crisi – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 30 Apr 2025 21:35:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 La rivoluzione come una bella avventura / 4: Germania e Stati Uniti 1918-1934 (e oltre) https://www.carmillaonline.com/2025/01/15/la-rivoluzione-come-una-bella-avventura-4-germania-e-stati-uniti-1918-1934-e-oltre/ Wed, 15 Jan 2025 21:00:41 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=86478 di Sandro Moiso

Paul Mattick, La rivoluzione. Una bella avventura, Asterios Editore, Trieste 2020, pp. 174, 18 euro

Si spiega in questa occasione la scelta del titolo di una serie di articoli che, probabilmente, ha fatto arricciare il naso a diversi elettori. L’accostamento di Rivoluzione e Avventura può infatti aver dato l’idea di una forzatura letteraria ed ideologica nei confronti di un tema serio, o almeno ritenuto tale da coloro che del grigiore politico hanno fatto uno schema esistenziale immemore di tutta la gioia, la passione e di tutto il coraggioso slancio soggettivo insiti e necessari all’interno di un reale [...]]]> di Sandro Moiso

Paul Mattick, La rivoluzione. Una bella avventura, Asterios Editore, Trieste 2020, pp. 174, 18 euro

Si spiega in questa occasione la scelta del titolo di una serie di articoli che, probabilmente, ha fatto arricciare il naso a diversi elettori. L’accostamento di Rivoluzione e Avventura può infatti aver dato l’idea di una forzatura letteraria ed ideologica nei confronti di un tema serio, o almeno ritenuto tale da coloro che del grigiore politico hanno fatto uno schema esistenziale immemore di tutta la gioia, la passione e di tutto il coraggioso slancio soggettivo insiti e necessari all’interno di un reale e vitale movimento rivoluzionario.

A far comprendere tutto ciò cui si è appena accennato è proprio l’”autobiografia” di Paul Mattick uscita alcuni anni or sono per l’editore triestino Asterios nella collana “in folio” con il numero 21 e precedentemente pubblicata in Francia nel 2013 con il titolo La Révolution fut une belle aventure. Des rues de Berlin en révolte aux mouvements radicaux américains (1918- 1934). Edizione da cui è tratta la postfazione di Laure Batier e di Charles Reeve dell’edizione italiana curata da Antonio Pagliarone che è anche autore della prefazione alla stessa. Prima di addentrarci nella lettura dell’avventura rivoluzionaria di Mattick occorre però inquadrare il comunista tedesco nel periodo in cui visse.

Paul Mattick (Slupsk, 13 marzo 1904 – Boston, 7 febbraio 1981) può essere collocato all’interno del comunismo di sinistra, in cui rappresentò uno dei maggiori esponenti di quello cosiddetto consiliarista, critico infatti sia del bolscevismo che dello stesso Lenin il cui pensiero e azione politica erano stati rivolti, a suo dire, sostanzialmente all’ascesa di un capitalismo di stato, controllato attraverso le maglie di uno stato estremamente autoritario e, per certi versi, prossimo al fascismo.

Nato nella Pomerania polacca, al tempo facente parte dell’impero guglielmino, crebbe a Berlino in una famiglia operaia sindacalizzata e politicizzata. A 14 anni, entrò a far parte della Freie Sozialistiche Jugend, la frazione giovanile della Lega di Spartaco fondata da Rosa Luxemburg e Karl Liebnecht. Ed è a questo punto, agli albori della cosiddetta rivoluzione tedesca, che la narrazione delle sue “avventure” ha inizio. Così, nella conversazione con Michael Buckmiller pubblicata in parte come ottavo capitolo del testo, Paul Mattick, a proposito di quei primi anni di militanza giovanile, afferma:

Nel mio percorso non c’è stata nessuna rottura. Come se ci fossero in un primo momento la pratica e il gusto dell’avventura e poi, una volta soddisfatte le condizioni materiali, il lavoro teorico. No, tutto si limitava ad una questione di tempo. Ci mancava proprio questo per capire di più le cose. […] C’era la pratica, ma c’era anche la teoria. Non si entrava nell’organizzazione Freie Sozialistiche Jugend come se si andasse ad un club di ginnastica. […] Comunque sia, se avessimo avuto più tempo per noi, se non avessimo dovuto lavorare molte ore1, è certo che saremmo stati molto più maturi sul piano teorico. Abbiamo cercato, nelle condizioni che ci venivano imposte, di crescere intellettualmente. Ma, nello stesso tempo, c’era un movimento operaio reale, di cui facevamo parte, e che cercava la sua via rivoluzionaria2.

Sono significative queste affermazioni di uno dei più importanti teorici del comunismo di sinistra sull’importanza del legame tra lavoro teorico e prassi rivoluzionaria e su come il primo sia spesso appannaggio di coloro che non devono prestare molte ore alla fatica del lavoro di fabbrica o salariato. Una separazione che troppo spesso ha visto riflettersi anche nelle organizzazioni rivoluzionarie la separazione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale tipica dell’organizzazione del lavoro di stampo capitalistico. Separazione che soltanto una pratica rivoluzionaria attiva e in un contesto favorevole al suo sviluppo può superare, di cui la pratica consiliarista fu certamente espressione.

In realtà tutto il testo si basa principalmente, come spiegano Laure Batier e Charles Reeve nella Postfazione, su quanto riportato da due interviste concesse da Paul Mattick, a Claudio Pozzoli, il 7 ottobre 1972 ad Amsterdam, e al già citato Michael Buckmiller, dal 21 al 23 luglio 1976 nel Vermont dove risiedeva fin dai pri anni ‘50. Interviste riorganizzate tra di loro, grazie anche al sostegno del figlio del comunista tedesco-americano, Paul Mattick Jr.

Dopo le prime “avventure” giovanili durante le quali il giovane Paul, dopo aver aderito al KAPD (Kommunistische Arbeiterpartei Deutschlands), il Partito comunista operaio tedesco nel quale iniziò a militare nelle fila dell’organizzazione giovanile Rote Jugend scrivendo per il suo giornale, rischiò di essere ancora più volte arrestato e ucciso, rimasto senza lavoro e impossibilitato a trovarlo per motivi “politici” e deluso dalla normalizzazione seguita all’avvento della Repubblica di Weimar il nostro, nel 1926, si vide costretto ad emigrare negli Stati Uniti. Da dove continuò comunque a mantenere i rapporti sia con il KAPD che con l’AAUE (Allgemeine Arbeiter-Union – Einheitsorganisation), l’organizzazione sindacale “unitaria” fondata da Otto Rühle, all’interno della quale aveva precedentemente stabilito contatti con intellettuali, scrittori e artisti che lavoravano per la stessa.

Giunto negli Stati Uniti Mattick avrebbe ritrovare là un’occupazione come operaio, sia dedicarsi agli studi e a quel lavoro teorico che lo avrebbe portato nel giro di qualche decennio a diventare uno dei maggiori esponenti del comunismo di sinistra e dei consigli. Nel fare questo, però, non si allontanò mai dal lavoro organizzativo che si manifestò sia attraverso il tentativo, una volta giunto a Chicago sul finire degli anni Venti, di unire le diverse organizzazioni di lavoratori tedeschi, cercando di far rivivere nel 1931, ma senza successo, il «Chicagoer Arbeiter-Zeitung», un giornale carico di tradizione, sia attraverso il suo avvicinamento, per un certo periodo, agli IWW, gli Industrial Workers of the World, unico sindacato rivoluzionario unitario al di sopra delle differenziazioni di mestiere, categoria o appartenenza nazionale e razziale.

Nel 1934 Mattick, con alcuni apparteneti agli IWW e alcuni militanti espulsi dal PPA, Partito Proletario d’America, fondò il Partito dei Lavoratori Uniti (United Workers Party), poi ribattezzato Gruppo dei Comunisti dei consiglio (CCG). Organizzazione che rimase in stretto contatto con i gruppi i della sinistra comunista sopravvissuti in Germania e pubblicò l’«International Council Correspondence», giornale in cui erano pubblicati articoli e dibattiti provenienti dall’Europa insieme alle analisi economiche ed i commenti politici critici di temi d’attualità negli USA e in altre parti del mondo. Poiché nella seconda metà degli anni trenta il comunismo dei consigli europeo fu costretto a darsi alla clandestinità per poi scomparire formalmente, dal 1938 Mattick cambiò il nome della rivista, di cui era il principale collaboratore, in «Living Marxism» e, dal 1942, in «New Essays».

Nonostante il fallimento dei suoi tentativi di riorganizzare il movimento operaio di quegli anni, Mattick ebbe comunque il modo sia di avvicinarsi maggiormente alle opere di Henrik Grossman sulla teoria della crisi in Marx3, sia di stringere amicizia e collaborare con Karl Korsch, altro teorico della sinistra comunista e non leninista, proprio per il tramite della rivista «New Essays»4.

Fu però, in quegli anni, proprio per l’esperienza prima a fianco del vasto movimento dei disoccupati creatosi negli Stati Uniti a partire dalla Grande crisi del 1929 e negli anni successivi e poi in seguito ai provvedimenti economici e sociali del New Deal roosveltiano, che Mattick maturò e affinò maggiormente le sue analisi sul movimento operaio e la critica al pensiero economico di Keynes e la sua applicazione in chiave riformistica e neo-capitalistica, redigendo una serie di note critiche e articoli contro la teoria e la pratica keynesiane. Lavoro in cui sviluppò ulteriormente la teoria dello sviluppo capitalista di Marx e Grossmann al fine di rispondere criticamente ai nuovi fenomeni e forme del capitalismo moderno..

Pur escluso dai circoli intellettuali legati alle Università e pur trovandosi nuovamente, a partire dal 1940, in gravi difficoltà sia economico-lavorative che personali, Paul riuscì a continuare ostinatamente e, si potrebbe dire, in direzione contraria sia alla fiducia nel riformismo del piano di Roosvelt che del leninismo ormai trasformato in marxismo-leninismo dallo stupro teorico e politico operato in quegli anni dallo stalinismo, a sviluppare un lavoro teorico che ancora alla fine degli anni Sessanta e all’inizio degli anni Settanta lo avrebbe fatto riscoprire sia dai movimenti studenteschi che da quelli radicali di classe sia al di qual che al di là dell’Oceano Atlantico5. E proprio nell’intervista a Lotta Contimua del 1977, egli avrebbe saputo sintetizzare al meglio la sua critica al keynesismo, inquadrandola nella crisi economica della seconda metà degli anni Settanta.

“Prima del 1930 ai periodi di depressione si rispondeva con procedure deflazionistiche, cioè lasciando che le “leggi del mercato” svolgessero il loro compito nell’aspettativa che prima o poi il declino dell’attività economica avrebbe finito col ripristinare l’equilibrio perduto tra domanda e offerta e rilanciato così la redditività capitale. La crisi del 1930, tuttavia, era troppo profonda e troppo estesa per permettere ai modi tradizionali di affrontarla. Si rispose con procedure inflazionistiche, cioè con interventi governativi nel meccanismo di mercato, fino al punto di giungere a una ristrutturazione dell’economia mondiale attraverso una centralizzazione forzata dei capitali nazionali più deboli che con una vera e propria distruzione di una frazione cospicua dei capitali nazionali sia nella forma monetaria che in quella fisica. Finanziato mediante disavanzi pubblici, cioè, con metodi inflazionistici, i risultati erano ancora deflazionistici, ma su un piano molto più ampio di quanto non fosse stato realizzato in precedenza facendo affidamento passivo sulle “leggi del mercato”. Il lungo periodo di depressione e la seconda guerra mondiale, e il conseguente enorme distruzione di capitale, hanno così creato le condizioni per un periodo straordinariamente lungo di espansione del capitale nelle principali nazioni occidentali.
Sia la deflazione che l’inflazione hanno portato quindi allo stesso risultato, una nuova ripresa dei capitali, e successivamente e alternativamente utilizzati nel tentativo per garantire la stabilità economica e sociale appena conquistata. Indubbiamente, è possibile tramite il finanziamento del deficit, cioè attraverso il credito, ravvivare un’economia stagnante. Ma è non è possibile mantenere in questo modo il saggio di profitto sul capitale e quindi perpetuare le condizioni di prosperità. Era quindi solo questione di tempo prima che il meccanismo di crisi della produzione di capitale si ripeta. Ormai è ovvio che la mera disponibilità di credito per espandere la produzione non è una soluzione alla crisi, ma un una politica di ripiego fugace con effetti “positivi” soltanto temporanei. Che, se non seguito da una vera e propria ripresa dei capitali basata su maggiori profitti, deve obbligatoriamente crollare su sé stessa. Il “rimedio keynesiano” ha portato semplicemente a una nuova situazione di crisi con crescente disoccupazione e crescente inflazione, entrambe ugualmente dannose per il capitalismo”.

Sempre allineato con la difesa dell’iniziativa spontanea e cosciente dei lavoratori e contrario all’intervento esterno in chiave partitico-settaria all’interno del movimento operaio, Mattick, nella stessa intervista avrebbe criticato l’ideologia e la pratica della lotta armata, senza rinnegare però la violenza necessaria per la difesa degli interessi di classe oppure per il ribaltamento offensivo delle condizioni dello sfruttamento capitalistico e della sua organizzazione sociale.

“La violenza è immanente al sistema e quindi una necessità sia per il lavoro che per il capitale. La borghesia può governare solo in virtù del suo controllo sui mezzi di produzione, quindi deve difendere questo controllo con mezzi extra-economici, attraverso il suo monopolio sui mezzi di soppressione. Già il rifiuto di lavorare svuota di significato il possesso dei mezzi di produzione, poiché è solo il processo lavorativo che produce il profitto capitalistico. Una “pura” la lotta “economica” tra lavoro e capitale è quindi fuori questione; la borghesia completerà sempre questa lotta con la violenza, dovunque essa minacci seriamente la redditività del capitale. Non consta ai lavoratori di scegliere tra metodi non violenti e violenti di lotta di classe. È la borghesia, in possesso dell’apparato statale, che determina quale sarà in qualsiasi occasione particolare. Alla violenza si può rispondere solo con la violenza, anche se le armi sono estremamente disuguali. Non entra qui in gioco alcuna questione di principio, ma solo la realtà della struttura sociale di classe e dello sviluppo delle sue contraddizioni.
Tuttavia, la domanda che ci si pone è se gli elementi radicali delle lotte anti-capitalistiche dovrebbero prendere l’iniziativa nell’uso della violenza, invece di lasciare la decisione alla borghesia e ai suoi mercenari. Potrebbe esserci situazioni, certo, che trovano la borghesia impreparata e dove uno scontro violento con le sue forze armate potrebbe favorire i rivoluzionari. Ma tutta la storia del radicalismo mostra chiaramente che tali eventi accidentali non sono di alcuna utilità. In ambito militare in termini di condizioni, la borghesia avrà sempre il sopravvento, a meno che il movimento rivoluzionario non sia assume proporzioni tali da incidere sullo stesso apparato statale, scindendo o sciogliendo le sue forze armate. È solo in concomitanza con grandi movimenti di massa, che disgregano totalmente il tessuto sociale, che diventa possibile strappare i mezzi di produzione e con questo giungere alla soppressione delle classi dominanti.
È per questo motivo che è così pericoloso insistere sulla non violenza e fare della violenza il privilegio esclusivo del classe dirigente. Ma qui parliamo di situazioni molto critiche, non come quelle che esistono attualmente nei paesi capitalistici, e anche di forze grandi e sufficientemente armate in grado di condurre la loro lotta per un periodo di tempo considerevole. In mancanza di tale situazioni critiche, tali azioni non sono altro che un suicidio collettivo, non sgradito alla borghesia. Possono essere apprezzati in termini morali o anche estetici, ma non servire al corso della rivoluzione proletaria, se non entrando nel folklore della rivoluzione.”

Tra le sue opere di maggior rilievo vanno infine ricordate Marx and Keynes. The Limits of Mixed Economy del 19696, che venne tradotta in diverse lingue, così come Critique of Herbert Marcuse: The one-dimensional man in class society, saggio sulla celebre opera di Herbert Marcuse, L’uomo a una dimensione (1964), in cui Mattick respinse con forza la tesi di Marcuse secondo la quale il “proletariato”, così come Marx lo aveva inteso, era diventato un “concetto mitologico” nella società capitalista avanzata.

Chi scrive si è allontanato dalle pagine del libro di Mattick e sulla sua esperienza, ma ciò che è indubitabile è il fatto che fino alla fine dei suoi giorni il rivoluzionario comunista guardò il mondo tanto con uno sguardo “oggettivo” rivolto alla comprensione critica dell’esistente e delle difficoltà insite in esso per lo sviluppo di un movimento rivoluzionario quanto con quello limpido e “soggettivo” di chi sogna la più grande e irrinunciabile delle avventure.


  1. Il riferimento è al fatto che Paul Mattick era entrato giovanissimo come apprendista alla Siemens e successivamente, all’età di 17 anni, alla Klöckner-Humboldt-Deutz di Colonia, dove rimase fino al suo licenziamento a causa dell’organizzazione degli scioperi e della partecipazione ai moti insurrezionali che condussero anche al suo arresto.  

  2. P. Mattick, La rivoluzione. Una bella avventura, Asterios Editore, Trieste 2020, pp. 124–125.  

  3. H. Grossman, Il crollo del capitalismo. La legge dell’accumulazione e del crollo del sistema capitalista, Jaca Book, Milano 1976 (ed.originale Das Akkumulations- und Zusammenbruchsgesetz des kapitalistischen Systems. (Zugleich eine Krisentheorie) – 1929.  

  4. Si vedano gli scritti contenuti in P. Mattick, K. Korsch, H. Langerhans, Capitalismo e fascismo verso la guerra. Antologia dai «New Essays» (scritti 1934–1943), a cura di G. Bonacchi e C. Pozzoli, La Nuova Italia Editrice, Firenze 1976.  

  5. Per quanto riguarda l’Italia, oltre a uelli già citati, si vedano Ribelli e rinnegati. Il ruolo degli intellettuali e la crisi del movimento operaio, (a cura di C. Pozzoli), Musolini editore, Torino 1976; Crisi e teorie della crisi (testi di Paul Mattick, Christoph Deutschmann e Volkhard Brandes; trad. it. di Giuseppe Mininni), Dedalo, Bari 1979; Critica dei neomarxistii (trad. it. di Giuseppe Mininni), Dedalo, Bari 1979 e Il marxismo ultimo rifugio della borghesia? Scritti scelti (a cura di Antonio Pagliarone), Sedizioni, Milano 2008, si veda l’intervista pubblicata sul quotidiano Lotta Continua ancora nell’ottobre 1977 (qui)  

  6. P. Mattick, Marx and Keynes. The limits of the mixed economy, Boston, Porter Sargent Publisher, 1969 (edito in Italia come Marx e Keynes. I limiti dell’economia mista, trad. it. di Luigi Occhionero, De Donato, Bari 1969)  

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Immaginari di crisi. Da Mad Max a Furiosa https://www.carmillaonline.com/2024/05/27/immaginari-di-crisi-da-mad-max-a-furiosa/ Mon, 27 May 2024 20:00:41 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=82717 di Gioacchino Toni

Rudi Capra, Antonio Pettierre, a cura di, Le strade furiose di Mad Max. Filosofia del mondo post-atomico, Mimesis, Milano-Udine 2024, pp. 188, € 16,00

In chiusura degli anni Settanta del secolo scorso ha fatto la sua comparsa nelle sale cinematografiche il film australiano Interceptor (Mad Max, 1979) di George Miller. Realizzato in maniera un po’ rocambolesca, da un regista all’esordio, con un budget di 400 mila dollari, il film ha ottenuto un successo che è andato ben oltre le più rosee aspettative incassando al botteghino cento milioni di dollari. Ciò è bastato all’industria cinematografica per pianificare, a stretto [...]]]> di Gioacchino Toni

Rudi Capra, Antonio Pettierre, a cura di, Le strade furiose di Mad Max. Filosofia del mondo post-atomico, Mimesis, Milano-Udine 2024, pp. 188, € 16,00

In chiusura degli anni Settanta del secolo scorso ha fatto la sua comparsa nelle sale cinematografiche il film australiano Interceptor (Mad Max, 1979) di George Miller. Realizzato in maniera un po’ rocambolesca, da un regista all’esordio, con un budget di 400 mila dollari, il film ha ottenuto un successo che è andato ben oltre le più rosee aspettative incassando al botteghino cento milioni di dollari. Ciò è bastato all’industria cinematografica per pianificare, a stretto giro, una seconda ed una terza pellicola, dando così vita a una saga ripresa, dopo tre decenni di interruzione, nel nuovo millennio con un quarto episodio di grande successo che ha aperto le porte ad un quinto film giunto ora nelle sale.

Per quanto diversi siano i film della saga, ad accomunarli è certamente la messa in scena di un “immaginario di crisi” variato nei diversi episodi in base al cambiare dei tempi, dei motivi, delle modalità e degli sguardi con cui si guarda con inquietudine al presente ed al futuro più prossimo. Ad esaminare le questioni principali sollevate dai film di Miller – crisi ecologica, economica e politica, oltre che sociale, della mascolinità, del patriarcato… – in concomitanza con l’uscita del nuovo film della saga – Furiosa: A Mad Max Saga (2024) di George Miller –, provvede il volume edito da Mimesis Le strade furiose di Mad Max. Filosofia del mondo post-atomico, curato da Rudi Capra e Antonio Pettierre, con una postfazione di Matteo Boscardi.

In apertura di volume, Antonio Pettierre evidenzia come i diversi film di Miller insistano sul crollo della società.

Nella saga di Mad Max è messa in scena l’autodistruzione della società civile: da un lato, abbiamo la rappresentazione di un’umanità ai limiti della sussistenza, dall’altro il residuo di un potere (patriarcale) pre-apocalittico che fomenta, mediante lotte e conflitti, lo sfruttamento economico delle ultime risorse naturali. Un potere che si autoconsuma e che raggiunge livelli parossistici attraverso una combinazione cinetica che transustanzia il contenuto (la morte e distruzione) nella forma (una sinestesia visiva e sonora). In questo presente-futuro distopico, il continuo movimento dei personaggi su auto, camion, moto e automezzi (re)inventati raffigurano plasticamente l’impossibilità dell’essere umano all’equilibrio, alla staticità dell’esistenza, in un continuo movimento verso la distruzione. Del resto, la speranza di trovare un’“Arcadia” dove poter (ri)vivere tempi migliori risulta sempre aleatorio o, quantomeno, illusorio (Pettierre, p. 22).

Nel primo film della serie, Interceptor, ad essere messa in scena è sostanzialmente la crisi della società australiana e delle sue istituzioni: un conglomerato di comunità locali in balia di bande criminali che le autorità statali tentano di arginare attraverso il pattugliamento delle strade da parte della MFP (Main Force Patrol) a cui appartiene il protagonista Max Rockatansky (Mel Gibson). La morte, durante un inseguimento condotto da Max, di un membro di una gang di motociclisti e della sua ragazza, scatena la reazione vendicativa del gruppo di cui fa le spese lo stesso protagonista che, dopo aver peso un collega ed essere stato tragicamente colpito negli affetti famigliari (figlioletto ucciso e moglie ridotta in coma irreversibile), abbandonato il corpo di polizia, si mette al volante di una Interceptor potenziata per vendicarsi a sua volta eliminando la gang. Se gli agenti della MFP, sottolinea Pettierre, seguono ancora le regole della società civile – per quanto inclini a travalicare abbondantemente la legge “quando serve” – la banda di motociclisti è presentata come una struttura tribale strettamente verticistica incline a ricorrere alla violenza più selvaggia allo scopo di ottenere ciò che desidera.

È nel sequel Interceptor. Il guerriero della strada (Mad Max 2. The Road Warrior, 1981) che Miller mette in scena il collasso definitivo della civiltà ambientando il film in un futuro post-apocalittico – successivo a un non meglio definito conflitto nucleare scatenato dal controllo dei combustibili fossili – con il protagonista che, affiancato da un cane, a bordo della sua Interceptor, vaga alla ricerca di carburante per poi restare coinvolto in una guerra per il controllo del combustibile tra una comunità isolata nel deserto e una crudele gang motorizzata. Lo scenario di crisi si presenta in questo film nel confronto tra una comunità stanziale, dotata ancora di qualche vaga traccia di regole democratiche, e una tribù nomade comandata da un despota sanguinario.

Nel film successivo, Mad Max. Oltre la sfera del tuono (Mad Max Beyond Thunderdome, 1985), in cui alla regia Miller viene affiancato da George Ogilvie, il protagonista si trova coinvolto in una lotta per il potere nelle cittadina di Bartertown in mezzo al deserto in cui si produce metano dagli escrementi di maiale. Gli eventi conducono Max ad unirsi a una piccola comunità di ragazzini desiderosi di raggiungere la “città del domani” che però, anziché il paradiso terrestre sognato, si rivela una Sydney ridotta in macerie. Attraverso le vicende di Max vengono messe a confronto una società costituita su due livelli in lotta tra loro – uno superiore, dotato ancora di una qualche lontana parvenza democratica, caratterizzato da un’economia di scambio e commercio, ed uno inferiore, ove si si produce metano, governato dispoticamente – ed una tribù di ragazzi che vivono allo stato brado facendo ricorso alle risorse naturali dell’Oasi in cui hanno trovato rifugio. In tale comunità le vecchie norme di convivenza hanno assunto forme leggendarie e mitologiche ed il ruolo di guida spirituale è stato assegnato a un’anziana donna.

Dopo i primi tre film, usciti in rapida successione tra il 1979 ed il 1985, occorre attendere ben tre decenni prima che Miller realizzi un nuovo capitolo della saga. Con Mad Max: Fury Road (2015) il regista australiano non prosegue la narrazione a cui è giunto nell’ultimo film preferendo ricollocarsi in uno spazio temporale precedente. Max, qua interpretato da Tom Hardy, si ritrova prigioniero del signore della guerra, Immortan Joe (Hugh Keays-Byrne), che esplicita il suo potere assoluto attraverso il controllo dell’acqua nella Cittadella da lui governata.

Ad essere tenute prigioniere dal despota sono anche cinque giovani mogli, le uniche a poter partorire figli in un contesto in cui la popolazione è affetta da gravi malattie e mutazioni genetiche. Max finisce per unirsi alla fuga dalla Cittadella organizzata dall’imperatrice Furiosa (Charlize Theron) che, insieme alle mogli di Immortan, a bordo di una blindo-cisterna intende raggiungere, oltre il deserto, la comunità matriarcale da cui era stata sottratta da bambina. Una volta giunte alle meta, le fuggiasche si trovano di fronte ad un paesaggio devastato abitato soltanto da un gruppetto di donne combattenti che hanno gelosamente conservato delle sementi che potrebbero consentire una rinascita. Le donne decidono dunque di far ritorno alla Cittadella, ove è disponibile l’acqua necessaria al processo di rigenerazione, e spodestare i potenti. È dunque una donna, Furiosa, ad essere protagonista in questo film, mentre a Max spetta un ruolo secondario, per certi versi utile più per dare continuità alla saga che non per l’episodio in sé. A confrontarsi in questa quarta opera sono Furiosa, insieme alle mogli del tiranno e alla tribù matriarcale a cui si unisce, e il governo dispotico della Cittadella insieme ai suoi alleati.

Da un lato, abbiamo un gruppo di donne in fuga alla ricerca di un eden. Dall’altro, un’organizzazione maschile basata su un’economia di guerra perpetua, residuo di una società comandata da monarchi assoluti e strutturata su tre comunità che controllano l’acqua, l’energia e le armi. Lo scontro qui è tra la fecondità femminile e la sterilità maschile, tra la distribuzione delle risorse da un lato e lo sfruttamento fine a sé stesso dall’altro (Pettierre, p. 23).

Con questo film, sottolinea Pettierre, il regista australiano esplicita quanto nei precedenti aveva soltanto delineato:

i tre patriarcati riproducono in modo più completo il sistema capitalistico che ha portato alla distruzione della società. Immortan Joe esercita la violenza attraverso i figli di guerra, impedendo l’erogazione dell’acqua a un’umanità agonizzante e uccide, e fa uccidere, nell’illusione di trascendere la morte; egli rinchiude le giovani mogli dentro una camera-cassaforte trasformandole in donne-gioello, oggettivate come strumento di riproduzione dinastica per perpetuare il proprio potere. Quella di Immortan Joe è una comunità – così come quelle di Gas Town e Bullet Farm che, pur mai mostrate nella pellicola, sono rappresentate simbolicamente da padroni trasformati in icone dei luoghi che dominano –, in cui il valore prodotto è dato dalla continua prestazione dei figli di guerra, sfruttatori e sfruttati a loro volta dal sistema post-capitalistico, in un parossismo che li porta a fagocitare loro stessi (Pettierre, p. 26).

Nella saga viene messo in scena un universo via via sempre più desertificato dallo sfruttamento a cui la natura e gli esseri umani sono stati sottoposti, in cui la convivenza civile è stata soppiantata da sistemi di potere clanico votati a confrontarsi con gli incubi del loro tempo attraverso la violenza più efferata. La dissoluzione sociale del mondo post-apocalittico di Mad Max – aggiungiamo – sembra rappresentare il punto di arrivo di quel neoliberismo selvaggio scientemente pianificato da quella Iron Lady (interpretata da Margaret Thatcher) – a cui si è presto aggiunto il personaggio Ronald Reagan (interpretato da sé stesso) – che, grossomodo in concomitanza con il primo episodio della serie, ha inquinato i pozzi dell’immaginario predicando lo smembramento della società in favore dell’individualismo più cinico.

Nel contributo di Giuseppe Gangi viene indagata la rappresentazione dell’universo australiano emergente dalla saga di Miller disseminata com’è di tracce di quella cultura dell’automobile, del viaggio, della velocità e dello spazio desertico dell’outback che lo caratterizzano. La serie Mad Max funge «da specchio mitografico e riflesso allegorico di un’identità nazionale liminare che ha le sue radici nell’irrisolta storia coloniale» (Gangi, p. 34). Gangi, inoltre, evidenzia come

la progressiva ambizione di Miller inferisca l’allargamento del proprio orizzonte volto alla descrizione di un mondo post-apocalittico e a una riflessione politica sofisticata e problematica, che getta uno sguardo sulle crisi che hanno attanagliato l’Occidente e che sono ancora di strettissima attualità (minaccia nucleare, ecocidio, sfruttamento capitalista, discriminazione di genere). L’architrave della saga consiste proprio in quest’oscillazione tra la peculiare ambientazione australiana, il ripensamento della sua storia culturale e della sua identità e come questi elementi volgano in riflesso universale nel quale poter cogliere i segni e i sintomi di una crisi globale (Gangi, pp. 34-35).

Diego Cavallotti sottolinea come già nel primo film della serie sia possibile cogliere come il canonico conflitto tra ordine e disordine si inserisca «all’interno del rapporto fra approvvigionamento energetico e potere, mettendo in risalto il modo in cui la scarsità di risorse sia in grado di stravolgere gli equilibri sociali» (Cavallotti, p. 61). L’ universo anarcoide della prima pellicola si trova a dialogare con la manifesta ecocritica della seconda attraverso forme di mediazione proprie dell’immaginario cyberpunk – soprattutto per l’ibridazione tra organico e inorganico – e steampunk – in particolare per l’intrecciarsi del futuro con suggestioni legate all’estetica delle macchine di età vittoriana – attraverso il sottogenere denominato diselpunk che

rispetto alle ucronie spesso incentrate sul rapporto fra progresso e meraviglie tipiche dello steampunk, […] mette in scena una fase della storia umana in cui la narrazione della modernità ha raggiunto uno spartiacque: da un lato, l’efficienza e la produttività della tecnologia sono ai loro massimi, dall’altro il senso di meraviglia tipico dello steampunk si tramuta in un senso di angoscia legato alla tecnologia stessa, perché quest’ultima si rivela uno dei catalizzatori delle devastazioni materiali, sociali ed etiche delle due Guerre mondiali e dei totalitarismi (Cavallotti, pp. 63-64).

Se nei primi tre episodi della saga, sottolinea Cavallotti, «il petrolio è la metafora dei bisogni essenziali della civiltà occidentale e della sua capacità (ri)produttiva», con Fury Road Miller si sposta sulla «sfera materiale della corporeità, quasi a voler evidenziare che, a più di quarant’anni da Interceptor, i processi di trasformazione della società non possono più confrontarsi solo con le condizioni concrete dell’esistenza e le loro implicazioni psicologiche, ma devono interagire anche con la dimensione biotica dell’essere, con il bíos» (Cavallotti, p. 65).

Rudi Capra, come esplicita il titolo Mad Marx del suo saggio, propone una lettura marxista della saga soffermandosi su quattro snodi propri del capitalismo contemporaneo: l’incremento esponenziale dello sfruttamento; il regime accelerato della vita e del lavoro; la crisi ecologica globale; la crescente instabilità sociale e la mancanza di cura. L’intero ciclo di film di Miller ruota attorno ai processi di mercificazione dell’umanità, di competizione per il controllo delle risorse, di accelerazione del processo di accumulazione di capitale, di sfruttamento delle risorse naturali e di disgregazione della società sottoposta a una condizione di guerra civile permanente condotta da violente strutture claniche.

Alle forme del mostruoso che popolano la serie di Miller provvede il saggio di Jonatan Peyronel Bonazzi che mette in luce come ciò riguardi tanto i personaggi quanto i mezzi di locomozione e, più in generale, le costruzioni presenti negli scenari post-apocalittici mostrati. Lo studioso si sofferma sul particolare ricorso che viene fatto nella saga a due figure che da sempre popolano mitologie e folklore occidentali: il nano ed il gigante. Ad essere preso in esame è soprattutto il film Oltre la sfera del tuono in cui Miller, nel mettere in scena la figura del nano (Master), dapprima associa le «sensazioni negative alla disabilità e alla mostruosità del personaggio per poi capovolgerne la prospettiva» (Bonazzi, p. 102), mentre invece per quanto riguarda la figura del gigante (Blaster), il regista propone

una versione distorta del duello tra Davide e Golia; non è il piccolo avversario di Blaster (Max) a consegnargli la morte, non è Davide che ammazza Golia, e nemmeno Ulisse che acceca Polifemo, la mano di Max si ferma prima del colpo finale. È una terza persona ad arrogarsi questo privilegio. Ma gli ideali che muovono la decisione di Aunty di procedere all’esecuzione del gigante risiedono nella volgare brama di potere, e anche questo aspetto consuma ulteriormente l’empatia del pubblico nei confronti del personaggio interpretato da Tina Turner e innalza il gigante, una volta tanto, a vittima compresa e compianta (Bonazzi, p. 102).

Se i personaggi femminili messi in scena da Miller nell’intera saga tendono a restare subalterni al “maschio dominante” subendo «le leggi di un patriarcato stigmatizzato, indipendentemente dal posto che le stesse occupano, siano loro mogli, nutrici, regine o guerriere» (Sansone, p. 112), con l’avvento di Furiosa, come sottolinea Mariangela Sansone, le cose cambiano drasticamente.

Furiosa non è una moglie, non è una madre, non è dato sapere che tipo di relazione abbia o abbia avuto con Immortan Joe, ciò che è palese è la stima dell’intera tribù nei suoi confronti e il rispetto dello stesso dittatore. È chiamata l’imperatrice e i guerrieri prendono ordini da lei; è una donna alla guida dell’enorme blindo-cisterna, un mezzo corazzato mastodontico, metafora femminile che in qualche modo rappresenta la maternità, un’enorme matrioska che custodisce e trasporta merce preziosa, fondamentale per il sostentamento, indispensabile per la vita (Sansone, pp. 113-114).

Furiosa si presenta come donna che decide di prendersi la sua rivincita, come simbolo di redenzione. Anche il suo personaggio è soggetto a un’evoluzione: «pur godendo di una posizione sociale privilegiata, si mette in gioco e combatte la sua guerra contro tutti, soprattutto contro quell’esercito “maschio”, per la liberazione definitiva di sé stessa e delle altre donne» (Sansone, p. 114).

Applicando alcune categorie filosofiche all’analisi della dittatura di Immortan Joe nella Cittadella in Fury Road, Andrea Tortoreto esamina le argomentazioni espresse del tiranno sulla base della teoria degli atti linguistici, evidenziando come la sua retorica sia intrisa di fallacie logiche utilizzate al fine di strutturare un regime di tipo complottista. Come tutti i regimi di tal tipo, scrive lo studioso, anche questo tiranno

identifica i nemici esterni come la causa di ogni problema per gli abitanti della Cittadella, distogliendo l’attenzione dalle ingiustizie e dalle disparità perpetrate all’interno del regime. Creazione di un nemico comune, e sua demonizzazione, sono lo strumento primario che, agendo sulle paure della popolazione, rafforza il controllo di Immortan Joe sulla propria tribù. Un nemico creato ad arte, in base a una narrativa che si basa spesso su aneddoti, presunti segreti gelosamente custoditi, intuizioni del leader, ma mai su prove autentiche e concrete. Una narrativa che indica come traditore e nemico chiunque abbia l’ardire di metterla in discussione e che reprime con forza e intimidazione ogni forma di dissidenza, favorendo l’autocensura. Un regime, quello della Cittadella, che si fonda dunque sulla fede nel leader e sull’obbedienza cieca, piuttosto che sul dibattito razionale (Tortoreto, pp. 128-129).

Il saggio di Matteo Bittanti analizza il videogioco Mad Max, sviluppato da Avalanche Studios e pubblicato da Warner Bros. Interactive Entertainment nel 2015, che immerge i giocatori nel mondo post-apocalittico caro alla saga di Miller, come esempio di fusione della petro-mascolinità – «mascolinità legata al dominio sull’ambiente secondo una logica estrattiva e distruttiva, incentrata sui combustibili fossili, nonché sulla celebrazione dei valori maschili tradizionali» (Bittanti, p. 144) – e della mascolinità geek – «interazione tra genere, tecnologia e identità, che riflette cambiamenti sociali più ampi nella comprensione e nella performance della soggettivazione mascolina, per la quale la conoscenza e l’attitudine tecnologica sono fondamentali per la sua costruzione e mantenimento» (Bittanti, p. 137).

Se a livello narrativo questo videogame «esemplifica la nozione di petro-mascolinità in diversi aspetti chiave, intrecciando temi di sopravvivenza, dominio e ricerca di carburante in uno scenario distopico» (Bittanti, p. 153), riproducendone tanto le ossessioni legate alla percezione del declino quanto le fantasie compensatorie cercate nel potere distruttivo maschile, dall’altro però, nel palesare come il ricorso alla mera violenza come mezzo di risoluzione dei problemi si riveli un inconcludente circolo vizioso nel suo ricondurre inesorabilmente a solitudine, disperazione e alienazione, ne mette in luce tutti i limiti. Insomma, scrive Bittanti, «se sul piano narrativo [il videogioco] Mad Max glorifica la supremazia maschile e il dominio dell’automobile, attraverso il gameplay, offre una critica indiretta o implicita degli assunti stessi della ludo-petro-mascolinità. Portando in primo piano la futilità, l’isolamento e la totale insostenibilità di questi ideali, Mad Max offre un’esplorazione ricca di sfumature della mascolinità tradizionale in un contesto distopico» (Bittanti, p. 160).

Infine, nella postfazione al volume, Matteo Boscarol tratteggia l’influenza esercitata dalla saga Mad Max sull’immaginario nipponico anche grazie, all’uscita dei primi episodi, all’ascesa del mercato delle videocassette che ha permesso il diffondersi di opere “di genere” ben oltre i circuiti cinematografici e televisivi. Se i primi due film della serie sono usciti in Giappone in un momento in cui le automobili e le motociclette, così come il motivo della guerra fra bande, hanno trovato terreno fertile nella fantasia nipponica, è soprattutto il virare su uno scenario sempre più post-apocalittico della saga ad essere risultato attrattivo in un Paese segnato dall’indelebile ricordo delle atomiche e dai disastri naturali.

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Il fascismo prima e dopo il fascismo https://www.carmillaonline.com/2024/02/06/il-fascismo-prima-e-dopo-il-fascismo/ Mon, 05 Feb 2024 23:30:51 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80898 di Fabio Ciabatti

Alberto Toscano, Late Fascism: Race, Capitalism and the Politics of Crisis, Verso, London-New York 2023, € 22,36.

Il fascismo contemporaneo può ancora rappresentare una concreta minaccia dal momento che si presenta privo di alcuni degli elementi essenziali che ne hanno determinato l’affermazione negli anni Venti e Trenta del secolo scorso? Senza un movimento di massa, una spinta utopistica per quanto pervertita e un incombente pericolo rivoluzionario cui contrapporsi, può di nuovo sovvertire l’ordine liberale e democratico? In effetti, sostiene Alberto Toscano nel suo libro Late Fascism, le soluzioni elaborate dai movimenti di Mussolini e di Hitler appaiono “fuori [...]]]> di Fabio Ciabatti

Alberto Toscano, Late Fascism: Race, Capitalism and the Politics of Crisis, Verso, London-New York 2023, € 22,36.

Il fascismo contemporaneo può ancora rappresentare una concreta minaccia dal momento che si presenta privo di alcuni degli elementi essenziali che ne hanno determinato l’affermazione negli anni Venti e Trenta del secolo scorso? Senza un movimento di massa, una spinta utopistica per quanto pervertita e un incombente pericolo rivoluzionario cui contrapporsi, può di nuovo sovvertire l’ordine liberale e democratico?
In effetti, sostiene Alberto Toscano nel suo libro Late Fascism, le soluzioni elaborate dai movimenti di Mussolini e di Hitler appaiono “fuori tempo” dato il loro intimo legame con la crisi capitalistica successiva alla Prima guerra mondiale, con l’era del lavoro manuale di massa, della coscrizione universale maschile in vista della guerra totale e dell’imperialismo esplicitamente razzista. Possiamo allora dormire sonni sereni, fiduciosi nel carattere straordinario dei regimi fascisti?
Non proprio, sostiene sempre Toscano, perché il quadro cambia se abbandoniamo una concettualizzazione meramente analogica del fascismo. In altri termini, se lasciamo da parte l’idea che per parlare di questo fenomeno politico la cosa essenziale sia raffrontare gli epigoni contemporanei con il loro modello originale, stilando una sorta di checklist dei sintomi in grado di diagnosticare lo stato di avanzamento della malattia.
Abbandonare il piano analogico significa concepire il fascismo come un fenomeno di lunga durata e storicamente mutevole. Vuol dire intenderlo come una dinamica che precede la sua stessa denominazione, sempre strettamente legata ai prerequisiti della dominazione capitalistica, anch’essa diversificata nel tempo. Utilizzando la definizione di W. E. B. Du Bois, si può parlare di “controrivoluzione della proprietà”.

Sviluppando questo approccio, Toscano mette in luce quattro dimensioni del fascismo. In primo luogo, bisogna riconoscere che le pratiche e le ideologie che si sono cristallizzate tra le due guerre mondiali sono state anticipate e preparate dall’espropriazione e dallo sfruttamento delle “razze minori senza legge”, perpetrati attraverso il colonialismo, la schiavitù e il capitalismo razziale intra-europeo. Una sorta di “fascismo senza fascismo” che ha contraddistinto l’espansione imperialistica su scala mondiale.
In secondo luogo, i sistemi politici considerati liberaldemocratici possono ospitare al loro interno istituzioni che operano come regimi di dominio e terrore per ampi settori della loro popolazione, soprattutto nei confronti dei soggetti razzializzati, come ha messo bene in evidenza il pensiero nero radicale negli Stati Uniti (George Jackson e Angela Davis sono alcuni tra gli autori citati da Toscano). Occorre dunque superare l’idea che si possano proiettare univocamente gli idealtipi sulla storia: il liberalismo, la socialdemocrazia, il neoliberismo e lo stesso fascismo non sono ordini politici che operano in spazi e tempi mutuamente esclusivi, ma ideologie e pratiche, anche istituzionali, che possono coesistere e intrecciarsi.
In terzo luogo, il fascismo si fonda su una controviolenza preventiva, su un desiderio di rinascita etno-nazionalista alimentato dal fantasma di un’imminente e potenzialmente catastrofica minaccia di natura culturale, demografica ed esistenziale. Il panico epocale generato dalla “marea crescente di colore” e dalla “rivoluzione mondiale di colore”, che ha favorito l’ascesa del fascismo dopo la Prima guerra mondiale, si è mutato nelle narrazioni tossiche sulla sostituzione etnica e sul suicidio culturale che sono oggi condivise sia dai mass shooter sia da molti rispettabili politici. Paure cui si aggiunge una sorta di “gender panic”, derivante da un presunto disordine sessuale figlio del femminismo, funzionale a un tentativo di restaurazione dell’autorità patriarcale. Questa tendenza reazionaria può risultare tanto più efficace quanto più è capace di offrire anche alle donne, ovviamente solo a quelle bianche, una pseudo-spiegazione della loro infelicità e un’arena affettiva per esprimere la loro malintesa rabbia, dando luogo, tra l’altro, a una forma “anti-femminismo femminile” che ha come bersaglio preferito il femminismo neoliberale, facilmente criticato per il suo carattere elitario ma pretestuosamente identificato con il femminismo tour court.

In quarto luogo, il fascismo richiede la produzione di soggettività che, di certo, prevedono obbedienza a un potere statale dispotico, ma attingono anche a un’idea sui generis di libertà e di uguaglianza. La partecipazione allo squadrismo fascista o alle SS naziste ha infatti concesso a un gran numero di individui il potere di uccidere, di violentare e di derubare il proprio vicino. Si tratta, in breve, di una reinvenzione della logica coloniale della piccola sovranità, di una “liberalizzazione” e “privatizzazione” del monopolio della violenza, sicuramente circoscritte, ma molto reale. Allo stesso tempo il fascismo promuove un “egualitarismo repressivo”, basato su un’identità nella sottomissione e una fraternità nell’odio che, ovviamente, non ha carattere universalistico ma esclusivistico, essendo riservato a coloro che appartengono alla razza e alla nazione eletta.
Parlando di libertà e uguaglianza fascista si può comprendere, secondo Toscano, come la rinascita contemporanea dell’estrema destra non si basa sul rovesciamento dell’individualismo competitivo di stampo neoliberale, ma su un suo particolare compimento. L’autore ci ricorda che, storicamente, il fascismo non nasce con l’intenzione totalitaria di fondere politica ed economia, ma come un “virulento antistatalismo guidato dallo stato”, finalizzato a risolvere la crisi postbellica attraverso la restaurazione dell’egemonia liberale sul terreno economico. Tornando ai nostri giorni, vediamo come si facciano sempre più porosi i confini tra la concezione neoliberista della libertà (libertà di mercato e di possedere, assenza di interferenze con la sovranità individuale) e quella fascista (libertà di dominare e di governare). Una convergenza resa possibile dalla condivisione di un immaginario incentrato sulla competizione e sulla sopravvivenza del più forte, e sull’avversione nei confronti della solidarietà, della cura e della vulnerabilità. Il neoliberismo, in breve, deve essere autoritario e populista perché non può essere autenticamente democratico e popolare, preparando così il terreno al tardo fascismo.

Ma cosa dire dell’iperindividualismo contemporaneo che sembra segnare uno scarto decisivo rispetto alle masse compatte mobilitate dal fascismo storico? In realtà le cose sono ben più complesse. Seguendo Adorno, Toscano sostiene che, anche nei movimenti tra le due guerre, gli individui non si identificano realmente con i rispettivi leader, ma partecipano alle loro performance, mettendo in scena un’entusiastica adesione alla causa collettiva. Fermandosi anche per un secondo, l’intera performance è a rischio di andare in pezzi lasciando gli individui nel panico.
Utilizzando le categorie di Sartre, si può anche sostenere che i movimenti fascisti, pur agendo realmente, non si trasformano mai in un gruppo in fusione, rimanendo sempre allo status di massa eterodiretta, dispersa e connotata dalla serialità. Il fatto che per Sartre proprio la serialità sia una determinazione cruciale per la costituzione della sovranità statuale moderna suggerisce come i confini tra l’eterodirezione fascista e quella non fascista potrebbero essere più porosi di quanto pretenderebbe il buon senso liberale. Anche se, aggiunge Toscano, il fascismo eccelle nella manipolazione delle serialità generate dalla vita sociale capitalista, con la sua capacità di plasmare pseudo-unità e false totalità attraverso discorsi di supremazia razziale, etno-nazionalista e religiosa.

Il carattere per certi versi farsesco dell’assalto al Campidoglio da parte dei sostenitori di Donald Trump nel 2021 non deve trarre in inganno. Anche la farsa è una forma di performance che, al pari delle messe in scena più seriose, è in grado di tenere insieme differenti e incompatibili immaginari autoritari, coinvolgendo una composizione sociale e di classe quanto mai eterogenea. I molteplici vettori di comunicazione e di aggregazione che oggi contraddistinguono l’estrema destra americana (e non solo), amplificano il carattere “pluralistico” e contraddittorio del fascismo tradizionale. Ma questa è tutt’altro che una debolezza, sostiene Toscano, come l’approccio razionalistico della sinistra sembra spesso ritenere.
Questo perché il “tempo per il fascismo” è il tempo della crisi, nella sua dimensione oggettivamente socioeconomica. La sfida per ogni risoluzione fascista della crisi è di realizzare una mediazione tra due tipi di temporalità divergenti: da una parte, il tempo del risentimento e del revanchismo (il tempo dell’identità e della razza), dall’altra quello dell’accumulazione (il tempo del valore). O, meglio ancora, la vera sfida è di subordinare il primo tipo di temporalità al secondo. La soluzione viene allora trovata attingendo a un archivio disordinato di immaginari ed esperienze sedimentate nel tempo grazie al quale il futuribile e l’arcaico, il nuovo e la ripetizione, la rivoluzione e il ritorno all’origine, la decisione e il destino possono convivere in una miscela instabile ed esplosiva.
Tutto ciò richiama la dimensione della “non-contemporaneità” che Bloch, citato da Toscano, ha per primo messo in luce sottolineando la presenza nella Germania degli anni Trenta di strati sociali fuori sincrono rispetto ai ritmi dell’accumulazione capitalistica (contadini, piccolo borghesi, aristocratici, sottoproletari ecc.). Strati sociali cui appartengono fantasie irrealizzate di una vita migliore, memorie di modi di vita precapitalistici, desideri improduttivi e in eccesso che sono stati deviati e irreggimentati dal fascismo. Allo stesso tempo, prosegue Bloch, abbiamo a che fare  con frammenti di un immaginario che possono rivelarsi rivoluzionari qualora riescano entrare in risonanza con la contraddizione “sincronica”, quella tra capitale e lavoro. 

Ma nelle società dei nostri giorni, si chiede Toscano, possiamo ancora parlare di non-contemporaneità? Il capitalismo attuale, con la sua capacità senza precedenti di modellare e omogeneizzare i desideri e la vita quotidiana, soprattutto sotto l’apparenza di differenza, scelta e libertà, ha portato con sé il prosciugamento delle differenze culturali e temporali dall’esperienza vissuta, insieme a tutte le loro potenzialità utopiche. Insomma, secondo l’autore di Late Fascism, non ci sarebbe più alcun passato da salvare. Quantomeno nulla di antico. Quando Trump parla di fare di nuovo grande l’America, infatti, non fa riferimento ad alcunché di  arcaico, ma a un fordismo post-bellico con tratti fortemente idealizzati, soprattutto per quanto riguarda il benessere diffuso e il compromesso patriottico tra grande capitale e lavoro.
Eppure, possiamo commentare, la sussunzione di modi di vita, culture e tradizioni non capitalistiche sotto il segno della mercificazione universale, non significa necessariamente la scomparsa di tutto ciò che viene dal passato e/o dal mondo non occidentale. Il capitale ha interesse a distruggere solo ciò che è incompatibile con le leggi della sua valorizzazione. Tutto il resto lo può rifunzionalizzare, mettere a valore o lasciar vivacchiare ai suoi margini. Il passato può sopravvivere come preferenza individuale per il consumo di merci e valori vintage, privato della sua profondità storica. Potremmo allora ipotizzare che il postmoderno, a modo suo, generalizzi il rapporto con la storia proprio della cultura di destra per la quale, sostiene Furio Jesi citato da Toscano, “il passato è una sorta di pappa omogeneizzata che si può modellare e mantenere in forma nel modo più utile”. La non-contemporaneità è dunque salvata, ma al tempo stesso superata al punto di essere resa difficilmente riconoscibile. 

Similmente deformati, secondo Toscano, appaiono i lineamenti della classe operaia cui si appella il tardo fascismo, poco o nulla definita dal suo rapporto con i mezzi di produzione. Il suo tratto caratteristico è invece quello di essere di pelle bianca e di genere maschile. La connotazione razziale (e di genere) riempie una nozione politicamente vuota o spettrale della classe operaia permettendo a una soggettività pseudo-collettiva di aggregarsi per mezzo di un investimento emotivo caratterizzato da una rancorosa volontà di escludere l’alterità più che da un sentimento di vicinanza con il proprio simile. Per questo, a differenza di quello che pensa un certo populismo di sinistra a rischio di colorarsi di tinte rossobrune,  

non esiste alcun percorso che conduca dalla falsa totalità di una classe razzializzata ed eterodiretta a una rinascita della politica di classe, non esiste alcun modo per trasformare le statistiche elettorali o gli studi mal progettati sul “soggetto populista” e sugli “uomini e donne dimenticati”, in punti di partenza per ripensare una sfida al capitale o per analizzare e mettere in discussione i fondamenti stessi del discorso fascista.1

Questo pallido simulacro del proletariato è solo un ostacolo. Ma ciò non significa buttarsi dalla parte opposta per contrastare le tendenze autoritarie del nostro periodo, annacquando l’antifascismo in un “fronte (im)popolare con liberali e conservatori”. Anche il neoliberismo presuntamente progressista, quello che sta alla base della maggior parte delle denunce tradizionali del fascismo, è contraddistinto dalla continua produzione di disuguaglianze ed esclusioni infiocchettate da impegni formali e stereotipati a favore dei diritti, della diversità culturali e delle differenze di genere. Facendo causa comune con esso, ammonisce Toscano, ci si allea con la causa per scongiurarne gli effetti. Di conseguenza, riecheggiando le parole del francofortese Max Horkheimer, non si può che giungere a una conclusione:

Chi non è disposto a parlare di anticapitalismo dovrebbe anche tacere sull’antifascismo. Quest’ultimo, inteso in senso ampio, non è solo una questione di resistenza al peggio, ma sarà sempre inseparabile dalla costruzione collettiva di modi di vivere che possono annullare le narrazioni letali di identità, gerarchia e dominio che la crisi capitalista ripropone con così cupa regolarità.2

In estrema sintesi, il fascismo di cui ci parla Alberto Toscano non è l’alterità mostruosa che si oppone al capitalismo, come vorrebbe il pensiero liberale che spesso immagina l’affermazione di questo altro da sé come un evento storico aberrante ed eccezionale. E’ piuttosto il suo lato oscuro, il suo doppio che vive costantemente ai margini (interni ed esterni, sociali e geopolitici) di quello che la cattiva coscienza liberale percepisce come il suo mondo ordinario (che è normalmente assai più limitato dell’intera realtà). Un lato oscuro che è pronto a proiettare la sua fetida ombra sull’intera società quando erompe il tempo della crisi. 

I margini in cui allignano le tenebre, aggiungiamo da parte nostra, possono anche essere concepiti, con l’aiuto di Marx, come ciò che si trova al limite dell’arco visivo dell’ideologia dominante. Quest’ultima fissa di preferenza il suo sguardo sulla sfera della circolazione delle merci, vero Eden dei diritti dell’uomo dove regnano libertà e uguaglianza per tutti i possessori di merci e, per estensione, per tutti i cittadini. Da questo punto di vista, ciò che rimane ai margini è, paradossalmente, il cuore di tenebra del mondo capitalistico, dove domina tutt’altra logica. Nel “segreto laboratorio della produzione”, infatti,

il capitale formula come privato legislatore e arbitrariamente la sua autocrazia sugli operai, prescindendo da quella divisione dei poteri tanto cara alla borghesia e da quel sistema rappresentativo che le è ancor più caro.3

Ed è proprio questo dispotismo, connaturato al rapporto tra capitale e lavoro nella sfera della produzione, che tende a prevalere anche nell’ambito politico, investendo le relazioni tra governanti e governati fino nel centro dell’impero, quando la silenziosa coazione dei rapporti economici non è più sufficiente ad assicurare la riproduzione del sistema capitalistico, cioè in tempi di crisi. Tempi che, oggi come in passato, ci portano verso scenari bellici sempre più allargati, lasciando spazi di libertà sempre più ristretti per chiunque non si voglia schierare tra le file delle armate patrie. 


  1. Alberto Toscano, Late Fascism: Race, Capitalism and the Politics of Crisis, Vereso, London-New York 2023, p. 21, ed. Kindle. 

  2. Ivi, p. 158. 

  3. K. Marx, Il capitale, Libro primo, Editori Riuniti, 1980, pp. 468-69. 

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Il bisogno di introversione nella contemporaneità https://www.carmillaonline.com/2023/08/12/il-bisogno-di-introversione-nella-contemporaneita/ Sat, 12 Aug 2023 20:00:43 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77582 di Gioacchino Toni

Il volume di Paulo Barone, Il bisogno di introversione. La vocazione segreta del mondo contemporaneo (Raffaello Cortina Editore 2023), prende il via proponendo una curiosa, quanto efficace, analogia tra lo sguardo con cui Yuri Gagarin guardava per la prima volta il mondo da lontano, estraniandosi da esso, e lo sguardo di chi, durante la pandemia, guardava dalla propria abitazione, attraverso gli schermi, il mondo “messo a distanza” con le sue inconsuete e inattese strade deserte, con gli animali selvatici in città e con il cielo insolitamente terso grazie al rallentamento produttivo e alla riduzione del traffico automobilistico.

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di Gioacchino Toni

Il volume di Paulo Barone, Il bisogno di introversione. La vocazione segreta del mondo contemporaneo (Raffaello Cortina Editore 2023), prende il via proponendo una curiosa, quanto efficace, analogia tra lo sguardo con cui Yuri Gagarin guardava per la prima volta il mondo da lontano, estraniandosi da esso, e lo sguardo di chi, durante la pandemia, guardava dalla propria abitazione, attraverso gli schermi, il mondo “messo a distanza” con le sue inconsuete e inattese strade deserte, con gli animali selvatici in città e con il cielo insolitamente terso grazie al rallentamento produttivo e alla riduzione del traffico automobilistico.

Si tratta di un’immagine «che si è potuta formare soltanto perché al di là o al riparo dal nostro sguardo, un’immagine di cui siamo venuti a conoscenza solo nel chiuso delle nostre abitazioni, davanti allo schermo di un dispositivo, dinnanzi a uno scenario complessivo che nessuno ha davvero potuto osservare di persona, in presa diretta. Un’immagine nata nella remota lontananza, intravista come dall’oblò di una nave spaziale» (p. 13).

Non tanto l’immagine del mondo di sempre, intessuto di idee che lo riflettono nelle forme discrete della realtà abituale, colta ora semplicemente da una prospettiva insolita, durante una circostanza fuori dal comune. E nemmeno l’immagine del mondo di prima, che crede di assistere alla rinascita di una natura ancora intatta […]. Quanto piuttosto un’immagine che mostra il mondo di oggi sospeso al filo di un’antitesi estrema, secca, bruciante, secondo la quale le cose che lo abitano possono rendersi per un istante visibili, solo se la nostra presenza, nello stesso istante, si ritira nell’ombra e abbandona la scena. Poiché se noi respiriamo al ritmo del nostro modo di vivere usuale le cose smettono di farlo, per udire il loro respiro dobbiamo trattenere il nostro (pp. 13-14).

Un’immagine che ha saputo mettere a nudo la frenesia e la tendenza autodistruttiva del nostro modello di sviluppo la cui valenza critica negativa, sostiene Broni,

non ne esaurisce tuttavia il senso. Resta che essa si dispiega per intero proprio in virtù della sospensione di ogni attività, del rientro nel chiuso delle case, del ritiro verso l’interno degli occhi della mente. È qui, in questo punto ritratto al margine del quadro, con l’umanità messa momentaneamente in disparte, che risiede il centro dell’immagine. È qui che si concentra la sua forza d’attrazione, capace di raccogliere attorno a sé questa o quella scena, questa o quella figura del mondo. È qui, in questa disposizione d’animo, in questa postura mentale, che si genera la quiete profonda che pure pervade l’immagine (p. 15)

Difficile dire esattamente di che disposizione d’animo si tratti, ma è, secondo lo studioso, in tale postura

che si può sperare di osservare in un modo nuovo le cose di sempre, che si può saggiare la consistenza attuale del mondo, quello che è diventato […] Intesa in questo duplice modo – cupo e spettrale e, al contempo, in quiete e contemplativo – l’immagine, pur essendo sorta a seguito e durante la pandemia, non ne è il mero riflesso, la semplice copia. Essa possiede la forza magnetica di raccogliere attorno a sé, mantenendoli nell’orbita della propria figura, anche altri avvenimenti che caratterizzano oggi il mondo contemporaneo (p. 16).

Dinnanzi a una realtà esteriore contemporanea frenetica quanto evanescente, strutturata sugli imperativi della prestazione e della competitività, in cui l’improduttività è stigmatizzata come devianza, non è così infrequente che

l’interesse vitale delle persone arretr[i], talvolta costretto dalla necessità – come nel caso degli adolescenti che in numero crescente vivono reclusi –, e si rivolg[a] verso il recinto delle abitazioni private, verso la sfera degli affetti familiari d’origine, verso l’intimo della propria vita mentale, alla ricerca – per quanto spinosi, angusti e malsani questi luoghi possano essere in concreto – di un rifugio sicuro, di una via di fuga, di un più attendibile luogo di interrogazione sul senso delle cose e su quello di se stessi (p. 18).

Tali “ripiegamenti” sono spesso messi in relazione ai modi di vivere della società contemporanea, sempre più focalizzata sul presente e votata alla competitività e al consumismo più sfrenati, con la sua propensione a ricorrere alla chimica per alleviare il malessere diffuso che produce. Si tende spesso a guardare a tale “ripiegamento” come a una tendenza al mero isolamento, al ritiro dalla vita sociale, come a un atto di “narcisismo”, con il conseguente giudizio di condanna, ma, sostiene Baroni, più che di un giudizio, potrebbe trattarsi di un pregiudizio culturale che concepisce l’esistenza esclusivamente in termini di relazione con l’esterno e concede alla sua interruzione giusto il tempo per ripristinarla.

Da parte sua Barone prova a guardare al fenomeno del “ripiegamento” da una prospettiva diversa: in un momento in cui il modello di vita egemone sembra non risucire più a soddisfare i bisogni degli esseri umani, il “rientro in se stessi” potrebbe in parte derivare da un più profondo bisogno di introversione utile a guardare in modo nuovo le cose e se stessi.

Al di là degli auspici dell’autore, è difficile dire quanto una società come quella contemporanea, incline com’è non solo alla mercificazione e alla vertinizzazione degli stessi esseri umani, ma anche a quote crescenti di delega alle “macchine pensanti” extraumane, produca/permetta un “salutare” bisogno di introversione che non si risolva in mera chiusura impotente nei confronti di un mondo che, nel momento in cui viene percepito nella sua follia distruttrice, deve pur indurre a un desiderio di cambiamento, non fosse altro che per spirito di sopravvivenza.

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Per un’apologia dell’irresponsabilità (salariale) https://www.carmillaonline.com/2023/07/25/per-unapologia-dellirresponsabilita-salariale/ Tue, 25 Jul 2023 20:00:30 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78386 di Giovanni Iozzoli

La crisi del salario, in Italia, è finalmente emersa come elemento centrale del dibattito pubblico – sia pur tra omissioni, fraintendimenti e mistificazioni di ogni tipo. Le forze e i media di “opposizione” – risvegliatisi dopo un quarto di secolo, nel duro mondo della realtà quotidiana – paiono acquisire consapevolezza del vero grande scandalo italiano: i salari reali calati nel corso dell’ultimo trentennio, unico paese nell’area Ocse.  E scoprono costernati che le retribuzioni italiane rappresentano anche il paradigma dell’economia reale di questo paese: la caduta degli investimenti privati e pubblici, il ristagno della domanda interna, la destrutturazione dei [...]]]> di Giovanni Iozzoli

La crisi del salario, in Italia, è finalmente emersa come elemento centrale del dibattito pubblico – sia pur tra omissioni, fraintendimenti e mistificazioni di ogni tipo. Le forze e i media di “opposizione” – risvegliatisi dopo un quarto di secolo, nel duro mondo della realtà quotidiana – paiono acquisire consapevolezza del vero grande scandalo italiano: i salari reali calati nel corso dell’ultimo trentennio, unico paese nell’area Ocse.  E scoprono costernati che le retribuzioni italiane rappresentano anche il paradigma dell’economia reale di questo paese: la caduta degli investimenti privati e pubblici, il ristagno della domanda interna, la destrutturazione dei grandi comparti industriali, il calo della produttività del lavoro. Dalla crisi del salario si capisce tutto: la mobilità sociale che si blocca, l’arretramento dei ceti medi e l’impoverimento di quelli operai, l’espansione incontrollata del lavoro precario per ricostruire margini di profitto fittizi. Le nostre miserabili buste paga sono una lente magica attraverso cui ricostruire la storia e la cartografia del declino italiano.

Alle volte, nella discussione collettiva a sinistra, è prevalsa una lettura “semplificata” che imputa il crollo dei salari degli ultimi tre decenni, esclusivamente alle scelte del sindacato confederale, maturate tra il ’92 e il ’93 – nel contesto dei grandi accordi sull’abolizione della scala mobile e il nuovo modello contrattuale. Quegli accordi, nella narrazione di regime, furono la risposta necessaria ed efficace, rispetto alle due priorità sbandierate all’epoca: contrastare la fragilità della lira e bloccare il nemico numero uno, l’inflazione, ricondotta sempre alla narrazione della rincorsa prezzi/salari. Mentre le suddette letture “soggettiviste”, di critica anticonfederale, raccontano quei protocolli alla stregua di patti diabolici che, da soli, avrebbero avuto il potere di ipotecare il futuro della nazione e soffocare il conflitto di classe in Italia.

Ma il vero nodo da sciogliere e interpretare, riguarda l’origine di quelle firme e di quegli accordi. Perché se si semplifica troppo lo schema, si rischia di spostare il ragionamento da una dinamica strutturale – che riguarda lo scenario macroeconomico di quel periodo, le trasformazioni dell’apparato produttivo, la divisione internazionale del lavoro, la crisi politica post-89 della Prima Repubblica -, verso un piano di lettura essenzialmente morale: il “tradimento dei chierici” che, mediante le firme malandrine, condannano i salariati italiani a subire un trentennio di deflazione retributiva.

Più interessante è l’approccio che mira a collocare quelle scelte confederali – e il lungo ciclo di politiche sindacali ad esse conseguenti -, dentro il quadro delle trasformazioni epocali dell’economia europea. All’inizio degli anni ’90 tutti gli attori dell’economia continentale stanno ridefinendo programmi e vocazioni. L’industria tedesca sta mettendo in valore i territori produttivi della ex-DDR e guarda all’est e al sud Europa come nuovo spazio di investimento ed espansione economica (con export e avanzo di bilancio come priorità strategica della politica economica nazionale).  In Italia un repentino ciclo di ristrutturazione industriale, avviato già verso la metà dei ’70, accelera il ridimensionamento delle grandi concentrazioni produttive italiane, sotto la spinta del decentramento e del primo grande impatto di tectronica e robotica applicato alle linee di produzione. Tra il 1989 e i primi anni 90, il programma economico dei diversi governi italiani, sarà sempre più orientato verso lo sforzo di privatizzazione/svendita dei poli nazionali delle telecomunicazioni, dell’agroalimentare, della chimica, della siderurgia e del credito – quelle che Cossiga definiva “sacche di socialismo reale”. E, dulcis in fundo, i margini di manovra sulla lira – le famose svalutazioni competitive – risultano praticamente azzerati dagli equilibri monetari rigidi che saranno la precondizione di Mastricht. Tutti questi processi rappresentano la cornice della crisi italiana e vanno inquadrati dentro il gigantesco ridislocamento delle filiere del lavoro e delle catene del valore che si realizza con la globalizzazione. La riunificazione dei mercati mondiali a egemonia unipolare, è un gioco maledettamente duro e l’Italietta in transizione gioca senza difese.

E’ in questo quadro di smottamenti e riassetti, che si deve collocare la sconfitta storica del sindacato confederale italiano e l’avvio di quella stagione definita pudicamente concertazione – in cui si è “concertato” assai poco, per amor di verità storica.  Questa fase rappresenta la presa d’atto, da parte del gruppo dirigente CGIL, che qualcosa si è rotto definitivamente nel suo rapporto con un mondo del lavoro in repentina trasformazione. A partire dalla sconfitta maturata nel corso degli anni 80, tra la marcia dei 40.000 e il referendum sulla scala mobile, la CGIL introietta (senza mai elaborarla pienamente) una paralizzante ideologia della sconfitta .  Dentro questo passaggio, la confederazione sente di aver perso il peso politico e negoziale che il radicamento e la spinta autonoma di classe del ventennio precedente, le avevano consentito. La terra manca sotto i piedi, il quadro politico conosciuto si sta sconvolgendo, la lira è sotto attacco e il divorzio andreattiano tra Tesoro e Banca d’Italia mette in mora gran parte degli strumenti di politica monetaria e di bilancio. La sensazione è quella di una navigazione a vista, su un’imbarcazione che comincia pericolosamente a fare acqua. La concertazione, a questo punto della storia, si presenta come l’approdo che “tiene in piedi” e ridefinisce – sul piano politico – il ruolo ormai traballante del sindacato confederale, ambiguamente “innalzato” a partner strategico della governance, proprio dopo aver subito le sue peggiori sconfitte. Per molti, in Corso Italia, tale soluzione rappresentò un epilogo dignitoso, in attesa di ritrovare forze e ridefinire obiettivi.

Quindi: c’è una dimensione “soggettiva” delle funeste scelte di politica sindacale dei primi anni 90, ma c’è una condizione oggettiva (come sempre) entro cui quelle scelte maturano. Se tutto il dibattito sulla concertazione si esaurisse sul terreno del “tradimento”, sarebbe piuttosto povero. Poi “ci sta”, nella polemica politica, soprattutto dal punto di vista extraconfederale, che i toni siano “eticizzati”, evocando categorie morali – tradimenti, svendite, rese, etc.. Ma non è questo il cuore del ragionamento. Altrimenti si farebbe fatica a spiegare come sia stato possibile che dirigenti di oggettivo spessore, al di là del giudizio storico che ognuno può coltivare – pensiamo a Bruno Trentin -, gente che aveva conosciuto la grande stagione “acquisitiva” e rivendicativa dei diritti, della contrattazione, del consiliarismo -, all’improvviso impazziscono e si mettono a firmare accordi che sanciscono il crollo del salario dei propri iscritti e la sacrosanta riscossione di un bel po’ di bullonate nelle piazze. Senza riflettere adeguatamente sui rapporti di forza generali nella società e sulla mutazione della composizione di classe, ogni critica al sindacato confederale risulterebbe parziale.

La concertazione è una fase di consapevole rinculo – una ritirata strategica (scusate evocazioni inopportune) – in cui un sindacato non più fiducioso della sua forza, accetta uno scambio che si rivelerà fallace e perdente. Poi arriveranno anche elementi di simonia – con le nuove figure della bilateralità, dai fondi pensione ai piani sanitari: ma quelli furono cascami e conseguenze delle scelte generali già assunte sul piano politico. Le ragioni dell’avvio di quella stagione strategicamente sbagliata, da parte della CGIL, vanno ricercate in una lettura sbagliata della transizione italiana, una specie di “pensiero debole” sindacale che mira a recuperare sul piano del ruolo politico, quello che il sindacato in quegli anni sta perdendo giorno per giorno in termini di peso e radicamento nella società italiana. E qui c’è una evocazione più della trontiana “autonomia del politico”, che della svolta dell’Eur. Ed è a cavallo dei due decenni 80/90 che la CGIL ridefinisce anche il suo modello organizzativo, provando a inseguire sui territori la frammentazione del tessuto produttivo e la “nanizzazione” del sistema di impresa – cioè fotografare la nuova composizione di classe ed inseguire (riformisticamente) sui territori le sue figure frammentate. La concertazione venne evidentemente vista – per restare alle metafore ingombranti – come “l’ombrello protettivo” che avrebbe dato tempo al sindacato di ridefinire il suo ruolo dentro la transizione italiana.

Ma quale fu l’essenza di quella stagione? Cosa concesse il sindacato confederale e in cambio di cosa? Su un piatto della bilancia viene posta la moderazione salariale – cioè, l’esaurimento di ogni margine di “indipendenza” della variabile salariale – e una postura collaborativa e di “responsabilità nazionale” nei giudizi sulle politiche economiche nazionali. Sull’altro piatto viene posta la para-istituzionalizzazione del rito laico della concertazione, da celebrare soprattutto nei tornanti difficili della vita economica, in una frequente chiamata di correità attraverso cui i governi tecnici cercano una copertura sociale alle loro scelte oggettivamente antipopolari. Qualche sciagurato, leggerà in questo passaggio anche una prima parziale realizzazione dell’art.46 della Costituzione. Chi gestisce questo scambio da parte governativa e padronale, si pone una meta in tre livelli: l’obiettivo immediato è congelare i salari, quello di medio periodo bloccare l’inflazione, quello strategico agganciare definitivamente retribuzioni e produttività, nell’ottica di una “modernizzazione” delle relazioni industriali che cancelli rigidità ormai anacronistiche.

Dentro questo grande scambio, una categoria chiave assume centralità: la “politica dei redditi” – cioè la ridefinizione in chiave concertativa delle linee pubbliche di intervento, in tema di prezzi, tariffe, investimenti, politiche di bilancio, politiche monetarie. Questa categoria dovrebbe rappresentare la giustificazione storica che consente ai dirigenti sindacali di subire l’arretramento dei salari: non possiamo più fare una contrattazione offensiva, però in cambio i tassi di interesse dei mutui restano stabili ( è in questo periodo che la maggior parte degli italiani realizza l’acquisto della prima casa) e le politiche tariffarie rimangono sotto controllo. Anche qui c’è una lettura e una presa d’atto: i padroni hanno vinto, la stabilizzazione capitalistica è irreversibile, le classi lavoratrici vogliono essenzialmente sicurezza contro le fluttuazioni e i disordini nella sfera finanziaria e monetaria.

Durante un dibattito in un talk di una decina d’anni fa, ricordo la faccia da volpe di Giuliano Ferrara, che se la rideva, davanti alle rimostranze sulle basse retribuzioni che provenivano da un interlocutore sindacale. Di che vi lamentate – diceva Ferrara -, siete voi che avete accettato lo scambio bassi salari/concertazione, con chi volete prendervela? In quella risatina beffarda c’erano due verità: la prima, è che la concertazione fu una colpa consapevolmente assunta che diede un arma formidabile ai nemici del movimento operaio; la seconda è che fu una truffa. Si, perché i governi della transizione (Amato, Ciampi, Dini), stavano garantendo ai sindacati, qualcosa – la politica dei redditi – su cui cominciavano a non avere più alcun potere di esercizio. Se non hai più la gestione autonoma delle leve delle politiche di bilancio e monetarie, se la dimensione pubblica dell’economia italiana è in via di smantellamento, se si accelera la cessione sovranazionale di sovranità economica e relative strumentazioni, che diavolo di “politica dei redditi” puoi garantire? L’unica cosa che si poteva realisticamente “garantire” era l’arresto della dinamica salariale, adottando un modello contrattuale perdente. E così finì.

La concertazione fu anche l’esito di una contesa politico-culturale – cioè di egemonia -fra due gruppi dirigenti. Quello laico-tecnocratico-riformista – che emergeva dalle macerie esauste della Prima Repubblica, e che poteva contare su un parterre internazionale e massonico di primissimo piano; e quello del sindacato confederale, ridimensionato, stordito e impaurito dagli scenari post-89 ( i post-comunisti pidiessini, dal canto loro, reduci dalla Bolognina, si buttarono tutti nella trincea delle “riforme”, fornendo truppe e genieri). Amato, Ciampi, Maccanico, Dini, Prodi, e l’anima nera Draghi, sono figure di straordinaria durezza e determinazione storica; sono i rappresentanti italiani di interessi globali all’offensiva – la finanza anglosassone, i progetti franco tedeschi di evocazione del polo politico europeo, il rilancio post-guerra fredda della Nato. Sono privatizzatori di prima classe perché conoscono l’oggetto del privatizzare, per averne diretto settori importanti. Queste figure giganteggiano, rispetto ai balbettii sindacali. Sanno esattamente dove dirigere il timone della nave. Sanno anche che possono minacciarne l’affondamento, se giù, ai remi, la ciurma rematrice si manifestasse troppo riottosa, rispetto alla rotta di “modernizzazione liberale” che viene decisa nella cabina di comando. Questo non è un ceto politico di mediatori democristiani; i tempi sono cambiati, sono tempi di guerra, tempi di fuoco: basta rileggere il discorso che il “vile affarista” Draghi, tenne ai British Invisibles – il gruppo lobbista di interessi bancari e finanziari anglosassoni, che lo accolsero sul panfilo Britannia, in quella famosa, sciagurata gita passata alla storia. Pochi giorni dopo il massacro di Capaci, tra l’altro – a proposito del fatto che in questo paese se le transizioni di regime sono sempre una cosa assai seria.

La svolta strategica del sindacato verso una ricollocazione concertativa della sua organizzazione e delle sue culture interne, aprì un varco che per anni non ha mai smesso di allargarsi e che alla lunga ha prodotto una crepa terribile, nella propria credibilità sociale. Dagli accordi del 92/93 si passò in un lampo alla legge Dini nel ’95 – più o meno dentro il medesimo schema di rapporti di forze. Il sindacato confederale, disarmato e incaprettato, sotto la cappa del ricatto governativo (il bilancio INPS scoppia e se non accettate la riforma, non saremo più in grado di pagare le pensioni), collabora attivamente per dare veste democratica all’allungamento dell’età pensionabile e al taglio delle prestazioni. L’attacco alle “costituzioni antifasciste” – caldamente auspicato dal think thank di JP Morgan – in Italia si andava realizzando sotto i governi tecnici e di centro sinistra, con un ruolo attivo da parte della CGIL. Cosa chiedere di meglio?

Saltando da un accordo interconfederale all’ altro – man mano che si approfondiva la crisi della rappresentanza e si realizzava l’alternanza “a spartito unico” degli esecutivi – si giunge con Renzi all’epilogo-nemesi della disintermediazione: nello spazio di un mattino, quello stesso ceto politico che si era coperto per anni il fianco sinistro, grazie alla “complicità” dei confederali, esaltandone l’imperituro senso di responsabilità, dichiara morta e sepolta quella stagione e azzera ruoli, prassi consolidate e aspettative. La governance della crisi non ha più bisogno di coreografie partecipative.

La concertazione, con i suoi rituali e i suoi giochi di prestigio, è morta – e questo è un bene: ma che eredità lascia al movimento operaio organizzato? Il problema principale in casa CGIL è il deposito culturale, il lascito storico concreto, prodotto da un quarto di secolo di arretramenti concordati. Tutti i membri dei gruppi dirigenti che anagraficamente ballano tra i 50 e i 60 anni, hanno conosciuto esclusivamente il sindacato concertativo, ci sono cresciuti dentro, ci hanno costruito le loro carriere e la loro formazione di quadri sindacali è completamente interna a quella stagione. Una eventuale riconversione del profilo sindacale – un cambio di linea culturale e strategico – comporterebbe una torsione drammatica delle coordinate, anche biografiche, di questo ceto dirigente. Nonché una ristrutturazione dell’apparato e di diverse fonti di finanziamento. Una “rivoluzione culturale” francamente inimmaginabile, da parte di un gruppo dirigente che continua a vincere i congressi in una modalità ridicolmente plebiscitaria (solo i movimenti straordinariamente deboli o straordinariamente forti, si stringono con simili percentuali intorno ai propri capi – e come classificare la CGIL oggi, tra le due opzioni, è abbastanza intuibile).

A conferma di ciò, il dibattito di questi giorni sul salario minimo vede il più grande sindacato italiano, stagnare nel basso profilo di chi ha la coscienza sporca. Non solo per i troppi rinnovi in cui la firma del sindacato guidato da Landini, ha autorizzato stipendi indecorosi, classificabili nel girone dannato del “lavoro povero”, nonostante la formale correttezza del contratto collettivo nazionale. Ma anche perchè la CGIL, fino a poco tempo fa, rivendicava contrarietà alla definizione di una soglia minima salariale definita per legge: tanto da condividere con i padroni, nel 2019, il “Patto della fabbrica” – altra perla interconfederale – che intorcinandosi con i livelli di T.E.C.(trattamento economico complessivo) e T.E.M. (trattamento economico minimo), doveva neutralizzare ogni discorso sul S.O.M. (salario orario minimo: scusate gli acronimi, ma la fantasia dei compilatori di questi protocolli è contagiosa). Adesso la CGIL ha cambiato impostazione, ma anche qui senza una vera rielaborazione critica del suo dibattito interno sul tema. Tutto è improvvisazione, tutto è invenzione quotidiana alla ricerca di uno spazio di visibilità dentro il dibattito pubblico. Una svolta post-concertazione sarà impossibile, finchè permane in sella quella generazione di dirigenti che – nel corso dei propri seminari di formazione – hanno studiato che la concertazione salvò l’Italia.

Naturalmente la maggior parte delle lavoratrici e lavoratori italiani sindacalizzati mantiene ancora una tessera confederale in tasca – e questo per una somma di ragioni molteplici e intricate, diverse per categorie, territori, classi anagrafiche. E anche questo è un dato politico su cui ragionare, a meno che non lo si voglia sorvolare con nonchalance, sperando nei “tempi lunghi della storia”, refugium peccatorum per tutte le sconfitte della sinistra di classe. Il “che fare” per le avanguardie di classe sui luoghi di lavoro, non è affatto scontato e bisognerebbe parlarne con franchezza, senza settarismi e con un minimo di rispettoso distacco rispetto alle tifoserie organizzate.

L’evocazione della “responsabilità nazionale” è stato per un quarto di secolo una specie di malsano richiamo della foresta a cui i segretari CGIL hanno aderito supinamente. Fin dal 1992, è sempre mancato l’alto profilo ( e la trasparente assunzione dell’interesse di classe, fosse anche solo in chiave socialdemocratica e riformista), che avrebbe consentito, mediante una elaborazione autonoma, di resistere ai ricatti, alle minacce, al terrorismo catastrofista che è sempre stato al centro del programma liberale. Il fantasma mefitico della “responsabilità nazionale”, conserva radici antiche nel DNA della sinistra italiana. Se ne trovano chiare tracce nella lettura togliattiana di Gramsci, che pone la classe operaia italiana in un ruolo insostenibilmente pesante: farsi carico della “modernizzazione” che la borghesia non è in grado di portare a compimento; perché c’è sempre un Risorgimento da rinnovare, una ricostruzione democratica da definire, una Unita’ nazionale da completare, fino alla triste apologia dalemiana – proprio negli anni 90 – del “paese normale”, cioè della normalità tardo liberale che toccherebbe alla sinistra e ai ceti che rappresenta finalmente di realizzare.

Davanti al Moloch della “responsabilità” che abbiamo portato in processione sulle nostre spalle per decenni, non resta che dichiararci coscientemente e felicemente irresponsabili; almeno nella misura in cui lo sono oggi il sindacato francese, o quello belga, o quello inglese che – pur senza alcuna velleità rivoluzionaria -, con un pedigree meno politico e prestigioso del confederalismo nostrano, provano qua e là a fare, il loro mestiere di rappresentanti della prestazione lavorativa, senza tanti fronzoli e drammi esistenziali – e senza sentirsi sempre chiamati a salvare la Nazione cedendo pezzi importanti della vita dei loro iscritti. Siamo liberi. Siamo stati disintermediati. La Patria non ha più bisogno di noi.

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Come un’onda che sale e che scende* https://www.carmillaonline.com/2023/01/25/come-unonda-che-sale-e-che-scende/ Wed, 25 Jan 2023 21:00:34 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=75695 di Sandro Moiso

Joshua Clover, Riot. Sciopero. Riot. Una nuova epoca di rivolte, Meltemi editore, Milano 2023, pp. 244, 20,00 euro

Fa piacere trovare e recensire un testo come questo, soprattutto per chi da anni cerca di svincolare logiche e strategie dei movimento antagonista dal pensiero operaista oppure da quello ancora basato su una concezione di classe operaia che, nel bene e nel male, le derive della storia economica, sociale e politica hanno fortemente ridimensionato.

Il secondo motivo per ringraziare Meltemi per averlo pubblicato, nella collana “Culture radicali” diretta dal Gruppo Ippolita, sta [...]]]> di Sandro Moiso

Joshua Clover, Riot. Sciopero. Riot. Una nuova epoca di rivolte, Meltemi editore, Milano 2023, pp. 244, 20,00 euro

Fa piacere trovare e recensire un testo come questo, soprattutto per chi da anni cerca di svincolare logiche e strategie dei movimento antagonista dal pensiero operaista oppure da quello ancora basato su una concezione di classe operaia che, nel bene e nel male, le derive della storia economica, sociale e politica hanno fortemente ridimensionato.

Il secondo motivo per ringraziare Meltemi per averlo pubblicato, nella collana “Culture radicali” diretta dal Gruppo Ippolita, sta nel fatto che, al di là del bizzarro anti-americanismo culturale che ancora agita i sogni di tanti compagni di antica maniera che dimenticano che tale tipo di superficiale approccio a tante ricerche e produzioni culturali statunitensi è stata in realtà tipica dell’epoca fascista e dei suoi esponenti intellettuali e susseguentemente ereditata dallo stalinismo e dalle sue derive togliattiane, dal cuore dell’impero occidentale, e proprio perché tale, arrivano segnali di grande vitalità teorica, spesso derivata da una prassi diffusa di conflitto sociale. Vitalità che si presenta anche sotto le forme di una rivitalizzazione del pensiero di Marx, che sa, però, scartare sapientemente le interpretazione muffite di tanti suoi interpreti “ortodossi”1.

L’autore, Joshua Clover, oltre tutto, non è un marxista “di professione”, anzi questo, uscito negli States nel 2016 ma oggi accompagnato da un Poscritto all’edizione italiana che lo aggiorna al 2022, è il suo primo studio di carattere politico, poiché è professore di English and Comparative Literature alla University of California”Davis”, motivo per cui Clover è autore sia di libri di poesia che di saggi di critica culturale, tra i quali va segnalato 1989: Bob Dylan Didn’t Have This to Sing About del 2009.

Il testo qui recensito segue il percorso della lunga onda, che sale e scende attraverso i secoli e le società, delle lotte dei lavoratori e dei ceti disagiati fin dal comparire di un’economia di mercato in età medievale, moderna e, infine, contemporanea. Un’analisi delle rivolte e della loro organizzazione che, secondo l’autore, è possibile svolgere proprio a partire dal lavoro di Marx sulla sfera della produzione e su quella della circolazione. Sostenendo, sulla base degli scritti del rivoluzionario tedesco, che la seconda non si riduce, come sosterrebbero gli “ortodossi” alla sola sfera dello scambio, ma che farebbe invece da sfondo all’agire sociale nel suo insieme poiché, come spiega Clover nel poscritto all’edizione italiana: «Una volta che l’agricoltura di sussistenza e il baratto locale sono sradicati, e le forme di servitù assoluta trasformate oppure occultate dalla legge, il proletariato, di qualunque tipo esso sia, si trova a dipendere dal mercato»2. E quindi ad agire all’interno di essa.

E’ in questo contesto che si svilupparono i riot del tardo medioevo e della prima età moderna, che raccoglievano poveri delle città, contadini rovinati dal progressivo diffondersi di norme economiche e legali che ne impedivano la sopravvivenza secondo le vecchie tradizioni comunitarie e strati sociali il cui unico orizzonte era rappresentato dalla necessità di ottenere un abbassamento dei prezzi per poter sfamare la propria persona e/o la propria famiglia. Riot in cui spesso erano protagoniste le donne che vivevano sulla propria pelle tutte le condizioni appena riassunte e che cercavano, nella sostanza, di imporre una forma di riduzione o di controllo dei prezzi delle merci.

Sono questi riot che precedono lo sciopero nel titolo. Sciopero che, tra mille difficoltà e durissimi scontri, diventerà la forma di lotta e di organizzazione della forza lavoro fin dall’apparire in Inghilterra della Rivoluzione Industriale e che rimarrà, nei fatti e nell’immaginario collettivo, lo strumento determinante per la battaglia per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro della classe lavoratrice. Almeno fino alla seconda metà del ‘900 in Occidente.

Forma di lotta prevalente all’interno della sfera della produzione che, però, finiva col costituire anche una forma di controllo dei prezzi attraverso un innalzamento del valore della forza lavoro.
In qualche modo la lotta intorno al mercato del lavoro finiva col sostituirsi a quelle intorno al mercato popolare e urbano. Forma di lotta spesso vincente sul lungo e medio periodo, ma che spesso ha finito coll’escludere dall’orizzonte proletario forme di lotta e fasce sociali che non potevano vantare un’appartenenza alla classe operaia o lavoratrice. Ma, c’è sempre un ma…

Storicamente, la forza dei lavoratori si è basata sulla crescita del settore produttivo e sull’abilità nel prendere possesso di una parte del sovrappiù in espansione. Dalla fine degli anni Settanta in poi, i movimenti dei lavoratori sono stati costretti a negoziati difensivi, venendo obbligati a tenere in vita le aziende capaci di fornire i salari e rendendo manifesta la dominazione del capitale in cambio della sua stessa preservazione. Chi lavora compare sulla scena in un periodo di crisi in quanto lavorator* e affronta una situazione nella quale “lo stesso fatto di agire come una classe appare come una costrizione esterna”. Tale dinamica, che potremmo descrivere come la trappola dell’auto-affermazione, è diventata una forma sociale generalizzata e un quadro concettuale, la razionale irrazionalità della nostra epoca. Il disordine intrinseco al riot può essere inteso come un’immediata negazione di tutto questo3.

Sottolinea più volte l’autore, nel corso del testo, che l’analisi delle lotte non può essere scissa da una teoria della crisi e da un’analisi materialistica delle condizioni in cui vengono a svolgersi e del contesto generale in cui si sviluppano.

Non appena le nazioni sovrasviluppate sono entrate in una crisi prolungata, per quanto ineguale, nel repertorio delle azioni collettive è tornata a prevalere la tattica del riot. Ciò è vero sia nell’immaginario popolare sia guardando ai dati (nella misura in cui questi ultimi possono dare adito a una comparazione statistica). A prescindere dalla prospettiva di volta in volta adottata, i riot hanno assunto una granitica centralità sociale. Le lotte del lavoro sono state in buona misura ridotte allo stato di sbrindellate azioni difensive, mentre il riot si propone sempre di più come la figura centrale dell’antagonismo politico, uno spettro che si insinua ora nei dibattiti di matrice insurrezionalista, ora negli ansiosi report governativi, ora sulle copertine patinate delle riviste. I nomi dei luoghi sono diventati punti cardinali della nostra epoca. La nuova era dei riot ha le proprie radici a Watts, Newark e Detroit; passa attraverso Tienanmen Square 1989 e Los Angeles 1992, arrivando, nel presente globale, a São Paulo, Gezi Park e San Lázaro. Il riot si configura come protorivoluzionario in piazza Tahrir, a Exarcheia è quasi permanente, con Euromaidan ha un orientamento reazionario. In una luce più sfumata: Clichy-sous-Bois, Tottenham, Oakland, Ferguson, Baltimora. Troppi, per poterli ricordare tutti4.

Potremmo aggiungere, come fa lo stesso autore in altra parte del testo, le lotte valsusine contro il TAV e dei Gilet Jaune in Francia, che proprio in questi giorni stanno riprendendo vigore intorno alla questione dell’innalzamento dell’età pensionabile proposta da presidente Macron e dal suo governo.

I riot stanno arrivando, alcuni sono già qui e altri sono in preparazione. Non c’è dubbio. Ci vuole una teoria adeguata. Una teoria del riot è una teoria della crisi. Questo è vero, in una dimensione locale e specifica, nel momento in cui i vetri vanno in frantumi e scoppiano gli incendi, quando il riot significa l’irruzione sulla scena, per la durata di poche ore o pochi giorni, di una situazione disperata, di un impoverimento estremo, della crisi di una certa comunità o amministrazione cittadina. Tuttavia, il riot può essere compreso soltanto se lo si considera dotato di valenze interne e strutturali e, per parafrasare Frantz Fanon, nella misura in cui possiamo discernere il movimento storico che gli dà forma e contenuto. A quel punto, ci si deve spostare su altri livelli nei quali la chiamata a raccolta tipica dei riot risulta inscindibile dall’attuale crisi sistemica del capitalismo. Inoltre, in quanto forma particolare di lotta, il riot è illuminante rispetto alla fisionomia della crisi, la rende nuovamente pensabile, e fornisce una prospettiva dalla quale osservarne lo sviluppo5.

Come si afferma ancora nella Nota editoriale del Gruppo di Ricerca Ippolita che ha voluto la pubblicazione del testo in Italia:

Il libro di Clover contribuisce a ridare dignità politica al riot, aiuta a ricostruire storicamente le sue trame costituite in gran parte da rivendicazioni più che legittime, ne propone una teoria in chiave marxiana. C’è, però, un elemento che, più di altri, ci ha convint* a pubblicarlo nella collana “Culture radicali”: il fatto che invita a considerare il riot non solo come una fiammata di malcontento o come una sommossa disordinata, ma, anche e soprattutto, come una formula multipla di proteste appropriata e necessaria, in riferimento a questo particolare momento storico. Esso pertanto comprende diverse forme di protesta: il presidio, il corteo, l’occupazione di piazze, strade, stazioni e così via. L’economia di produzione perde di centralità a vantaggio di quella di circolazione. Ciò fa sì che non sia solo il luogo e il modo a mutare, cioè la fabbrica e lo sciopero, ma necessariamente anche il soggetto che si riconfigura lungo gli assi della razza e – aggiungiamo – del genere, oltre a quello tipico della classe. Elemento, quest’ultimo, che comunque si ridefinisce comprendendo quelle fasce di popolazione tradizionalmente escluse dal concetto novecentesco di proletariato: i corpi che non contano. È sotto gli occhi di tutt*. In una congiuntura unica tra necropolitica di stato, disastro ecologico, neoliberalismo da rapina, tecnologie del dominio, violenza di genere e razzismo, negli ultimi dieci anni ha avuto luogo una serie straordinaria di eventi insurrezionali in ogni angolo del mondo […] In questo groviglio inseparabile di istanze e lotte, la tradizionale contrapposizione tra sciopero e riot salta, non funziona più perché figlia di un’altra epoca. Chi oggi insorge chiede migliori condizioni di vita – non solo un salario migliore –, chiede giustizia nelle sue diverse e numerose declinazioni. Questo percorso è ancora in divenire e, se è difficile prevederne l’esito, è, invece, facile immaginare che questa marea sia solo all’inizio e che non si placherà tanto facilmente. Di tutto ciò Joshua Clover propone una teoria brillante e sofisticata; il nostro intento, pubblicandolo, è che questo testo possa diventare uno strumento utile per le lotte di oggi e di domani6.

Certo, all’interno della teoria e della pratica del riot c’è stato un salto qualitativo rispetto a quelli ancora definiti dal Riot Act emanato da re Giorgio I nel 1714. Non a caso nel testo di Clover l’evoluzione è indicata dall’uso della formula riot-sciopero-riot’ che rinvia immediatamente a quella marxiana dell’accumulazione D-M-D’ , marcando un passaggio per accumulo di esperienze e di istanze che rendono i riot contemporanei diversi da quelli del passato. Intanto perché nel capitalismo attuale la sfera della circolazione si è ampliata ben al di là del mercato come luogo di scambio di merci.

Partendo dall’assunto marxiano che «La circolazione e lo scambio di merci, non crea nessun valore»7, Clover osserva che:

Sono categorie infinitamente problematiche e in questo hanno un peso i limiti di questo tipo di “circolazione”. Lo straordinario sviluppo dei trasporti, uno dei tratti distintivi della nostra epoca, sembrerebbe in un primo momento garantire una soluzione adeguata a questo problema, portando a una circolazione dei prodotti che tende verso la realizzazione come profitto del plusvalore valorizzato altrove. Altri sostengono la tesi contraria, e cioè che lo spostamento nello spazio aumenti il valore di una merce. Di fatto, nella loro accezione più ristretta, i “costi puri di circolazione” potrebbero limitarsi a quelle attività che istituiscono lo scambio stesso, il trasferimento astratto del titolo di proprietà: vendite, contabilità e attività simili. Inoltre, anche la finanziarizzazione e la “globalizzazione” (termine con cui si estende l’estensione verso i confini planetari delle reti e dei processi logistici, guidati dall’innovazione informatica) dovrebbero essere intese come strategie temporali e spaziali orientate verso l’internalizzazione di nuovi input di valore provenienti, rispettivamente, da altri luoghi e da altri tempi. Questo, tuttavia, può soltanto corroborare l’assunto secondo cui la fase attuale del nostro ciclo di accumulazione è definita dal collasso della produzione di valore alla base del sistema-mondo; è per questo motivo che il centro di gravità del capitale si è spostato verso la circolazione, sostenuto dalla troika del toyotismo, dell’informatica e della finanza. I dati sono, in questo senso, illuminanti. Come osserva Brenner, «[d]al 1973 a oggi, la performance economica degli Stati Uniti, dell’Europa occidentale e del Giappone è peggiorata secondo tutti gli indicatori macroeconomici standard, ciclo dopo ciclo, decennio dopo decennio (con la sola eccezione della seconda metà degli anni Novanta)»8. La crescita del PIL globale dagli anni Cinquanta agli anni Settanta è rimasta sempre al di sopra del 4 per cento; in seguito, si è arrestata al 3 per cento o ancora meno, a volte molto meno. Durante la Lunga Crisi, anche il periodo migliore è stato peggiore, nel complesso, della fase peggiore del lungo boom precedente. Anche se stabilissimo che il trasporto può essere parte tanto della valorizzazione quanto della realizzazione del profitto, dovremmo in ogni caso confrontarci con il fatto che i grandi avanzamenti sul piano del trasporto globale e l’accelerazione del tempo di turnover rispetto agli anni Settanta coesistono, nelle maggiori nazioni capitaliste, con il ripiegamento della produzione. […] In ogni caso, né la spedizione delle merci né la finanza sembrano aver arrestato la stagnazione e il declino della redditività globale. […] Tuttavia, questo non significa che tra gli effetti non ci sia stato quello di consolidare i profitti delle singole aziende, che possono ottenere vantaggi competitivi dal calo dei loro costi di circolazione, in una politica beggar thy neighbour (“impoverisci il tuo vicino”) trasposta nell’era dell’informatica. […] Senza addentrarci troppo nel labirinto marxologico, possiamo affermare in modo piuttosto incontrovertibile che nel periodo in questione il capitale, di fronte a profitti notevolmente diminuiti nei settori produttivi tradizionali, va a caccia degli utili oltre i confini della fabbrica – nel settore FIRE (Finance, Insurance e Real Estate), secondo le rotte predisposte dalle reti globali della logistica – pur non trovandovi alcuna soluzione percorribile alla crisi che, in prima battuta, l’ha allontanato dalla produzione. Anzi, l’agitazione è sempre più frenetica, gli schemi più elaborati, le bolle più grandi, e più grandi le esplosioni. In un moto di disperazione dialettica, lo stesso meccanismo che ha incluso il capitale nella sfera fratricida della circolazione a somma zero opera più o meno allo stesso modo nei confronti di un numero crescente di esseri umani. Crisi e disoccupazione, i due grandi temi de Il Capitale, sono entrambi espressione del tragico difetto del capitalismo che, nella ricerca del profitto, deve prosciugarne la sorgente, scontrandosi con i suoi limiti oggettivi nell’incessante rincorsa all’accumulazione e alla produttività […] L’unitarietà di questo fenomeno rende manifesta anche la contraddizione tra plusvalore assoluto e relativo. Le lotte intercapitaliste per ridurre i costi di tutti i processi correlati arrivano alla reiterata sostituzione della forza lavoro con macchine e forme di organizzazione più efficienti, e questo, nel tempo, aumenta la ratio del rapporto tra capitale costante e capitale variabile, tra lavoro morto e lavoro vivo, espellendo l’origine del plusvalore assoluto dalla lotta per la sua forma relativa. La crisi è uno sviluppo di queste contraddizioni fino al punto di rottura. Ciò prevede non tanto una carenza di denaro, bensì il suo sovrappiù. Il profitto maturato giace inutilizzato, incapace di trasformarsi in capitale, poiché non c’è più alcuna ragione abbastanza attrattiva per investire in nuova produzione. Le fabbriche vanno tranquillamente avanti. Cercando salari altrove, chi è stat* licenziat* scopre che l’automazione che avrebbe dovuto ridurre la sua fatica si è ormai generalizzata nei vari settori. Adesso il lavoro non utilizzato si accumula gomito a gomito con la capacità produttiva non utilizzata. È la produzione della non-produzione. Siamo tornati, in una forma in qualche modo diversa, a una questione di classe, nella forma in cui Marx la descrive nel Capitale come “sovrappopolazione consolidata, la cui miseria sta in ragione inversa del suo tormento di lavoro. Quanto maggiori infine sono lo strato dei Lazzari della classe operaia e l’esercito industriale di riserva tanto maggiore è il pauperismo ufficiale. È questa la legge assoluta, generale, dell’accumulazione capitalistica”9.

Chi è espulso, o sta per esserlo, dai luoghi di produzione e dal mercato del lavoro non può far altro che colpire il capitale là dove finge ancora di aggiungere valore ai suoi prodotti ovvero bloccando reti stradali e autostradali, ferroviarie, informatiche e porti. Forse per questo le leggi sui blocchi stradali, come qui in Italia, vanno organizzandosi in forme sempre più dure.
Motivo per cui mentre nel ‘700

lo stato era lontano, mentre l’economia era vicina. Nel 2015, lo stato è vicino e l’economia lontana. La produzione è nebulizzata, le merci sono assemblate e distribuite secondo catene logistiche globali. Anche i prodotti alimentari più basilari possono essere stati prodotti in un altro continente. Nel frattempo, si è sempre a tiro dell’esercito permanente interno d ello stato, progressivamente militarizzato con il pretesto di dover fare la guerra alle droghe o al terrore. Il riot’ non può fare a meno di sollevarsi contro lo stato: non c’è alternativa10.

Tra gli obiettivi immediati, lo abbiamo visto negli Stati Uniti con i riot avvenuti dopo l’uccisione di afroamericani dal 1992 a Los Angeles fino ad oggi, vi sono infatti i commissariati di polizia, luoghi in cui la violenza e la sopraffazione statale espongono spesso il loro vero volto. Ma anche i supermercati o catene di negozi il cui saccheggio odierno finisce col riunire il riot’ con il suo predecessore più antico

La principale difficoltà nella definizione del riot deriva dalla sua profonda correlazione con la violenza; per molti, questa associazione è talmente connotata dal punto di vista affettivo, in una direzione o nell’altra, che è difficile da dissipare, rendendo arduo, in questo modo, osservare anche altri aspetti. Non c’è dubbio che molti riot implichino l’uso della violenza – la stragrande maggioranza, probabilmente, se si includono in questa categoria i danni alla proprietà, o le minacce, tanto dirette quanto indirette. […] Che i danni alla proprietà siano equiparabili alla violenza non è tanto una verità, quanto l’effetto di un’adozione di un particolare discorso sulla proprietà, di origine relativamente recente, che implica una specifica identificazione degli esseri umani con una ricchezza astratta di qualche tipo e che porta, ad esempio, alla considerazione giuridica delle corporations in termini di “persone”. In ogni caso, l’enfasi sulla violenza del riot riesce efficacemente a oscurare la violenza quotidiana, sistematica e ambientale che giorno dopo giorno perseguita le vite di gran parte della popolazione mondiale. La visione di una socialità generalmente pacifica nella quale la violenza scoppia soltanto in circostanze eccezionali è un immaginario che solamente alcuni si possono permettere. Per gli altri – la maggioranza – la violenza sociale è la norma. La retorica del riot violento diventa uno strumento di esclusione, indirizzato non tanto contro la “violenza”, ma contro gruppi sociali specifici. Inoltre, per più di due secoli, anche gli scioperi hanno spesso fatto ricorso alla violenza: battaglie campali tra chi lavora, da un lato, e poliziotti, crumiri e picchiatori mercenari, dall’altro, che al loro culmine assomigliavano a scontri militari11.

Occorre, per motivi di spazio chiudere qui il discorso su un testo che presenta molti validi motivi per essere letto e diffuso, costituendo una sorta di storia del capitalismo e delle sue crisi attraverso lo sguardo dal basso che proviene da chi lotta, in un mondo in cui razializzazione delle lotte e coincidenza tra chi lavora e chi è comunque costretto a consumare apre nuovi e problematici orizzonti di ricerca per il lavoro militante, non soltanto teorico. E anche se molti attivisti e militanti di “sinistra” vorrebbero avere a che fare con lotte e obiettivi già ben delineati e “facili” da perseguire, Clover sottolinea ancora come una caratteristica di queste lotte possa essere quella di una certa familiarità con le destre.

Il tentativo di pseudogolpe attuato negli Stati Uniti il 6 gennaio 2021 è stato senza dubbio un riot di destra, la piazza Syntagma della reazione. Un anno più tardi, sono stati i “Freedom Convoys” ad apparire in varie località, con il blocco delle principali arterie e dei corridoi commerciali come protesta contro i protocolli medici imposti dagli Stati in risposta alla pandemia. I blocchi più duraturi sono avvenuti in Canada, e la parentela di questi riot con la variante nazionale canadese dei gilets jaunes, nel 2019, non è passata inosservata. Tuttavia, quei riot portavano con loro anche i ricordi dei blocchi indigeni sugli assi di comunicazione transfrontalieri, economicamente cruciali, tra il commercio canadese e gli Stati Uniti. Tale deriva attraverso lo spettro politico chiarisce quello che dovrebbe essere già evidente: le lotte della circolazione sono una tecnica. Non hanno un contenuto politico prestabilito. In un certo senso, anzi, il loro contenuto è la mancanza di contenuto: sono lotte che ricevono una definizione in funzione della loro apertura a un ampio ventaglio di attori sociali, e possono quindi diventare la via maestra per l’espressione di una vasta gamma di tensioni sociali. D’altro canto, non si tratta di una situazione completamente amorfa. Questi riot di destra hanno un carattere nazionalista, razzista, devoto alle gerarchie e alle pratiche di dominazione, che non può passare sotto silenzio. Per contro, tale analisi non può essere svincolata dalla constatazione che il declino nelle opportunità di vita è arrivato a lambire quei gruppi sociali che per lungo tempo non ne erano stati toccati: la “classe media”, la petite bourgeoisie, e così via. Il motivo per cui tutto questo arriva talvolta a lambire la sinistra (come per buona parte del movimento Occupy) e talvolta la destra (come per i Freedom Convoys) non è chiaro. Siamo entrati in un periodo storico in cui i palliativi e i disciplinamenti dell’economia sono sempre meno a disposizione, e lo stato è sempre più obbligato a imporre con la forza il proprio ordine, apparendo sempre di più come il principale antagonista in campo. Potrebbe essere che questo sviluppo corrisponda a un indebolimento dello stesso spettro politico destra-sinistra, il cui orientamento, ormai, non è facilmente individuabile tra i poli-, pro- e anti-stato, pro- e anti-capitalismo. Allo stesso tempo e indipendentemente da una simile volatilità ideologica, queste forme di contestazione continuano a essere le armi a disposizione di chi subisce l’esclusione dalla buona vita, di chi soffre lo spossessamento delle proprie terre (senza che vi sia alcun assorbimento nella classe operaia), di chi riceve il marchio generazionale dell’essere stati proprietà di qualcun altro e di chi sperimenta la degradazione nell’ambito del lavoro domestico. È il conflitto che sceglie i propri attori, e non viceversa; questo, tuttavia, non sminuisce in alcun modo le lotte, gli sforzi, i rischi e la furia morale che informano i conflitti, così come non sminuisce il fatto che questa individuazione si basa, tra l’altro, sul fatto che le storie di depauperazione sono anche storie di formazione di classe. Tutto ciò non sminuisce le speranze di emancipazione che hanno queste persone. Ed è questo che, con ogni probabilità, manda in tilt l’equilibrio rappresentato dalla terza ambiguità. Le lotte della circolazione, in costante crescita, non si assoggettano con facilità ad alcuna volontà politica e sono qui per restare. In questo frangente, le loro tecniche possono essere appropriate da qualsiasi tipo di gruppo sociale, anche da quelli che aspirano a una distruzione reciproca. Chi continuerà a ribadire la qualità emancipatrice di tali lotte dovrà accettare il fatto che dentro alla rivoluzione ce n’è sempre un’altra: non una rivoluzione centrata sul significato di queste lotte, ma su quello che esse riusciranno a realizzare, sul loro ambiguo futuro12.

* Il titolo scelto vuole costituire un omaggio a uno degli studi più significativi sulla violenza nella storia e nella società, Rising Up and Rising Down, un trattato sulla violenza in sette volumi di 3.300 pagine di William T. Vollmann. Pubblicato all’inizio deI 2004 negli USA ha visto, l’anno successivo, l’uscita di una versione ridotta a un solo volume che rappresenta il frutto di oltre vent’anni di lavoro, uscita in Italia con il titolo Come un’onda che sale e che scende. Pensieri su violenza, libertà e misure di emergenza (Mondadori 2007 – oggi ripubblicato da Minimum Fax, 2022).


  1. Cfr.: M. Nacci, L’antiamericanismo in Italia negli anni Trenta. Bollati Boringhieri 1989 e la polemica tra Togliatti ed Elio Vittorini sui contenuti di «Il Politecnico», una rivista di politica e cultura fondata dallo stesso Vittorini, pubblicata a Milano dal 29 settembre 1945 al dicembre1947. Il periodico basato su un programma antiaccademico, pragmatico e divulgativo pur senza cedere al “popolare”, conteneva, tra le altre cose, saggi di sociologia e testi di letteratura americana. Cosa che continuava la ricerca di nuove e vitali esperienze letterarie già avviata da Vittorini con la sua celebre antologia Americana, uscita nel 1942 ma accompagnata, come afferma Michela Nacci nel suo lavoro sull’antiamericanismo, da «un’introduzione di Emilio Cecchi. Qui si possono leggere alcune tra le frasi più velenose che la civiltà americana abbia mai suscitato nei suoi critici, qui stanno alcuni dei giudizi più pesanti su quella letteratura, qui il mito positivo trova posto solo come tendenza da combattere; la letteratura americana è “letteratura barbara, o in certo qual modo primitiva”, è “come dementata e percossa dal ballo di san Vito”» ( p. 14). Tale introduzione all’antologia sarebbe stata rimossa soltanto nell’edizione Bompiani del 1968.  

  2. J. Clover, Lotte della circolazione: tre ambiguità in J. Clover, Riot. Sciopero. Riot. Una nuova epoca di rivolte, Meltemi editore, Milano 2023, p.220  

  3. J. Clover, Riot. Sciopero. Riot, op. cit., p. 49  

  4. Ibidem, p.21  

  5. Ibid, p. 19  

  6. Gruppo di Ricerca Ippolita, Nota editoriale in J. Clover, op. cit., pp. 9-10.  

  7. K. Marx, Das Kapital [1867]; tr. it. di A. Macchioro, B. Maffi (a cura di), Il Capitale, UTET, Torino 1996, p. 214  

  8. R. Brenner, What’s Good for Goldman Sachs, prologo all’edizione spagnola di The Economics of Global Turbulence [2006], La economía de la turbulencia global, Akal, Madrid 2009, p. 6.  

  9. J. Clover, op. cit., pp.41-45  

  10. Ibidem, p. 48  

  11. Ibid., pp. 30-31  

  12. Ibid, pp. 230-232. Sugli stessi temi si veda anche S. Moiso (a cura di), Guerra civile globale. Fratture sociali del terzo millennio, Il Galeone Editore, Roma 2021  

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Si vis pacem… appunti su guerra o rivoluzione. https://www.carmillaonline.com/2023/01/10/si-vis-pacem-appunti-su-guerra-o-rivoluzione/ Mon, 09 Jan 2023 23:11:17 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=75608 di Jack Orlando

Evento. Ripetizione. Cronaca. Normalizzazione. Panico. Ansia. Accettazione. Assuefazione. Nell’epoca della crisi permanente e dell’ipertrofia dell’infosfera ogni catastrofe è merce deperibile. Ogni “evento” è destinato alla ripetizione seriale fino allo svuotamento di potenza, anticamera della sua normalizzazione e messa a sistema nella sua conversione in dispositivo di controllo.

Crack finanziario, crisi ambientale, pandemia, guerra. Al panico diffuso dallo schermo si accoda la reazione scomposta tra chi si stringe attorno al re, colpevole della catastrofe stessa, chi tenta di denunciarne la responsabilità e chi diserta ritirandosi nel proprio guscio. E passano [...]]]> di Jack Orlando

Evento. Ripetizione. Cronaca. Normalizzazione.
Panico. Ansia. Accettazione. Assuefazione.

Nell’epoca della crisi permanente e dell’ipertrofia dell’infosfera ogni catastrofe è merce deperibile.
Ogni “evento” è destinato alla ripetizione seriale fino allo svuotamento di potenza, anticamera della sua normalizzazione e messa a sistema nella sua conversione in dispositivo di controllo.

Crack finanziario, crisi ambientale, pandemia, guerra.
Al panico diffuso dallo schermo si accoda la reazione scomposta tra chi si stringe attorno al re, colpevole della catastrofe stessa, chi tenta di denunciarne la responsabilità e chi diserta ritirandosi nel proprio guscio.
E passano i giorni senza che mai il baratro che si preannuncia dietro l’angolo arrivi mai a compimento, e la catastrofe finisce per essere metabolizzata ed accettata: attorno ad essa si rinsalda il legame sociale, più stretto, soffocante e fragile che mai.

È forse una cattiva abitudine di cultura e immaginario, quello di pensare l’evento come interruzione definitiva del continuum che porti alla fine di tutto. Apocalittismo holliwoodiano.
La realtà, più cruda, come scritta su un muro, è che la catastrofe è ogni giorno in cui non succede nulla.

A distanza di quasi un anno dall’inizio dell’operazione speciale in Ucraina, assistiamo alla normalizzazione dell’evento bellico nelle sempre più rachitiche democrazie occidentali. La Zeta segnata sui carri russi ha varcato i patrii confini inaugurando una nuova fase. E poi si è impantanata nel fango delle trincee. L’evento si è incastrato, si è replicato ed ha amplificato, anestetizzandola, la sua atrocità.

Le edizioni speciali del telegiornale, dopo il primo ossessivo clamore, sono terminate; la possibilità di una escalation termonucleare, potenzialmente definitiva per la vita sul pianeta, da minaccia terrificante si riduce a banale possibilità nel ventaglio delle variabili.
Così l’opposizione alla guerra, dai latrati scomposti, è ridotta a marchetta elettorale prima, a rivendicazione sfocata su carta da volantino poi.
La catastrofe del quotidiano, resa più insopportabile dal senso di ovattamento generale. E intanto fiumi di armamenti viaggiano verso est, piove fuoco e si accumulano cadaveri ai confini orientali della vecchia Europa, le cui fondamenta scricchiolano sempre di più lasciando presagire nuove tornate di disastri.

Afferrare il diavolo per la coda allora. Come su queste pagine abbiamo provato a fare più e più volte: cercare il punto focale da cui diramare una indagine che è azione, che si proietti oltre il futuro di oggi. O almeno, uno dei possibili punti focali.
La guerra. Già detto. Come questione divisiva e dirimente.

È desolante guardare con quanta poca verve si è accolto questo elemento, con quale grado di confusione lo si è lasciato entrare in casa.
Perché? Una prima ipotesi, avanzata da Maurizio Lazzarato nel suo ultimo libro1, perché abbiamo smesso di pensarla.

Si è smesso di pensare che la guerra potesse far parte ancora della civiltà occidentale, che non fosse uno dei presupposti della sua stessa esistenza. Che in un sistema basato sulla competizione e la supremazia la pace non sia che una parentesi, armata, tra l’esplodere delle ostilità.
Ci si è coccolati in questo pensiero, che non fu solo dei cantori del neoliberalismo con le sue magnifiche sorti e progressive, ma anche di chi avrebbe dovuto sovvertire la tendenza e rovesciare l’esistente tutto.
Tagliando fuori l’elemento bellico dal pensiero politico, non si è ottenuto altro che una immagine pacificata dello Stato e del Capitale e ci si è consegnati, disarmati, ad un nemico che si è ad un tratto creduto tollerante, nonostante la sua superiorità poggiasse sulla sconfitta truce e violenta delle classi subalterne e sulla messa al bando di ogni tentativo rivoluzionario.

E la sua superiorità non è nemmeno coincisa con una cessazione delle ostilità, anzi, più uno dei due poli è andato mostrandosi debole, più l’avversario ha colpito forte e senza pietà.
Tendenza alla guerra, inimicizia assoluta, volontà di annientamento del nemico. Lo scriveva bene il giurista tedesco.
Guerra di classe. Ma mossa dall’alto in basso.
Ed ecco allora il deprimersi delle condizioni di vita della classe lavoratrice, mentre in alto i profitti si vanno accumulando vergognosamente; ecco il restringersi degli spazi di democrazia e partecipazione popolare alla gestione della cosa pubblica; ecco l’esclusione di ogni critica sociale dal rango delle ipotesi accettabili; ecco la polizia come unico volto dello Stato.
Ecco che, per un petardo del cazzo, si finisce sepolti vivi nelle galere di un paese democratico.

E non dovrebbe esserci nulla di stupefacente in fondo. Non è vero che quanto successo al confine europeo è un incidente della globalizzazione.
Il capitale è nato come guerra di rapina e come sopruso. È stato forgiato in un continente cui la modalità storica della relazione tra attori in campo, la loro stessa identità, si è incentrata sulla guerra e sempre solo sulla guerra.

Dai campi recintati che hanno costretto contadini affamati e privati di terre a buttarsi nel tritacarne della fabbrica alle case di correzione per disciplinarli ad un lavoro inumano, fino ai roghi che bruciano corpi di donne per estirpare ogni traccia di cultura ed identità autonoma; il capitalismo si è imposto nella realtà europea come rapina e come brutale sottomissione di corpi ed energie collettive. Si è espanso nel globo con la guerra di corsa, con il mercato schiavile, con lo sterminio di popoli indigeni e le catene ai polsi dei popoli colonizzati.
Fabbrica, carcere, colonia, patriarcato. Le colonne portanti del sistema capitalista non si sono imposte col denaro ma col ferro. Nessun mercante avrebbe ottenuto nulla senza il servizio di un braccio armato.
Il vangelo si è diffuso nei secoli a fil di spada, come la democrazia ieri la si faceva cadere con le bombe a grappolo.

Ed è ormai da oltre un secolo, e precisamente dalla prima guerra mondiale, che è chiaro come la guerra, intrecciatasi alle potenze di industria e finanza, non rivesta più un carattere contingente e specifico, che non interessi semplicemente una parte della macchina statuale deputata, appunto, alla conduzione bellica. Ma sia affare totale.
Nell’esplosione guerresca, la distruzione dei e nei campi di battaglia, attira attorno alla macchina stato-capitale, tutte le forze e le energie creative e produttive del corpo sociale; cattura la tecnologia e la ricerca, catalizza il consenso e ammutolisce l’opposizione, scavalca gli orpelli giuridici e pone, nuda e cruda la necessità di produrre per la patria. Di dissanguarsi per la vita dei padroni.

Mettere a fuoco la guerra, la sua relazione intima e imprescindibile con il modo di produzione del capitale è un passaggio imprescindibile per poter pensare di spezzarne la tendenza mortifera.
Ed ora che il piano inclinato delle armi si è messo in moto e la sua generalizzazione si fa sempre più probabile, pur se meno rumorosa, allora diventa questione di urgenza fatale.

Non che non ci tocchi la tragedia umana di chi si vede piovere missili sopra la testa. Ma non è al cessate il fuoco sui campi di battaglia che pensiamo quando diciamo opposizione alla guerra.
Quando diciamo opposizione alla guerra intendiamo la necessità di battere alla propria latitudine il proprio padrone collettivo per farne tacere i cannoni.
Non c’è alcuna presa di posizione da fare negli schieramenti in guerra, se non quella dei disertori e della truppa che spara sui propri generali.

Zimmerwald. Trasformare la guerra imperialista in guerra civile. Parigi. I comunardi contro cannoni prussiani e soldataglia francese.
Frammenti del passato per rischiarare il presente. Inattuabili allo stato dell’arte, non fosse altro che per l’impotenza delle forze antagoniste.
Eppure questo è il momento in cui, cadute le maschere, finalmente si può guardare il mondo per quello che è e la politica per la sua reale funzione. Laboratorio permanente dei rapporti di forza, dispiegamento dell’inimicizia sul piano reale.

La guerra non è una fase, la guerra è nella trama dell’esistente, ne siamo immersi.
È questo uno dei punti attraverso cui inseguire e ricucire le contraddizioni sparse sul tavolo. Uno dei fili attraverso cui ricomporre il disegno.
La pace non è mai stata un’opzione con chi ha deciso di tenere il pianeta con uno scarpone sul collo. Qui la politica, la militanza, l’azione o decidono di portare il segno dello scontro o, semplicemente, non sono.
Per imporre le condizioni per la fine della guerra, bisogna prima disarticolare l’apparato del dominio. Il famoso coltello puntato al collo dell’imperialismo.
In caso contrario, l’unica pace possibile è quella incisa nella pietra, all’ingresso dei cimiteri.


  1. Maurizio Lazzarato; Guerra o rivoluzione. Perchè la pace non è un’alternativa; DeriveApprodi; Roma 2022;141 pp. 13€ 

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Complottismo e narrative egemoniche: sono così diverse? https://www.carmillaonline.com/2022/11/04/complottismo-e-narrative-egemoniche-sono-cosi-diverse/ Thu, 03 Nov 2022 23:00:19 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=74465 di Stefano Boni

Per certi versi quelle che sono classificate come “teorie del complotto” (quelle che circolano con rabbia principalmente su internet) e le narrative egemoniche (quelle irradiate a reti unificate dai TG, dai quotidiani e dalle agenzie di stampa) sono antitetiche. Le principali divergenze riguardano i contenuti (ciò che si ritiene, se non vero, credibile) e i toni (accesi, a tratti furiosi in quello che viene denominato complottismo; ingessati e rassicuranti nella informazione legata ai – se non prodotta dai – poteri istituzionali). Questa frattura epistemologica sempre più profonda tra chi [...]]]> di Stefano Boni

Per certi versi quelle che sono classificate come “teorie del complotto” (quelle che circolano con rabbia principalmente su internet) e le narrative egemoniche (quelle irradiate a reti unificate dai TG, dai quotidiani e dalle agenzie di stampa) sono antitetiche. Le principali divergenze riguardano i contenuti (ciò che si ritiene, se non vero, credibile) e i toni (accesi, a tratti furiosi in quello che viene denominato complottismo; ingessati e rassicuranti nella informazione legata ai – se non prodotta dai – poteri istituzionali). Questa frattura epistemologica sempre più profonda tra chi è convinto che le istituzioni, nel loro complesso, siano credibili e chi invece le vede come organi di manipolazione di massa, è ormai evidente.
Quello su cui non ci si sofferma è ciò che accomuna questi due filoni narrativi: le loro similitudini riguardano fondamentalmente i processi cognitivi di costruzione di quello che Foucault chiamava i regimi di verità ovvero “l’insieme delle regole secondo le quali si separa il vero dal falso e si assegnano al vero degli effetti specifici di potere”. A Foucault non interessa stabilire cosa sia vero o falso ma la costruzione di regimi, culturalmente specifici, in cui certe affermazioni appaiono a certi gruppi come tali: ciò che viene socialmente ritenuto autentico o fraudolento è prodotto e produttore delle dinamiche di potere prevalenti.

… credo che il problema non sia di fare delle divisioni tra ciò che, in un discorso, dipende dalla scientificità e dalla verità e ciò che dipende da altro, ma di vedere storicamente come si producano degli effetti di verità all’interno di discorsi che non sono in sé né veri né falsi (Foucault 1977: 25-27, 13).

Questo approccio ci permette un’operazione antropologica, finalizzata non tanto a giudicare la veridicità delle credenze proposte da diversi contesti ma piuttosto cercare il senso di ciò che le narrazioni esprimono per chi le formula e le ascolta. Questo è stato lo sguardo usato dall’antropologia per comprendere l’effetto sociale di miti, cosmologie, rituali, pratiche occulte; si può applicarlo anche a quelle che vengono denominate “teorie del complotto” e alle narrazioni istituzionali contemporanee.
Quello che accomuna “teorie del complotto” e narrative egemoniche è la costruzione di regimi di verità fondati su drastici meccanismi di semplificazione. Queste non sono chiaramente dinamiche inedite (la storia ne è piena sia tra i dominanti che i dominati) ma mi pare innegabile un’accentuazione di processi di decisa riduzione della complessità negli ultimi due decenni. Di seguito illustro alcuni di questi meccanismi di semplificazione, facendo notare come siano cruciali in entrambi i lati della contesa contemporanea su ciò che sia da ritenere vero.

1. Linguaggio post-ideologico. Chi viene denominato complottista così come le narrazioni egemoniche sono concordi nel constatare che siamo in una fase di transizione: i principali media insistono sullo stato di “crisi” o “emergenze”; le teorie del complottano hanno una visione più millenarista che sostiene l’approssimarsi della fine di un mondo corrotto e insostenibile. Per entrambi i campi, le categorie novecentesche sono ormai desuete. Le parole, gli schemi, le interpretazioni, i temi trattati da entrambi i filoni narrativi hanno ormai abbandonato l’ambito di quello che è stata la politica novecentesca, centrata sulla razionale valutazione del sistema migliore di gestione del bene pubblico. Nel racconto egemonico gli atti di governo sono sempre più ricondotti all’inevitabilità, alla necessità tecnica, fondata su pseudo-spiegazioni algoritmiche-numeriche (Boni 2022). Nelle cosiddette teorie del complotto si propongono letture che non si accontentano di proporre un aggiustamento dell’arte del governo ma chiedono una radicale palingenesi legata a profonde discontinuità etiche e spirituali; le affiliazioni e le diatribe politiche novecentesche vengono spesso ritenute vetuste e inutili. Il linguaggio di entrambi i generi narrativi più che finalizzato a ricostruire una descrizione affidabile e proporre una convincente strategia di gestione mira a suscitare emozioni riconducibili a dicotomie: giusto/ sbagliato oppure buono/ malefico. L’enfasi morale richiede di direzionare il messaggio alle viscere di chi ascolta piuttosto che fare affidamento sulla complessa negoziazione di soluzioni in contesti eterogenei.

2. L’enorme potere esplicativo del dettaglio. I processi odierni di semplificazione analitica si nutrono di spiegazioni fondate sull’attribuzione di un enorme capacità esplicativa a frammenti di documentazione piuttosto che ad un vaglio complessivo della serietà delle “prove” a sostegno della narrazione. Innanzitutto si elimina la profondità storica fino a neutralizzarla: la narrazione rimane sul presente (significativa ad esempio la capacità di far iniziare il conflitto russo-ucraino nel 2022 o la sostanziale accettazione degli USA come credibili paladini democratici, cancellando decenni di imperialismo e appoggio a dittatori sanguinari). In secondo luogo ci si affida a schegge di informazione: un’immagine, una frase, un video, un singolo evento possono essere usati come chiavi di lettura risolutive per farsi un’idea su dinamiche stratificate, sfaccettate, complesse. In questo modo alcune teorie complottiste riducono il capitalismo al piano diabolico di una setta (i miliardari ebrei), di una famiglia (ad esempio i Rothschild), di un fondo di investimento (ad esempio Blackwater) o di un economista (ad esempio Klaus Schwab) piuttosto che esaminare il complesso di forze in atto. Allo stesso modo i movimenti noGP possono essere etichettati come fascisti con un processo di estensione su un movimento variegato di una (piccola) parte attentamente amplificata attraverso la pubblicizzazione di certi eventi (l’assalto alla CGIL) attentamente selezionati se non proprio generati ad arte. In questo processo analitico fondato su frammenti di documentazione la cui valenza esplicativa viene generalizzata, la tendenza a personificare, ovvero a spiegare facendo riferimento non a dinamiche sociali o strutturali, ma a singoli individui (spesso portatori di piani diabolici), diventa comune: “la guerra di Putin” o “i divieti di Draghi”.

3. Assolutismo. Si tratta essenzialmente di non lasciare alcun spazio al dubbio, all’ambivalenza, alla contraddizione, alla eterogenesi dei fini. La narrazione si presenta come un monoblocco solido e inattaccabile fondato su una spiegazione lineare: obiettivo-azione-effetto previsto. L’impianto narrativo, spesso improntato sullo svelamento di un arcano, spiega tutto in modo convincente ed esaustivo. Di conseguenza le narrazioni richiedono un’adesione fideistica, un allineamento integrale piuttosto che una valutazione o interpretazione. Ne consegue una dicotomizzazione delle verità, senza la possibilità di percorrere interpretazioni ibride o di soffermarsi sulle sfumature. Il filone narrativo concorrente infatti non risulta solo meno convincente ma insensato, falso, mistificatorio. I media egemonici deridono “i complottismi” come fake news, espressione di credenze patologiche. L’affermarsi della convinzione (poco problematizzata) che esistano fake news presuppone che invece i canali legittimi irradino true news. Attraverso questa brutale semplificazione un modello epistemologico irriducibilmente dicotomico è servito: se non si propongono notizie catalogabili dai media egemonici come vere, si cade automaticamente nella categoria, stigmatizzabile a piacimento, dei diffusori di falsità. Diventa così sempre più complicato formulare critiche radicali popolari perché si corre il rischio di essere sbrigativamente catalogati come chi sostiene un assurdo complotto. D’altro lato le critiche popolari etichettate come complottiste tendono a fondarsi su sentimenti di delusione e rabbia; queste portano all’individuazione di nuclei di verità critica occultati dalla narrazione egemonica; l’espressione pubblica di queste letture sovversive prevede una palingenesi epistemica produttrice di interpretazioni eretiche, incompatibili con le letture istituzionali.

4. L’abbandono della dialettica. Le credenze si costruiscono e rimangono sempre più bolle auto-referenziali, sia quelle mediatiche sia quelle diffuse su blog e social network proponenti teorie riconducibili al complottismo, nel senso che non vengono sottoposte al vaglio di chi la pensa diversamente. Ormai è scarsa la volontà – sia da parte di chi irradia ma anche da parte di chi riceve le narrazioni – di costruire la credenza sul confronto argomentato tra una diversità di letture. Il contraddittorio con interpretazioni distanti, anche antitetiche, ci obbliga ad esaminare in maniera attenta una documentazione complessa e ambivalente; consente di aggiustare la propria tesi in base alle obiezioni di chi la pensa diversamente; permette di sondare posizionamenti intermedi o imprevisti; ci costringe a cautele epistemologiche, metodologiche e narrative che l’auto-referenzialità delle narrazioni contemporanee non prevede. La mancanza di confronto, o meglio l’indisponibilità ad ascoltare seriamente la posizione altrui, spinge ad adesione fideistiche e impermeabili oltre che ad una polarizzazione delle credenze. Lo svuotamento della dialettica sul piano narrativo completa l’opera di delegittimazione di qualsiasi forma di conflitto portato dai movimenti sociali, ridotti a problema di ordine pubblico. La volontà di dialogo è stata assente in modo evidente durante la sindemia, fino alla richiesta da parte di un ex-primo ministro di “modalità meno democratiche nella somministrazione dell’informazione” finalizzata a ridurre ulteriormente quello che appariva uno spazio di dibattito già praticamente inesistente1 (il fatto che a distanza di due anni ancora non ci siano dibattuti pubblici tesi a confrontare posizioni divergenti sulla gestione pandemica è significativo così come la sostanziale assenza di confronto pubblico acceso di fronte al pericolo nucleare!). In tale contesto, il progressivo ritorno della censura generalizzata sui canali social ma anche televisiva (apparentemente salvata con l’apparizione di sporadiche voci dissenzienti che possono essere comodamente massacrate sia perché minoritarie, sia perché lo spazio per un ragionamento non c’è, sia perché le posizioni presentate come eversive sono già state neutralizzate dalla loro ossessiva derisione). Allo stesso modo le teorie del complotto non prevedono la possibilità di chiedere documentazione complessa, di dissentire in parte, di sollevare obiezioni. Ci si arrabbia sempre meno al bar e si discute sempre meno in strada, ognuno stretto nei suoi regimi di verità.

L’accentuazione di questi processi è riconducibile, tra l’altro, a tre dinamiche. Le prime due sono riferibili ad una crisi della informazione egemonica non più in grado di generare consenso e perlomeno quiescenza in settori ampi, gruppi non riconducibili più al solo mondo dell’attivismo politico “classico”.
Primo, lo spostamento della politica, e quindi del conflitto politico, da un ambito razionale ad uno emotivo, finalizzato a generare sensazioni: i media ultimamente solleticano le emozioni legate all’emergenza (ansia e paura in primis) mentre quelle classificate come teorie del complotto alimentano principalmente la rabbia anti-sistema. I movimenti attuali e futuri sembrano sempre più caratterizzati da una collera indirizzata verso l’alto e una frustrazione livorosa verso gli altri dominati, alimentando una progressiva polarizzazione, fino a scenari di guerra civile.
Secondo, una crisi epistemica della informazione egemonica non più in grado di generare consenso, o perlomeno rassegnazione, in ampi settori sociali che rimanda ad una più profonda crisi del modello politico ormai incapace di garantire le promesse di benessere e rappresentanza. A questa difficoltà i media istituzionali hanno reagito irrigidendo i regimi di verità, ovvero non ammettendo dubbi e sfumature, e negando qualsiasi credibilità a critiche emerse fuori dai meccanismi egemonici di produzione della informazione e della credenza.
Terzo, la trasformazione dei canali tecnologici attraverso cui passano le informazioni, ovvero l’avvento degli smartphone con le caratteristiche dei loro canali, in particolare blog e social network. Il meccanismo del “like”, il linguaggio schematico, i temi rapidi, in breve la richiesta di un’attenzione sfuggente nella ricezione del messaggio rientra appieno in questo processo di digestione delle narrazioni intesa come adesione/rifiuto piuttosto che problematizzazione. Questa tendenza all’auto-referenzialità è rafforzata dalla scelta dei gestori della rete di alimentare le convinzioni soggettive con narrazioni che propongono credenze analoghe, ovvero l’induzione al consumo di informazioni confermative che portano a scoraggiare il confronto con chi la pensa diversamente. Si creano così regimi epistemici settoriali, isolati ed auto-referenziali.
Riconoscere le somiglianze tra critiche popolari etichettate come teorie del complotto e informazione egemonica significa riconoscere il peso di dinamiche culturali trasversali che vanno ad impattare il piano cognitivo della costruzione della credenza. Significa anche evidenziare come la critica popolare – se fatta esclusivamente in termini ipersemplificati – riproduce alcuni meccanismi propri del potere istituzionale, in particolare lo scadimento del livello analitico. Questo scadimento complessivo, polarizzato su posizioni contrapposte, mina la risorsa forse più preziosa dei movimenti sociali, la paziente costruzione della credenza mediante un dibattito polifonico e approfondito, in grado di generare solida consapevolezza e azioni coerenti con questa. Per tornare a Foucault, gli effetti che genera questa convergenza sulla semplificazione della critica popolare del potere (classificata come teoria del complotto dai suoi oppositori) è la creazione di settori fortemente critici ma non in grado di scardinare la visione dei più, anzi non in grado neanche di dialogare con chi è rimasto nelle credenze egemoniche. Si consolida in ampie fasce un senso di profonda estraneità rispetto alle dinamiche egemoniche ma si fa difficoltà ad allargare la base del consenso critico.
Lo scetticismo crescente con cui sono accolte analisi profonde e l’insofferenza verso i “professori” e gli “intellettuali” (anche questa dinamica comune ad entrambi i campi narrativi) acquistano un senso se viste nella lettura qui proposta; ma ciò non ci esime dal, anzi ci dovrebbe spingere ancora di più a contribuire alla costruzione pubblica di regimi di verità complessi, dialoganti, polifonici.

Bibliografia

Boni Stefano (2022) “Postfazione”, Culture e Poteri, seconda edizione, eleuthera, Milano.

Boni Stefano (2022a) “In assoluta sicurezza. Rimozione della morte, onnipotenza tecnica, controllo pandemico e iatrogenesi”, in N. Bertuzzi e E. Lello (a cura di) Dissenso Informato. Pandemia: il dibattito mancato e le alternative possibili, Castelvecchi, Roma.

Boni Stefano (2022b) “Eliminare il virus, schermare i corpi. L’illusione di onnipotenza tecnica e i suoi rischi” in AA.VV. Antropologia di una pandemia, AAM Terranuova.

Foucault Michel, (1976) “Intervista a Michel Foucault”, in Microfisica del Potere. Interventi Politici,Einaudi, Torino 1977.


  1. Boni 2022a, 2022b 

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Il nuovo disordine mondiale / 18: It’s the end of the world as we know it (and I feel fine) https://www.carmillaonline.com/2022/10/05/il-nuovo-disordine-mondiale-18-its-the-end-of-the-world-as-we-know-it-and-i-feel-fine/ Wed, 05 Oct 2022 20:00:29 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=74286 di Sandro Moiso

E’ la fine del mondo che conosciamo e mi sento bene. Quando esattamente 35 anni fa, era il 1° settembre 1987, i R.E.M. fecero uscire sul mercato discografico il loro singolo, certo non potevano nemmeno lontanamente immaginare che la loro canzone fosse destinata ad essere ancora così attuale all’inizio del secondo decennio del terzo millennio. Dimostrando come, quasi sempre, l’immaginario delle culture ritenute “basse”, in questo caso quello legato alla musica rock, ha saputo anticipare il futuro e lo ha letteralmente “cantato” più e meglio degli esperti economico-politici e [...]]]> di Sandro Moiso

E’ la fine del mondo che conosciamo e mi sento bene.
Quando esattamente 35 anni fa, era il 1° settembre 1987, i R.E.M. fecero uscire sul mercato discografico il loro singolo, certo non potevano nemmeno lontanamente immaginare che la loro canzone fosse destinata ad essere ancora così attuale all’inizio del secondo decennio del terzo millennio. Dimostrando come, quasi sempre, l’immaginario delle culture ritenute “basse”, in questo caso quello legato alla musica rock, ha saputo anticipare il futuro e lo ha letteralmente “cantato” più e meglio degli esperti economico-politici e degli esponenti ufficiali della cultura mainstream .

That’s great, It starts with an earthquake

E’ fantastico, inizia con un terremoto.
E’ il primo verso della canzone e serve benissimo per confermare ciò che abbiamo anticipato negli interventi precedenti sul tema della guerra e le sue conseguenze e che oggi si verifica in dimensioni ancor maggiori di quelle che si potevano immaginare fin dai primi giorni del conflitto in Ucraina.

Così, mentre l’ostinazione imperialista delle parti coinvolte sta avvicinando sempre più la possibilità di una guerra non solo allargata su scala europea ma anche di carattere nucleare, il sistema di alleanze su cui si son basate le politiche economiche e militari occidentali degli ultimi settanta anni sembra destinato a subire scossoni che, fin dall’esplosione (pilotata malamente) della pandemia da Covid-19, se non lo distruggeranno ancora del tutto, sembrano destinati a ridimensionarlo in maniera ritenuta impensabile fino ad oggi.

Infatti, mentre i media mainstream hanno potuto fino ad ora sottolineare soltanto le indiscutibili difficoltà militari e politiche in cui il regime del nuovo zar è venuto a trovarsi, la crisi economica legata alla carenza di gas, alle speculazioni della borsa di Amsterdam sulla stessa materia prima e al disaccordo tra i paesi europei su come reagire alle stesse sta distruggendo nel breve periodo ciò che aveva richiesto anni per affermarsi, ovvero la stabilità e l’utilità degli accordi inerenti al funzionamento dell’Unione Europea.

Ognuno per sé sembra essere diventato il motto dell’azione dei paesi europei nei confronti di questa crisi, con la Germania, über alles, in testa nel perseguire una propria e costosissima politica energetica che risulta speculare alla decisione, presa fin dall’inizio del conflitto, di riarmare pesantemente le proprie forze armate per poter diventare a breve la terza potenza al mondo, dopo Stati Uniti e Cina, per spesa militare.

Posizione avvallata in generale dal fatto che, in forme diverse, tutti i presunti alleati europei ed occidentali stanno già operando scelte che molto spesso danneggiano gli altri componenti delle alleanze europee ed atlantiche. Una corsa al si salvi chi può che negli ultimi tempi ha raggiunto livelli parossistici.

World serves its own needs, don’t misserve your own needs.

Il mondo segue i propri bisogni, non sottovalutare i tuoi propri bisogni.
Continua così la canzone del 1987, involontaria conferma del fatto che, al di là dei discorsi ufficiali, dietro all’europeismo e all’atlantismo si nascondono le stesse spinte sovraniste che i più fessi pensano ancora essere espressione di possibili rivendicazioni popolari o, peggio ancora di classe.

Il nazionalismo non è mai morto, si era solo truccato per meglio colpire le classi meno abbienti all’interno di ogni singolo stato, scaricando le responsabilità delle scelte più dolorose per i lavoratori, il proletariato e le classi medie impoverite sulle imprescindibili regole europee di gestione finanziaria dell’esistente.

Classi imprenditoriali e dirigenti assolutamente vili e pavide, soprattutto qui in Italia ma anche nel resto d’Europa, hanno finto collaborazione e unità di intenti soltanto per non accollarsi scelte assolutamente impopolari, ma ora il travestimento è caduto e il Re è nudo. Come nella paradossale opera teatrale di Alfred Jarry, i diversi protagonisti della vicenda sono condannati a prendersi gioco l’un dell’altro in una spirale che non potrà far altro che peggiorare sempre più la situazione generale.

La Francia ha annunciato che non venderà più la propria energia elettrica all’Italia e, contemporaneamente, che si opporrà alla realizzazione di un metanodotto che porti dalla Spagna alla Germania, attraversando il suo territorio nazionale, il gas alla seconda. L’Austria, per alcuni giorni e per motivi inerenti al pagamento in rubli, ha fatto sì che l’Italia non ricevesse più il gas russo attraverso il valico di Tarvisio. Paesi dell’Est europeo si oppongono, come l’Ungheria, alle sanzioni alla Russia oppure chiedono un maggiore sforzo militare, come la Polonia, nei confronti della stessa, mentre i paesi fondatori dell’Unione Europea e dell’Alleanza Atlantica iniziano a tentennare davanti alla richiesta, ribadita da Zelensky, di un ingresso dell’Ucraina nella Nato per timore di un aggravarsi e di una conseguente svolta in senso nucleare del conflitto.

La narrazione ufficiale dei media, fino a pochi giorni or sono, continuava ad insistere sul progressivo allontanamento della Cina di Xi dalla Russia di Putin, travisando le parole del primo a proposito del “rispetto” dell’integrità territoriale degli stati e della loro autonomia politica che, più che all’Ucraina e ai referendum russi sui territori del Donbasss e del Lugansk, erano rivolte agli Stati Uniti affinché interrompano la loro azione di sostegno politico e militare a Taiwan, epicentro del conflitto futuro tra le due potenze rivali. Che più che libertà e diritti riguarderà lo scontro tra il dollaro e il renminbi yuan come monete di riferimento per gli scambi internazionali.

Nella sguaiata narrazione mediatica occidentale, i problemi sembravano essere sempre e soltanto quelli degli avversari, ignorando quelli altrettanto gravi e forse ancor più reali dello schieramento euro-occidentale, in cui il divide et impera statunitense ha giocato e continua a giocare un ruolo niente affatto secondario. Ma si sa, la speranza è l’ultima a morire e il tam tam della guerra avrebbe dovuto ancora una volta servire a distogliere l’attenzione di massa dai problemi immediati che dalla prima derivano e che potrebbero rimettere in discussione la stessa: caro bollette, crisi azionarie, chiusura di aziende, perdita di posti di lavoro e inflazione.

Alcuni di questi fattori, sovranismo rivelato dietro alle politiche nazionali degli stati più “convintamente europeisti” e divisione tra i membri europei della Nato, potrebbero far buon gioco al nuovo governo di centro destra. L’avvicinamento di Giorgia Meloni a Mario Draghi potrebbe essere più che il frutto di un inciucio europeista, quello della necessità del capitalismo italiano di riprendersi uno spazio di manovra nelle questioni energetiche e lo stesso iper-atlantismo della prima potrebbero ben accordarsi con una protezione accordata dagli Stati Uniti a un nascente governo non troppo allineato con la Germania. La cui riduzione della potenza economica e politica, ma domani anche militare, rimane uno dei principali obiettivi statunitensi in Europa, sia per i governi democratici che per quelli repubblicani. Del quale anche l’ambiguo e disastroso attentato alle condotte di North Strem 1 e 2 potrebbe essere una conseguenza e/o un’espressione.

Ad indebolire la futura azione di governo, però, più che le lotte che iniziano a svilupparsi contro le “bollette di guerra”, potrebbero essere le differenti promesse elettorali degli alleati contro cui la stessa Confindustria, nelle parole di Bonomi (niente flat tax e niente prepensionamenti!), ha levato una differente e contrarissima voce. Rischiando di far nascere un governo già morto allo stato fetale.

The ladder starts to clatter with fear fight.

La scala inizia a traballare con la paura della lotta, continuava ancora la canzone di Bill Berry, Peter Buck, Mike Mills e Michael Stipe.
Lo dimostra il fallimento del governo di Liz Truss alla sua prima uscita con la proposta dell’abbassamento, se non l’abolizione, delle tasse per i più ricchi. Ancora una volta non tanto, per ora, per la mobilitazione del movimento “Don’t Pay” che in qualità di primo ministro aveva cercato di esorcizzare con l’istituzione di un fondo plurimiliardario per la riduzione delle bollette, ma proprio per un attacco implacabile da parte degli organismi finanziari internazionali e del loro principale organo di informazione sul territorio britannico, il «Financial Times».

Dopo l’opposizione dei mercati, di buona parte del partito conservatore e dei maggiori quotidiani britannici, che hanno definito il piano, per l’abolizione delle tasse più alte per i più ricchi e del tetto alla remunerazione dei dirigenti bancari, della Truss e del suo ministro delle finanze Kwarteng, in alcuni casi, come folle e cattivo (mad and bad), il quotidiano della finanza inglese non ha potuto far altro che sottolineare come:

Resta da vedere se la disputa sulla rottamazione del tasso di 45p tempererà le ambiziose riforme dal lato dell’offerta di Truss volte a stimolare la crescita. Quando è diventata primo ministro il mese scorso, si è impegnata ad affrontare questioni di lunga durata relative alla pianificazione per aumentare la costruzione di case e l’accessibilità economica dell’assistenza all’infanzia, ma il suo fallimento con la riforma fiscale potrebbe farla riflettere. Un deputato conservatore che sostiene Truss ha dichiarato: “Se non riesce a ottenere un taglio delle tasse di 2 miliardi di sterline, non riesco a vedere come abbia una speranza nell’inferno di pianificare la riforma o qualsiasi altra cosa. Liz voleva essere radicale, ma ha fallito al primo ostacolo”1.

Nessuna altra Tatcher sembra dunque delinearsi all’orizzonte, sia sul piano internazionale che italiano, e questa potrebbe già essere una buona notizia per chi si oppone al modo di produzione dominante. Le cui difficoltà stanno esplodendo ben più rapidamente di quanto si potesse immaginare e senza nemmeno una sconfitta militare intercorsa davvero sul campo.

Semmai se c’è una cosa che, sul campo di battaglia, può essere anch’essa sintomo della fine di un certo mondo che conosciamo può essere individuata nel fatto che uno dei fattori delle difficoltà militari russe deriva proprio dal rifiuto di combattere e arruolarsi di molti giovani, e meno giovani, russi richiamati o chiamati alle armi in questo periodo.
Confermando quanto sostenuto da tempo, oltre che da chi scrive queste note, da Domenico Quirico in un coraggioso articolo su «La Stampa» del 30 luglio di quest’anno.

L’unica speranza che questo macello finisca dunque non è nelle abilità e nelle qualità dei leader dell’Est e dell’Ovest, regrediti a termini rozzi e primitivi, stupefacenti in un tempo e in un mondo reputati civili. Risiede semmai nella volontà rivoluzionaria di porvi fine di coloro che combattono, che vengono ogni ora, ogni giorno uccisi, da una parte e dall’altra, ucraini e russi. Abbiamo bisogno tutti, e soprattutto noi europei che questa guerra subiamo a un passo, di uno sciopero, eversivo, rivoluzionario, dei combattenti che riproponga con successo quanto accaduto nel 1917, durante la Prima guerra mondiale.
Dalle trincee in cui milioni di uomini ogni giorno sopportavano il contatto con la morte e ogni istinto di vita sotto i bombardamenti, la sporcizia, il furore omicida sembrava dover inaridire fino alla radice, esplose, dilagò improvviso irresistibile universale il grande sciopero della pace. In Russia fu, subito, Rivoluzione. Negli altri Paesi belligeranti (in Italia fu Caporetto) ci vollero i plotoni di esecuzione per domare la rivolta. Ma non fu che una breve tregua prima che il moto dilagasse un anno dopo come un fuoco in una pianura riarsa.
Ucraini e russi sono entrati in guerra ammalati dei loro particolarismi, di nazionalismo orgoglioso gli uni, di imperialismo brutale gli altri. Per due, tre mesi questi particolarismi e l’odio che la sofferenza fa crescere nei confronti del nemico, di chi ha aggredito e specularmente di chi, ostinato, non si arrende, resiste, uccide, sono stati sufficienti per motivare i combattenti, per sorreggere la propaganda.
Ma a contatto delle verità eterne e immutabili che la sofferenza sociale della guerra rimette ferocemente in luce giorno dopo giorno, gli uomini nelle trincee del Donbass e di Cherson sentiranno che il cerchio del loro orizzonte impedisce loro di pensare e di agire, li soffoca in una atmosfera assassina di morte e di inutili volontà.
[…] La fine rivoluzionaria di questa guerra criminale avverrà quando i combattenti si ribelleranno, insieme, alla sofferenza. Sono loro che gettando contemporaneamente i fucili possono rompere il cerchio dei pregiudizi, degli interessi, dei simboli vani, delle bugie. Sono loro che rifiutando di combattere spazzeranno, con il soffio del loro possente respiro di vittime, di sacrificati, il cerchio degli interessi che a Mosca e a Kiev non sono i loro.
[…] Non sono Putin e Zelensky, o Biden, che possono spezzare il cappio della guerra. Gli uomini di buona volontà a cui deve rivolgersi, scavalcando, ignorando i capi, sono gli uomini disperati, sporchi, esausti, straziati delle trincee. Il popolo della guerra.
Dopo mesi di sofferenza, di avversione alimentata tra loro, ora ucraini e russi hanno una cosa in comune: la sofferenza. Ora non credono più a quello che è accaduto, sanno che ancora una volta tutto è avvenuto per un errore di calcolo criminale2.

Ipotesi rafforzata ancora dagli scontri avvenuti in una base di arruolamento in prossimità di Mosca.

Nel 223esimo giorno di guerra in Ucraina, una maxi rissa tra nuove reclute e soldati è scoppiata in una base dell’esercito russo vicino Mosca. Secondo quanto riferito da Baza, «i nuovi arrivati» non hanno ricevuto un caldo benvenuto, ma al contrario «i soldati che prestavano servizio» nella base gli «hanno ordinato di consegnargli i vestiti ed i telefoni cellulari». Le nuove reclute – chiamate alle armi nel quadro della mobilitazione parziale annunciata da Puti – hanno respinto le richieste e ne sarebbe scaturita una rissa nella quale avrebbero avuto la meglio, tanto che circa 20 soldati si sarebbero rinchiusi in un edificio e avrebbero chiamato la polizia per chiedere aiuto3.

And a government for hire and a combat site
But it’ll do, save yourself, serve yourself.
World serves its own needs, listen to your heart bleed
It’s the end of the world as we know and I feel fine

E un governo a noleggio e un sito di combattimento/ma lo faranno e allora salvati, servi te stesso/Il mondo serve i propri bisogni, ascolta il tuo battito cardiaco/È la fine del mondo come lo conosciamo e mi sento bene.

Sì, a vederla in positivo e nonostante tutto, il vecchio mondo sta finendo. Con i suoi conflitti imperialistici e il suo scellerato dominio di classe. Con le sue tragiche diseguaglianze e le sue menzogne. E’ un mondo solo, come Draghi mentre parlava davanti ad un’aula delle Nazioni Unite deserta. Un mondo vecchio e moribondo che vorrebbe pace sociale e stabilità soltanto per continuare con lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e sulla donna, dell’ambiente e di ogni risorsa vitale fino al loro esaurimento. Un treno che sta lentamente rotolando sui binari della propria distruzione.

Per tutto questo, dunque, è giunto il momento per chi si batte nei movimenti di carattere sindacale, territoriale e ambientale di unire le forze in direzione di un unico obiettivo comune: accelerare la tendenza all’inevitabile superamento dell’attuale modo di produzione. Whatever it takes!

(18 – continua)


  1. Sebastian Payne, George Parker e Jim Pickard, Truss finally admits defeat on tax benefit for the wealthy, «Financial Times», 3 ottobre 2022  

  2. Domenico Quirico, Uno sciopero dei soldati come nel 1917, l’unica speranza per arrivare alla pace, «La Stampa», 30 luglio 2022  

  3. Guerra Russia-Ucraina, maxi rissa tra reclute e soldati in una base vicino a Mosca, «La Stampa», 4 ottobre 2022  

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Il rientro https://www.carmillaonline.com/2022/08/27/il-rientro/ Sat, 27 Aug 2022 20:00:25 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=73808 di Giovanni Iozzoli

È la più carogna, l’ultima settimana di agosto. Quest’anno poi, non ne parliamo. Quasi tutti sono tornati dalle ferie, ma pochi hanno ricominciato a lavorare. Quindi la gente si è buttata tutta per strada, vagamente disorientata; nell’aria padana, prontamente reinquinata, le auto vanno avanti e indietro, parcheggiando sui marciapiedi; si prova a sistemare frettolosamente le ultime incombenze prima del rientro al lavoro – acquisti, riparazioni, visite ai parenti anziani. Si vedono in movimento facce per niente rilassate – e del resto queste ferie non è che siano state particolarmente rilassanti. Portare un paio di bambini al mare per [...]]]> di Giovanni Iozzoli

È la più carogna, l’ultima settimana di agosto. Quest’anno poi, non ne parliamo. Quasi tutti sono tornati dalle ferie, ma pochi hanno ricominciato a lavorare. Quindi la gente si è buttata tutta per strada, vagamente disorientata; nell’aria padana, prontamente reinquinata, le auto vanno avanti e indietro, parcheggiando sui marciapiedi; si prova a sistemare frettolosamente le ultime incombenze prima del rientro al lavoro – acquisti, riparazioni, visite ai parenti anziani. Si vedono in movimento facce per niente rilassate – e del resto queste ferie non è che siano state particolarmente rilassanti. Portare un paio di bambini al mare per una decina di giorni, sarà costato un paio di stipendi. Appena torni hai le scadenze di settembre che incombono, penose, su conti correnti estenuati. E allora si corre di qua e di là, come mosche impazzite, tra sportelli bancari, uffici postali, asili, tamponi e visite e mediche da prenotare. Vedo poche abbronzature pesanti, in giro, molti sembrano addirittura tornati dalle vacanze palliducci ed esangui. Chiaro, se ti puoi permettere nel carnaio della riviera solo otto giorni di mare – e un paio li becchi pure nuvolosi –, cosa ti vuoi abbronzare? Quelli abbronzati lo erano già da maggio, tra centri benessere, palestre e rituali urbani di rafforzamento di un Io traballante.

Molti approfittano per mettere a posto i giardini, lasciati all’incuria per un po’ di giorni. Siepi bruciate dal sole, erbacce dovunque – bisogna lavorare duro per rimettere in sesto quei pochi metri di preziosissimo verde che le tipiche bifamiliari locali ancora conservano. Il mio è un vecchio quartiere operaio, in cui già negli anni ’70, gli eroi stacanovisti dell’industrializzazione emiliana ebbero accesso a mutui agevolati e antichi risparmi rurali, provvedendo all’edificazione di una moltitudine omogenea di piccole unità a due o tre piani, tipico paesaggio suburbano padano. Molte oggi sono ristrutturate come bomboniere – cappottini termici, vecchie facciate tirate a lucido; il bonus 110 qua sta continuando a tenere in piedi l’edilizia, soprattutto le piccole dittarelle artigiane in subappalto. Quando il rubinetto si chiuderà, saranno guai grossi. Quel mondo passa presto dall’euforia da super lavoro alla disperazione del fallimento. All’odio disperato contro qualsiasi vincolo collettivo – dal fisco al welfare.

Se esci presto la mattina incontri sempre le stesse persone: il giro dei cani, quello della nettezza urbana, i negozianti che tirano su le serrande pigri e perplessi – micro mercerie, immobiliari di periferia, fruttivendoli, Testimoni di Geova con poca voglia di testimoniare. Stamattina ho rivisto anche i due amanti della Cartolibreria-Edicola Bar di Cavazzuti Luciano. Si danno un fugace appuntamento tutte le mattine, verso le 7,40 all’angolo del negozio di Cavazzuti. Fanno colazione insieme, poi escono a fumarsi una sigaretta; lui, col muso sporco di bombolone, dice qualcosa di carino a lei nell’orecchio, che ridacchia vezzosa. Lui indossa il completino da Maserati, una tuta post-moderna color panna acida. Lei, normale, in borghese – magari lavora all’ufficio contabilità di Modena Autospurghi Civili e Industriali, poco lontano. Dopo dieci minuti di caste effusioni, si infilano in macchina e spariscono. Lui in direzione del vicino stabilimento, pensando che a settembre mancheranno i microchip e ricomincerà la Cassa. Lei rimuginando sulla famiglia scassata, sul bimbo piccolo parcheggiato chissà dove – centro estivo o nonni –, sulle maledette fatture elettroniche da controllare ed archiviare. Per il lavoro non ha inquietudini; crisi o non crisi, gli spurghi fognari non fermano mai l’attività, come le pompe funebri; fosse biologiche e fosse cimiteriali: la solidità dei beni rifugio.

Alcuni segmenti industriali hanno lavorato anche ad agosto. Sono quelli che avevano molte commesse in pancia e avendo paura che a settembre i prezzi sarebbero peggiorati, hanno cercato di evadere gli ordini il prima possibile. Per il resto del panorama aziendale – a partire dai 15.000 addetti del settore ceramico, energivoro per definizione – l’aria è pesante. Tutti si aspettano che i padroni comincino a sparare cassa integrazione a manetta, tanto per spaventare il governo e chiedere “interventi più incisivi”. Gli annunci padronali sono quotidiani, incombenti, come le minacce di un gruppo guerrillero arroccato sulle colline. Qualcuno ha già posticipato la riapertura di un paio di settimane. Sarà una serrata sottaciuta, un inedito sciopero dei padroni. Vogliono che la bolletta energetica gliela paghiamo noi, ma non hanno il coraggio di dire che le sanzioni alla Russia stanno sanzionando noi stessi e che la rottura dell’interscambio con Mosca è stata una catastrofe scellerata, di cui il loro amato Draghi è stato eroico alfiere. Come certa ipocrisia cattolica, i dogmi atlantisti vanno sostenuti in pubblico, ma in privato si cerca ogni via per aggirarli, in nome del principio di realtà che i politici pare abbiano smarrito e i padroni, adesso, reclamano piagnucolando.

I cinquantenni che senti parlare in giro, nei bar, dentro i supermercati, sono esperti di ammortizzatori sociali. È il retaggio della crisi del 2008. Li senti discettare con competenza della differenza tra Cassa e Solidarietà. – “Ma che causale useranno, gli eventi straordinari? O il calo delle commesse? Quante settimane nel biennio mobile? Ma maturano i ratei?”. I ragazzi giovani non capiscono niente di questo contorto lessico burocratico. Molti di loro, appena usciti dalla DAD sono entrati in produzione pieni di aspettative – non solo operai, ma anche tecnici, manutentori, addetti alle macchine, impiegati, disegnatori e programmatori. Ognuno con una fantasiosa collocazione contrattuale, che va dai tirocini formativi al contratto a tempo determinato classico; in mezzo, di tutto: finti stagisti, finte partite IVA, finte cooperative, subappalti di subappalti, interinali e staff leasing. Tutti loro sono appesi ad un filo sottile. Saranno i primi a saltare. Possono perdere il lavoro ad ogni stormir di foglia. I governi italiani, negli anni, hanno eretto una recinzione fortificata tra il lavoro regolare e i giovani. Li avessero completamente ignorati, i giovani, invece di dedicargli ministeri e leggi: quanto starebbero meglio, oggi. Molti miti sulla competitività del Made in Italy, hanno le radici dentro questo humus marcio, in cui gli unici margini possibili vengono dalla spremitura sottopagata del lavoro vivo. Possiamo elargire anche un po’ di Ius Scholae a ‘sti ragazzi – l’importante è che non chiedano contratti a tempo indeterminato.

L’aria in giro, quindi, è tesa e preoccupata, totalmente sconnessa da ogni idea di relax post-vacanze. Il mare è lontanissimo. Sono tutti in attesa di capire di che morte dovremo morire, in autunno. Girano profezie infauste e voci sussurranti che rivelano segreti di Pulcinella. La gente dice che i piani di razionamento sono già pronti e non riguardano solo il 15% “volontario” di cui parla Cingolani. Probabilmente è così, ma non sarebbe carino dirlo prima delle elezioni. I piani sono nei cassetti, in attesa che l’incombenza burocratica del 25 settembre venga adempiuta. In Francia hanno già votato e Macron può dirla tutta, anche con un pizzico di sadismo: l’epoca dell’abbondanza è finita, cominciano le quaresime di Stato. Qualcuno dall’alto ci spiegherà paternalisticamente a cosa dobbiamo rinunciare, così come fino a poco fa ci strizzavano l’occhio e ci dicevano a cosa davvero non potevamo rinunciare.

A proposito: nel mio quartiere, dove un tempo il PCI prendeva il 70%, nessuno sembra votare più il Pd; magari lo fanno e non lo dicono, si vergognano, in un paradossale rovesciamento di quello che era il tradizionale riserbo sul voto di protesta. In CGIL idem, fanno finta di non sapere neanche cos’è il PD, nonostante il cognome di una prestigiosa candidata di nome Susanna, che qualche ricordo dovrebbe evocare. La Meloni prenderà una svalangata di voti, anche qui, nelle vecchie periferie rosse. La distanza tra la suggestione dell’Agenda Draghi e la vita delle persone normali, è incolmabile, soprattutto nell’immaginario popolare. Come si fa a non capirlo?

Del resto la furba Giorgia pare più interessata alle nomine pubbliche che alla sua memoria missina: è più utile controllare la Cassa Depositi e Prestiti che dedicare strade ad Almirante. Se c’è una cosa che ai politici italiani non difetta, è la fluidità di genere che oggi va tanto di moda; la capacità di smarrire se stessi nell’oblio e “vivere nel presente”, come recita la pubblicistica motivazionale. Le destre vinceranno e governeranno sulla base di uno spartito unico che è già stato predisposto da anni – di cui il PNRR è solo l’evoluzione finale. Se Giorgia suonasse una nota fuori dal canone, farebbe la fine di Berlusconi nel 2011 – e lei, che era una sua giovane ministra, all’epoca, se ne ricorda bene.

Ciononostante, gli Amanti della Cartolibreria-Edicola Bar Cavazzuti, continueranno a vedersi tutte le mattine e quei dieci minuti saranno magari il momento più memorabile della giornata. I vecchi pensionati che hanno fatto l’autunno caldo nella vicina zona industriale, lungo la via Emilia, tra i grandi capannoni dei riduttori e dell’oleodinamica, ormai hanno 80 anni e continueranno lentamente a tagliare siepi, strappare erbacce e curare vecchi cani da caccia che dormono tutto il giorno. Nei cieli, rombi sinistri accompagnano lo sfrecciare di oggetti misteriosi – aerei da guerra? Inseminatori di nitrato d’argento contro la siccità? Extraterrestri in vacanza nell’ultima settimana di agosto? Tutto sembra tremendamente precario, come l’allestimento di un fondale vacanziero – il “tutto andrà bene”, lo Stellone maledetto che ha rovinato l’Italia, nella sua presunzione di innocenza, con la sensazione furbesca, Franza o Spagna, di sfangarsela sempre.

Fondali di scena, coreografie di cartapesta? Qua nel quartiere ne stanno costruendo uno enorme. Una produzione americana sta girando un film su Enzo Ferrari, con Penelope Cruz e Adam Driver. L’aspetto esterno dell’azienda di Maranello sembrava al regista troppo moderno, poco ispirante, così ne stanno costruendo uno di compensato, fedele al modello originale degli anni 50. Quindi, subito dopo il semaforo della Madonnina, a pochi passi dal Conad, in una laterale della via Emilia, dietro casa mia, Hollywood sta allestendo la riproduzione dello stabilimento del più famoso marchio automobilistico del mondo. E lo vedremo l’anno prossimo in tv. Bello no? Anche un po’ inquietante, se applichiamo il principio ad altre sfere. Possono farci credere qualsiasi cosa. Soprattutto se si parla di guerra, crisi, gas e salari. Manca il mago Copperfield che si mette a volare sulla Polisportiva Madonnina. Realtà, sogni e incubi ormai sono categorie novecentesche. Altro fondale di scena: dall’altra parte della tangenziale ha aperto come ogni anno la Festa dell’Unità, altro retaggio virtuale, scenografico, rievocazione fittizia di un mondo che fu. Non si sa cosa sia più credibile – il finto stabilimento Ferrari o la finta festa del “popolo di sinistra”. Un chilometro in linea d’aria, divide Hollywood da Enrico Letta.

Questa crisi sarà più dura e devastante del 2008. Perchè siamo dentro uno scenario di guerra, perchè ci eravamo illusi e crogiolati dentro un’ apparenza di ripresa, perchè alle spalle abbiamo lunghi anni fragili e lacerati, in cui molte risorse familiari e aziendali sono già state erose. Questa crisi potrebbe assumere le forme – terribili e imprevedibili – di una resa dei conti. Le rivoluzioni cominciano così, non è che arriva prima l’angelo del Giudizio con tre squilli di tromba. Quello che poi finisce sui libri di storia, è in realtà un vissuto quotidiano, anonimo, di larghe masse inconsapevoli. La gente inizia a non sentirsi più leale verso l’ordine costituito; i blocchi sociali di consenso cominciano a sfarinarsi, ceti, corporazioni, segmenti di classe, cominciano ad andare ognuno per la sua strada; si moltiplicano le spinte centrifughe, le rivendicazioni grandi o minute; i Moubarak o i Ben Alì fino a poche settimane prima rispettati e temuti, diventano nemici, ostacoli alla felicità, al futuro; la polizia, previdente, prepara la sua ricollocazione iniziando a girare la faccia dall’altra parte et voilà: due passi nel vuoto della storia, dentro scenari non prevedibili. Se in Europa stiamo assistendo disinvoltamente alla crisi e al ricambio delle elite liberali, che pure sembravano senza competitori, ci vuole tanta fantasia per immaginarne il crollo? Dopo anni di furiosa disintermediazione sociale i governi non hanno più nessun cordone di protezione costituzionale – non ci sono più i partiti, i sindacati, la società civile: chi si metterà davanti ai palazzi del potere a difendere questo ceto politico imbelle? I movimenti afroamericani sono accorsi a difendere Capitol Hill, il 6 gennaio del 2021? Perchè avrebbero dovuto?

Quando vedi i bravi distratti cittadini, i miei vicini, i passanti, la gente normale della prima periferia, abbarbicati al loro piccolo benessere, al loro status più o meno precario, non stai vedendo un elemento stabile e acquisito della geografia sociale. Stai vedendo solo un campo di battaglia, che è tutto dentro la loro testa. E se adesso sembrano un po’ rincoglioniti ed istericamente rassegnati al peggio, è solo perchè nessuno, negli ultimi 30 anni, ha posto un alternativa credibile davanti a loro: sul campo di battaglia si è presentato sempre un esercito solo, quello dello status quo. Se non assumiamo le menti del popolo come campo aperto da contendere, non abbiamo capito la dialettica. Questa è la stessa gente che quattro anni fa ha prodotto l’esplosione effimera dei Cinque Stelle, convinti che bastasse una croce su un foglio per mutare il destino di una nazione. Quella della scatoletta di tonno, era una favola ingenua, per bambini, l’idea di un cambiamento sociale incruento grazie all’arrivo di un plotone di “onesti” nelle istituzioni. Adesso viene avanti un’altra dimensione, più cruda, meno consolatoria, l’idea che la guerra, la barbarie, i razionamenti, un nuovo terribile tecno-dispotismo davanti a cui le vecchie dittature faranno ridere, sta incombendo sul futuro loro e dei loro figli. La percezione diffusa che un vecchio ordine si sta disgregando, con i suoi totem traballanti e suoi tabù che non rispetta più nessuno. Dietro i fondali di cartapesta, c’è la realtà, in agguato.

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