cronaca – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 14 Dec 2025 09:25:41 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Cronaca dal terremoto a Città del Messico https://www.carmillaonline.com/2017/09/20/cronaca-dal-terremoto-citta-del-messico/ Wed, 20 Sep 2017 19:59:16 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=40787 di Perez Gallo 

[Cronaca da Città del Messico, pomeriggio del 19 settembre. Ancora si scava e si cercano persone vive tra le macerie, le vittime del terremoto del 19 settembre, di 7,1 gradi Richter, nel centro del Messico sono 225 secondo la protezione civile ma le cifre vengono aggiornate continuamente]

Scrivo a caldo. Perché non riesco a dormire. O forse perché solo così riesco a tenermi nella mente le cose più orribili che ho visto in vita mia. 19 settembre 1985: un terremoto devastante distrugge Città del Messico. 19 settembre 2017: 32 anni [...]]]> di Perez Gallo 

[Cronaca da Città del Messico, pomeriggio del 19 settembre. Ancora si scava e si cercano persone vive tra le macerie, le vittime del terremoto del 19 settembre, di 7,1 gradi Richter, nel centro del Messico sono 225 secondo la protezione civile ma le cifre vengono aggiornate continuamente]

Scrivo a caldo. Perché non riesco a dormire. O forse perché solo così riesco a tenermi nella mente le cose più orribili che ho visto in vita mia. 19 settembre 1985: un terremoto devastante distrugge Città del Messico. 19 settembre 2017: 32 anni esatti dopo, un altro terremoto devastante distrugge Città del Messico. La ricorrenza è stata la prima cosa notata e sottolineata da tutti dopo che per un minuto, o forse un minuto e mezzo, in ogni caso un tempo che ci è sembrato un’eternità, ci ritroviamo in strada, spaesati, confusi, spaventati. Proprio per la ricorrenza, in mattinata, c’è stata una prova antisismica: dei miei amici che studiavano in biblioteca, all’UNAM, sono stati fatti uscire. Nemmeno 3 ore dopo, alle 13.15, ci stavo per andare anch’io all’UNAM, mi stavo giusto preparando. Alle 14 avevo un’assemblea degli studenti di posgrado (master e dottorato) in preparazione per la manifestazione per Ayotzinapa del 26 settembre (sì, settembre è un mese funesto per questo paese disgraziato); alle 16.30 era previsto, a scienze politiche, un incontro con Raúl Zibechi… E invece, d’un tratto, le finestre di camera mia sbattono forte, fortissimo. “Cazzo, ma oggi tutto sto vento non c’è…”. D’improvviso mi precipito fuori, in cortile. Dall’altro lato della casa fanno la stessa cosa i miei coinquilini Hektor e David: “no mames, lo sentiste?”. Schizziamo in strada. Le case della via ondeggiano, si aprono e chiudono a fisarmonica. Tutto il vicinato è in strada. Mando immediatamente un messaggio vocale ai miei, per avvertirli che c’è stato un terremoto, che riceveranno presto la notizia dai giornali, e che sto bene. Un messaggio identico lo avevo mandato la sera del 7 settembre, ma stavolta non si invia, non c’è linea. I cellulari non vanno, non va internet, è saltata l’elettricità, in tutta la città. Una città da 20 milioni e passa di abitanti è totalmente al collasso.

In fondo alla strada, vediamo che dei vicini hanno acceso una radio, l’hanno messa sul cofano, e si sta raggruppando un po’ di gente lì intorno. Andiamo anche noi. Dicono che l’epicentro sia a Puebla, e che la scossa è di 7.1. Merda… Poi viene fuori che l’epicentro è nel Morelos, ma vicino alla frontiera con Puebla: ancora più vicino a noi…
Visto che si sta raggruppando tutto il vicinato, ansioso per i propri cari (un signore ci dice che nel terremoto di 12 giorni fa era morto un suo zio), decidiamo di tornare a casa e preparare un café de olla per tutti, nell’attesa di informazioni. Fino a quando non le avremo, infatti, si può fare ben poco. La linea internet si recupera per alcuni minuti, tempo di mandare qualche messaggio. Poi si perde di nuovo. Nelle varie chat non rispondono all’appello gli amici Bogart e Tonantzin, e qualcuno sta iniziando a pigliarsi male. Poi la connessione si perde di nuovo. Solo molte ore dopo sapremo che stanno bene pure loro. Iniziano ad arrivare informazioni: è crollato un supermercato a Tasqueña e una scuola in Divisiòn del Norte angolo con Calzada de las Brujas. Optiamo per la scuola: recuperiamo 5 litri d’acqua, dei caschi da bici, e delle mascherine, e poi con un compa del barrio ci avviamo tutti assieme in taxi. In strada si va a passo di lumaca, le vie principali sono completamente intasate, e il fatto che i semafori non funzionino per nulla non aiuta. A un certo punto decidiamo che è più comodo a piedi, e ci mettiamo a correre, alternandoci con la tanica d’acqua.

(nella foto: escuela colegio Enrique Rebsamen, Città del Messico, si riportano 21 bambini morti e 4 adulti, una trentina sono “non localizzati” per cui continuano le ricerche)

Avvicinandoci si vede come la situazione si fa tesa: los topos, brigate specializzate in questo tipo di aiuti, corrono a perdifiato nelle loro moto, la gente accorre, e corre, da tutte le parti. Una ragazza si mette in mezzo alla strada e urla a tutti di recuperare materiale, qualunque tipo di materiale. Di fianco a noi c’è un ferramenta, vuoto. Gli prendiamo in “prestito” una sega. Chiediamo ai vicini e ci danno una corda. Ricominciamo a correre. Poco a poco dei motociclisti ci danno dei passaggi, e da lì ci perdiamo definitivamente. Nel momento in cui scrivo non ci siamo ancora ribeccati.
All’arrivo sul posto il caos regna. Ci sono già migliaia di persone, e barricate che impediscono di entrare nella via della scuola perché è già congestionato. Non c’è polizia, qualunque istituzione è perfettamente assente. C’è solo il pueblo, tanta gente generosa e di buona volontà. A me e tanti altri che sono rimasti fuori ci tocca recuperare materiale in giro: corriamo un paio di vie di lato, che ci sono le transenne di un cantiere. Vanno giù di volata, manco si stesse facendo un riot. E magari si stesse facendo un riot…

Ad aiutare ci sono tutti, donne uomini vecchi bimbi. Ognuno fa quel che può. Tiro in mezzo due ragazzini un po’ spaesati e andiamo assieme a cercare altro materiale. I vicini in poco tempo ci danno pale, secchi, corde, e così fanno con tante e tanti altri. Lasciamo due spicci alla gente che recupera materiale medico in farmacia e ci catapultiamo sul posto. Ci fanno passare e arriviamo fino all’esterno della scuola, o meglio dell’ala della scuola che è completamene venuta giù. Di mezzo riconoscibile c’è solo l’ultimo piano, il quarto se non ricordo male, che poggia, dal lato in cui sono, su un’automobile distrutta, i piani sotto si sono completamente sgretolati. L’automobile, per di più, ha l’allarme spianato, cosa che ostruisce i tentativi di sentire se qualcuno da dentro sta gridando aiuto. Ci vogliono troppi minuti prima che qualcuno non riesca a spaccare il cofano a picconate tanto da far smettere l’allarme. Inorridisco. Però per un attimo, perché guardandosi intorno si vede che c’è ben poco tempo da perdere per inorridirsi. Mai come questa volta penso che ogni piccolo gesto, ogni secondo, è prezioso. Quello che è difficile, in quel delirio, è capire cosa è utile fare, considerando che tutto ciò che non è utile è d’impiccio. Mi affanno a trasportare cose, cose, cose di qui e di là: acqua, secchielli, picche, pale.
Finisco non so come su un altro lato della scuola, quello che da verso il cortile. C’è una totale congestione tra un paio di ambulanze e un trattore che sta provando a buttare giù il muro del cortile per permettere alle ambulanze di entrare. Mentre il trattore e una dozzina di persone pensa a buttare giù il muro, afferro una pala e con tanti altri spalo come non ci fosse un domani le pietre del muro che crolla, mentre altra gente porta secchi, e poi ne porta ancora ancora ancora. Vengo distratto appena un secondo da una donna che urla disperata, inconsolabile. Qualcuno mi dice che ha un bimbo sotto le macerie. Non ho mai visto tanto dolore atroce sul volto di una persona. Immagino mia madre quando ha visto la sua prima figlia morire nella culla a due mesi. Ma poi l’adrenalina ha il sopravvento e ricomincio a spalare. Carichiamo i pezzi di muro sul trattore e, dopo un tempo che sembra interminabile, mi ritrovo all’interno del cortile. Stavolta l’ala della scuola distrutta la vedo dall’interno.
Anche nel cortile centinaia, forse migliaia di persone. Finalmente il governo pare essersi svegliato, e cominciano ad arrivare in forze la polizia federale e la marina militare. Facendo più danni che altro, in realtà, perché in termini di aiuto concreto fanno ben poco, e le poche cose buone le fanno eseguendo gli ordini di chi si sta facendo il mazzo da ore. Ma il loro ruolo è, come sempre, controllo e ordine, per cui incominciano a incordonarsi per impedire ad altre persone di entrare. A un certo momento vedo un federale correre con un mitra puntato: io e il mio vicino ci guardiamo, e ci domandiamo quale razza di idiota può mettersi a correre con un’arma in quella situazione.
Vedo che quello che più si richiede è di tagliare dei pali di legno in varie misure, per fare delle specie di treppiedi che reggano quel che resta della scuola mentre protezione civile (o qualcosa del cenere) e cani si mettono a cercare nelle macerie. Creiamo una piccola equipe e ci mettiamo a misurare pali e tagliarli con una sega elettrica. Ogni tre per due parte il grido collettivo e un coro di braccia in alto: “silenzio!”. Sono i ripetuti tentativi di sentire le urla da dentro. In quei momenti la sega elettrica deve tacere e ci diamo il cambio con la sega normale. Noto subito come sia impedito in questo genere di cose e lascio l’incombenza ad altri. Ogni tanto si sente un urlo di gioia: vuol dire che è stato salvato un bimbo!
Io incomincio ad avere giramenti di testa: sono stanco, ho mangiato poco, sono teso. Vago qualche minuto nel nulla e poi capisco che in quelle condizioni non servo a nulla, quindi faccio per allontanarmi. Esco dal cortile in direzione delle ambulanze e vengo sommerso dalle grida: “serve insulina! Servono bombole d’ossigeno, bombole d’ossigeno!”. Mi dirigo fuori e incomincio a urlare alla gente di cercare un ospedale, perché solo lì si trovano le bombole d’ossigeno. Qualcuno dice che ce n’è uno a quattro isolati e ci mettiamo a correre. Per strada in tanti si uniscono fino a creare un gruppo di 20-25 persone. Correndo, passiamo davanti a un altro edificio completamente pericolante. Arriviamo finalmente all’ospedale, chiediamo ste benedette bombole e ci fanno fare una trafila estrema: un’infermiera dice a un’altra di portarci al primo soccorso, questa prova a contattare i superiori che non si capisce ma sembrano irreperibili. Nel frattempo altri 20 tra medici e infermieri se ne stanno con le mani in mano e con la faccia da ebete. Una dottoressa particolarmente arrogante ci intima di sederci. Sederci!? Non ci possiamo credere. Dopo dieci minuti buoni, e quando le nostre insistenze arrivano al colmo, spunta fuori un responsabile che ci dice che non ci possono dare bombole perché non ne hanno un numero infinito. Che vogliamo fare, l’ospedale è privato e ci manca solo che regala delle bombole d’ossigeno! Per loro il terremoto, alla fin fine, è profitto. Manca poco e scoppia una rissa. Io minaccio personalmente di denunciarlo se non ci da delle bombole in quel preciso momento. Poi rifletto su quanto ridicola sia la mia minaccia nella capitale mondiale dell’impunità. Per tutta risposta il dottore mi dice che devo essere io responsabile di riportargliele dopo vuote. Un tipo si inalbera e dice: “il responsabile, semmai, è Peña Nieto!”. Dopo un’incazzatura collettiva che la metà basta ci danno finalmente due (DUE!!!!) bombole d’ossigeno e un po’ d’insulina. Insistiamo perché vengano dei pediatri e dobbiamo quasi fare a botte perché lo accettino.
Corriamo come dei pazzi per dare le bombole, e le file di militari incordonati si polverizzano per farci passare. Dico a uno di loro che farebbe bene a mandare una pattuglia in quell’ospedale e a prendergli le bombole con la forza, e lui sembra pure ascoltarmi tutto serio. Quanto mi sento ridicolo…
Stremato, mi metto a cercare da mangiare con due tizi che erano con me all’ospedale, Fabricio e sue figlio Edwin. Non c’è un negozio aperto, niente cibo di strada. Finisce che mi invitano a casa loro, a due isolati dalla scuola, e mi offrono un panino e dell’acqua. Fabricio dice che ha sentito la scossa più forte che nell’85. Sono ormai le sette e mezza ed è da più di cinque ore che sono lì. Sta iniziando a fare buio, e il buio di una città senza elettricità è interrotto solo dalle luci di polizia e ambulanze e dalle centinaia di torce che vengono recuperate da ogni dove, e che diventano rapidamente la necessità più urgente. Ma col buio viene anche il freddo e io sono in canottiera, per cui gentilmente mi regalano una giacca. Mi riavvicino alla scuola: con la giacca in mezzo a tutta quella gente ho un caldo pazzesco, quindi torno fuori, mi metto in strada e comincio insieme ad altri a fermare tutte le macchine che passano, perché vadano a recuperare luci, torce, insulina, dolci calorici. O, se possono passare da un’ospedale migliore, bombole d’ossigeno. In tutte le vie intorno alla scuola siamo migliaia e migliaia: la gente si mette in fila e passa di mano in mano una moltitudine di oggetti di qualunque tipo. A un certo punto corre la notizia che è crollato uno, o forse due edifici, in un viale lì vicino. Con tre ragazzi automuniti decidiamo di muoverci verso di là, che alla scuola c’è un sacco di gente e pare che lì serva più aiuto. Ma nel secondo posto la situazione è ancora più inaccessibile: i federali hanno fatto un gran cordone, una vera e propria barricata, e nessuno si può avvicinare. Ci tocca di nuovo cercare cibo, acqua, luci e materiale medico. Ma è tutto chiuso. Nel frattempo in un rapido momento in cui mi prende internet, ricevo messaggi da decine di persone. Comincio a rispondere ma presto internet finisce di nuovo. E per giunta mi si scarica la batteria. Chiedo a degli sbirri se possono caricarmelo un po’ nella loro macchina e mi viene concesso. Mi raccontano che in città ci sono 38, o forse 41 edifici crollati, e che nella scuola sono morti 10 bimbi e 3 o 4 maestre, ma ci sono ancora parecchi bimbi intrappolati. Il numero, per quel che ho visto, mi sembra basso. Solo ora vedo che le vittime sono 26.
Vado, stremato, alla ricerca di una farmacia. L’unica della zona è completamente illuminata ma chiusa. Ci avviciniamo in 5 o 6 chiedendo di entrare. La farmacista, o la dipendente, o salcazzo cosa, fa spallucce e giochicchia col cellulare. Incominciamo a bussare e sbattere la porta: “non sapete che c’è stato un terremoto!?”, gridiamo tra il comico e il tragico. Si avvicina uno sbirro con il mitra, minaccioso. Ce ne andiamo disgustati: gli ospedali privati vedono il terremoto come un profitto, e lo Stato manda i federali a difendere in armi le farmacie in quella situazione, forse con la paranoia che le assaltino? Dicono che più avanti c’è un supermercato, un Sanborns, il più di lusso del Messico, che ha una farmacia poco munita e dei dolci mediocri carissimi, e ovviamente, per non deludere le attese, fa pagare tutto fino all’ultimo peso. Dopo aver ricaricato ancora un po’ il cellulare nella macchina di un tizio, trovo un’isola in cui va internet, e mi metto a rispondere ai vari messaggi di gente preoccupata per me. Poi porto il mio malloppo di spesa sul posto, prendo un taxi e un paio di passaggi in autostop e arrivo a casa. Noto con piacere che nel mio quartiere l’elettricità è tornata, ma la casa è vuota. David è andato a dormire dalla cugina, Hector e l’altro coinquilino, l’argentino Dardo, sono andati a dare una mano in un altro posto. Indeciso sul raggiungerli, inizio a riscaldarmi il risotto avanzato da ieri e di colpo la luce va via di nuovo. Con il cellulare nuovamente scarico, mangio, mi bevo una birra, e mi sdraio sull’amaca. Sto per addormentarmi che la luce mi riscuote d’improvviso. Apro il pc, rispondo a un po’ di gente e leggo le notizie. E comincio a scrivere queste righe, o meglio queste pagine chilometriche. Nel frattempo Dardo ed Hector tornano, e Hector mi racconta come è andata la sua giornata alla scuola: mi dice che ha tirato fuori una bimba dalle macerie, viva. E che però, quando poco dopo stavano tirando fuori un cadavere vicino a lui, non ha più retto ed è andato a dare una mano da un’altra parte.
Lo sgomento è tanto, e domani non sarà una giornata facile. Tra il 19 settembre 1985 e il 19 settembre 2017 in Messico è stato un susseguirsi, un’escalation, di riforme neoliberiste lacrime e sangue, di assassini di donne perché donne, di aumento della povertà, di furto e devastazione della terra, di sparizioni forzate. Nell’ultimo mese, tra Messico e Caraibi, ci sono stati 5 uragani e due terremoti. “Pobre México, tan lejos de Dios y tan cerca de Estados Unidos”, diceva qualcuno. Domani torniamo a rimboccarci le maniche; e speriamo davvero che da domani cominci un’altra musica.

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“Se mi uccidono”: femminicidi e violenza di genere all’università https://www.carmillaonline.com/2017/06/06/vivas-femminicidio-rivittimizzazione-ribellione-universita-simematan/ Mon, 05 Jun 2017 22:00:29 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=38704 di Caterina Morbiato*

Lesvy Berlín Osorio: #SiMeMatan

Sono le due di pomeriggio del 5 maggio. Il corteo inizia a muoversi dalla facoltà di Scienze Politiche lungo, rabbioso. Avanza lento e grida forte. La testa è formata da un contigente di sole donne, gli uomini sono ammessi ma devono restare nella parte posteriore. Quando svolta verso la zona delle facoltà scientifiche il passaggio si restringe e i corpi si comprimono, il passo rallenta mentre i tamburi della batucada e centinaia di lingue pestano nelle orecchie: “non una di più: non una assassinata in [...]]]> di Caterina Morbiato*

Lesvy Berlín Osorio: #SiMeMatan

Sono le due di pomeriggio del 5 maggio. Il corteo inizia a muoversi dalla facoltà di Scienze Politiche lungo, rabbioso. Avanza lento e grida forte. La testa è formata da un contigente di sole donne, gli uomini sono ammessi ma devono restare nella parte posteriore. Quando svolta verso la zona delle facoltà scientifiche il passaggio si restringe e i corpi si comprimono, il passo rallenta mentre i tamburi della batucada e centinaia di lingue pestano nelle orecchie: “non una di più: non una assassinata in più! Non è stato un suicidio: è stato un femminicidio! No no no, non è un caso isolato: i femminicidi so-no-un-cri-mi-ne-di-Sta-to!” Da quanto gli stessi slogan? Ci sono momenti in cui la loro interminabile ripetizione provoca uno smarrimento profondo – Applaudite! applaudite! non smettete di applaudire che il maledetto machismo deve morire! – e la sensazione che le cose non potranno mai migliorare può diventare devastante. La notte tra il 2 e il 3 di maggio Lesvy Berlìn Osorio è stata assassinata nell’area della facoltà di Ingegneria dell’Università Nazionale Autonoma del Messico (UNAM). Il suo corpo esanime è stato ritrovato legato a una cabina telefonica con il cavo dell’auricolare. Secondo i primi accertamenti Lesvy sarebbe rimasta fino alle quattro di notte nelle strutture dell’università in compagnia di alcuni amici e del suo ragazzo. I due si sarebbero poi separati dopo un litigio.

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“Il giorno dei fatti la coppia si era riunita con vari amici nell’università, dove si sono alcolizzati e drogati”

“La madre e il fidanzato assicurano che lei non studiava più dal 2014 e aveva smesso di frequentare il CCH Sur (scuola superiore) dove era ripetente in varie materie”

“Il fidanzato, con cui viveva la vittima, ha informato che lavora nell’area amministrativa della Preparatoria 6 (scuola superiore)”

A poche ore dall’identificazione di Lesvy, la Procura di Città del Messico provvede a diffondere questi tweet: non informazioni rivelanti sugli eventuali sviluppi dell’indagine, ma dettagli della vita personale della vittima. Dettagli che vengono utilizzati per spiegare (legittimare?) il delitto, facendo leva su quell’universo di stereotipi e pregiudizi di cui si nutrono le costruzioni del genere. Dettagli che propiziano nuove forme di aggressione, che esibiscono e vittimizzano Lesvy  per una seconda volta: una dinamica fin troppo comune nei casi di femminicidio. Varie testate giornalistiche e media digitali si affrettano a replicare i dati diffusi dalla procura anche se poi c’è chi farà autocritica, chiedendo scusa per la mancanza di professionalità e sensibilità. Lo stesso farà la Procura, la cui responsabile dell’area comunicazione si dimette dopo pochi giorni.

In reazione ai tuits centinaia di donne iniziano a diffondere l’hashtag #SiMeMatan (Se mi uccidono), elencando una serie di dettagli della loro vita personale per cui dovrebbero, secondo la logica imbastita dalla retorica della procura, meritarsi la morte: se mi uccidono è perché uso gonne corte e scollature, perché mi ubriaco, perché mi piace viaggiare da sola, perché sono bisessuale, perché dico NO quando lui vuole che sia un si. Se mi uccidono è per i miei tatuaggi, perché vado a far festa con le mie amiche, perché ho avuto relazioni prima del matrimonio e ho debiti con la banca.

Non importa che siano messaggi grondanti dolore e rabbia, non mancano le varie soggettività maschili che colgono l’occasione al volo per far parlare di sé, stravolgendo il significato della protesta: “#SiMeMatan rivivo”, scrive in un tweet Pascal Beltràn del Rìo, direttore della testata nazionale Excelsior, mentre Fernando Belaunzaràn, politico del Partito della Rivoluzione Democratica (PRD), esordisce: “#SiMeMatan che sia per amore”. Entrambi si commentano da soli.

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Centinaia di donne e decine di uomini sono riunite intorno a una cabina telefonica. Qualcuna legge delle testimonianze in ricordo di altre donne uccise: la voce spesso si impiastra di lacrime e muco e allora cori energici – Non sei sola! Non sei sola! – si innalzano per abbracciare simbolicamente chi non ce la fa a contenere l’emozione. C’è un altare improvvisato con candele e fiori e cartelli rosa: Lesvy è stata ammazzata qui. Aveva 22 anni, era una accanita lettrice e amava le lingue: parlava inglese, catalano, rumeno. Era figlia di madre messicana e padre guatemalteco. I risultati della sua autopsia hanno confermato segni di tortura e la morte per strangolamento: è stato un femminicidio e non un suicidio come inizialmente, per quanto inverosimile possa suonare, avevano ipotizzato le autorità.

Caso Perelló: se non c’è cazzo, non c’è stupro

È il 28 di marzo 2017 e dalle frequenze di Radio UNAM, la stazione radiofonica dell’Università Nazionale Autonoma del Messico, la voce ruvida di Marcelino Perelló Valls inonda l’etere. È l’ora di “Sentido Contrario” (Contromano), la trasmissione che conduce da quasi sedici anni.

“Lo stupro implica necessariamente il cazzo. Se non c’è cazzo, non c’è stupro. Cioè: con pali di scopa, dita e vibratori non esiste stupro. Semmai c’è una violazione della dignità, ma di queste ce n’è di vario tipo. Per esempio se ti spalmano in faccia merda di cavallo”.

Per quasi tre ore, il conduttore radiofonico nonché ex lider del movimento studentesco del ’68 e accademico dell’UNAM, passa in rassegna diversi casi di abuso sessuale avvenuti di recente nel paese, facendosi beffe delle donne coinvolte e ridicolizzando le loro azioni di denuncia.

“Succede soprattutto con le donne fighe, e non c’è nemmeno bisogno di strappargli i vestiti di dosso: il fatto è che gli piace. Ci sono donne che hanno avuto un orgasmo solamente quando sono state violentate. È registrato nella letteratura specializzata. Ti hanno stuprato e quindi godi”.

Tra una risata e l’altra si impegna a commentare la violenza sessuale commessa all’inizio del 2015 ai danni di Daphne Fernández (minorenne al momento dei fatti) da parte di quattro giovani, figli di influenti imprenditori e di un politico dello stato di Veracruz. Il giudice che segue il caso, che in Messico è conosciuto come il caso de Los Porkys, ha da poco assolto uno degli indagati dal delitto di pederastia: a suo giudizio l’imputato avrebbe agito “senza lascivia e senza l’intenzione di arrivare alla copula vaginale, orale, né anale”, quindi l’abuso sessuale non sarebbe pienamente dimostrabile.

Secondo il giudice la “sola” introduzione delle dita nella vagina della ragazza e il palpeggiamento dei seni non sarebbero elementi sufficienti per comprovare l’abuso sessuale e poco importa se l’articolo 190 quater del Codice Penale dello Stato di Veracruz prevede una condanna fino a dieci anni per chi “senza arrivare alla copula o all’introduzione vaginale, anale o orale, abusi sessualmente di un bambino, bambina o adolescente o lo obblighi, lo induca o lo convinca a eseguire un qualunque atto sessuale in circostanze pubbliche o private”. Poco importa perché è l’impunità a dettar legge, specie quando gli imputati sono persone che si muovono nelle alte sfere del potere, ancor di più quando si tratta di casi in cui le vittime sono donne.

Non è la prima volta che Perelló si diletta in quest’attività di cui sembra andar piuttosto fiero. Nel suo account twitter il professore si è più volte dichiarato uno “stupratore compulsivo” e anche ora ci tiene a dire la sua, facendo inoltre sfoggio di una solida formazione in materia. La “letteratura specializzata” – dice – gli dà ragione: “se non c’è cazzo, non c’è stupro”.

“Se ti offende tuo figlio o tuo marito, allora sì che è un casino. Se ti offende qualcuno che rispetti. Ma se ti offende un coglione per la strada, o anche se ti introducono le dita: l’unica preoccupazione è se erano pulite o no”.

“Ma allora, perché ti metti le gonne corte? Perché ti si vedano o non ti si vedano le gambe? La prossima volta che esci in strada mettiti un’armatura, figlia di puttana!”

Questa volta però il fine esercizio ermeneutico del professore provoca un’ondata di disgusto nelle reti sociali e diventa presto trending topic. Tra le tante voci che si alzano ripudiando la violenza verbale dell’accademico c’è chi decide di non fermarsi ai tuits: il 17 di aprile un gruppo di femministe consegna alla UNAM una petizione firmata da quasi 12mila persone per esigere l’allontanamento di Perelló dalla Radio e la sua destituzione dall’incarico di docente che svolge presso la Facoltà di Scienze.

Passano i giorni e il 5 di maggio la UNAM annuncia che dal 26 di aprile Marcelino Perellò Valls non lavora più per l’università. Il 26 di aprile Perellò ha effettivamente smesso di lavorare alla UNAM, ma dopo aver lui stesso data per terminata la sua relazione con l’università: manovra che gli ha permesso sottrarsi alle evenutali sanzioni. Non solo la comunicazione da parte dell’università arriva dieci giorni dopo, ma le querelanti vengono informate della notizia leggendola nei media e non attraverso una risposta ufficiale dell’istituzione.

Violenza all’università

Anche di fronte al femminicidio de Lesvy Osorio la reazione della UNAM (Universidad Nacional Autonoma de México, la più grande dell’America Latina) è stata tiepida: nel comunicato ufficiale diffuso subito il ritrovamente del cadavere della ragazza si leggeva che l’università “ripudia ogni tipo di illicito commesso” all’interno delle proprie installazioni. Ora, riferirsi a un assassinio come a un illecito non sarà giuridicamente erroneo però genera una minimizzazione del delitto. Significa impiegare un eufemismo per nominare una violenza grave che, inoltre, succede con preoccupante frequenza dentro gli spazi universitari. Di fatti quello di Lesvy non è il primo femminicidio che vede coinvolta una delle più importanti università del paese, solo nel 2002 in meno di un mese vennero ammazzate due ragazze poco più che ventenni: Areli Osorno Martìnez, 26 anni, studentessa di Ingegneria, assassinata da un altro studente e Cristel Estibali Alvarez, 21 anni, studentessa di Scienze, assassinata anche lei da un compagno di studi.

L’area delle facoltà scientifiche è stata segnalata come una delle dipendenze dell’università in cui si registrano più casi di molestie. Il passato 19 aprile, appena due settimane prima che Lesvy fosse ritrovata strangolata con un cavo del telefono, un professore della UNAM aveva denunciato attraverso le pagine del quotidiano nazionale La Jornada l’insicurezza e gli abusi che vivono sulla propria pelle le studentesse e ogni donna in generale che transitano nella zona delle facoltà di Ingegneria e Chimica.

Femminicidi, molestie, violenze sessuali e psicologiche, mobbing, ricatti sessuali, minacce: i casi di violenza di genere che si consumano all’interno del perimetro universitario sono svariati e numerosi. Inutile dire che nella maggior parte degli episodi le vittime sono donne e che spesso i soggetti responsabili delle violenze sono docenti che abusano della propria posizione di potere, proteggendosi dietro alla logora maschera di ottimi docenti, luminari, uomini dalla traiettoria accademica brillante.

Nel 2013 la Commissione Nazionale per i Diritti Umani (CNDH) ha per la prima volta emesso una raccomandazione nei confronti dell’università per il caso di un professore di una delle scuole superiori appartenti al sistema UNAM: il docente aveva cercato di ricattare sessualmente una sua alunna minorenne in cambio della promessa di aumentarle la valutazione di un esame.

Anche se esiste il diritto a un accesso trasparente alle statistiche degli abusi, per cui chiunque può presentare un richiesta formale ai rispettivi organismi universitari, una semplice ricerca in rete apre le porte al caos. I dati sono confusi e alle volte contradditori. Questo può essere dovuto in parte al fatto che la UNAM si è dotata solo in tempi recenti, nell’agosto del 2016, del Protocollo di Assistenza ai Casi di Violenza di Genere, e che questo meccanismo di prevenzione, attenzione, sanzione e gestione dei casi di violenza non stia funzionando ancora con celerità e precisione. D’altra parte i dati duri non sono mai degli strumenti neutrali e il loro utilizzo, a seconda delle circostanze, può essere un’arma a doppio taglio: una cifra “pulita” e presentata con rigore parlerebbe di un’istituzione che si impegna a fare i conti con la situazione di crisi che sta vivendo, ma potrebbe anche mostrare l’ambiente universitario come un nido di violenze, attentando alla sua immagine pubblica.

Detto ciò è utile ricordare che, per quanto le stime possano diventare accurate, queste solitamente non rispecchiano la totalità delle violenze dato che molte non vengono denunciate per paura di rappresaglie, per vergogna del possibile stigma sociale e anche per la complessità dei procedimenti legali, spesso farraginosi e sfiancanti.

Secondo dati diffusi dall’Unità di Assistenza e Monitoraggio di Denunce della UNAM dal 2003 al 2016 si sono registrate 396 denunce di diversi tipi di violenza di genere: molestie, abuso, discriminazioni, atti immorali; altri dati sollecitati alla stessa Unità e resi pubblici a marzo 2017, riportano come dal 2013 al febbraio 2017 la suddetta entità abbia registrato 73 denunce: 38 di queste per molestie, mentre 35 per abuso sessuale; in 50 casi i responsabili sono stati sottoposti a una non meglio specificata “sanzione”. Un’altra richiesta di informazioni, presentata questa volta da un’accademica della facoltà di Scienze Politiche, riporta come solamente da maggio 2015 a maggio 2016 l’UNAM abbia ricevuto 85 denunce di violenza contro le donne.

 

Secondo un altro report presentato dall’università solo nel primo mese e mezzo di funzionamento del Protocollo di Assistenza ai Casi di Violenza di Genere ci sarebbe stato un aumento esponenziale delle denunce: 70 in soli quarantacinque giorni. Il Protocollo è stato lanciato in concomitanza con l’adesione della UNAM alla campagna globale della ONU #HeForShe, progettata per promuovere l’uguaglianza di genere a partire dal coinvolgimento degli uomini in quanto “agenti di trasformazione” e “alleati dei diritti delle donne”. Il programma ha raccolto numerose critiche da parte di gruppi femministi tanto per il binarismo di genere che ripropone, cioè un he e un she in cui si dovrebbero riconoscere senza esitazioni tutte le persone, come per la necessità di presentare in maniera acritica gli uomini come soggetti alleati e salvatori delle donne.

Dal canto suo, anche il Protocollo è stato duramente criticato: come sottolinea, ad esempio, il collettivo universitario No Están Solas, sono anni che le femministe si battono per ottenere una riforma della legislazione universitaria in materia di violenza di genere, ma il tanto atteso Protocollo non sembra aver tenuto troppo in considerazione il lavoro svolto fino ad ora. Opacità e confusione continuano a caratterizzare l’operato delle autorità universitarie.

Tra i punti critici del documento il collettivo segnala la mancanza di sanzioni specifiche ed esplicite per i diversi tipi di delitto; l’assenza di misure di riparazione del danno della vittima; l’obbligo di confidenzialità, un concetto confuso che potrebbe arrivare ad ostacolare la denuncia a livello sociale della violenza subita. Il Protocollo inoltre prevede sanzionare chi deposita denunce false, ma non chiarisce quali siano i procedimenti e i criteri attraverso cui si definirebbe se una denuncia è vera o falsa; allo stesso modo richiede di videoregistrare le testimonianze delle vittime, senza però giustificarne la necessità. Oltre a produrre un analisi critico del Protocollo, No están Solas ha anche accusato l’università di occultare informazioni rilevanti e di minacciare diverse docenti che aiutano i sostengono i processi di denuncia. Evidentemente la dotazione di un Protocollo per trattare le denunce di chi soffre un abuso non è una misura sufficiente, specie se non viene accompagnata da un percorso integrale che includa, ad esempio, una formazione in materia di genere rivolta al personale amministrativo e più in generale agli integranti della comunità universitaria.

Patrimonio e censura o della normalizzazione dell’orrore

La UNAM rientra tra le 50 migliori università del mondo. In Messico è considerata l’alma mater per eccellenza, culla di cultura, libertà e rispetto, ed è uno dei primi motivi d’orgoglio nazionale. Che sia un luogo consagrato alla ricerca non assicura che sia immacolato e includente. Crederlo sarebbe un’illusione. Come buona parte delle università del mondo anche la UNAM è uno spazio marcato da dinamiche di esclusione, razzismo, misoginia e machismo: le violenze avvengono anche qui dato che i ruoli stabiliti dal privilegio culturale, sociale e politico, non restano ad aspettare, obbedienti, fuori dal cancello.

Il giorno della manifestazione per Lesvy Berlín Osorio varie delle partecipanti hanno deciso di mettere la rabbia per iscritto ricoprendo le grosse lettere di plastica che, nei pressi dell’edificio del Rettorato, recitano #HechoEnCU (una buona traduzione sarebbe: “made in UNAM”). Quasi d’immediato una grossa parte della comunità universitaria, assente all’ora di manifestare contro l’assassinio della loro coetanea, si è sollevata protestando con veemenza contro “il vandalismo” delle femministe. Uniti nell’hashtag #IbuoniSiamoDiPiù, molti giovani volontari sono accorsi per ripulire il “patrimonio” vilipendiato, ossia le grosse lettere di plastica, dicendosi offesi per le azioni violente e senza rispetto delle manifestanti. Le lettere hanno presto riacquistato il loro aspetto originale: la loro materialità glielo permette. Non succede lo stesso ai corpi violentati, degradati, offesi.

Anche nel caso Perelló non sono mancate le voci solidarie che hanno invocato la libertà d’espressione, accusando di censura la sospensione del programma Sentido Contrario: non importa che Perelló abbia silenziato con il suo linguaggio violento l’esperienza delle donne, revittimizzandole e degradandole a routa libera per ore.

Anche se suona scoragginate dirlo, il fatto che anche nella “massima casa di studi” tanti abusi vengano sistematicamente invisibilizzati non sorprende più di tanto. Ciò non significa che deve sembrarci normale o inevitabile. È grave, invece: gravissimo. Perché se allunghiamo lo sguardo fuori dalla porta ci affacciamo all’orrore.

In Messico vengono assassinate sette donne ogni giorno; è un paese in cui moltissime giornaliste, attiviste e femministe vengono minacciate nei social da orde di trolls che promettono di ammazzarle o stuprarle e che inviano fotografie di corpi di donne sventrate per seminare panico e per silenziare, ancora una volta, le voci scomode che criticano lo status quo. Il Messico è un paese in cui moltissime famiglie continuano a cercare ii propri cari scomparsi: migliaia di desaparecidas e desaparecidos che abbondano sempre più di fronte alla passività complice dello Stato.

L’impunità riprodotta all’interno degli spazi universitari o la priorità data a delle lettere, o a dei muri, imbrattate con degli slogan non fanno che riprodurre e legittimare ognuna di queste violenze.

La voce di Araceli Osorio si mantiene solida di fronte alle decine di manifestanti; non riesco a non notare l’immediatezza con cui coniuga i verbi al passato quando parla di sua figlia Lesvy. Lo noto e mi dà i brividi: perché le sue parole -come lei stessa afferma- sono soprattutto parole di indignazione. Ho l’amaro in bocca: quello che è successo sembra non sorprenderla completamente perché prevale la sua consapevolezza di star vivendo in un paese squassato, perverso. “Il mio orrore è una goccia minuscola in un oceano di orrori”, dice, e la sua lucidità colpisce come un pugno alla bocca dello stomaco.

quanto vorrei essere un muro: così ti indignerai se mi toccano senza permesso

slogan scritto sul cartello di una manifestante

*Antropologa alla UNAM-Messico e collaboratrice di Carmilla. Galleria fotografica a questo link (foto di C. Morbiato e Roberta Granelli)

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Ayotzinapa due anni dopo: più di 43 motivi per continuare la lotta #Ayotzinapa243 https://www.carmillaonline.com/2016/09/27/ayotzinapa-due-anni-piu-43-motivi-continuare-la-lotta-ayotzinapa243/ Tue, 27 Sep 2016 15:00:28 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=33645 di Perez Gallo e Nino Buenaventura (da Città del Messico)

nos-faltan“Ayotzinapa non è un fatto isolato, è la viva immagine della repressione di Stato!”. È all’insegna di queste parole che si è commemorato, oggi 26 settembre, il secondo anniversario dei tragici fatti di Iguala, quando nella cittadina dello stato messicano del Guerrero, un gruppo di studenti “normalisti” (magistrali) appartenenti alla scuola rurale di Ayotzinapa – un’istituzione scolastica ereditata dalla Rivoluzione in cui gli alunni studiano per diventare maestri nelle comunità contadine e da cui uscirono figure guerrigliere rivoluzionarie come Lucio Cabañas e [...]]]> di Perez Gallo e Nino Buenaventura (da Città del Messico)

nos-faltan“Ayotzinapa non è un fatto isolato, è la viva immagine della repressione di Stato!”. È all’insegna di queste parole che si è commemorato, oggi 26 settembre, il secondo anniversario dei tragici fatti di Iguala, quando nella cittadina dello stato messicano del Guerrero, un gruppo di studenti “normalisti” (magistrali) appartenenti alla scuola rurale di Ayotzinapa – un’istituzione scolastica ereditata dalla Rivoluzione in cui gli alunni studiano per diventare maestri nelle comunità contadine e da cui uscirono figure guerrigliere rivoluzionarie come Lucio Cabañas e Génaro Vázquez – furono brutalmente attaccati dalla polizia messicana. Tre di loro, insieme ad altre tre persone che si trovavano sul luogo, incluso un quattordicenne calciatore di una squadra locale, rimasero sul terreno, uccisi da proiettili al volto. Al termine di quella notte altri 43 giovani non furono più ritrovati, e ancora oggi rimangono nell’immaginario collettivo come l’emblema di un fenomeno brutale e terribilmente comune nel Messico odierno: quello delle “sparizioni forzate”. Dal 2006, anno di entrata al potere dell’ex presidente Felipe Calderón, che iniziò la cosiddetta “narcoguerra”, ad oggi, quando ci avviciniamo alla fine del mandato del suo successore Enrique Peña Nieto, si stima che i desaparecidos nel paese ammontino a più di trentamila, anche se i numeri reali del fenomeno sono probabilmente molto maggiori, essendo la stragrande maggioranza di essi migranti centroamericani finiti nel buco nero del lavoro schiavistico per i cartelli della droga e le cui sparizioni non sono mai state registrate dalle statistiche governative.

ayotzi-2016Fenomeni, quelli delle desapariciones forzadas, che al pari delle centinaia di migliaia di omicidi, femminicidi, episodi di esproprio di terre di popolazioni indigene, e di iper-sfruttamento nelle maquiladoras (fabbriche frontaliere a capitale occidentale e manodopera a bassissimo costo tenuta docile dalla minaccia del narcotraffico) rappresentano la cifra di un Messico, e un’America Latina, socialmente dilaniato. Fenomeni per i quali, parlare di impunità suona quasi eufemistico. Il caso di Ayotzinapa, ancora una volta, ne è il simbolo drammatico, nonostante questo avvenimento, a differenza di molti altri, è riuscito nel corso degli ultimi due anni ad acquisire una rilevanza mediatica senza precedenti. Le roboanti proteste che paralizzarono il paese per gli ultimi mesi del 2014, e che nel corso del 2015 portarono la causa di Ayotzinapa in America Latina, Europa e Stati Uniti grazie a una serie di carovane organizzate dai famigliari degli studenti scomparsi e appoggiate da organizzazioni sociali di tutto il mondo, costrinsero infatti in un primo momento il governo messicano ad accettare la proposta che a condurre le contro indagini fossero gruppi di esperti internazionali e di periti forensi argentini.

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Questi ultimi, tristemente esperti in tema di desaparecidos proprio a causa della sanguinosa storia della dittatura argentina, hanno smascherato una per una le versioni che lo Stato ha cercato di portare avanti, tese a chiudere il caso sancendo la morte dei normalisti e addebitandola ora a un cartello della droga locale, i Guerreros Unidos, ora a male marce nei corpi di polizia locale del Guerrero. Tuttavia, i ripetuti tentativi di insabbiare le prove e la negazione da parte del governo alle richieste di svolgere indagini all’interno dell’esercito, la cui presenza la notte di Iguala è ormai accertata, non hanno fatto che esasperare ulteriormente la società messicana, mentre gli stessi periti, divenuti ormai scomodi, sono stati licenziati nel marzo di quest’anno.

È così che oggi, in occasione della grande manifestazione che ha attraversato Città del Messico, le richieste di “apparizione in vita” degli studenti e l’impegno ad andare avanti nella loro ricerca “fino a incontrarli”, assume un sapore di totale distacco, avversità e opposizione a uno Stato, a un
sistema politico e giudiziario marcio e corrotto. E non potrebbe essere altrimenti, è infatti di questa settimana la notizia che Luís Fernando Sotelo, giovane ricercatore universitario aderente alla Sesta Dichiarazione della Selva Lacandona, è stato condannato a 33 anni di carcere per fatti relativi a una manifestazione successiva al massacro di Iguala.

La macchia di sangue aperta ad Ayotzinapa ha così continuato ad allargarsi a dismisura nel corso di questi ultimi due anni. Lo ha fatto attraverso un pacchetto di riforme di sistema marcatamente nimg-20160927-wa0025eoliberali che porteranno alla progressiva privatizzazione dell’industria petrolifera nazionale (PEMEX), da ulteriori attacchi speculativi nei confronti dei territori e dall’implementazione di una riforma educativa che presenta numerose affinità con la “buona scuola” renziana e il cui unico vero scopo è la privatizzazione del sistema scolastico e il controllo della categoria degli insegnanti. La parte combattiva dei docenti delle scuole primarie e secondarie pubbliche, organizzata nella corrente sindacale CNTE (Coordinadora Nacional Trabajadores de la Educación), con l’appoggio solidale e militante delle comunità del Sud, hanno bloccato il Paese per tutta l’estate, occupando alcune autostrade e le piazze di alcune città e portando avanti uno sciopero ad oltranza che ha impedito la riapertura di molte scuole. La tenacia e la forza del movimento ha costretto lo Stato a reazioni violentissime, durante una delle quali, a Nochixtlán nello stato di Oaxaca, sono state assassinate dodici persone. Tuttora non vi sono colpevoli per la strage.

È in questo clima che si è aperta, con la giornata di oggi, la “settimana della memoria”, che si concluderà con il corteo del ottobre, giorno in cui si ricorda il massacro di piazza Tlatelolco, quando nel 1968 il governo diede ordine di sparare sulla folla uccidendo oltre 300 manifestanti. L’enorme corteo che oggi ha attraversato le vie della capitale, insieme alle iniziative realizzate in oltre 100 città del Messico e del mondo nell’ambito della Giornata Mondiale per Ayotzinapa-24 mesi (#Ayotzinapa243), ha dunque riportato in piazza la rabbia e l’indignazione non solo per la tragica notte di Iguala e per i 43 studenti di Ayotzinapa, ma anche per tutti quei desaparecidos senza nome e tutti i massacri di Stato rimasti impuniti, gridando a gran voce che in Messico ci sono più di 43 motivi per continuare a lottare. [Ultime due foto del collettivo “Documentación de Marchas”]

Connessioni

43 poeti per Ayotzinapa e aggiornamenti – Qui Link

Iniziative per i 24 mesi dalla desaparición dei 43 studenti: hashtag #Ayotzinapa243 #AyotzinapaDosAños

Speciale Ayotzinapa dos años: Desinformémonos

Notte di Iguala video e documenti, timeline: link 1   Link 2

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Mahahual https://www.carmillaonline.com/2014/08/31/mahahual/ Sat, 30 Aug 2014 22:00:43 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=17064 di Fabrizio Lorusso

Mahahual libro italiaPino Cacucci, Mahahual, Feltrinelli, 2014, pp. 128, € 12.

L’ultimo viaggio di Pino Cacucci si chiama Mahahual. Siamo sul Mar dei Caraibi, dove finisce il Messico e comincia il Belize e dove ancora non arrivano le grandi masse di turisti che popolano e, a volte, infestano il resto della famosa Riviera Maya, cioè il tratto di costa che va da Cancun a Playa del Carmen fino a Tulum. Mahahual è una cittadina caraibica con un migliaio di abitanti. Si trova all’estremo sudorientale della penisola dello [...]]]> di Fabrizio Lorusso

Mahahual libro italiaPino Cacucci, Mahahual, Feltrinelli, 2014, pp. 128, € 12.

L’ultimo viaggio di Pino Cacucci si chiama Mahahual. Siamo sul Mar dei Caraibi, dove finisce il Messico e comincia il Belize e dove ancora non arrivano le grandi masse di turisti che popolano e, a volte, infestano il resto della famosa Riviera Maya, cioè il tratto di costa che va da Cancun a Playa del Carmen fino a Tulum. Mahahual è una cittadina caraibica con un migliaio di abitanti. Si trova all’estremo sudorientale della penisola dello Yucatan, nello stato messicano del Quintana Roo, a circa 140 km da Chetumal e dalla meravigliosa Laguna Bacalar. Per raggiungere il villaggio si deve percorrere una strada impressionante: oltre cinquanta chilometri in linea retta tra selve e lagune conducono a spiagge bianche, da cui si scorge la barriera corallina, e a immense estensioni di mangrovie e palmeti che quasi invadono il centro abitato.

Ho scoperto questi luoghi durante un paio di brevi soggiorni: nel 2008, dopo il passaggio dell’uragano Dean che distrusse le spiagge e rase al suolo buona parte delle abitazioni nei pressi della costa, e di nuovo nel 2013, per la seconda edizione del “Festival Mahahual Cruzando Fronteras” (“attraversando frontiere”), durante la quale Pino Cacucci ha presentato il suo libro su Mahahual e il Quintana Roo. Dopo la ricostruzione degli ultimi anni, l’aspetto del paesello e del porticciolo è tornato normale, con i suoi piccoli alberghi, le caffetterie in riva al mare, con le sue acque cristalline, l’ombra paziente delle palme sulle spiagge di sabbia finissima, le sue bellezze sottomarine e paesaggistiche. A tratti la zona del lungomare e alcuni ristoranti del centro appaiono più adatti ai gusti dei turisti tradizionali ed esigenti che a quelli dei viaggiatori-esploratori e dei backpacker, ma non intaccano comunque il carattere rustico del pueblo, né sconfinano nel cattivo gusto, come invece succede in molte altre località che in pochi anni di “sviluppo” diventano irriconoscibili e invivibili. Inoltre a Mahahual le costruzioni rispettano ancora l’armonia dell’ambiente circostante, a pochi passi dal centro regnano la tranquillità e la natura incontaminata e infine non mancano le opzioni economiche per accampare e nutrirsi.

Nei racconti di Pino Cacucci, che mai si stanca di raccontare il Messico, le sue meraviglie ma anche le sue problematiche, Mahahual è un “paradiso non riciclabile”. Sopravvive in un equilibrio instabile e delicato, costantemente minacciato da tentativi di speculazione edilizia e gigantismo turistico, incompatibili con l’ecosistema e con la conservazione dell’intorno socio-culturale della zona, e dai rifiuti che minacciano la costa. “La corrente del mare porta al largo delle nostre coste i rifiuti di mezzo mondo, sono di continenti diversi perché vediamo bottiglie del Venezuela, della Spagna o degli USA, per cui il Festival è anche una riflessione su come affrontare il problema”, spiega Luciano Consoli, del comitato organizzatore di Cruzando Fronteras.

Mahahual 056 (Medium)Ma il nuovo vagabondaggio di Pino, autore di oltre venti romanzi quasi sempre legati al Messico tra cui ricordo Tina, Puerto Escondido, San Isidro Futból, La polvere del Messico e In ogni caso nessun rimorso,va oltre Mahahual e, infatti, il sottotitolo dell’edizione messicana, curata da Fundación Mahahual, è “Storie, leggende e aneddoti del Quintana Roo”. Si tratta di una zona del Messico di cui si conosce molto poco, anche se il suo passato è pieno di ribellioni, personaggi, memorie, lotte ed eventi molto interessanti. “Più conosco il Messico e più mi convinco che non basta una vita per assaporarlo tutto. Troppo vasto, troppo intenso, per giunta mutevole: mi capita di tornare in luoghi dove sono stato e riscoprirli diversi da come li ricordavo. Mahahual ha i ritmi sonnacchiosi di sempre, silenziosa e sgangheratamente genuina, il Messico come l’ho conosciuto trent’anni fa”.

Così esordisce l’esplorazione di Pino in uno Yucatan dimenticato, sempre in bilico nel corso della sua storia tra il più becero tradizionalismo sfruttatore, coloniale e patriarcale, e la ribellione dei popoli che lo abitano, maya in primis, e delle donne, dei lavoratori, così come della natura e del clima, così estremi e bizzosi in questa regione. A titolo di esempio basti pensare che, nei territori che oggi conosciamo per i siti archeologici della ruta maya, i tour sfrenati e i tragici pacchetti all inclusive, le spiagge bianche, gli ex porti di pescatori trasformati in città come Cancun e Playa del Carmen, fino a pochi anni fa vigeva ancora lo ius primae noctis o, in spagnolo, derecho de pernada, per cui i latifondisti delle piantagioni avevano il diritto di avere relazioni sessuali con le figlie dei mezzadri prima che si sposassero con un altro contadino.

Mahahual 062Antropologico, cronachistico ma soprattutto narrativo e storico, questo romanzo riscatta dall’oblio varie figure della vicenda storica locale, nazionale e mondiale: pirati, corsari, conquistatori, condottieri ribelli, indigeni e meticci, e soprattutto la gente della penisola dello Yucatan, una regione decisamente splendida e contraddittoria come tutto il Messico, soprattutto se si sconfina al di là dei circuiti tradizionali del turismo. E questo romanzo lo fa, esce dal sentiero stabilito e ci rende complici di nomadismi compulsivi nel tempo e nello spazio.

E quindi vi troviamo il rivoluzionario Felipe Carrillo Puerto e sua sorella Elvia, che fondò la Lega Femminista Contadina nel 1912. C’è Gonzalo Guerrero, spagnolo “rinnegato” che lottò e morì affianco ai maya che i suoi ex commilitoni vollero, invano, annichilire. C’è la denuncia dell’isola di plastica, estesa come il Canada, che naviga nell’Oceano Pacifico e che, sebbene in proporzioni diverse, ricorda il fenomeno del passaggio dei residui plastici e di altra natura, spesso ignota, al largo delle coste di Mahahual. E ci sono le persone che popolano questa terra con i loro aneddoti, le loro storie familiari, i ricordi e le curiosità tramandate di generazione in generazione. C’è lo strano caso dei Pesci Leone, voracissimi predatori, forse (?) fuggiti dal famoso acquario di Miami, che fanno la concorrenza ai pescatori del posto e che sono diventati, loro malgrado, vittime e prelibatezze della vendicativa cucina locale. Ci sono le esplorazioni della mitica Punta Herrero e di Bacalar, le testimonianze di famiglie e comunità, e ancora alcune cruciali verità sul cacao, sulla gomma da masticare o chicle, sulla convivenza con gli uragani e gli squali, sulla scoperta di Chacchoben-Yucatan e molte altre che la polvere del Messico e Pino Cacucci hanno di nuovo portato fino a noi.

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Diario dalla comunità di San Marcos Avilés, Chiapas https://www.carmillaonline.com/2014/06/27/diario-dalla-comunita-di-san-marcos-aviles-chiapas/ Thu, 26 Jun 2014 23:04:43 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=15717 di Marco Cavinato

San Marcos Avilés Chiapas 1Sono arrivato alla comunità di San Marcos Avilés, situata in cima a un altopiano nel cuore della Selva Lacandona, grazie a un progetto del Fray Bartolomé de Las Casas, il centro per la difesa dei diritti umani che da 25 anni dalla città di San Cristobal de Las Casas sostiene in diversi modi le vittime della violenza e della repressione nello stato messicano del Chiapas, e quindi principalmente gli indios. Da qualche anno è operativo il progetto ‘‘Bricos”, che consiste nel documentare lo [...]]]> di Marco Cavinato

San Marcos Avilés Chiapas 1Sono arrivato alla comunità di San Marcos Avilés, situata in cima a un altopiano nel cuore della Selva Lacandona, grazie a un progetto del Fray Bartolomé de Las Casas, il centro per la difesa dei diritti umani che da 25 anni dalla città di San Cristobal de Las Casas sostiene in diversi modi le vittime della violenza e della repressione nello stato messicano del Chiapas, e quindi principalmente gli indios. Da qualche anno è operativo il progetto ‘‘Bricos”, che consiste nel documentare lo stato di alcune situazioni di conflitto attraverso l’invio di ‘‘brigate civili di osservazione’’. Le brigate sono destinate alle zone nelle quali il conflitto è vivo oppure dove è latente ma la tensione è comunque alta, quindi soprattutto in quelle comunità dove vive chi ha scelto la strada dell’autonomia e della resistenza. Nelle comunità autonome, zapatiste ma non solo, il conflitto è normalmente causato da militari o paramilitari che agiscono nella zona, ma in alcune realtà, come quella di San Marcos Avilés, le ragioni sono da ricercare all’interno della comunità stessa.

Nel 1994, anno dell’insurrezione dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale, l’uomo che possedeva tutte le terre della comunità di San Marcos è stato cacciato da quegli indios che aveva sfruttato fino al giorno prima. Il possidente, poi, ha preteso una liquidazione per lasciare quei terreni ai contadini ribelli. “Abbiamo già pagato con il sangue dei nostri compagni”, è stata la risposta che ha ottenuto da loro. Da quel giorno le terre sono state dichiarate di proprietà dell’EZLN, per essere lavorate dalla gente di San Marcos che, dopo decenni di sfruttamenti e angherie, ha cominciato ad avere la possibilità di scegliere le condizioni del proprio lavoro e di beneficiare per intero dei suoi frutti. Così per un paio d’anni la comunità resta compatta e diventa una delle tante basi d’appoggio zapatiste, note anche con l’acronimo BAZ, ma nel 1996 arrivano i programmi d’appoggio del governo federale e dello stato del Chiapas, che rappresenteranno la prima causa di divisione nelle comunità autonome.

Gli indigeni che indossano il passamontagna per conquistare ‘‘terra e libertà’’, infatti, hanno conquistato un alto livello d’attenzione mediatica internazionale, troppo alto per essere repressi nel sangue secondo i “metodi” tradizionali dei governi messicani. Così, sia a livello statale che federale, il governo intraprende in Chiapas quella che viene definita ‘‘guerra sporca’’ o di bassa intensità: da una parte, paramilitari prezzolati che aggrediscono comunità e fanno sparire persone manovrati e finanziati dai partiti in un contesto di progressiva militarizzazione della regione. Dall’altra, appunto, i programmi di appoggio che prevedono aiuti economici per madri capofamiglia, per le famiglie con bambini e anziani a carico, oppure crediti e versamenti per ristrutturare casa. Insomma il governo messicano si ricorda improvvisamente dell’esistenza degli indios, in una regione che a livello nazionale ha la più alta percentuale di popolazione indigena, da sempre dimenticata, sfruttata ed emarginata, e che è anche quella meno alfabetizzata e con il più alto tasso di mortalità infantile. È quindi a colpi di puro assistenzialismo che i governi da allora cercano di fermare il dilagare degli zapatisti nelle comunità, senza presentare un solo progetto serio di sviluppo per queste.

Anche a San Marcos Avilés i programmi d’appoggio governativi hanno creato una netta divisione: dal 1996 molte persone hanno iniziato a togliersi il passamontagna e a uscire dall’organizzazione zapatista, della quale oggi fanno parte 34 famiglie: circa 140 sono invece le famiglie che si sono iscritte ai partiti politici nazionali per ricevere i loro soldi, i soldi degli stessi partiti che anche qui hanno sempre supportato i padroni delle terre e le multinazionali ai danni dei popoli che da sempre abitano queste zone. Tutto questo non rappresentava un problema di per sé per i compas (che è come i compagni zapatisti si chiamano tra loro), ma è chiaro che chi già si è venduto voglia sempre di più: quando nel 2010 hanno dichiarato che avrebbero costruito una scuola autonoma per i propri figli, come disposto dalla comandancia dell’EZLN, gli uomini passati dalla parte dei partiti (ricevere i programmi d’appoggio significa la sottoscrizione ufficiale al partito) definiti ‘‘partidistas’’ hanno utilizzato questo pretesto per presentarsi armati nelle case delle famiglie zapatiste e cacciarle nella notte.

San Marcos Avilés ChiapasSecondo quanto affermano i compas le intenzioni dei loro vicini partidistas sono chiare da anni: in nome della loro legittimità di fronte al “manipolo di testardi” che continua a far parte di un movimento clandestino di insorti, avrebbero come unico obbiettivo quello di appropriarsi di tutti i terreni appartenenti alle famiglie zapatiste. Per fare in modo che i propri figli potessero frequentare una scuola differente da quelle del “mal gobierno”, che impongono la storia coloniale e che tendono a negare le tradizioni e la cultura indigena, le 34 famiglie sfollate si sono trovate a soffrire la fame e il freddo nella notte della montagnane alcune donne hanno dovuto partorire in condizioni difficilmente immaginabili. Con il supporto delle comunità zapatiste vicine e di varie associazioni civili i compas sono potuti tornare dopo 33 giorni, trovando le loro case saccheggiate,  alcune piantagioni distrutte e il raccolto del caffè completamente sparito.

Da allora la situazione continua a essere tesa, e attualmente la principale questione (o pretesto per alimentare il conflitto) è quella legata all’elettricità che i compas non pagano al mal gobierno. Questa disobbedienza non sembra piacere ai partidistas che in varie occasioni hanno minacciato di cacciare nuvamente le 34 famiglie delle BAZ e di tagliare i cavi della luce che utilizzano. La nostra brigata di osservatori del progetto Bricos si ritrova all’alba a San Cristobal per salire su un furgoncino, pronto a lasciare la città per inoltrarsi nella selva, ed è composta da me, un tedesco, una spagnola e una venezuelana. Ci vogliono sei ore per arrivare alla comunità di San Marcos. Un compa di cui conosciamo solo il nome ci attende al municipio di Chillòn per poi salire assieme a noi sull’ultimo mezzo che si arrampica per la montagna fino ad arrivare alla cima dell’altopiano. Lì ci troviamo davanti alla escuelita autonoma, centro delle discordie del 2010, con i suoi murales in cui spicca l’immancabile faccione di Zapata. Ci siamo.

L’accoglienza è calorosa e i primi giorni scorrono pacificamente. Addirittura, durante la festa di un santo per la quale gli zapatisti hanno invitato una banda a suonare, lo spazio dedicato alle danze viene circondato da giovani appartenenti alle famiglie di partidistas che un compa, preso il microfono, invita a unirsi a loro. Per qualche ora ballano tutti insieme. Nonostante l’apparente tranquillità iniziale sono tanti i piccoli segnali che ci fanno percepire il costante stato d’allerta: ogni volta che ci muoviamo veniamo scortati da un compa e ci viene raccomandato di non lasciare la zona dell’accampamento dopo le 8 di sera.

All’inizio della seconda settimana l’uomo che assieme alla sua famiglia condivide la casa con noi ‘‘osservatori’’ ci mette al corrente di alcune voci secondo cui i partidistas avrebbero l’intenzione di tagliare alcuni cavi che portano la luce alle case delle famiglie zapatiste. La sera stessa i compas si riuniscono nella zona del nostro accampamento e improvvisamente cominciano a dileguarsi. Qualcuno ci dice frettolosamente che, in effetti, sono sorti problemi legati ai cavi della corrente, mentre un uomo esce imbracciando un fucile. Per ore non sappiamo niente di ciò che sta succedendo, e l’unico zapatista che dopo qualche ora ci raggiunge non parla una parola di spagnolo, essendo la lingua locale il maya ‘‘tzeltal’’. La ragazza spagnola giura di aver sentito degli spari. Per tutta la sera donne agitate passano con i figli per la zona dell’accampamento. Con le orecchie sempre tese ci addormentiamo a fatica senza sapere niente.

San marcos aviles 2La mattina successiva un compa ci sveglia alle 7 chiedendo a me e al tedesco di seguirlo, mentre le due ragazze restano nell’accampamento. Scattiamo su, ci infiliamo gli scarponi ai piedi, le macchine fotografiche in tasca e ci avviamo dietro di lui. Strada facendo ci spiega che, com’era stato previsto, i partidistas hanno tagliato alcuni cavi che portano luce ed energia a una decina di case di famiglie zapatiste. I compas arrivati sul posto sono stati ricevuti con un lancio di pietre, accompagnate da minacce: quando i partidistas si sono avvicinati a un secondo pilone per tagliare anche quei cavi, un gruppo di donne zapatiste li ha accerchiati per proteggerlo. Anche loro sono diventate il bersaglio di un fitto lancio di pietre e due di esse hanno riportato ferite alla testa e al corpo.

I partidistas hanno sparato alcuni colpi in aria e, nonostante la scelta degli zapatisti di non reagire alle provocazioni, per tutta la notte la tensione è rimasta alta. Ci riferiscono anche che quella stessa mattina c’è stato un altro tentativo di tagliare i cavi, non appena i compas si sono allontanati un attimo, alla fine della nottata di veglia. infine un nuovo lancio di pietre ha ferito due zapatisti. Arrivati sul posto, Luis, l’uomo che ci fa strada, ci mostra alcune pietre che sono state lanciate. C’è un tetto di lamiera sfondato da altri pietroni. Dopo aver scattato alcune foto, saliamo fino ai piloni. I cavi sono stati tagliati. Fotografiamo, documentiamo, guardiamo in alto.

Dal nulla compaiono, scendono dalla montagna una trentina di uomini, puntano decisi verso di noi, hanno in mano pietre, bastoni, fionde e qualche machete. Il compa Luis non indietreggia di un passo, e noi di certo non lo lasciamo solo. Le grida e le minacce sono soprattutto contro di me e il tedesco: ‘‘Non vogliamo gringos, tornatevene a casa vostra”. Sono istanti lunghi, densi, quelli in cui ci fronteggiano a pochi metri di distanza, puntandoci contro le fionde. A un tratto sentiamo delle grida dal basso: un gruppo compatto di compas, saranno una ventina, sta salendo verso di noi. Ci affiancano. Le due fazioni iniziano a discutere più che animatamente, e le uniche parole che possiamo cogliere in mezzo a tante frasi incomprensibili, gridate nella loro lingua, sono gli insulti. Dopo circa cinque minuti di tensione tra i partidistas compare qualcuno con una scala e un gruppo di loro si avvia verso un altro pilone. I compas ancora una volta decidono di non raccogliere la provocazione. Tra l’altro il goffo tentativo, “scala in mano”, stavolta non riesce perché l’attrezzo non è abbastanza alto. Lentamente il gruppo di partidistas si disperde e da questo momento la situazione pare sotto controllo, le cose si “normalizzano” per il resto della giornata e nei giorni successivi. Certo, continuano le minacce e le voci circa un possibile nuovo attacco ai danni dei compas, ma da queste parti ci sono abituati, sono problematiche “ordinarie”.

L’esperienza di poter condividere due settimane con queste famiglie della basi di appoggio zapatiste è stata incredibile. E incredibili sono anche la determinazione e la dignità di questi uomini e queste donne. La partenza da San Marcos è stata come un abbandono amaro, un adiós a tutte le famiglie con cui abbiamo condiviso luoghi, resistenze, speranze ma anche incertezze e inquietudini. Soprattutto per chi nel 2010 ha vissuto l’esperienza del desplazamiento, cioè la cacciata dalle proprie terre, e per i bambini ancora di più, le minacce si trasformano in paura, ma,  ascoltando le loro parole,  sembra che tutti, anche i più piccoli, abbiano compreso la portata della loro sfida. L’esperienza zapatista di costruzione dell’autonomia è qualcosa di straordinario anche per il livello di coscienza che questa gente ha acquisito. Nel mezzo della selva, in comunità tanto piccole quanto isolate e divise internamente come quella di San Marcos, si possono trovare esempi di resistenza quotidiana praticata con la massima naturalezza e consapevolezza.

I compas di San Marcos mi hanno impressionato per la lucidità con cui affrontano le situazioni di tensione e conflitto, e non si puà che ammirare la loro forza nel seguire ostinatamente il percorso dell’autodeterminazione, che per loro non è più un sogno. A chi è consapevole di questo non importa quale sia il prezzo. Tutto questo separa in modo netto i compas dai loro vicini che si sono venduti agli stessi partiti che hanno sempre favorito lo sfruttamento, l’emarginazione e l’eliminazione degli uomini e delle donne che abitano la selva. A San Marcos Aviles 34 famiglie, come migliaia di altre nel Sudest messicano, stanno combattendo quella che gli stessi zapatisti hanno definito “guerra contra el olvido” (“guerra contro l’oblio”). Non vogliono più essere dimenticati, messi da parte, in balia del proprio destino. “Mai più un Messico senza di noi” recitava uno striscione della carovana zapatista che nel 2006 percorse tutto il paese e realizzò la Otra Campaña. Chi, come i compas di San Marcos, non ha dimenticatole proprie origini, non abbassa la testa, non si lascia comprare e non si stanca di resistere, sta vincendo ogni giorno che passa. E allora ¡que siga la lucha!

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Cronaca da La Realidad zapatista, Chiapas: muore Marcos, vive Galeano https://www.carmillaonline.com/2014/05/31/cronaca-da-la-realidad-zapatista-chiapas-muore-marcos-vive-galeano/ Fri, 30 May 2014 22:02:16 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=15041 di Marco Cavinato

marcos galeano224 maggio – Caracol de La Realidad, Chiapas, Messico. Il 2 maggio scorso un’infame aggressione nel territorio autonomo del caracol de La Realidad ha scosso l’universo zapatista: attraverso l’ennesima e premeditata azione paramilitare i membri della CIOAC-Histórica, un’organizzazione della zona da anni al soldo dei partiti, hanno distrutto la scuola e la clinica autonoma per poi attaccare uomini disarmati, ferendone quindici. Il maestro dell’Escuelita zapatista, José Solís López, “Galeano”, è stato circondato da una ventina di uomini armati di bastoni, machete e fucili. Galeano ha invitato i [...]]]> di Marco Cavinato

marcos galeano224 maggio – Caracol de La Realidad, Chiapas, Messico. Il 2 maggio scorso un’infame aggressione nel territorio autonomo del caracol de La Realidad ha scosso l’universo zapatista: attraverso l’ennesima e premeditata azione paramilitare i membri della CIOAC-Histórica, un’organizzazione della zona da anni al soldo dei partiti, hanno distrutto la scuola e la clinica autonoma per poi attaccare uomini disarmati, ferendone quindici. Il maestro dell’Escuelita zapatista, José Solís López, “Galeano”, è stato circondato da una ventina di uomini armati di bastoni, machete e fucili. Galeano ha invitato i paramilitari a confrontarsi senza armi, disarmandoli uno ad uno finché non gli hanno sparato un proiettile in una gamba. A quel punto hanno iniziato a colpirlo con bastoni e machete, per poi piantargli un’altra pallottola nel petto che l’ha reso moribondo. L’hanno finito sparandogli alla testa.

E’ stato il primo attacco a uno dei cinque caracoles, i centri organizzativi che dal 2003 gestiscono tutte le questioni logistiche-organizzative delle comunità attraverso le proprie giunte del buen gobierno che seguono il principio di “comandare obbedendo”, cioè rappresentare e non soppiantare. Non rappresenta invece una novità l’attacco paramilitare come strategia controinsurrezionale: come sempre in questi casi i media ufficiali sul libro paga del governo hanno dipinto l’azione come uno scontro a fuoco, provocato da conflitti interni alla comunità. I militari dell’esercito non sono coinvolti direttamente e quindi nessuno tra i grandi mezzi d’informazione parla di premeditazione o di responsabilità imputabili a governi e partiti: la storia si ripete, e per chi ha seguito il modus operandi del governo messicano in Chiapas nel combattere gli zapatisti negli ultimi anni non c’è niente di nuovo.

In un comunicato del 13 maggio il Subcomandante Marcos ha invitato chiunque volesse rendere omaggio al compañero Galeano a raggiungere il caracol de La Realidad, nel Municipio de Las Margaritas, per un incontro nella giornata di sabato 24 maggio. Ha rivolto un invito speciale a partecipare ai “media liberi, alternativi, autonomi o come si dice”, quindi “non venduti”, e solo a questi. La stampa ufficiale non era benvenuta. E’ così che nei pressi della città chiapaneca di San Cristobal de Las Casas si sono concentrati i mezzi di trasporto della gran carovana, di circa mille persone, che è partita dalla stessa San Cristobal. Altri mezzi arrivavano da più lontano, da Città del Messico e Oaxaca.  I problemi organizzativi di una carovana diretta in territorio zapatista sono sempre tanti. Man mano che ci si addentra nella selva, il cammino si fa sempre più ostile e impraticabile per gli autobus che vi s’inerpicano. Due vecchi pullman arrivati dalla capitale si bloccano, esausti, all’altezza di Margaritas e rallentano l’intera carovana. Il nostro gruppo parte da San Cristobal alle sette del mattino di venerdì 23 maggio, ma raggiunge La Realidad solo alle otto del mattino del giorno dopo, nonostante normalmente il percorso richieda non più di sette ore.

A La Realidad sono presenti compañeros e compañeras, accorsi da tutti i caracoles. Sono più di 3000 persone in totale, che si aggiungono alle mille persone della carovana. A circondare il campo da basket, punto di ritrovo di fronte al palco, ci sono i militanti e i membri dell’EZLN, disposti in formazione militare, col volto e la testa coperti da passamontagna, berretto verde e paliacate, cioè il tipico fazzoletto rosso. L’esercito insurgente non lascia sole le proprie bases de apoyo. Hanno l’occhio destro coperto da una benda, per guardare il mondo da sinistra. Verso mezzogiorno appare il Subcomandante Insurgente Marcos con la Comandancia General dell’EZLN. Arrivano a cavallo e dopo il saluto militare lasciano spazio alla parola. Legge un comunicato il Subcomandante Moisés, uno dei primi indigeni di etnia tzeltal formato completamente dall’EZLN negli anni ’90 e suo portavoce dal 2013: “Non vi offriamo molte comodità, ma la certezza di essere forti e ribelli. Benvenuti a questa terra umile e ribelle, benvenuti a La Realidad”.

Le sue parole da subito ribadiscono la linea dell’EZLN, coerente nel tempo in situazioni di questo tipo: “Cerchiamo giustizia, non vendetta, chiediamo a tutti di non provocare e di non cercare la giustizia per mano propria, di usare la rabbia contro il sistema e non contro questi poveri paramilitari comprati dal malgoverno, che non hanno il cervello per pensare alla vita dei propri figli”. Seguono le accuse contro il (des)gobierno di corrotti e assassini, che continua a creare gruppi paramilitari, comprando la gente per far ammazzare tra loro i contadini, “per farci uccidere tra fratelli”. Il governatore dello stato del Chiapas, Manuel Velasco Coello, viene definito come un capo paramilitare al soldo del supremo leader paramilitare Enrique Peña Nieto, attuale presidente della repubblica messicana. Il presidente viene soprannominato, come di consueto, “el vendepatria”, un uomo con le mani macchiate di sangue, succube dei suoi padroni che sono le multinazionali.

Secondo le regole zapatiste gli appartenenti alla comandancia dell’EZLN possono entrare nelle comunità solo se queste lo richiedono e per questo si trovano a La Realidad, adesso, con il compito di indagare sull’omicidio “dell’amato e indimenticabile maestro Galeano”. La rabbia di migliaia di indigeni, afferma Moisés quasi gridando, non è per gli assassini stupidi e ignoranti ma per il malgoverno e soprattutto per il capitalismo a cui è asservito. Il Subcomandante elenca i nomi dei responsabili a livello politico e dei paramilitari che hanno eseguito il codardo attacco. In passato un ex governatore già aveva confessato di aver fornito soldi e armi agli stessi paramilitari, “gente manipolata e venduta al malgobierno che vuole che ci ammazziamo tra indigeni e che perdiamo la testa diventando pazzi come sono loro. Stanno facendo il lavoro di Peña Nieto e del demonio del neoliberismo. Chiediamo a questa gente, cosa insegnano ai loro figli? Ad ammazzare la propria gente in cambio di denaro? La nostra vendetta va oltre questa gente, è contro il capitalismo”.

Marcos GaleanoAncora una volta la risposta zapatista alla violenza del governo è estremamente intelligente. La rabbia e il dolore per la morte di un compagno non generano altrettanta violenza cieca. Invece, si chiarisce ancora una volta che gli indigeni del Sud-est messicano hanno ben chiaro che la strategia del governo è fatta di provocazioni e bassezze. Soprattutto hanno ben chiaro chi è il vero nemico, chi sono i veri nemici. Nella notte il Subcomandante Insurgente Marcos annuncia l’imminente scomparsa della sua figura, che definisce “un ologramma”. Ha catturato l’attenzione di tutto il mondo che non sapeva guardare oltre alla figura di un leader meticcio, quindi non indigeno. Di fatto è passato dall’essere il portavoce dell’EZLN a una vera e propria arma di distrazione di massa. La lettura completa del suo discorso palesa l’essenza del suo personaggio, partendo dalla sua creazione definita “una completa manovra di distrazione, un trucco di magia terribile e meravigliosa, una giocata maligna del cuore indigeno”. Un personaggio creato ad hoc, quindi, che ricorda esso stesso a quelli che hanno amato e odiato il Sub Marcos che “hanno amato e odiato un ologramma”.

“Il loro amore e il loro odio, dunque, è stato inutile, sterile, vuoto”, spiega. Al suo lungo discorso, intitolato “tra la luce e l’ombra”, non c’è molto da aggiungere. E’ importante sottolineare un passaggio che testimonia la coerenza del movimento negli anni. Gli zapatisti hanno preferito la vita alla morte: al posto di ingrossare le fila dell’esercito, comprare armamenti e “rinforzare la macchina da guerra”, hanno costruito scuole e ospedali autonomi. “Perché anche se non sembra, ci vuole più coraggio a vivere che a morire”. Questa è ed è stata la forza dei ribelli del colore della terra, di tutti gli uomini e le donne che in questi anni, disarmati, hanno affrontato militari, carri armati, provocazioni e paramilitari. Se è vero che la base, in origine, è stata l’insurrezione armata,  di nuovo il Subcomandante la descrive come una necessità, perché senza questa conquista l’autonomia non sarebbe stata una costruzione possibile. Il testo del discorso non tralascia un elenco di compagni scomparsi, uccisi, ma vivi nella memoria, che hanno mantenuto viva la lotta in tutto il mondo: Carlo Giuliani è tra questi.

Al momento dell’ultimo saluto alla tomba del maestro Galeano il serpentone di donne, uomini, bambini e bambine con il passamontagna, mescolati con tutti gli altri, venuti a dire Adiós a un uomo che mai s’è venduto e che ha lottato fino all’ultimo respiro, è impressionante per la sua lunghezza. Per più di un’ora la famiglia riceve abbracci, conforto, sussurri e solidarietà, incessantemente, da tutto il mondo a La Realidad. E’ impressionante anche la forza e la coscienza dei compagni e dei familiari di Galeano. “Siamo distrutti ma siamo forti: questa è la lotta”, risponde la vedova del maestro a un visitatore che le dice di farsi forza.

Il dolore e la rabbia, quindi, ma anche forza, lucidità, intelligenza. Idee chiare e determinazione. Ciò che ha permesso agli zapatisti di resistere vent’anni, creando autonomia e, all’interno di questa costruzione, sviluppare educazione, salute, dignità, giustizia, coltivando la propria terra e la propria libertà. Una lotta che non tutti possono o vogliono comprendere, un modello di organizzazione distante da tutti gli schemi rivoluzionari classici. Un modello che non si è logorato e che continua a essere esempio e fonte d’ispirazione per tante lotte nel mondo. Le reti continuano a tessersi, rivivono. Dopo vent’anni, ancora una volta, los compañeros y las compañeras ricordano a chi ha orecchie per ascoltare che non cadranno nella trappola della guerra sporca, che non faranno il gioco di chi cerca da sempre il pretesto per trasformarli in ciò che non sono: “Non siamo assassini come loro, siamo gente che lotta”, ribadisce Moisés. Non vendetta ma giustizia.

Le ultime parole del Subcomandante Insurgente Marcos sono “salud y hasta nunca… o hasta siempre, chi ha capito saprà che questo non importa, che non ha mai importato”. Poco dopo la stessa voce saluta: “Buongiorno, compañeras e compañeros. Il mio nome è Galeano, Subcomandante Insurgente Galeano. Qualcun altro si chiama Galeano?”. “Io sono Galeano”, urlano in molti. Il maestro e compañero Galeano rinasce nella voce dei presenti. E così si chiude il comunicato, firmato Subcomandante Insurgente Galeano. Marcos muore, Galeano vive. Il Sub resterà nell’EZLN, ma il suo personaggio pubblico scompare. Resta dunque il collettivo, e Moisés come portavoce dell’EZ.

Da questo spazio recondito della selva Lacandona, dal centro de La Realidad, migliaia di persone hanno reso omaggio al maestro Solís perché “se toccano uno, toccano tutti noi”, dicono da queste parti. Ancora una volta gli aggressori delle basi zapatiste hanno versato del sangue e ancora una volta il ricordo di un uomo caduto en la lucha s’è impresso nella memoria di chi ha conosciuto e ascoltato la sua storia. Ma l’EZ, le sue basi e le comunità si rialzano, annunciano la ripresa delle attività delle Escuelitas, la prossima ricostruzione delle strutture distrutte dall’attacco del 2 maggio, per cui chiedono solidarietà, e infine la fissazione di un nuovo incontro tra i popoli indigeni del Messico e del mondo. E dalle montagne del sudest messicano il grido riecheggia in tutti gli angoli ribelli del mondo:¡Galeano vive!

Comunicato “Entre la luz y la sombra”: ascoltalo qui in spagnolo o leggilo in italiano

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