, ed è soltanto con il Novecento che nell’immaginario collettivo, nelle scelte artistiche e negli studi scientifici, è stata abbandonata la plurisecolare rimozione delle proprietà cromatiche del bianco e del nero.

Nell’ambito delle sue ricerche volte a ricostruire la storia dei colori nelle società europee, la storia del nero è stata attentamente indagata da Michel Pastoureau nel suo Noir. Histoire d’une couleur (2008) – Nero. Storia di un colore (I ed. 2013, Ponte alle Grazie) – mettendola in relazione con la storia di altri colori, in particolare con quella del blu, a lungo considerato dall’immaginario occidentale come un “particolare tipo di nero”.

Nella sua ricostruzione Pastoureau procede consapevole del fatto che ogni descrizione ed ogni notazione di colore è inevitabilmente culturale e ideologica e che non è possibile proiettare le definizioni, i concetti e le classificazioni del colore propri della contemporaneità sul passato in quanto inevitabilmente altri rispetto a quelli in uso nelle società lontane. «La nozione di colori caldi e colori freddi, di colori primari e complementari, le classificazioni dello spettro o del cerchio cromatico, le leggi della percezione o del contrasto simultaneo non sono verità eterne, ma solo tappe della mutevole storia delle conoscenze» (p. 17).

In Europa, nel periodo compreso tra la fine dell’Età medievale ed i primi secoli della modernità, dopo essersi guadagnati uno statuto speciale grazie all’invenzione della stampa, alla diffusione dell’incisione ed alla riforma protestante, il nero ed il bianco finiscono col perde progressivamente il loro statuto di colori, tanto da venire letteralmente esclusi dalla nuova catalogazione derivata dalla scoperta dello spettro cromatico, poco dopo la metà del Seicento, da parte di Isaac Newton.

«Tra due secoli particolarmente oscuri, il XVII e il XIX, quello dei Lumi è una sorta di oasi colorata. […] Quasi ovunque arretrano i toni bruni, viola o cremisi, le sfumature scure e sature, i contrasti violenti in uso nel secolo precedente. Nel campo dell’abbigliamento e dei mobili trionfano le tinte chiare e luminose, i colori allegri, le tonalità “pastello”» (p. 218). Anche se tali cambiamenti sono più evidenti nelle classi sociali più elevate, sostiene Pastoureau, riflettono comunque un’atmosfera generale che, dagli anni Venti, si prolunga fino agli anni Ottanta del secolo in Francia, Inghilterra e Germania, mentre in altri paesi il legame con le tinte scure appare più duraturo.

Nella seconda metà del Settecento il nero ricompare attraverso l’esotismo: «nei decenni 1760-1780, grazie all’arte e alla letteratura nasce la moda dell’uomo nero. Sull’onda dell’esotismo viene spesso ritratto da pittori e scultori, mentre diversi romanzieri fanno delle coste africane e delle loro isole l’ambientazione ideale per storie romanzesche» (p. 225). Gli africani di pelle nera, a lungo chiamati “Mori”, nel Settecento diventano “Neri” o “Negri” e, verso la fine del secolo, con l’abolizione della schiavitù da parte della Convenzione francese nel 1794, per la prima volta iniziano ad essere definiti “di colore”: tale «assimilazione lessicale di un uomo dalla pelle nera a un uomo “di colore” sembra comunque preparare il ritorno del nero, molto prima del bianco, all’interno dell’ordine cromatico» (p. 224).

Se la curiosità per le colonie e gli africani resta un fatto abbastanza marginale, è piuttosto l’ondata romantica che attraversa l’Europa artistica e letteraria, a rivalutare, pian piano, il nero.

Alla comunione con la natura, ai sogni di bellezza e di infinito succedono idee nettamente più cupe che resteranno in primo piano sulla scena letteraria e artistica per quasi tre generazioni. Rifiutare la sovranità della ragione, proclamare il regno dell’emozione, versare lacrime e autocommiserarsi non basta più: l’eroe romantico è diventato un personaggio instabile e angosciato, che non solo rivendica “l’ineffabile felicità di essere tristi” (Victor Hugo) ma si crede segnato dalla fatalità e si sente attratto dalla morte. Fin dagli anni sessanta del Settecento – The Castle of Otranto di Horace Walpole esce nel 1764 – i romanzi “gotici” inglesi avevano imposto un certo gusto per il macabro, ma questa moda si accentua al volgere del secolo – The Mysteries of Udolfo di Ann Radcliffe è del 1794, The Monk di Matthew G. Lewis del 1795 – e con essa il nero fa il suo grande ritorno. È il trionfo della notte e della morte, delle streghe e dei cimiteri, dello straordinario e del fantastico. Satana stesso riappare e diventa l’eroe di numerose poesie e di molti racconti – in Germania quelli di Hoffmann; in Francia quelli di Charles Nodier, di Théophile Gautier e di Villiers de L’Isle-Adam. Il Faust di Goethe esercita in questo campo un’influenza notevole, soprattutto la sua prima parte pubblicata nel 1808. […] La storia si svolge in un’atmosfera particolarmente nera. Non vi manca nulla: la notte, la prigione, il cimitero, il castello in rovina, la cella, la foresta, la caverna, le streghe e il sabba, la notte di Walpurga sulle alture del Blocksberg, nelle montagne dello Harz. L’epoca di Werther sembra molto lontana, e al blu del suo abito si è sostituita, sotto la penna di Goethe, una tavolozza che più scura non si può (pp. 227-229).

Nella primavera del 2019, il parigino Musée d’Orsay ha dedicato la mostra “Le modèle noir de Géricault à Matisse” alle problematiche estetiche, politiche, sociali e razziali, oltre che all’immaginario sotteso alla rappresentazione dei “soggetti neri” nelle arti visive secondo una scansione in tre sezioni dedicate ad altrettanti periodi: l’era dell’abolizione della schiavitù (1794-1848), il periodo della “Nuova pittura” fino alla scoperta, da parte di Matisse, del cosiddetto “Rinascimento di Harlem” – movimento artistico-culturale afroamericano sorto nei primi anni Venti negli Stati Uniti – e, infine, i primordi delle avanguardie novecentesche e le successive generazioni di artisti post-bellici e contemporanei.

Anche l’abbigliamento vira al nero alla fine del Settecento per poi imporsi in Europa e negli Stati Uniti a partire dalla seconda Rivoluzione industriale fino agli anni Venti del Novecento.

È il tempo del carbone e del catrame, quello delle ferrovie e del bitume, più tardi quello dell’acciaio e del petrolio. Ovunque, l’orizzonte diventa nero, grigio, marrone, scuro. Il carbone, principale fonte di energia per l’industria e i trasporti, è il simbolo di questo nuovo universo. […] Nella tavolozza dei neri non c’è ormai più posto per la poesia e la malinconia: il carbone porta con sé il fumo, la fuliggine, la sporcizia, l’inquinamento. Il paesaggio urbano si trasforma profondamente, le fabbriche e le officine si moltiplicano, le strade cambiano aspetto, il contrasto tra quartieri ricchi e quartieri poveri si accentua: pietra bianca e vegetazione da un lato, sporcizia e miseria dall’altro. Inoltre, gli uomini con le loro attività aprono tutto un mondo sotterraneo. Non solo quello della miniera, che diventa il luogo simbolico delle mutazioni industriali e delle tensioni sociali, un luogo particolarmente oscuro e pericoloso, dove le “facce nere” rimangono vittime del grisù e della silicosi; ma anche quello dei tunnel, delle gallerie, delle officine situate nel sottosuolo e anche delle prime metropolitane inaugurate a Londra nel 1863 e a Parigi nel 1900. Si circola sotto terra, si lavora in fabbrica, si vive rinchiusi, si illumina con il gas, più tardi con l’elettricità; la luce si trasforma a sua volta e con essa si trasformano lo sguardo e la sensibilità. Mentre il sole e l’aria aperta diventano un lusso inaccessibile per una parte della popolazione urbana, nuovi sistemi di valori prendono il posto dei precedenti (pp. 232-233).

A mutare è anche l’atteggiamento nei confronti del colorito assunto dalla pelle: alla fine dell’Ottocento a preoccupare l’alta società non sono più i contadini, ma gli operai, sporchi e lividi. Se durante l’Ancien régime e fino alla prima metà dell’Ottocento, per gli appartenenti alla buona società avere la pelle chiara significa distinguersi dai contadini, a partire dalla seconda metà del secolo l’imperativo diviene quello di differenziarsi dagli operai costretti a lavorare in spazi chiusi o sotto terra,

la cui pelle non vede mai i raggi del sole. La sua carnagione e` pallida, grigiastra, inquietante. La “buona società” comincia allora a cercare il sole e l’aria aperta, inizia a frequentare la riva del mare (più tardi la montagna), diventa di bon ton esibire un colorito abbronzato e una pelle liscia. Queste pratiche e questi nuovi valori si accentuano nel corso dei decenni e raggiungono a poco a poco le classi medie agiate; l’importante è non essere scambiati, a qualunque costo, per un operaio! La cosa dura per diversi decenni. Tuttavia, dopo la Seconda guerra mondiale, quando le vacanze al mare e la pratica degli sport invernali a poco a poco si democratizzano e si estendono, negli anni Sessanta e Settanta, a una parte delle classi inferiori, la “buona società” volta progressivamente le spalle all’abbronzatura, ormai alla portata di tutti, o quasi. È molto più chic non essere abbronzati, soprattutto al rientro dal mare o dalla montagna (pp. 234-235) .

A partire dalla seconda metà dell’Ottocento, dunque, le città industriali europee “cambiano colore” a causa del carbone, del fumo e della fuliggine.

Da qui la permanenza negli abiti maschili di colori scuri, in particolare il nero, troppo caro per essere portato dagli operai – le loro tenute da lavoro sono blu o grigie – ma che negli uffici e nel mondo degli affari diventa una specie di uniforme. Questo nero dell’abito si vuole serio e austero e in parte è legato a una solida etica del lavoro che per vari decenni, fino alla Prima guerra mondiale e anche oltre, resta diffusa nel mondo delle banche e della finanza, negli uffici ministeriali e della funzione pubblica, nonché in quelli amministrativi e nelle società commerciali. Questa etica vieta i colori troppo vivaci o troppo vistosi, e considera il nero l’unico segno di serietà e di autorità. Per questo motivo viene usato da tutti coloro che detengono un potere o un sapere: giudici, magistrati, avvocati, professori, medici, notai, pubblici ufficiali (p. 236).

Anche le professioni che richiedono un’uniforme, come poliziotti e gendarmi, fanno uso del nero, almeno fino ai primi decenni del Novecento, quando inizia ad imporsi il blu oltremare, “meno severo” e, pragmaticamente, meno soggetto a mostrare la polvere. Per certi versi il ricorso al nero in ambito lavorativo sembra ridurre le barriere sociali: è utilizzato tanto dai borghesi quanto dagli appartenenti all’alta società, è il colore degli abiti da cerimonia ma al tempo stesso anche quello dei domestici.

Fin dal Cinquecento la riforma protestante impone ad ogni buon cristiano l’allontanamento dai colori troppo vivaci e la preferenza per le tinte sobrie, soprattutto nere/grigie (ma anche bianche) e tale preferenza resta in vigore ancora nella produzione su larga scala di oggetti di consumo di massa delle industrie europee e americane della seconda metà dell’Ottocento, nonostante la chimica industriale permetta già una grande varietà di colori. È il mondo della pittura che, già nell’Ottocento, decide di rispondere all’egemonia del nero optando per colori luminosi sull’onda delle teorie del chimico Eugéne Chevreul e, per certi versi, anche per rispondere alla nascente fotografia che non potendo per qualche tempo riprodurre i colori, finisce con il supportare, di fatto, come più tardi farà il cinematografo, il perdurare dell’egemonia del “bianco e nero”.

Nel corso del Novecento spetta nuovamente ai pittori andare controcorrente rispetto al gusto dominante che nel frattempo sembra aver abbandonato il nero.

Verso gli anni venti-trenta, il nero diventa o ridiventa un colore pienamente “moderno”, come i colori primari (o sedicenti tali): il rosso, il giallo, il blu. In compenso, il bianco e soprattutto il verde vengono guardati diversamente e non hanno sempre diritto a un simile statuto. […] Tuttavia, anche se i pittori sono stati i primi a ridare al nero la sua piena modernità, già alla vigilia della Prima guerra mondiale, e nel corso di tutto il secolo, sono soprattutto i designer, gli stilisti e i sarti ad assicurargli una forte presenza e a lanciare la sua moda nell’universo sociale e nella vita quotidiana. Il nero del design non è né il nero principesco e lussuoso dei secoli precedenti, né il nero sporco e miserabile delle grandi città industriali; è un nero insieme sobrio e raffinato, elegante e funzionale, gioioso e luminoso, insomma, un nero moderno (p. 250).

Dunque, anche nel mondo della moda il nero conquista centralità e sebbene il ricorso ad esso si attenui attorno agli anni Venti del Novecento, questo colore continua a restare irrinunciabile per tale settore. «Una simile predominanza del nero si osserva in altri ambiti creativi (negli architetti per esempio) o in quelli legati al denaro (i banchieri) e al potere (i “decisori”)» (p. 251). Se il nero si propone allo stesso tempo come moderno, creativo, serio, autorevole ed autoritario, esso può mostrarsi anche ribelle e trasgressivo, come attestato dall’abbigliamento adottato da diversi gruppi giovanili poco inclini a sottostare ai valori dominanti.

Poco diffusa nel XIX secolo – è per esempio assente dalle grandi rivoluzioni del 1848-1849, dove si agita solo la bandiera rossa delle forze rivoluzionarie – la bandiera nera appare più spesso nel secolo successivo, quando diventa un emblema della sinistra che si vuole più radicale di quella che sventola la bandiera rossa, come fu il caso in Francia al momento delle grandi manifestazioni studentesche del maggio 1968. Sul piano politico, questo nero ribelle e anarchico non deve essere confuso con altri neri. Da una parte il nero, nettamente conservatore, dei partiti della Chiesa, attivi e influenti nell’Europa del XIX secolo, ma in seguito più in ombra. È il nero dei curati in sottana e dell’abito tradizionale del clero. Dall’altra il nero poliziesco e totalitario delle milizie del Partito fascista italiano (le “camicie nere” organizzate dopo il 1919 per sostenere la marcia verso il potere di Benito Mussolini) e quello, più mortifero, delle SS (Schutzstaffel) e delle Waffen-SS del regime nazista, più a destra delle camicie brune delle SA (Sturmabteilung), liquidate nel 1934 (pp. 252-253).

Riservando un’attenzione particolare all’ambivalenza che storicamente ha caratterizzato la simbologia del nero – considerato sia in modo positivo (come rimando a fertilità, umiltà, dignità, autorità) o in maniera negativa (nel suo veicolare un’idea di tristezza, lutto, peccato, inferno, morte) –, oggi, sostiene lo studioso, il nero vestimentario sembra ormai aver perso quella carica di aggressività che lo ha contraddistinto in passato.

Per secoli, tutti gli abiti e i tessuti che toccavano il corpo dovevano essere bianchi o non tinti. Sia per ragioni igieniche e materiali – li si faceva bollire, cosa che li scoloriva – sia per ragioni morali, i colori vivaci […] erano considerati impuri o disonesti. Poi, tra la fine del XIX e la metà del XX secolo, il bianco degli indumenti intimi, delle lenzuola, degli asciugamani ecc. si è progressivamente colorato […] Sugli indumenti intimi hanno fatto la loro apparizione nuove tavolozze che hanno a poco a poco assunto connotazioni sociali e morali. […] In opposizione al bianco, colore onesto e igienico, il nero ha avuto a lungo la reputazione di essere indecente o immorale, riservato alle donne libertine, se non alle professioniste del sesso. Oggi non è più così. Non solo il nero non ha più alcuna connotazione che lo rinvii alla prostituzione, né alla dissolutezza, ma da una [trentina] d’anni a questa parte è diventato in Europa occidentale, al posto del bianco, il colore più portato nel campo degli indumenti intimi (p. 254-255).

Nell’immaginario contemporaneo, sostiene Pastoureau, ormai il nero continua ad essere considerato un colore pericoloso o trasgressivo solo nell’ambito dei fatti linguistici e delle superstizioni.

Essi veicolano credenze e sistemi di valori che vengono da lontano, che né i cambiamenti della società, né i progressi tecnici, e neppure le trasformazioni della sensibilità arrivano a modificare o a sradicare. In tutte le lingue europee esistono così numerose locuzioni di uso corrente che sottolineano la dimensione segreta, vietata, minacciosa o funesta del colore nero: “mercato nero”, “lavoro in nero”, “pecora nera”, “bestia nera”, “lista nera”, “libro nero”, “buco nero”, “serie nera”, “messa nera”, “essere di umor nero”, “vedere tutto nero”, “giornata nera” ecc. Espressioni simili, che mettono in evidenza un nero negativo o inquietante, si incontrano in tutte le lingue occidentali anche se a volte ci sono delle differenze tra una lingua e l’altra e per una stessa espressione il colore può cambiare. […] I proverbi e i detti popolari non sono da meno e veicolano fino a date molto recenti un certo numero di superstizioni legate al colore nero. Essi testimoniano della sopravvivenza di credenze o di comportamenti a volte molto antichi (pp. 255-256).

Secondo lo studioso il simbolismo del nero – sia negativo che valorizzante – ha ormai perso buona parte del suo vigore.

Lo “chic” che un tempo potevano rappresentare la redingote, lo smoking, l’abito o il tailleur nero ha perso terreno a causa dell’onnipresenza di questo colore negli abiti quotidiani sia maschili che femminili. L’autorità stessa non si esprime più in nero, né nei palazzi di giustizia, né sul terreno sportivo. I poliziotti e i gendarmi si vestono di blu, i giudici portano di solito abiti civili e gli arbitri hanno abbandonato il nero per ostentare colori vivaci. Così facendo, del resto, hanno perso una parte del loro potere. […] Ovunque altrove il nero sembra essere rientrato nei ranghi, come mostrano i sondaggi d’opinione sui colori preferiti. Dalla fine della Seconda guerra mondiale, in Europa come negli Stati Uniti, queste inchieste danno più o meno gli stessi risultati, a prescindere dal sesso, l’età o l’ambiente sociale delle persone intervistate. Tra i sei colori di base – blu, verde, rosso, nero, bianco, giallo, citati qui in ordine di preferenza – il nero non è né il più apprezzato (blu) né il meno amato (giallo) (pp. 257-258).

In conclusione della sua ricostruzione della storia del nero, Pastoureau si chiede se il fatto che il nero oggi venga, per la prima volta, situato a metà della gamma cromatica consenta o meno di identificarlo come un colore medio, neutro, un colore come tutti gli altri. Per certi versi sembrerebbe essere così ma, come si diceva in apertura, al di là di tutte le normalizzazioni proprie della contemporaneità, il nero sembra essere un colore ancora capace di affiancare alla sua banalizzazione-normalizzazione sprazzi di inquietudine, per quanto non del tutto immuni dall’imperante spettacolarizzazione.

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