Covid – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Fri, 31 Oct 2025 23:01:57 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 New horror. Il Male nella/della Rete https://www.carmillaonline.com/2024/12/25/new-horror-la-paura-nellepoca-del-web-il-male-nella-della-rete/ Wed, 25 Dec 2024 21:00:48 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85602 di Gioacchino Toni

Emanuele Di Nicola, Nuovo cinema horror, Mimesis, Milano-Udine, 2024, pp. 180, € 18,00

Nuovo cinema horror di Emanuele Di Nicola analizza alcuni dei principali film del new horror – It Follows (2024) di David Robert Mitchell, The Witch (The VVitch: A New-England Folktale, 2015) di Robert Eggers, Hereditary. Le radici del male (Hereditary, 2018) e Midsommar. Il villaggio dei dannati (Midsommar, 2019) di Ari Aster, Scappa. Get Out (Get Out, 2017) e Noi (Us, 2019) di Jordan Peele, Raw. Una cruda verità (Raw, 2016) e Titane (2021) di Julia Ducournau – per poi soffermarsi sulle tendenze generali che [...]]]> di Gioacchino Toni

Emanuele Di Nicola, Nuovo cinema horror, Mimesis, Milano-Udine, 2024, pp. 180, € 18,00

Nuovo cinema horror di Emanuele Di Nicola analizza alcuni dei principali film del new horror – It Follows (2024) di David Robert Mitchell, The Witch (The VVitch: A New-England Folktale, 2015) di Robert Eggers, Hereditary. Le radici del male (Hereditary, 2018) e Midsommar. Il villaggio dei dannati (Midsommar, 2019) di Ari Aster, Scappa. Get Out (Get Out, 2017) e Noi (Us, 2019) di Jordan Peele, Raw. Una cruda verità (Raw, 2016) e Titane (2021) di Julia Ducournau – per poi soffermarsi sulle tendenze generali che caratterizzano il genere nel nuovo millennio guardando in particolare agli horror incentrati sul web, ai film realizzati da donne, ai meccanismi sequel, prequel e requel che contraddistinguono le produzioni più recenti, alle produzioni italiane tra snuff movies, contagi, mostri e vampiri, alla modalità seriale ed al Covid horror.

«Ogni tragedia epocale si porta dietro la sua elaborazione cine-narrativa. Ogni grande paura produce un nuovo cinema dell’orrore» (p. 157). Il Novecento è stato attraversato dalle paure generate dai due conflitti mondiali e dalla Guerra Fredda, dall’incubo dell’atomica sganciata in Giappone e di un suo possibile nuovo utilizzo, dal timore, soprattutto dopo l’Undici Settembre 2001, di attacchi terroristici portati nel cuore dell’Occidente, dai disastri ecologici e climatici, dallo spettro dell’Aids o di nuove e sconosciute malattie, fino al Covid. Se di tutte queste paure si sono occupate la letteratura ed il cinema, di certo non poteva mancare una loro elaborazione e messa in scena da parte del genere che più di ogni altro si occupa di paura: l’horror.

Con il proposito di tornare successivamente su alcune delle tendenze trattate dall’autore, in questo scritto ci si soffermerà sulle paure legate all’universo internet messe in scena dal cinema horror del nuovo millennio. Di Nicola indica Ringu (1998) di Hideo Nakata come il film che, con la sua “videocassetta assassina”, suggella la fine dell’epopea analogica a cui, in apertura di nuovo millennio, non mancano di riferirsi diversi film che prospettano lo sprigionarsi della paura da qualche vecchio nastro rintracciato dopo tanto tempo: una sorta di presenza inquietante contenuta in una tecnologia divenuta talmente rapidamente obsoleta da farsi, nel giro di qualche decennio, archeologia da cui, da un momento all’altro, può manifestarsi in tutta la sua potenza il maligno che la abita.

Alla serie di film focalizzati sulle vecchie videocassette analogiche introdotta da Ringu e dalla versione statunitense The Ring (2002) di Gore Verbinski succedono gli screenlife (o screenview) movies incentrati sull’universo del web, che prendono il via con Collingswood Story (2002) di Michael Costanza, in cui si prospetta la presenza di forze maligne nella rete; un universo abitato non solo da “criminali tradizionali” che sfruttano questo nuovo spazio ma anche da vere e proprie «entità ultraterrene, che vivono nei meandri della rete e risultano più inquietanti proprio perché invisibili, non individuabili, non tangibili, fluttuanti nelle schermate tra un sito e l’altro. Queste forze configurano una sorta di “rete maledetta”, uno spazio intangibile che si dimostra oscuro e ostile, pronto a colpire i protagonisti» (p. 90).

Se film come Paura.com (Fear Dot Com, 2002) di William Malone, Feed (2005) di Brett Leonard o lo stesso Smiley (2012) di Michael J. Gallagher, per quanto quest’ultimo sia un’opera a cavallo tra thriller ed horror, sono incentrati sul maniaco o serial killer che sfrutta il web per adescare le sue vittime, diverse opere danno spazio al fenomeno della condivisione via social di qualche efferatezza non mancando di sottolineare come il sadismo di qualche folle assassino trovi terreno fertile nel voyeurismo diffuso dei nostri giorni amplificato – e indotto – a dismisura dal web. Non a caso, ricorda Di Nicola, i social network hanno un ruolo importante nella serie Scream di Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillet post Wes Craven, ed in Thanksgiving (2023) di Eli Roth.

Diverse sono le opere incentrate sull’universo più perverso e atroce che si immagina nascondersi nel cosiddetto dark web tra snuff movies e red rooms; tra queste Di Nicola ricorda Unfriended (2014) di Levan Gabriadze e, soprattutto, Unfriended: Dark Web (2018) di Stephen Susco che, oltre riprendere l’idea delle camere delle torture che abiterebbero il web più oscuro, introduce il topos dello spietato sistema di voto in grado di stabilire la vita o la morte delle vittime che si ritrova in diversi film e serie televisive.

Alcune produzioni horror degli ultimi decenni hanno ripreso attualizzandoli e spesso tecnologizzandoli il found footge e il mockumentary, il ricorso ad immagini che si vogliono di repertorio ed il formato del falso documentario; si pensi a The Blair Witch Project (1999) di Daniel Myrick e Eduardo Sánchez e, venendo agli internet horror, a Rec. La paura in diretta (Rec, 2007) di Jaume Balagueró e Paco Plaza. «Insomma, l’orrore nella rete, che sia screenlife o meno, riesce a trarre una proposta tutto sommato originale e al passo coi tempi riconoscendo e metabolizzando esperienze del passato, variando sulle forme del genere e presentandole in veste inedita per fare paura parlando degli orrori di oggi» (p. 93).

L’autore sottolinea come con il tempo l’horror che scaturisce dal web divenga più complesso e stratificato, come dimostrano The Den (2013) di Zacharie Donohue, Friend Request (2016) di Simon Verhoeven, Followed (2018) di Antoine Le, Host. Chiamata mortale (Host, 2020) di Rob Savage – in cui lo screenlife si intreccia con il lockdown della pandemia di Covid – e Deadstream (2022) di Joseph e Vanessa Winter.

Alle stanze di tortura si rifà Les Chambres Rouges (Red Rooms, 2023) di Pascal Plante che, per quanto sia un thriller drammatico più che un horror, contribuisce a diffondere una paura su cui insisteranno diversi film di questo genere. Il film francese, scrive Di Nicola, «attraverso la sua sinistra leggenda lancia un tema che riguarda noi tutti e fa davvero paura: la smania di guardare, la tendenza a vedere il più possibile nel nostro mondo iper-connesso, che ormai non si ferma più davanti a nulla, neanche ad una bambina che viene fatta a pezzi per appagare i nostri occhi» (p. 95).

Se red rooms e snuff movies tendono a rifarsi più a leggende metropolitane che non a fatti reali e comprovati, le sfide tra adolescenti portate ad esiti estremi ripresi da diversi film horror recenti richiamano invece direttamente la realtà. La sfida Blue Whale Challenge tra ragazzini, comportante la prova finale del suicidio, che in Russia ha coinvolto un alto numero di giovani e giovanissimi, è stata ripresa da #Blue_Whale (2021) di Anna Zaytseva, «film privo di elementi soprannaturali ma ugualmente terrificante, forse proprio perché ancorato alla verità delle cose e in grado di scoperchiare un’altra china fatale, particolarmente spietata perché prospera sulla debolezza psicologica degli adolescenti in fase di sviluppo» (p. 95).

Cam (2018) di Daniel Goldhaber è un horror incentrato sulle vicissitudini di una camgilr che richiama l’esperienza vissuta in prima persona dalla sceneggiatrice Isa Mazzei nell’universo del sesso online raccontata nel memoir Camgirl (Rare Bird Books, 2019). Il film, tecnicamente non proprio uno screenlife movie, si concentra sull’inquietante e conturbate generarsi in rete di un doppio della protagonista da cui questa non riesce più a liberarsi/differenziarsi. Anche in questo caso, al di là della vicenda riguardante il mondo delle camgirl, il film tocca una problematica importante e reale della vita quotidiana nell’epoca in cui questa si è espansa sulla rete attraverso «una variazione spiazzante sul tema del doppio che si appropria della nostra vita come un predatore fino a portarci alla rovina» (p. 100).

Di Nicola sottolinea un altro aspetto importante posto dal film di Goldhaber: l’idea, presente in filigrana anche in diversi altri film del genere, sin dal pionieristico The Collingswood Story di Costanza in apertura del nuovo millennio, che nella rete abiti qualcosa di diabolico che sfugge alle possibilità razionali di comprensione e risoluzione: «c’è qualcosa di male nella rete, una forza che può replicare la tua essenza, trascinarti nel gorgo e condurti alla perdizione» (p. 101).

Che si pensi al paranormale o ad «un algoritmo impazzito magari gestito da un oscuro burattinaio», scrive Di Nicola, la «percezione della paura si sposta solo dall’esistenza della “cosa”, nascosta non tra i ghiacci ma nelle maglie invisibili del web, verso l’orrore dell’algoritmo, anticipando il timore e la paura che l’intelligenza artificiale è in grado di incutere» (p. 101). Che si tratti di paranormale o di deriva tecnologica, il risultato conduce ad una nuova ed inquietante forma di orrore incentrata sul web in cui si vive una parte sempre più importante della quotidianità e che concorre alla costruzione dell’identità.

Trattando delle paure che hanno contraddistinto il periodo più recente, il nuovo cinema horror non poteva esimersi dall’affrontare il Covid. Se il sottogenere orrorifico pandemico ha lunga tradizione, ad anticipare il Covid degli anni Duemila è stato Contagion (2011) di Steven Soderbergh, dunque un film non appartenente al genere horror. Lo stesso regista introduce invece direttamente il Covid nel suo Kimi – Qualcuno in ascolto (Kimi, 2022), film, anche in questo caso non di genere horror, in cui la scoperta di una cospirazione da parte di una giovane informatica è ambientata durante il lockdown imposto dalle autorità a seguito della pandemia.

Ad introdurre il Covid nel genere horror è invece il mediometraggio indipendente britannico Host – Chiamata mortale (Host, 2020) di Rob Savage che, in formato screenlife, sullo sfondo di uno schermo a mosaico, racconta di una seduta spiritica in streaming di un gruppo di giovani alle prese con uno spirito maligno che abita l’universo del web. Anche The Harbinger (2022) di Andy Mitton collega l’horror al Covid.

Qui, di nuovo in presa diretta e con un’impostazione di finzione tradizionale, senza desktop né computer, il virus diviene letteralmente un fantasma, un incubo da cui non ci si può svegliare, un novello Freddy Krueger dei tempi moderni. Ed è il primo horror che rende il Covid un elemento di genere, lo ri-forma nel senso che ne cambia forma – peraltro eterea – e lo rende un mostro visibile e verificabile, almeno nella psiche dei personaggi. Insomma qui il Covid è un umore, una sensazione dell’orrore (pp. 162-163)

Lo stesso Savage trona sul Covid con Dashcam (2021) intrecciando in questo caso la figura dell’influencer con il lockdown pandemico ed il classico inseguimento tra la nebbia della campagna inglese. Da Taiwan vine invece The Sadness (2022), opera d’esordio di Rob Jabbaz, in cui il desiderio di ritorno alla normalità, dopo un anno di pandemia, rivela un’evoluzione del virus che conduce alla follia dei cittadini «seminando tristezza e pulsione di uccidere» (p. 163).

Altri film horror in cui compare la pandemia citati da Di Nicola sono: Songbird (2020) di Adam Mason, Lethal Virus (2021) di Daniel H. Torrado, Virus 32 (2022) di Gustavo Hernández e Sick (2022) di John Hyams, che, secondo l’autore, può essere considerato, almeno al momento, l’horror definitivo sul Covid. Il questo ultimo caso, il regista «non si limita a usare la pandemia come sfondo, a raccontare una storia nel tempo del virus, ma tematizza il virus stesso, lo ingloba dentro il flusso, ossia prende le stimmate del Covid e le rende elementi compiuti di genere» (p. 165).

Sick può essere letto «come metafora del Covid: ci sono tre persone chiuse in casa, un pericolo esterno prova ad entrare, loro tentano di resistere attraversano spray e tamponi, ma quando una particella infettiva sembra sconfitta ne arriva subito un’altra, perché il male può sempre colpire» (p. 165). Più di altri il film di Hyams può, secondo Di Nicola, inaugurare un nuovo tipo di horror incentrato sulla questione pandemica.

Cogliendo alcune delle paure contemporanee più diffuse, il legame che diversi film hanno istituito tra le mostruosità online e i pericoli offline, contagio compreso, potrebbe rivelarsi una delle strade su cui insisterà maggiormente l’horror del futuro.

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La grande partizione https://www.carmillaonline.com/2023/10/10/la-grande-partizione/ Mon, 09 Oct 2023 22:15:15 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79277 di Stefania Consigliere

Stefano Boni, Tornare in sé. Pandemia. Per una ripresa della coscienza sociale e della resistenza attiva, Nautilus, Torino 2023

Il 9 febbraio 2020, quando il governo Conte, per la prima volta nella storia, mette in lockdown un’intera nazione, nella popolazione italiana si apre una frattura che niente, in seguito, ha davvero ricomposto. A scanso di equivoci, preciso fin da subito che qui non si parla di pandemia ma di gestione pandemica, di come i governi mondiali – e il nostro in particolare – hanno trasformato [...]]]> di Stefania Consigliere

Stefano Boni, Tornare in sé. Pandemia. Per una ripresa della coscienza sociale e della resistenza attiva, Nautilus, Torino 2023

Il 9 febbraio 2020, quando il governo Conte, per la prima volta nella storia, mette in lockdown un’intera nazione, nella popolazione italiana si apre una frattura che niente, in seguito, ha davvero ricomposto. A scanso di equivoci, preciso fin da subito che qui non si parla di pandemia ma di gestione pandemica, di come i governi mondiali – e il nostro in particolare – hanno trasformato un’emergenza sanitaria in una catastrofe globale. Se oggi s’inizia a vedere che non il virus, ma le scelte politiche hanno causato i danni più estesi, all’epoca dei fatti il senno del poi non c’era e toccava navigare a vista fra paure e dubbi, affidandosi a qualcosa di assai più labile (e più cruciale) delle certezze teoriche e delle ricostruzioni storiche: le proprie sensazioni, le impressioni che ci attraversavano, le intuizioni, le perplessità.

E sono proprio le percezioni, le “strutture di sentimento” a essersi divise in due: in quel momento inaugurale e traumatico, la maggior parte della popolazione è stata attraversata da un sentimento di paura, e finanche terrore, per il virus e ha trovato credibili e adeguate le misure adottate (dal lockdown alle zone a colori, dal green pass alla vaccinazione obbligatoria). Una parte minore, ma tutt’altro che esigua, è stata invece attraversata da un’impressione di dismisura, di sproporzione fra rischi e protezioni, e si è trovata fin da subito a diffidare della versione ufficiale dei fatti e a temere le scelte del governo ben più del virus stesso. Altre ferite hanno poi ulteriormente dilaniato il corpo sociale (l’uso delle mascherine, il green pass, la vaccinazione), aggravando la scissione iniziale e aprendone altre.

Come e perché alcuni abbiano aderito a una parte e altri siano scivolati dall’altra resta uno dei fatti più misteriosi a cui mi sia capitato di assistere. La frattura ha spaccato famiglie, amici, amanti, partiti, militanze, associazioni, classi sociali, circoli parrocchiali. Ogni forma immaginabile di associazione fra umani è stata sottoposta a torsione e quasi tutte ne sono uscite frantumate. Forse perché deboli in partenza? forse perché abbiamo a lungo creduto di essere tutti d’accordo almeno sulle cose fondamentali? forse perché la violenza psichica applicata da governi e grande industria era immane? Una risposta convincente ancora non s’è trovata, ma la strage delle coscienze chiamata in causa da uno dei più rigorosi analisti dell’epoca è un’eccellente descrizione di quanto accaduto.

Anche in questo caso, però, bisogna distinguere: sentire il mondo altrimenti non significa automaticamente essere discriminati. Perché la macchina della criminalizzazione si metta in moto, occorre uno sforzo coordinato e continuativo da parte di gruppi di pressione e autorità – esattamente quello che si è verificato in Italia (e non solo) fra il 2020 e il 2022, con le campagne d’odio lanciate a più riprese dai governi e dai mezzi di comunicazione che, per riprendere Luciano Parinetto, hanno letteralmente streghizzato non solo chi non aderiva al nuovo teatro sociale (mascherine, distanziamento, vaccinazione ecc.), ma anche chiunque esprimesse perplessità: come in guerra, ogni dubbio era già tradimento e si è arrivati finanche a menzionare la “fucilazione in piazza”. (Vale pena notare, di passaggio, che le campagne di streghizzazione dei renitenti all’ordine bianco sono uno dei mezzi con cui l’Occidente coloniale ha imposto la propria regola – o, per meglio dire, il proprio inferno – alle popolazioni colonizzate; e già che ci siamo, aggiungo anche che tutti gli strumenti di “salute pubblica” utilizzati nel periodo pandemico sono stati a lungo sperimentati, con esiti atroci, nelle colonie.)

Quanti sono quelli che, nella primavera del 2020, hanno scoperto di sentire il mondo in modo diverso da quello prescritto? E quanti l’hanno scoperto più tardi, col trascorrere dei mesi, delle misure di contenimento, dei discorsi pubblici, delle polarizzazioni? Il computo non è semplice. Chi ha frequentato, o ha fatto parte di, questa popolazione può dirne almeno due cose: è più ampia di quel che sembrerebbe; e non sembra esserci alcuna caratteristica sociologica, politica, economica o culturale che la unisca in modo univoco. Questa balzana classe non sociologica, la “classe che non è una classe” di quelli che durante la pandemia hanno sentito il mondo altrimenti, è uno dei fenomeni sociologici e antropologici più interessanti da conoscere.

È quanto fa Stefano Boni in questo volume, intervistando in profondità un gruppo di persone unite dapprima dalla percezione che, nella gestione pandemica, qualcosa non tornasse e poi dall’attivismo resistenziale in epoca di restrizioni. Alle spalle del testo c’è un’etnografia partecipata, come nella miglior tradizione della ricerca antropologica: un osservar facendo – o, se si vuole, un domandare camminando – capace di scavare al di sotto dei fenomeni, di ciò che appare a prima vista, alla ricerca della struttura che connette.
Nell’arco di sette capitoli, l’autore esplora alcuni degli elementi che uniscono questa stramba popolazione: dal sospetto verso la televisione alle scelte terapeutiche, dalla ripresa dell’organizzazione orizzontale alla ricerca di una certa coerenza fra principi e pratiche. A volte questi elementi di inquietudine, e di critica del presente, erano già attivi prima dell’affare covid e hanno orientato fin da subito lo sguardo sugli eventi; altre volte, a fronte della dismisura pandemica, l’emergere di un diverso e imprevisto sentimento del presente ha reso necessario sviluppare rapidamente uno sguardo critico. In ogni caso, questi soggetti si sono messi in fuga da una macchina organizzativa che tutti quanti, fin dai primi anni di vita, siamo addestrati a pensare come benevola e che di colpo ha rivelato il suo lato nascosto, l’enorme violenza necessaria al suo incedere.

I renitenti alla gestione pandemica troveranno in questo libro un racconto, e una possibile sistematizzazione, di ciò che, in questi anni, hanno attraversato. Gli altri – almeno quelli che, col calare della pressione sociale, possono permettersi qualche apertura – vi troveranno descritte le ragioni intime, e al contempo profondamente politiche, dei refuseniks. Qui aggiungo solo due note rapide.
La prima riguarda la prospettiva politica dell’autore. Dal punto di vista della tenuta critica, la pandemia ha messo in ginocchio a livello globale quella che un tempo si chiamava “sinistra antagonista”: quando, nel febbraio 2022, all’università di Utrecht si è tenuto il primo convegno internazionale di analisi degli eventi pandemici da sinistra, alcuni dei partecipanti hanno scelto di parlare in incognito, a riprova della durezza del blocco epistemologico calato un po’ ovunque. Antropologo all’università di Modena e Reggio, Stefano Boni è notoriamente anarchico e le sue pubblicazioni (v. gli eccellenti Homo comfort e Orizzontale e verticale. Le figure del potere, entrambi editi da Elèuthera) ne testimoniano a sufficienza. Nell’imbarazzante silenzio dei saperi critici e dell’antagonismo circum-marxista a fronte della gestione pandemica, la prospettiva anarchica – con la sua strutturale diffidenza nei confronti delle organizzazioni verticistiche e la sua enfasi sulle autonomie – si è dimostrata assai più rapida e intelligente sia nella decrittazione degli eventi che nella costruzione di alternative.

La seconda nota riguarda l’ultimo capitolo del libro, dedicato a qualcosa che, in assenza di meglio, tutti quanti chiamiamo “spiritualità” e che può essere descritta, telegraficamente, come il sentimento di vivere in un cosmo in cui, oltre a quella umana, vi sono anche altre intenzionalità e intelligenze (ad esempio quelle delle piante, del terriccio, delle acque, dei venti, degli animali, degli antenati; e magari anche delle ninfe che abitano i boschi e dei lari che danno ai luoghi il loro timbro). Forse proprio per via della rottura pandemica, dopo un secolo e mezzo di materialismo nella sua versione più gretta, negli ambienti libertari e resistenti oggi si comincia a ragionare – ancora a mezza voce, ma in modo sempre più deciso – di una possibilità di reincanto che sia finalmente altro da quello con cui il fascismo e il sistema dello spettacolo muovono le masse. Si ragiona, cioè, della possibilità d’intrecciare cambiamento esterno e cambiamento interno, economia e struttura pulsionale, attaccamenti e gerarchie, la felicità che non è stata possibile ai morti e la nostra infelicità presente; di una misticopolitica che consenta, infine, un rapporto non violento con gli enti che popolano il mondo, e quindi anche con gli umani, con noi stessi, con le nostre memorie, i nostri valori e quel quanto di felicità che pure, sulla terra, ancora avrebbe il suo luogo – fuori e contro la macchina dell’oppressione.

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Diventare ciò che pensano gli altri https://www.carmillaonline.com/2023/08/18/diventare-cio-che-pensano-gli-altri/ Fri, 18 Aug 2023 20:00:40 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78402 di Franco Pezzini

Fa un sorriso sghembo, ma non lo lascio replicare, mi sollevo decisa e lo aiuto a tirarsi su. «Ma sai una cosa? Chissenefrega. Mica si può sempre pensare a ciò che pensano gli altri. Altrimenti si rischia di diventare ciò che pensano gli altri».

«Aspetta. È contagioso, vero?»

«Non più del Covid».

 

A differenza che nel mondo antico o di alcune civiltà estranee a quello occidentale “moderno”, con rituali di iniziazione tribale molto strutturati, la nostra esperienza di passaggio all’età adulta presenta scansioni sfuggenti, fluide come il mondo [...]]]> di Franco Pezzini

Fa un sorriso sghembo, ma non lo lascio replicare, mi sollevo decisa e lo aiuto a tirarsi su. «Ma sai una cosa? Chissenefrega. Mica si può sempre pensare a ciò che pensano gli altri. Altrimenti si rischia di diventare ciò che pensano gli altri».

«Aspetta. È contagioso, vero?»

«Non più del Covid».

 

A differenza che nel mondo antico o di alcune civiltà estranee a quello occidentale “moderno”, con rituali di iniziazione tribale molto strutturati, la nostra esperienza di passaggio all’età adulta presenta scansioni sfuggenti, fluide come il mondo in cui siamo immessi. Un tempo a fungere da marcatori c’era, per i maschietti, la leva o il servizio civile; oggi sono rimaste, a par condicio tra i sessi, le conclusioni dei corsi di studio, sempre più terremotati da successive riforme, con i tipi diversi di laurea (triennale, magistrale…), ma soprattutto l’esame di maturità quale prova simbolica per eccellenza. Cui si connettono alcuni veri e propri rituali, precedenti quel passaggio (lo studio per la maturità conosce prassi di ritiro del tutto diverse da quelle per altri esami, per non parlare di strategie di appoggio reciproco o altri tipi di avventure più o meno curiose) o invece successivi. Tra questi ultimi, la cena di classe: possibile coi compagni dei più vari ordini di studi (sono reduce in tempi recenti da una, nientemeno, coi compagni delle medie) ma come ovvio più frequente con quelli delle scuole superiori, con i quali si è condiviso tanto per più anni e in età più adulta. Per chi scrive sono gli amici di una vita, quelli che ho continuato a vedere, o dei quali ho almeno saltuarie notizie. Il legame è rimasto forte.

Con loro si sono vissute esperienze in vario modo trasgressive, si sono consumati amori con tutta l’intensità e i napalm ormonali di un’età verde; con loro si è vissuta l’ultima fase della nostra età mitica, quando le giornate duravano oltre qualunque limite di orologio e riuscivamo a farvi entrare millanta cose (poi è arrivata l’età “della storia”, coi tempi rigidi e i giorni stiracchiati sempre più simili uno all’altro – emblematico il tempo al lavoro). E non solo: è nella fase terminale di quell’era geologica che si sceglie – o si è spinti dalla famiglia – verso qualche indirizzo della vita futura, attività lavorativa o ventaglio di ipotesi professionali. La cena di classe rappresenta dunque il momento di una sorta di verifica ex post, di coniugazione del futuro anteriore, di bilancio su chi fossimo e chi siamo diventati. Certo, ci sono aspetti anche dolenti: i fallimenti esistenziali, le solitudini e soprattutto i morti – perché col tempo, il numero di persone mancanti agli elenchi diventa sempre più pesante, sempre più inconsolabile.

Alla cena di classe si va per molti motivi possibili: il piacere e la tenerezza di ritrovare persone con cui si sono condivise dimensioni importanti, la curiosità di scoprire come siano/siamo diventati, magari il desiderio di dare sviluppo a qualche dialogo o conoscenza un tempo rimasto solo abbozzato… o persino pulsioni meno nobili, dal godersi quanto l’altro sia invecchiato (“sembra mia madre”) al voler rimorchiare qualcuno, allargando il proprio parco-contatti con un occhio al passato. Sentimenti, emozioni, desideri: in quel rito del ritrovarsi tante cose precipitano.

Riflettevo su tutto questo leggendo un racconto lungo molto divertente di Francesca Mogavero, Zombie revival, apparso da poco in ebook per Nero Press (edizione digitale luglio 2023): dove mettiamo subito le mani avanti, si tratta di un testo di genere dal forte humour nero e dal taglio popolarissimo, con un uso consapevole e non accidentale di echi e ispirazioni dal bacino della fiction più pop. Se vogliamo un divertissement, non un’opera letteraria né una prova di paraletteratura impegnata, ma un lavoro di buona mano – non è la desolante, seriosa scrittura “di servizio” di tanti ebook in circolazione – d’una autrice che sa usare la penna, sa gestire i dialoghi e il ritmo della narrazione, sostiene l’ironia con un passo brioso e senza sbavature. In effetti Mogavero (1986), editrice indipendente e attiva nei servizi editoriali, ha saputo meritarsi attenzione in più occasioni: vincitrice di borsa di studio 2021-22 per la Scuola Annuale di Scrittura Belleville di Milano, è stata selezionata al call racconti fantastici 2021 del Premio Calvino, con un racconto poi comparso nella relativa antologia Oltre il velo del reale. Raccolta di racconti distopici (WriteUp, 2021). Nessuno stupore dunque se il suo testo in esame liberi una quantità di suggestioni, di provocazioni – con la consapevolezza di una scrittrice vera che qui semplicemente si diverta. Raccontando come proprio una cena di classe in età covid in una villa appartata della collina torinese – nessuno verrà a controllare chi eluda il lockdown – venga funestata (per motivi che qui non si spoilerano, ma divertenti anche quelli) da un attacco di zombie. Annunciato dal riemergere di un gatto saputo morto, ma anche da altri dettagli che i personaggi non colgono in tempo.

Centrale e in qualche misura prevedibile, la dialettica tra l’ex-bello della classe Ludovico Giai Merlin e la narrante protagonista Rebecca, “copy, sceneggiatrice di fumetti e scrittrice di romanzi steampunk sotto pseudonimo”, che un tempo lui non avrebbe mai considerato (perché troppo seria, scopriremo). Ovviamente i personaggi, a partire dalla protagonista un po’ gotica che è l’unica a non perdere la testa, sono anzitutto funzioni narrative, ma sono resi in forma vivida e comunque svolgono bene il loro compito. Complessivamente, poi, il divertissement permette di riflettere su una serie di topoi, elementi sottotesto o suggestioni d’interesse.

Snoccioliamone almeno una parte, a cominciare dall’uso degli zombie. Se il covid ha messo in moto, tra le altre ipotesi più o meno banalizzate dalla chiacchiera pubblica, quella di un supervirus scatenato dai pipistrelli (dove nel salto di specie si evoca la virtuale ibridazione uomo/bestia congenita alla maschera vampirica), è pur vero che la nebulosa immaginale di un simile contagio non interpella tanto lo stereotipo del vampyr pipistrellesco, quanto piuttosto quello dello zombie. Sia perché il primo vanta uno statuto in apparenza molto più “certo” (mentre il mitizzante imbarazzo sull’origine del coronavirus – morbo sfuggito dal laboratorio o mutazione naturale, eccetera – si abbina molto meglio all’eziologia misteriosa dei cadaveri viventi del cinema); sia perché il vampiro, almeno quello dell’immaginario narrativo, mantiene comunque connotati assai più personalizzati e personalizzanti che non lo zombie, coerente ai dati numerici senza faccia dei giorni del lockdown, alle epopee di code ai supermercati, al rapporto coi grigiori del contemporaneo. Anche il vampiro veicola il tema dell’assedio, e dei mezzi apotropaici (aglio alle finestre, eccetera) per farvi fronte; ma il tema-assedio nel caso delle storie di zombie è persino più forte, incassa limiti assai più imbarazzanti (realtà apotropaiche sacre, esoteriche e aglio non sembrano servire, a fronte di una minaccia sempre più “laica”) e rimanda all’inarginabilità di antiche danze macabre e trionfi della morte appunto al tempo delle grandi pestilenze. Se poi il nosferatu è in qualche modo il nosophoros, portatore attivo di contagio/malattia, lo zombie è anzitutto il totalmente agito dalla sua situazione “patologica”, con un’idea di stordita passività coerente con le nostre stranite emozioni del periodo.

Insomma, la scelta del mostro finisce col provocarci sul linguaggio che abbiamo associato a un’esperienza lockdown che si ha fretta di dimenticare – per motivi diversi. Non si tratta solo del peso di un trauma collettivo, da archiviare/rimuovere, con tutti i rischi del rimosso, il più presto possibile: dove in questione sono anzitutto i morti (ricordiamo solo quel terribile trasbordo di grandi numeri di bare), certo, ma anche tutti i soggetti travolti economicamente da eventi che hanno ridisegnato il volto di interi quartieri. E, vorrei aggiungere, le stesse parole su un tema che ormai ci scatena conati di nausea.

Ma la rimozione è anche politica, per un imbarazzo di chi era al governo e ora all’opposizione, e viceversa. Da un lato i nodi di una gestione almeno discutibile stanno venendo al pettine, come pure dall’altro la malafede di chi ha cavalcato malumori collettivi strillando richiami libertari (su vaccini, regole sanitarie eccetera) piuttosto insoliti per il proprio retaggio autoritario, militar/poliziottesco… atteggiamenti che invece recupera oggi contro chi lo contesti. Indicativo, in questi giorni, l’approccio timido e defilato con cui emerge la proposta di un vaccino covid in coppia con la “normale” anti-influenzale per “over 60 e fragili”. Insomma, meglio per tutti calare il sipario sui grandi proclami.

Ma c’è dell’altro: il lockdown ha messo in scena a livello collettivo – potremmo dire – una grave crisi del cervello (l’organo che più in fretta si corrompe e oggetto classico di concupiscenza da parte degli zombie della vulgata). A partire dall’accezione più materiale: penso ai risultati critici constatati a posteriori dagli psicoterapeuti sui giovani rinchiusi, e a tutti i drammi di una reclusione i cui contraccolpi erano prevedibili fin dall’inizio (dai suicidi su cui si è calata una cappa di silenzio a tutte le deflagrazioni psichiche da solitudine con cui ora facciamo i conti), tema però che ha rappresentato la Cenerentola delle pubbliche attenzioni. Gli interventi su questo sono stati tardivi, nel disinteresse di gran parte dell’Italia, e a tutt’oggi il tema non entra nel merito del dibattito politico – a dispetto della situazione di un paese dove, per dirne una, il ricorso agli antidepressivi è tanto massiccio.

Ma cervello anche in senso più metaforico: penso a chi cercava di muoversi durante il lockdown, marcia o corsa, per far fronte all’ingrippamento di tutta la muscolatura ed era oggetto di linciaggio verbale dai balconi, da parte di quegli italiani brava gente più realisti del re che, a poterlo fare, brucerebbero ancora i sospetti untori (magari cantando l’inno nazionale, in coretti da strapaese). So di amici insultati dai passanti mentre correvano in piena campagna, lontani da qualunque rischio d’infezione. Di fronte a un pericolo oggettivo che investiva tutti, la reazione è stata troppe volte smettere di ragionare… Per non parlare degli sgangherati attacchi ai danni di chi avanzasse anche solo dubbi su vaccini poco testati (chi scrive si è regolarmente vaccinato, ma perché mi veniva estorto dai moduli di caricarmi responsabilità per eventuali danni da un trattamento impostomi?) o di chi criticasse politiche goffe, improvvisate sulla base dei proclami del virologo-divo e soprattutto dei diktat di Confindustria: un insieme tale da lasciare alla popolazione l’immagine di un rovinoso deficit di autorevolezza. Come penso al senso d’insicurezza divorante che ancora all’uscita dal lockdown un po’ tutti abbiamo constatato nello scendere in strada: un sentore latente d’insicurezza, il malessere sordo in cui ha avuto parte un bombardamento mediatico selvaggio. Il tema del cervello concupito dagli zombie rende bene quello di una sofferenza mentale i cui stigmi abbiamo pericolosamente constatato tutti.

La reazione chimica tra questa crisi e il tema della cena di classe, col Grande freddo (inevitabile pensare al film del 1983 diretto da Lawrence Kasdan) spalancato tra memoria e antiche attrazioni, rancori, futuri anteriori insoddisfacenti, attiva una sorta di corto circuito immaginale tra il topos dei morti viventi che attaccano e lo spazio di un passato chiuso a ogni tentativo vitale di reinterpretarlo, la morte simbolica del rito di passaggio/maturità da cui si nasce soggetti sociali e quella fin troppo fisica che vede rinascere soggetti antisociali. Il sesso non consumato/rimosso erompe in alimentazione (la quantità di foodie, presunti esperti di cucina germinati in questi anni di crisi lascia davvero basiti), il cervello richiesto alla maturità – o semplicemente all’accesso a una qualunque adultità – viene estorto in forma diversa e più materiale.

Resta da vedere cosa siano a quel punto gli zombi – scatenati (scopriremo) da chi, tanto integrato socialmente, non ha però saputo vivere passioni personali ed è diventato ciò che pensano/vogliono gli altri, infiocchettato per il successo in una società tutta superficie. Il presente senza passione di un’età di malafedi ideologiche assortite, di brutture coinvolgenti i clan dei potenti, di nonvedo-nonvedo-nonvedo – perché a vedere occorrerebbe cambiare un sistema fin dalle fondamenta, dalle nostre personalissime radici interiori, con tutta la fatica che una popolazione depressa non è disposta a fare, preferendo bearsi in caricature del bello e del buono – finisce col denunciare che l’esame retrospettivo permesso dalla cena di classe si sia risolto in un fallimento. Prigionieri di un lockdown interiore, abbiamo lasciato entrare gli zombie – vengano da Salò o dalla grande finanza –, con la loro (pseudo)vitalità divorante e tanta stanca putredine: ma zombie non finiamo con l’essere noi, divenuti ciò che pensano/vogliono gli altri, a furia di tollerare tanto?

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I ribelli del Donbass https://www.carmillaonline.com/2022/07/08/i-ribelli-del-donbass/ Fri, 08 Jul 2022 21:55:15 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=72834 a cura di Nico Maccentelli

Ripubblico un intervento del nostro Valerio Evangelisti, pubblicato il 20 settembre 2014, con lo scopo di contribuire a fare chiarezza riguardo le posizioni del nostro direttore che ci ha lasciato qualche settimana fa.

In questo periodo è stato un florilegio di iniziative su Valerio, il che mi fa molto piacere, ma che talvolta hanno preso ciò che interessava del nostro e secondo convenienza, glissando su ciò che lui era politicamente, intendo dire le sue scelte politiche e le sue posizioni all’interno del movimento antagonista. Nella nostra redazione non ci sono posizioni univoche su una molteplicità di [...]]]> a cura di Nico Maccentelli

Ripubblico un intervento del nostro Valerio Evangelisti, pubblicato il 20 settembre 2014, con lo scopo di contribuire a fare chiarezza riguardo le posizioni del nostro direttore che ci ha lasciato qualche settimana fa.

In questo periodo è stato un florilegio di iniziative su Valerio, il che mi fa molto piacere, ma che talvolta hanno preso ciò che interessava del nostro e secondo convenienza, glissando su ciò che lui era politicamente, intendo dire le sue scelte politiche e le sue posizioni all’interno del movimento antagonista. Nella nostra redazione non ci sono posizioni univoche su una molteplicità di questioni, ma nessuno di noi metterebbe mai in dubbio ciò che è stato Valerio nel contesto politico dell’antagonismo di classe, ritagliandosi una narrazione di comodo.

E allora diciamolo, a partire dalla sua appartenenza, che Valerio Evangelisti piaccia oppure no, è stato un compagno di Potere al Popolo, membro del suo Coordinamento Nazionale e lo è stato anche in disaccordo con alcune delle posizioni di questa organizzazione, in particolare sulla pandemia da covid: vedi la lettera stilata da lui, Roberto Sassi e me, qui.

Non è mia intenzione rivendicare una comunanza di idee con lui, che comunque c’è stata su quasi tutti i temi politici fondamentali, ma mentre io, lui con pochi altri trovavamo fortunosamente spazi di socialità tra compagni che a lui e ad altri con il lockdown era preclusa (quasi fossimo dei clandestini), c’erano centri sociali che chiedevano il green pass alle loro iniziative. E adesso belli belli commemorano, senza aver capito nulla, senza essersi minimamente chiesti delle condizioni di isolamento vissute da Valerio negli ultimi mesi della sua vita. Se su questo desiderano saperne qualcosa, chiedano pure, tra un dibattito sulla letteratura di genere e l’altro. Io sono qua.

Venendo alla ripubblicazione di questo intervento, anche in questo caso si capiscono le posizioni di Valerio sull’Ucraina, sin dal 2014, anno del colpo di stato di piazza Maidan e della strage di Odessa. Un intervento di grande attualità e che rappresenta ancora oggi uno spunto di riflessione necessario per chiunque si ponga su un terreno di lotta antimperialista. Un intervento che nella sua seconda parte dà spazio alle posizioni delle componenti comuniste e socialiste delle forze indipendenti di Donetsk e Lugansk: un manifesto che delinea il programma politico che secondo questi compagni le Repubbliche Popolari devono darsi.

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I ribelli del Donbass

di Valerio Evangelisti

Putin “socialista”? Per quanto sembri incredibile, c’è chi pare crederlo veramente, sia tra chi lo appoggia che tra chi lo avversa. Poco importa che al recente Foro Nazionale della Gioventù di Seliger (riunione dei giovani del suo partito) abbia definito “traditori” i bolscevichi che, con la loro rivoluzione, minarono lo sforzo bellico russo nella prima guerra mondiale. Per qualche rottame della disastrata “sinistra radicale” italiana, o per i molti furbi che mascherano da nuova guerra fredda l’attuale, gigantesco scontro economico tra capitalismi per impossessarsi delle aree del mondo ricche di materie prime, Putin è una specie di Lenin (o Stalin, o Breznev) redivivo. Eroe per gli uni, spauracchio per gli altri.

Ciò annebbia ancor più la lettura corrente dei fatti d’Ucraina e della secessione del Donbass. Si tratterebbe di un conflitto tra democratici “europeisti” (a prescindere da un buon numero di fascisti e nazisti nelle loro fila) e “filorussi” (balle, sono russi e basta). Chi non legga siti di informazione alternativa come Contropiano, Militant e, su un diverso versante, l’indispensabile PopOff finisce per crederci. La mistificazione attraversa tutti i media, conformemente alle scelte di una Unione Europea che segue pedissequamente gli ordini degli Stati Uniti, pronti a sbatterla dove pare a loro pur di non perdere il ruolo declinante di guardiani del globo.

Per dirne una, mi ha impressionato, giorni fa, il reportage da Kiev di una corrispondente di Rai News 24 (ma dove recluta, la Rai, certi soggetti?). Narrava di una mostra in onore dello “scrittore ucraino” Nicolaj Gogol. Domanda: ma lo sapeva, Gogol, di non essere russo? In che lingua scriveva?

Lasciamo perdere e torniamo a Putin (che ha fatto benissimo a riprendersi la Crimea: era già sua) e al Donbass. Non parlerò dei litigi in casa fascista, tra ortodossi pro Kiev (tanto da mandare volontari sul campo) e “rossobruni” o “euroasiatici” pro filorussi – espressione in questo caso appropriata. Non accettando la nozione di classe, vanno a istinto.

Meno perdonabile è un atteggiamento simile da parte di un settore della sinistra antagonista. Non c’è dubbio, il fronte dei ribelli contro Kiev non è esente da ambiguità. Ne fanno parte anche conservatori, slavofili, amici di Putin, gente di destra. Ma è lecito astrarsi da una lotta dichiaratamente antifascista in piena Europa, per di più a composizione nettamente operaia e proletaria? Ho l’impressione che un’informazione deviante e malata abbia fatto vittime anche là dove non avrebbe dovuto. Allora lascio direttamente la parola ai valorosi ribelli del Donbass, con un manifesto della loro ala sinistra (maggioritaria) che ha circolato troppo poco. Per inserire, in conclusione, un video della Banda Bassotti, voce musicale da trent’anni del migliore sovversivismo.

 

MANIFESTO DEL FRONTE POPOLARE PER LA LIBERAZIONE DELL’UCRAINA, TRANSCARPAZIA E NOVOROSSIJA (7 luglio 2014)

Qual è l’obiettivo della nostra lotta?

Costruire sul territorio dell’Ucraina una Repubblica Popolare senza oligarchia e burocrazia corrotta.

Chi sono i nostri nemici?

La classe dirigente liberal-fascista, l’alleanza criminale di oligarchi, burocrati, funzionari della sicurezza e la criminalità, servitori degli interessi di Stati esteri. Ufficialmente proclamano valori liberali europei ma tengono il paese sotto controllo con bande dell’estrema destra, scatenando l’isteria sciovinista per contrapporre gruppi etnici fra di loro.

Chi sono i nostri alleati?

Tutte le persone di buona volontà, indistintamente dalla loro cittadinanza ed etnia, che riconoscono gli ideali di giustizia sociale, che sono pronti a combattere per questi ultimi.

Qual è la Repubblica Popolare per la quale stiamo combattendo?

La Repubblica Popolare è la forma politica di organizzazione sociale in cui:

• Gli interessi delle persone, quello spirituale, intellettuale, sociale, fisico, sono i più alti obiettivi dello Stato;

• Tutto il potere appartiene al popolo, che lo esercita con organi eletti attraverso la rappresentanza diretta;

• Ogni lavoratore ha il diritto alla salute, all’istruzione, alla pensione e alla sicurezza sociale a spese dello Stato;

• Sono pagate pensioni dignitose, e tutti i cittadini possono godere delle garanzie di protezione sociale in caso di perdita del lavoro, disabilità temporanea o permanente;

• Sono ammesse eventuali iniziative private o collettive a condizione che avvantaggino le persone [la comunità];

• È vietato il capitalismo e l’usura bancaria che vive degli interessi sui prestiti. Il denaro deve essere guadagnato per mezzo della realizzazione di progetti utili.

• Lo Stato, che agisce per conto del popolo, è controllato dai rappresentanti di quest’ultimo. Lo Stato è il più grande detentore dei capitali e controlla i settori strategici dell’economia;

• È consentita la proprietà privata, ma le grandi fortune, i loro investimenti in politica e nell’economia, sono sotto il controllo della società – a nessuno è permesso di operare parassitariamente o creare un impero oligarchico o dominare sulle altre persone per mezzo dei monopoli.

Quali sono i nostri metodi di lotta?

Per raggiungere questo obiettivo (la creazione della Repubblica Popolare sul suolo ucraino), siamo disposti a usare metodi violenti e non violenti di lotta. Crediamo che i cittadini abbiano il diritto di ribellarsi e armarsi per difendere la propria libertà. La violenza, comunque, è un’espediente al quale ricorreremo solo quando saremo costretti.

Cosa sta succedendo in Ucraina?

Sul territorio ucraino c’è una rivolta di liberazione contro il governo liberal-fascista che con il terrore e la propaganda cerca di imporre al nostro paese un capitalismo oligarchico criminale.

Che cosa è l’Ucraina?

L’Ucraina – una zona tra l’Unione Europea e la Russia con una forte tradizione cristiana (soprattutto ortodossa), abitata da popoli diversi (ucraini, russi, bielorussi, moldavi, bulgari, ungheresi, romeni, polacchi, ebrei, armeni, greci, tatari, ruteni, hutsul e altri), ha una lunga tradizione di autogoverno popolare e politico e di lotta per la libertà.

È in atto una guerra tra russi e ucraini?

Questa non è una guerra tra russi e ucraini, come afferma la propaganda di Kiev. È la rivolta del popolo oppresso contro un nemico comune – il capitalismo oligarchico. Su entrambi i lati del conflitto, russi, ucraini e persone di altre nazionalità, stanno combattendo. Il regime di Kiev ha ingannato con la propaganda i suoi combattenti e mercenari che combattono per gli interessi degli oligarchi e per i criminali nelle istituzioni, mentre dalla nostra parte, in Novorossiya, i membri delle milizie difendono gli interessi del proprio popolo senza percepire alcuno stipendio, solo per un futuro democratico.

Sono diversi gli interessi dei russi e degli ucraini negli eventi in corso in Ucraina?

Russi ed ucraini condividono gli stessi interessi socio-politici per la liberazione dell’Ucraina dal potere del capitale oligarchico, dalla burocrazia corrotta e dai criminali.

Perché la rivolta in Novorossiya si svolge con slogan russi?

Combattenti internazionalisti della Brigada Prizrak

Poiché la popolazione russa e russofona dell’Ucraina ha vissuto una doppia oppressione: socio-economica, nonché culturale e politica. Oppressione socio-economica, la corruzione, la tirannia, il potere della criminalità, l’impossibilità di condurre attività economiche, gli stipendi miserabili e la dipendenza dai “padroni del paese”. Questa è la norma per ogni lavoratore ucraino. In più la privazione dello status ufficiale della lingua russa nelle regioni in cui più del 90 per cento della popolazione parla e pensa in russo (circa la metà del territorio ucraino) insieme al divieto di insegnamento nelle scuole della lingua russa, il bando della pubblicità e del cinema in russo, il bando del russo nelle pratiche legali e amministrative. È per questo che i russi e i russofoni sono stati i primi a ribellarsi.

Perché la Russia sta aiutando la Novorossija?

Una parte considerevole dell’élite russa ha paura della protesta popolare. Avrebbe volentieri intrapreso rapporti pacifici con le autorità di Kiev e vorrebbe metter fine alla guerra nel sud-est. Ma la furia della rivolta popolare contro il capitalismo oligarchico non lo permette. I popoli russi sostengono la giusta lotta della Novorossiya. Questo costringe tutta l’élite russa, a dispetto dei propri interessi strategici, a sostenere o far finta di sostenere la rivolta del sud-est dell’Ucraina.

Perché gli Stati Uniti e l’Unione Europea aiutano il regime di Kiev?

L’obiettivo principale degli Stati Uniti è la lotta contro la Russia, identificata come un rivale geopolitico. Per gli Stati Uniti è necessario creare in Ucraina un paese anti-russo con basi NATO, oppure far precipitare il paese nel caos e destabilizzare tutta la regione. L’Unione Europea ha invece bisogno di nuovi mercati per i propri prodotti e materie prime a basso costo.

Chi sostiene la lotta della Novorossija?

La Resistenza, che ha la sua base nel sud-est dell’Ucraina, sostiene e rafforza il costante impegno a favore dei popoli dell’Ucraina, liberi dal dominio liberal-fascista e dalle élite dominanti.

È solo una lotta separatista in Novorossija?

No, il territorio del combattimento è tutto il suolo ucraino. Gli insorti della Novorossiya vogliono raggiungere i loro fratelli e sorelle in tutte le regioni d’Ucraina con lo slogan: “Ribellati contro il nemico comune”. Creeremo un nuovo potere, libero, socialmente responsabile, in tutta l’Ucraina e la Novorossija.

Che cosa accadrà dopo la vittoria della rivoluzione di liberazione e il crollo del regime liberal-fascista?

Ci sarà la formazione di un nuovo Stato in cui il potere apparterrà al popolo, non a parole ma nei fatti.  La popolazione di ogni regione attraverso un referendum (come la più alta forma di potere popolare) determinerà il futuro della propria regione – se rimanere all’interno di uno Stato federale oppure ricevere la piena indipendenza.

Come sarà costruito il potere politico dopo aver vinto la rivoluzione di liberazione?

Il potere politico sarà basato sul principio della rappresentanza popolare diretta – dal basso verso l’alto. Saranno formati organi di democrazia, partendo dai Consigli locali fino al Consiglio Supremo, sulla base dei principi rappresentativi dei territori, dei delegati dei gruppi di lavoro dei sindacati, dei delegati di organizzazioni politiche, religiose e sociali. La base della democrazia popolare saranno i Consigli locali. Essi delegheranno i rappresentanti nei Consigli regionali. L’organo supremo della rappresentanza popolare (il Consiglio supremo) è composto dai delegati dei Consigli regionali. Il Consiglio supremo elegge un governo che rappresenterà il popolo tutto. Noi siamo per l’elezione dei giudici e dei capi delle forze dell’ordine.

Quali saranno i diritti delle regioni dopo aver vinto la rivoluzione di liberazione nazionale?

Ogni regione avrà il diritto di avere la propria Costituzione o un altro documento fondante per garantire a coloro che vivono sul suo territorio, i diritti politici, economici, sociali, culturali e religiosi di base.  Inoltre ogni regione avrà diritto, oltre alle lingue nazionali, di scegliere le lingue regionali.  Ogni regione avrà il diritto di formare il proprio bilancio basato sulla tassazione delle persone fisiche o giuridiche che operano nel suo territorio.

Quali saranno le competenze delle regioni dopo la vittoria della rivoluzione di liberazione nazionale?

Ogni regione sarà tenuta a pagare una parte delle imposte per un fondo generale di salvataggio (in caso di calamità naturali o di altre catastrofi). Ogni regione sarà tenuta a versare parte delle entrate fiscali per le esigenze pubbliche – difesa, manutenzione dell’apparato statale, la costruzione di opere pubbliche, per la ricerca scientifica, il sistema sanitario, l’istruzione e lo sviluppo delle infrastrutture.  Ogni regione dovrà rispettare i principi dello Stato generale dei rapporti tra lavoro e capitale, le libertà civili e politiche.  Ogni regione dovrà mantenere la legge e l’ordine e proteggere i diritti e le libertà dei cittadini all’interno delle linee guida nazionali.

Questi sono i principi di base e gli obiettivi della nostra lotta.  Noi crediamo che ogni cittadino onesto e patriota debba sottoscriverle e sostenerle.  Contiamo sulla solidarietà e il sostegno internazionale di tutti coloro che non solo a parole, ma nei fatti sostengono gli ideali di uguaglianza, democrazia e giustizia sociale.

Insieme vinceremo!

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Eccedenze produttive: per un’analisi marxista dell’autoritarismo pandemico e di guerra https://www.carmillaonline.com/2022/05/14/eccedenze-produttive-per-unanalisi-marxista-dellautoritarismo-pandemico-e-di-guerra/ Sat, 14 May 2022 21:55:56 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=71959 di Nico Maccentelli

Prologo

La società dello scambio (valore di scambio) nel passaggio al dispositivo o pass che discrimina, seleziona, divide e e gerarchizza il corpo sociale aggredisce ed elimina quella conquista fondamentale, nata con le rivoluzioni della seconda metà del millennio scorso, in cui prendeva corpo il diritto universale dell’essere umano a essere uguale davanti alla legge e ai diritti più elementari, affrancato cioè dalla subalternità verso i nobiili, ma anche da quella pervasività nscente mercantile (mercatista) propria del capitalismo e che tendenzialmente non conosce limiti. I limiti erano stati posti [...]]]> di Nico Maccentelli

Prologo

La società dello scambio (valore di scambio) nel passaggio al dispositivo o pass che discrimina, seleziona, divide e e gerarchizza il corpo sociale aggredisce ed elimina quella conquista fondamentale, nata con le rivoluzioni della seconda metà del millennio scorso, in cui prendeva corpo il diritto universale dell’essere umano a essere uguale davanti alla legge e ai diritti più elementari, affrancato cioè dalla subalternità verso i nobiili, ma anche da quella pervasività nscente mercantile (mercatista) propria del capitalismo e che tendenzialmente non conosce limiti. I limiti erano stati posti dalla forza materiale delle classi popolari che si ergevano a rompere le catene dello sfruttamento della servitù della gleba, divenendo cittadini da sudditi che erano stati. Or bene il processo che si compie oggi è esattamente l’inverso e nello scambio diritti per comportamento la società dello scambio totale arriva a permeare l’intero corpo sociale, le istituzioni, divenendo società disciplinare e del controllo. Il citoyen torna suddito, non più di un re per virtù divina, ma di sua maestà le capital in virtù della sua potenza, non più di una classe nobiliare per titoli, ma di un’oligarchia per censo.

In questo intervento tratterò di ECCEDENZE PRODUTTIVE. Infatti, alla faccia di chi in tutti questi mesi ha cercato di scollegare l’emergenza vaccinale e le restrizioni culminate nel green pass come una sorta di necessità dovuta alla pandemia, non ha capito proprio nulla dei dispositivi messi in atto dal capitalismo e delle nuove forme di fascismo biopolitico finalizzate al controllo sociale e al disciplinamento della popolazione per mezzo della discriminazione, del ricatto e della trasformazione dei più elementari diritti come persino il lavoro (che solo diritto non è ma necessità per sopravvivere) in premi sulla base dei comportamenti.

ECCEDENZE PRODUTTIVE dicevo, sì perché la storia del capitalismo della sua riproduzione sociale, ossia dei suoi processi di riproduzione della società è fatta di eccedenze produttive, ossia di una massa di forza lavoro eccedente che, proprio perché eccedente, fa entra in concorrenza i lavoratori tra loro e abbassa così il potere contrattuale. Dunque una forza-lavoro il cui costo e condizioni di lavoro e di vita si abbassano in funzione dei profitti del capitale. Per questo questa storia è storia della lotta di classe, di contesa tra borghesie e capitalismo da un parte e proletariato e masse popolari subalterne dall’altra sulla ripartizione della ricchezza sociale.

Le ECCEDENZE PRODUTTIVE pertengono ciò che determina profitto, salario e condizioni di lavoro, ossia il potere contrattuale della forza-lavoro. Ma più in generle, se consideriamo il salario come attuale, differito e indiretto, il conflitto tra classi sociali riguarda anche la ripartizione della richezza sociale, quanto cioè diviene reddito e servizi e quanto rendita. Tutta la lotta di classe si basa su questa contesa, determinando i rapporti di forza tra classi, gruppi sociali, sino a raggiungere una dimensione politica nella coscienza e nell’organizzazione di classe e divenire lotta per il potere politico, nell’intera società. Tale dimensione informa la classe da classe in sé a classe per sé.

Le eccedenze produttive in ultima analisi allontanano i mezzi di produzione dall’appropriazione sociale, collettiva. dalla loro gestione popolare socialista. Non è solo un fatto contrattuale. Ciò contrasta la necessaria socializzazione epocale dei mezzi che riproducono la società.

Ecco allora cosa sta alla base di questa torsione autoritaria che abbiamo vissuto con l’avvio della fase pandemica da covid-19, fino al passaggio dei conflitti intercapitalistici su scala internazionale da tendenza alla guerra imperialista a guerra vera e propria tra NATO e Russia verso il terzo conflitto mondiale, anche se ancora camuffata da guerra Ucraina-Russia. 

Ma se partiamo dall’avvio del tentativo egemonico delle élite mondialiste atlantiste avviato con la pandemia, quella che viene chiamata impropriamente “dittatura sanitaria”, non è altro che la dittatura del capitale su ogni ambito sociale. Il ricatto, le restrizioni, l’esautoramento delle vecchie democrazie borghesi, ritenute inadeguate dai poteri forti della Trilateral e del Bilderberg già qualche decennio fa, questo combinato bio-autoritario, consente di condurre con successo sia una guerra interna che annichilisce i settori sociali in una sorta di controrivoluzione preventiva a tenaglia: istituzioni, partiti di regime, sanità privatizzata di fatto e media mainstream, che una guerra esterna nella crisi strutturale di capitale che già dalla fine del secolo scorso attanaglia il capitalismo costringendolo a cure non risolutive. 

Le eccedenze produttive di capitale fisso e quelle di capitale variabile, ossia mezzi di produzione e forza-lavoro eccedenti in questo passaggio possono venire distrutte per la terza volta (guerra imperialista) nel tentativo di effettuare una “demolizione assistita”, una guerra glocal, ossia globale ma circoscritta al nostro continente.

Ma vediamone i vari passaggi.

Non sappiamo e forse non sapremo mai se questa pandemia sia stata voluta e creata da circoli ristretti a guida statunitense delle classi dirigenti a livello mondiale. Ma quello che ormai possiamo dare per assodato è che l’uso che il capitale monopolistico finanziario e i suoi esecutivi hanno fatto di questa pandemia è stato in direzione di una grande ristrutturazione capitalistica che non ha coinvolto solo le catene del valore, la produzione e la circolazione del capitale, ma i rapporti sociali stessi in un cambiamento antropologico devastante.

Concentrazione di capitali, assoggettamento delle economie locali alle filiere delle multinazionali (la cd amazonizzazione), vedi i lockdown e le regole paranaziste sull’economia di prossimità, sono gli elementi fondativi di una nuova società irrigimentata alla pura logica del profitto dei grandi gruppi finanziari e multinazionali.

In questo processo autoritario di vera e propria guerra sociale interna, tutte le tecniche per gestire con efficacia un esercito industriale di riserva e precario si sono condensate nell’avvio di un dispositivo interoperativo con il quale il comando capitalista potrà decidere come usarlo e quando per concedere diritti o toglierli, selezionare, discriminare: aspetto essenziale per mettere in concorrenza la forza-lavoro, ricattarla per renderla sempre più flessibile e creare un mondo dove persino i bisogni primari diventano un optional, ossia condizionati allo scambio diritti e servizi per comportamenti. Mi riferisco a quello che Osvaldo Costantini in un recente e mirabile intervento su Carmillaonline definisce: «creazioni di differenze all’interno del corpo proletario mediante la gerarchie delle cittadinanze» e ancora specificando: «… il bisogno costante del capitalismo di creare un sistema a geometria variabile che produca una gerarchia sociale nella popolazione, in modo da estrarre plusvalore dalla diversità» e «Una sostanziale e continua operazione di creazione di barriere all’esercizio di diritti e al mantenimento degli status che, seguendo David Harvey, possiamo notare onde svelare la diffusa abitudine del capitalismo a prosperare sulla produzione della differenza»(1)

Dunque le eccedenze produttive, che da sempre il capitale gestisce per abbassare i salari e intensifcare lo sfruttamento, in Italia sin dal pacchetto Treu fino al renziano jobsact, giocano un ruolo fondamentale in questo avvio dell’autoritarismo bio-politico e ipertecnologico. Se da una parte infatti, si attacca il piccolo capitale imprenditoriale, il lavoro autonomo con le restrizioni, dall’altra si annichilisce ogni possibilità rivendicativa e di ricomposizione politico-sindacale del proletariato combinando in un mix devastante per il corpo sociale e operaio dispositivi ben collaudati di scomposizione delle soggettività con quelli nuovi utilizzati con la pandemia.

Il green pass, che oggi si chiama così, domani avrà altri nomi con altre modalità di controllo premiale o sanzionatorio, ha fatto da apripista verso il dispositivo interoperativo. Mentre schiere di illustri marxisti, una vasta compagneria non capiva neppure quanto fosse necessario e vitale difendere i milioni di lavoratrici e lavoratori messi a casa senza stipendio perché non volevano vaccinarsi. Il tutto nel nome di una necessità emergenziale completamente gestita dal capitale: dalle cure negate per imporre alla popolazione i sieri, ai megaprofitti.

Questo dispositivo interoperativo che potrà decidere se puoi avere un alloggio o te ne devi andare come sta sperimentando l’ACER di Fidenza dopo aver azzerato il punteggio, o se meriti un premio perché non hai avuto multe, come sta sperimentando il comune di Bologna con un inizio soft, è l’espressione più sofisticata di gestione delle eccedenze produttive, in grado di colpire ed emarginare chi si oppone e disobbedisce, in grado quindi di imporre la pax del capitale anche per la sua guerra imperialista, anche per la guerra esterna: la guerra interna in funzione della guerra esterna.

Ma di più: in un’era in cui il capitalismo si rivela pura accumulazione per il profitto, senza alcuna funzione positiva per l’umanità che diviene secondaria se non azzerata, le spinte conflittuali e le tensioni sociali vanno preventivamente contrastate. Questo dispositivo interoperativo separa ancora di più i mezzi di produzione, della riproduzione sociale, dalla forza-lavoro, già prima menzionati, poiché aumenta notevolmente il potere del capitale sui lavoratori e nella società in genere, aggiungendosi come dispositivo di comando a quelli già utilizzati sulle eccedenze produttive in tempi normali.

Come vedete l’approccio che abbiamo dato alla nostra scelta di sostenere e lottare con il movimento contro il green pass e l’obbligo terapeutico è tutt’altro che una scelta circoscritta alla dimensione sanitaria.

Questa ristrutturazione sociale, sul piano marxista, è paragonabile all’accumulazione originaria descritta da Marx nelle enclosure del capitalismo pre-industriale, in cui la terra veniva alienata ai contadini che si inurbavano trasformandosi in forza-lavoro, formando una sovrappopolazione sempre più ricattabile in quanto già da allora eccedenza produttiva. Una massa di forza-lavoro eccedente per questa ristrutturazione digitale e delle filiere andrà a peggiorare il potere contrattuale dei lavoratori e la miseria sociale sempre più dilagante. Se prima avevamo “semplicemente” le delocalizzazioni e la progressiva espulsione dai cicli produttivi di manodopera nell’aumento del capitale fisso, oggi la devastazione delle piccole e medie imprese a favore dell’amazonizzazione, della concentrazione dei capitali nella catena del valore, rappresenta uno scarto epocale avviato con la gestione capitalistica di questa pandemia.

Sempre Osvaldo Costantini osserva:«uno dei pilastri del capitale è la sottrazione di autonomia delle popolazioni nell’accesso ai mezzi di sussistenza, più precisamente la separazione tra la forza lavoro e i mezzi di produzione; una operazione mediante la quale la forza lavoro è trasformata in merce tra le merci. Brutalmente riassunta in questo modo la famosa accumulazione originaria di Marx, su di essa va costruita la necessaria riflessione che tale processo sembra essere in costante e continuo funzionamento all’interno dello stesso controllo capitalistico della riproduzione sociale (più o meno la tesi di David Harvey della accumulazione per spossessamento)» (2)

E ancora Marx sulla classe operaia inglese e le contraddizioni con quella migrante irlandese (3) con criteri di gerarchia e divisione nei diritti, nelle paghe, nel lavoro stesso, ma soprattutto di divisione per imperare. Come non leggere infatti, la diversa scelta fatta in materia di vaccinazioni e di accesso con il green pass allavoro stesso, se non una grande divisione capitalistica tra lavoratori e nel sociale tra la stessa popolazione a partire dai settori più disagiati e subalterni?

Le tecniche di controllo della produzione, di determinazione dei costi della forza-lavoro li abbiamo già visti attraverso l’attacco ai bisogni e ai diritti delle parti più deboli del proletariato. Come il diritto di cittadinanza e il relativo permesso di soggiorno per i migranti quale strumento di gestione del mercato del lavoro con l’immissione di forza-lavoro a basso costo, creando precarietà diffusa, divisione nella classe su basi razziali, zero diritti sul lavoro e bassi costi di produzione. Aspetto che i vari sovranisti non hanno compreso proseguendo con questa divisione oscena tra autoctoni e migranti, quando invece è l’unità di tutti i lavoratori salariati e precari a essere il centro di un’opposizione anticapitalista.

Stessa logica del green pass è il decreto Lupi che attacca il diritto all’abitare, attaccando quei comportamenti trasgressivi che puntano alla riappropriazione di condizioni di vita minimali attraverso le occupazioni abitative. La tecnologia digitale, biometrica, la concentrazione dei dispositivi di controllo in un unico dispositivo interoperativo, riassume tutte queste esperienze biofasciste, creando giorno dopo un giorno un grande frankenstein foucaultiano che trasforma le istituzioni e le relazioni sociali stesse in istituzioni totali, governate non dall’essere umano, ma da tecnomacchine, computer, reti di dati, algoritmi che determinano cosa puoi o non puoi fare in base a parametri di volta in volta prefissati. Detto per inciso, il credito sociale cinese, sul quale non mi dilungo, è un’esperienza all’avanguardia per il comando del capitale sulla forza-lavoro e sul controllo sociale della popolazione, che ci fa dire che non è questo il socialismo che vogliamo.

Questa chiave di lettura sostanzialmente materialistico-dialettica, ci porta a vedere i movimenti reali che hanno fatto irruzione nella società in opposizione a questi dispositivi di controllo e discriminatori in due anni di restrizione, come elementi di un’autonomia popolare, operaia. Nella lotta dei portuali di Trieste non abbiamo visto i santini e i rosari, ossia il sostrato culturale che permea la classe da decenni di subordinazione al mainstream e alla religione, ma il tentativo di esercitare rigidità di classe, incidendo in un ganglio vitale della catena del valore del capitale: la circolazione delle merci.

La sovraneria vede solo gli interessi degli autoctoni e rappresenta un’opzione nazionalista, mentre non sono gli interessi corporativi, non sono i confini e le culture, le etnie a essere elemento dirimente questa contraddizione che è di classe e non nazionale, bensì internazionalista e meticcia, da campi di Foggia a Parigi, dai riot di Amburgo a Manchester, a Lisbona.

Invece la compagneria vede le schifose discriminazioni sui migranti ma non quelle su milioni di lavoratori messi a casa senza stipendio, vede le lotte della logistica, ma solo quelle che non mettono in discussione la sua credenza quasi religiosa su una scienza neutra, su un scientismo fideistico, un ossimoro. Quindi ecco le distanze dalla lotta dei portali triestini, quasi fossero degli ammorbati, che di già sarebbero no vax, no?

Invece di lavorare politicamente nei movimenti per come essi si presentano si fa del facile sociologismo: quelli sono fascisti, terrapiattisti, oscurantisti e via dicendo. Per questo l’assemblea antifascista contro il green pass, forse per intuito e necessità di liberazione più che per analisi, ha saputo andare oltre questi pregiudizi che stanno ammazzando la sinistra di classe. Il suicidio finale di chi da anni non esce dal suo guscio autoreferenziale.

È per questo che oggi, il controllo sulla popolazione accumulato con l’esercizio dispotico delle restrizioni con la censura e la propaganda dei media di regime, e con l’ignavia complice delle forze politiche che si dicono d’opposizione, la guerra interna per ora vinta serve quella esterna con le medesime pratiche di criminalizzazione del paria: dal no vax al filo-putin. E l’opposizione contro la guerra ha un vulnus nell’incomprensione di questi due anni di attacco autoritario, di stravolgimento della convivenza civile, dei diritti nati con i citoyen del 1789.

Senza lotta alla gestione autoritaria e ai dispositivi di comando come il green pass, non può esservi una reale lotta contro la guerra. Senza la disobbedienza e il boicottaggio per riappropriarci della nostra vita sociale non ci può essere diserzione dalle logiche della guerra. Le liturgie del comando sono le medesime. Non si può fare una lotta a metà, glissando su uno degli aspetti costitutivi oggi del dominio capitalistico sui lavoratori e sulla società.

Unità popolare contro il capitalismo biofascista, e guerrafondaio significa questo.

In definitiva l’eccedenza produttiva, l’eccesso di forza lavoro è la condizione strutturale del rapporto capitale/lavoro, su cui si articola poi un reticolo di dispositivi che selezionano, gerarchizzano, sanzionano, premiano, escludono o includono. 

Ma le eccedenze produttive sono anche destinate al macello della guerra. Ossia lo sbocco alla crisi del capitalismo. Sono fattore fondamentale nella gestione autoritaria della pandemia ai fini del comando sulla forza-lavoro e nel contempo possono essere “smaltite” nella guerra che oggi può estendersi a tutto il continente con armi nucleari tattiche.

Con l’avvento dell’autoritarismo biopolitico, della sorveglianza e del controllo sociale le eccedenze produttive, articolate in una massa precaria, precarizzata, vanno schiacciate con un sistema interoperativo ad algoritmi che decide automaticamente chi e cosa in base ai comportamenti. I centri di comando del capitalismo, dei suoi apparati statali definiscono i criteri e le modalità del controllo e della selezione sulla massa precaria e in generale, precarizzando e gerarchizzando ancora di più il corpo sociale. Poi il dispositivo interoperativo opera con un “pilota automatico”, formattato sugli obiettivi da conseguire. Che una prassi luddista post-industriale e anti-transumanista diventi l’espressione della resistenza popolare collettiva (e individuale nelle circostanze di vita di ognuno) al processo di irrigimentazione e macchinizzazione del corpo sociale? È questa forse l’espressione conflittuale dell’autonomia di classe in un mondo-capitale totalmente dominato dalla digitalizzazione delle relazioni umane? Sono queste le “gocce di sole nella città degli spettri”, per parafrasare un’opera scritta da Curcio nelle carceri speciali?

Ho dunque accennato che nell’analisi marxista in generale il capitalismo risponde alle sue crisi economiche di sovrapproduzione o sovraccumulazione con la guerra, ossia con la distruzione di capitale eccedente: impianti, infrastrutture e forza-lavoro. C’è il rischio molto forte che la gestione delle eccedenze produttive sul fronte europeo si traduca in un ridimensionamento delle eccedenze produttive stesse, in particolare del nemico, ma anche degli alleati da parte del paese imperialista dominante, ossia gli USA e con essi la Gran Bretagna, quella che viene definita l’anglosfera. Ma per il capitalismo occidentale a guida USA, per la NATO che ne è suo strumento di comando sull’intero blocco di paesi imperialisti, il nemico, ovvero il competitore, qual è? 

Il nemico per gli USA-NATO è di fatto duplice: l’Europa da una parte e la Russia dall’altra. L’entità europea per gli USA e la Gran Bretagna (ecco spiegata una delle ragioni dell Brexit…) non deve infatti unirsi in un polo euroasiatico economico-sociale che riassuma Russia ed Europa insieme, fatto di mercati, impianti e infrastrutture a tecnologia avanzata, risorse energetiche e funzionali alle nuove tecnologie: ciò sarebbe un grave problema per gli USA in quanto sarebbero in presenza di un gigantesco player affacciato tra l’altro sui mercati asiatici. La vera partita si gioca per questa contesa, che gli europei non stanno affrontando nel giusto modo, ponendo un freno alla strategia bellica del dividi et impera degli USA. 

Gli esecutivi dell’UE sono in diversi modi tutti assoggettati alla politica di Washington, che detta legge, che determina i tempi e i modi dell’azione bellica, disattivando ogni possibilità diplomatica con la Russia. Sul piano geostrategico un conflitto che divida la Russia dal resto dell’Europa per gli USA è un toccasana. E la guerra in Europa con mezzi nucleari tattici e limitati al solo continente europeo, non è un’ipotesi peregrina. Gli esecutivi vassalli sottostanno a questa strategia che nella migliore delle ipotesi distrugge l’Europa con un’economia di guerra lunga degli anni e nella peggiore fa leva sul fatto che la Russia e la NATO impieghino mezzi nucleari tattici in una guerra “glocal” limitando la distruzione al solo continente europeo. 

Ecco il perché di un dominio autoritario. Prima educhi all’obbedienza le masse, ritardando i tempi della giusta e ovvia rivolta sociale… e poi le distruggi al momento giusto evitando la rivolta generalizzata, tensioni sociali che superino il livello di guardia. Ecco perché è un imperativo mobilitarci contro la guerra imperialista e contro la NATO che ci sta portando alla miseria dilagante se non al disastro di una guerra su vasta scala. È una strategia che va attaccata rispondendo colpo su colpo, con la lotta e l’organizazione autonoma di classe, alla guerra sociale interna che ci stanno facendo senza avercela dichiarata. Dobbiamo metterci in queste condizioni, non ci sono altre vie.


 

Note

  1. Osvaldo Costantini, Pandemia, stato, capitale, Qualche bilancio
  2. Ibidem
  3. Lettera di Marx a Sigfried Meyer e August Vogt, Marx, 9 aprile 1970
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Ieri, oggi (e domani?) https://www.carmillaonline.com/2022/03/08/ieri-oggi-e-domani/ Tue, 08 Mar 2022 21:21:16 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=70856 di Mauro Baldrati

Non si creda che durante il ventennio il regime fascista fosse un organismo omogeneo, pervaso da esaltazione e adorazione per il Duce sul cavallo bianco, come vagheggiava Sofia Loren in Una giornata particolare. O meglio, nell’immaginario popolare era certamente diffusa questa riduzione comica del Potere, ma la ragnatela che avvolgeva il paese con la sua trama demagogica e la sua violenza, copriva un nido di vipere, un branco di belve fameliche in guerra tra loro. C’erano rivalità tra i gerarchi, guerre intestine, calunnie, maldicenze. La corruzione dilagava e trascinava con [...]]]> di Mauro Baldrati

Non si creda che durante il ventennio il regime fascista fosse un organismo omogeneo, pervaso da esaltazione e adorazione per il Duce sul cavallo bianco, come vagheggiava Sofia Loren in Una giornata particolare. O meglio, nell’immaginario popolare era certamente diffusa questa riduzione comica del Potere, ma la ragnatela che avvolgeva il paese con la sua trama demagogica e la sua violenza, copriva un nido di vipere, un branco di belve fameliche in guerra tra loro. C’erano rivalità tra i gerarchi, guerre intestine, calunnie, maldicenze. La corruzione dilagava e trascinava con sé i complotti, gli scandali, le richieste di epurazioni e di confino. Mussolini lo sapeva. Sapeva tutto. Ogni giorno riceveva memoriali, denunce delle malefatte dei vari podestà o federali. Leggeva, sottolineava con le immancabili matite rosse e blu a punta grossa, e taceva. E non agiva. Lui non agiva. Qualcun altro doveva svolgere il lavoro sporco. Quando, dopo la marcia su Roma e il colpo di stato, iniziò la massiccia opera di burocratizzazione “totalitaria e integrale del regime fascista”, il suo primo pensiero fu di cacciare dalle leve del potere la masnada di trafficanti, ma soprattutto i teppisti, i picchiatori e gli assassini, esseri ignoranti e bestiali di cui non aveva più bisogno. Anzi, rappresentavano un intralcio per il suo progetto di un regime assoluto, privo di opposizione e senza la decadenza plutocratica della democrazia liberale. Li aveva usati, esaltati coi suoi comizi incendiari dove incitava alla violenza “giovane” e alla devastazione “chirurgica”, mentre sottobanco tramava coi detestati borghesi liberali e persino coi socialisti per far entrare i neonati fascisti in quella cloaca di esseri “stracchi e putrefatti” che era il Parlamento. Ma ora che il Potere era conquistato c’era bisogno di pragmatismo, di obbedienza cieca e religiosa (“il fascismo con è una ideologia, è una fede”). Per cui i barbari squadristi, gente che aveva solo l’istinto di appiccare il fuoco, di ammazzare e di stuprare, andavano tolti di mezzo. Lo stesso fece Hitler in Germania con le SA. Per un periodo iniziale infatti i nazisti tedeschi replicavano le azioni dei maestri italiani, e Hitler considerava Mussolini il suo Vate. Luchino visconti ne La caduta degli dei ha rappresentato magistralmente quegli eventi, col crescendo dell’orgia omosessuale delle SA, fino all’irruzione delle SS che li sterminarono tutti. Così nel 1926 Mussolini nominò un suo fedelissimo alla guida del Partito Nazionale Fascista, Augusto Turati, col compito di ripulirlo dalle mele marce, dagli squadristi, dai ladroni e dai ladri di polli. E Turati, uomo di cieca fede, agiva “devotamente”, epurando senza pietà. Cacciò dal partito decine di migliaia di iscritti e funzionari, alcuni mandandoli al confino, qualcuno in prigione, altri nella triste palude del dimenticatoio.

Intanto Mussolini, un anno dopo, creò l’OVRA, la polizia segreta copiata, pare, dalla Čeka sovietica, col compito di reprimere ogni attività antifascista. Ma non solo. L’OVRA sorvegliava anche i potenti, le “Eccellenze”, i gerarchi, i sindaci, i prefetti, raccogliendo dati, delazioni, spiandone i comportamenti e archiviandone i vizi. E ancora una volta il copione fu copiato. Edgar Hoover col suo FBI agiva allo stesso modo. Spiava i presidenti, i ministri, i potenti industriali, fotografando orge, tradimenti, omosessualità, pedofilia, ogni genere di bassezza in contrasto con la morale puritana. Questo enorme archivio della perversione gli servì per restare al potere per quasi quarant’anni, intoccabile, poiché teneva sotto ricatto i maggiorenti d’America. E qui, come il regista Visconti, il maggior narratore di quel periodo e di quelle azioni è stato uno scrittore, James Ellroy, il cantore della depravazione politica (si legga soprattutto American Tabloid).

Ma non durò. Turati non durò. La sua azione di incorruttibile epuratore scatenò la furia del sottobosco, fece insorgere i gerarchi infastiditi dalla violazione dei loro segreti. Soprattutto il feroce Roberto Farinacci, l’idolo dei duri, ex capo squadrista, difensore dei killer di Matteotti, che continuò a deridere e a insultare, chiamandolo “il maiale” anche dopo il ritrovamento del corpo straziato. Iniziò una campagna denigratoria, sfruttando soprattutto le cosiddette devianze sessuali di Turati, puntualmente registrate dall’OVRA. Questo è un appunto riservato di Arturo Bocchini, lo spietato capo dell’OVRA, per Mussolini del 17 gennaio 1930:

L’On Lando Ferretti mi ha riferito che la Baronessa D’Avanzo gli aveva confidato che S.E. Turati è un pervertito sessuale. Infatti durante l’erotismo con la Davanzo egli si faceva cacare sullo stomaco e pisciare in bocca non solo ma che nel corso del coito non faceva che chiamare uomini, evidentemente suoi amanti, e fra gli altri l’On. Garelli di Vicenza.

Uomini come amanti, abuso di cocaina, addirittura stupri di bambine, questa montagna di fango mandò in rovina Turati, che non fu mai più ricevuto dal Duce, lui che era stato il suo funzionario più vicino e più ascoltato. Turati, disperato, cercò di difendersi, supplicando tutti suoi contatti di intercedere presso Mussolini perché lo ricevesse e lo ascoltasse, ma invano. Mussolini in realtà leggeva, sapeva, ma come sempre non agiva. Questo il passo di un colloquio col giornalista Yvon de Begnac, il suo biografo:

Voi mi dite che Turati fu sommerso dalla calunnia, e che la sua omosessualità fu una fosca favola inventata dall’uomo di Cremona (Farinacci ndr) ai suoi danni. Anche io sono convinto dell’innocenza di Turati. Ma, in Italia, quando la voce pubblica , comunque organizzata, colpisce, nulla è possibile fare per renderla inoperante.

Quando la voce pubblica colpisce. Mussolini conosceva alla perfezione la potenza di fuoco dei media, la forza distruttrice della calunnia. Turati, colpevole o innocente che fosse, era bruciato. Fu addirittura mandato in una casa di cura psichiatrica.

E oggi? Qualcuno dice che la storia si ripete, ma il sospetto è che invece sia sempre la stessa storia. Infatti i nipotini di quei gerarchi e di quegli squadristi sembrano degli studiosi attenti di quel periodo, del quale importano le intuizioni e le azioni. Al bisogno i loro giornali più estremi, quelli del brand Farinacci, usano la maldicenza e la calunnia senza esitare. Ma non solo. E’ in atto una mutazione dell’informazione in propaganda che lascia attoniti e spaventati. Sembra che quel coro antico di voci morte provenienti da un passato dimenticato navighi verso la menzogna del presente, lo attraversi e punti verso la tragedia del futuro. Senza bisogno di vere e proprie epurazioni, o di arresti, ogni voce discorde da quella ufficiale viene accuratamente emarginata. Si sta creando anche una sorta di censura interna, per cui chi potrebbe parlare preferisce tacere. Da almeno due anni va avanti questa situazione. L’elemento scatenante è stata la pandemia, dove chiunque si permetteva di eccepire sull’azione del governo veniva duramente accusato e persino minacciato. E ora la situazione, se possibile, si è ulteriormente aggravata con la guerra in Ucraina. Il governo di quel paese, da più parti denunciato come corrotto e illiberale, è diventato un baluardo di democrazia. Mentre tutto ciò che è russo è il Male Assoluto. Anche gli atleti, gli scrittori, i musicisti. Ogni dubbio sull’opportunità di inviare armi e soldati in Ucraina, anche con la premessa di essere contrari alla guerra e all’invasione, viene immediatamente stigmatizzato come atteggiamento pro-Putin, il nuovo demone. E’ una minoranza che lo impone, attraverso il controllo dei principali media (dai sondaggi risulta che il 55.3% della popolazione è in disaccordo con le scelte interventiste del governo), ma l’opposizione è già al confino, anche se in casa propria. In quanto alla sorveglianza più o meno segreta, i metodi si sono affinati. L’OVRA si è parcellizzata, sciolta allo stato liquido come il miele nel tè. Gioacchino Toni, su questo sito, ha pubblicato una ricognizione sulle nuove metodologie del controllo, qui la serie di articoli.

Intanto il Potere sa, il Potere tace. E il Potere non agisce dove non conviene, proprio come Mussolini. No alla guerra, ma non a tutte le guerre. Sì ai profughi, ma non a tutti i profughi. No ai dittatori, ma non a tutti i dittatori. No alla corruzione, ma la corruzione continua a dilagare, vedi le punte dell’iceberg dei cantieri del PNNR. L’Italia non è più all’avanguardia su diverse attività, l’arte, la musica, la manifattura, ma su un aspetto non ha rivali: nella malapolitica e nella malainformazione non ci batte nessuno.

(I documenti citati sono riportati da Antonio Scurati in M, L’uomo della provvidenza – Le foto: 1 Augusto Turati, 2 Roberto Farinacci)

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C’è del marcio in Danimarca /1: Dal rock’n’roll di Detroit all’insurrezione di Varsavia del 1944 https://www.carmillaonline.com/2022/01/17/ce-del-marcio-in-danimarca-1-dal-rocknroll-di-detroit-allinsurrezione-di-varsavia-del-1944/ Mon, 17 Jan 2022 21:00:23 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=70112 di Sandro Moiso

Something is rotten in the state of Denmark (Hamlet – William Shakespeare)

E’ da poco giunta la notizia della morte, avvenuta il 15 gennaio scorso, di Rachel Nagy, cantante e fondatrice del gruppo rock Detroit Cobras. Una voce roca, sensuale, ispirata alle radici blues e country del rock’n’roll, probabilmente sconosciuta alla maggior parte dei lettori di Carmilla. Bad girl per antonomasia e degna erede di Wanda Jackson, di cui agli inizi della carriera del gruppo ripropose una versione altrettanto trascinante di Funnel of Love, e di Rose Maddox, avrebbe [...]]]> di Sandro Moiso

Something is rotten in the state of Denmark (Hamlet – William Shakespeare)

E’ da poco giunta la notizia della morte, avvenuta il 15 gennaio scorso, di Rachel Nagy, cantante e fondatrice del gruppo rock Detroit Cobras. Una voce roca, sensuale, ispirata alle radici blues e country del rock’n’roll, probabilmente sconosciuta alla maggior parte dei lettori di Carmilla. Bad girl per antonomasia e degna erede di Wanda Jackson, di cui agli inizi della carriera del gruppo ripropose una versione altrettanto trascinante di Funnel of Love, e di Rose Maddox, avrebbe ispirato a sua volta altre interpreti femminili, non ultima, forse, Amy Winehouse.

Ma non siamo qui per scrivere un pur meritato e commosso elogio della cantante, il cui cognome ne indicava le origini ungheresi1, ma piuttosto per segnalare come in tale occasione i media e i social, non solo italiani almeno per una volta, abbiano riportato tutti che la cantante sarebbe morta all’età di 37 anni, senza cogliere l’evidenza dell’errore nel fatto che se la cantante fosse davvero nata nel 1984, come appunto si afferma da più parti, avrebbe avuto poco più di dieci anni al momento delle prime incisioni del gruppo avvenute nel 1995.

La storia della Nagy era più lunga e complessa di quella di una ragazzina di 11 anni, come sarebbe stata se l’età riportata fosse quella giusta, avendo la stessa esercitato l’attività di “danzatrice esotica” nei night club di Detroit prima di esordire nella carriera di cantante rock’n’roll, soul e blues che, con alterne fortune, non avrebbe più abbandonato fino alla fine dei suoi giorni. I Detroit Cobras erano infatti emersi prepotentemente alla metà degli anni novanta dalla scena garage di Detroit (qui) trovando come possibili rivali nel loro genere soltanto i californiani Bellrays di Lisa Kekaula che li avevano preceduti di qualche anno.

Ora però, sarebbe bastato affidarsi non soltanto al sentito ricordo di uno dei componenti del gruppo di Detroit in cui si afferma che Rachel sarebbe morta all’età indicata dalla maggior parte dei social media, per scoprire, sulla pagina facebook ufficiale dei Detroit Cobras, che in realtà la cantante era nata nel 1971.
Certo, nulla di grave sta nel fatto che l’amico l’abbia voluta ricordare all’epoca in cui Rachel aveva inciso l’ultimo album con il gruppo2, ma la superficialità con cui i media riportano la notizia rivela ancora una volta come la disinformazione imperante non sia frutto di volontarie e strumentali fake, ma soltanto dell’ignoranza e della faciloneria che dominano l’età della rete e dei blog fai da te.

Inutile continuare a stupirsi delle balle e delle narrazioni tossiche che circolano in rete, dalle scie nel cielo al terrapiattismo fino al fatto che il Covid-19 non esisterebbe oppure sarebbe strumento di chissà quale complotto, magari satanico ad ascoltare monsignori quali Carlo Maria Viganò: basta guardare alla dis/informazione ufficiale per capire dove hanno origine le montagne di bufale e frottole che ci accompagnano quotidianamente, specialmente sui social.

Se l’esempio della Nagy sembrasse un po’ riduttivo, varrebbe allora la pena di sottolineare uno svarione storico ben più grave, riportato senza alcuna nota di biasimo, in un libretto appena apparso in edicola, per le edizioni de «il Sole 24 ORE», dedicato all’insurrezione di Varsavia del 19443 e curato da Paolo Colombo, professore ordinario di Storia delle istituzioni politiche presso l’Università Cattolica di Milano, che si picca di promuovere la conoscenza storica attraverso il dialogo con il pubblico e l’uso di strumenti mediatici e letterari.

Beato chi gli crede se già a pagina 2 del suo libretto egli riporta, da un testo di storia contemporanea in uso all’Università4, una citazione in cui si afferma che l’insurrezione di Varsavia del 1944, successiva a quella del ghetto ebraico della stessa città del 1943, sarebbe avvenuta a partire dal settembre di quell’anno e non dal 1° agosto 1944 come effettivamente fu. Senza segnalare l’errore e senza, poi, riportare nemmeno in bibliografia gli importanti testi di Marek Edelman, comandante militare dell’insurrezione del ghetto, su quella del 19435.

In 63 giorni di insurrezione, i combattenti dell’esercito di liberazione polacco riuscirono a respingere gli occupanti nazisti dal centro cittadino, sotto lo sguardo immobile di Stalin e delle truppe sovietiche che si erano fermate al di là della Vistola, senza avanzare sulla città fino a molte settimane dopo che ogni traccia di resistenza era stata annientata dalle armi tedesche.
La città in quei due mesi fu distrutta all’87% (uno dei tassi più elevati di distruzione urbana dell’intero secondo conflitto mondiale) e due terzi degli abitanti, di una città che inizialmente ne contava un milione e trecentomila, furono eliminati dalla violenza, dalla fame e dalle conseguenze degli incessanti bombardamenti e delle rappresaglie successive alla sconfitta dell’insurrezione.

Se la vera età della Nagy è questione “leggera” e conta poco e se anche i morti polacchi, forse, pesano ancora meno, quello che conta allora davvero è il fatto che la verità mediatica scritta e divulgata, più per ignoranza e dabbenaggine che per un piano contorto, deve comunque sempre trionfare. Purtroppo però quello che rende tutto ciò invisibile e credibile, allo stesso tempo, è l’ignoranza uguale, e talvolta peggiore, di chi vi si dovrebbe opporre. Studiare, confrontare i fatti, verificare i dati, pensare sembrano attività diventate ormai difficili, se non addirittura impossibili, mentre parlare e scrivere costa ormai nulla, manco l’apprendimento delle conoscenze più elementari. Facendo sì che la legge del “copia e incolla” e dei “like”, resa possibile dagli strumenti di comunicazione elettronici e dalla rete, finisca con il dominare oggi ogni forma di riflessione (di fatto annullandola).

Ma come il triste principe danese torneremo ancora sul marciume ideologico e sull’ignoranza profonda che tutto circonda e pervade in questo periodo di emergenze armate e di movimentismo imbelle.


  1. Imre Nagy era il nome del primo ministro ungherese che per aver solidarizzato con gli insorti del 1956 fu impiccato per tradimento dai sovietici nel 1958  

  2. L’ultimo disco ufficiale dei Detroit Cobras, Tied & True, è infatti uscito il 24 aprile 2007, anche se lo stesso gruppo, sempre guidato da Rachel Nagy, ha continuato ad andare in tournée almeno fino al 2019  

  3. Paolo Colombo, Varsavia 1944. Storia della distruzione di una città, Il Sole 24 Ore – Cultura, sabato 15 gennaio 2022, pp. 85  

  4. AA.VV., Storia contemporanea, Donzelli, Roma 1997  

  5. Marek Edelman, Il ghetto di Varsavia in lotta, a cura di Wlodek Goldkorn, Casa Editrice Giuntina, Firenze 2012; Hannah Krall, Arrivare prima del Signore Iddio. Conversazioni con Marek Edelman, Casa Editrice Giuntina, Firenze 2010; Rudi Assuntino, Wlodek Goldkorn (a cura di), Il guardiano. Marek Edelman racconta, Sellerio editore, Palermo 1998 e Marek Edelman, C’era l’amore nel ghetto, Sellerio editore, Palermo 2009  

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Intervista a un sorcio / codardo / bamboccione / fascista etc (*) https://www.carmillaonline.com/2021/07/31/intervista-a-un-sorcio-codardo-bamboccione-fascista-etc/ Sat, 31 Jul 2021 20:00:08 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=67443 di Giovanni Iozzoli

– Allora, tu sei uno dei milioni di italiani “renitenti al vaccino”. Cosa hai da dire a tua discolpa?

Innanzitutto, quegli italiani non mi sembra rappresentino una “categoria”. Si tratta di un aggregato informe, di massa, trasversale, interclassista, composto dalle persone più diverse e dalle motivazioni più varie. Io di no vax militanti non ne conosco neanche uno. Il più delle volte stiamo parlando di persone normali che stanno cercando solo di prendere tempo, capire il da farsi – un atteggiamento prudente, umano, quasi mai sbandierato. Io non sono mai [...]]]> di Giovanni Iozzoli

– Allora, tu sei uno dei milioni di italiani “renitenti al vaccino”. Cosa hai da dire a tua discolpa?

Innanzitutto, quegli italiani non mi sembra rappresentino una “categoria”. Si tratta di un aggregato informe, di massa, trasversale, interclassista, composto dalle persone più diverse e dalle motivazioni più varie. Io di no vax militanti non ne conosco neanche uno. Il più delle volte stiamo parlando di persone normali che stanno cercando solo di prendere tempo, capire il da farsi – un atteggiamento prudente, umano, quasi mai sbandierato. Io non sono mai andato nelle piazze no vax, non è il mio contesto o il mio lessico, ammetto che sarei a disagio.

– Pensi di meritare gli insulti quotidiani che da settimane arrivano addosso a quelli come te?

Milito da sempre in campi minoritari, sono quindi abituato a sentirmi minoranza. Certo, in questo caso il coro dello stigma, del dileggio, è a reti unificate; una voce compatta che parte dai vertici istituzionali, dal CTS, dagli editorialoni, dai programmi Tv, fino ad arrivare alle mezze calzette delle redazioni, ai nani, alle ballerine, ai cantanti, che pur di esserci metterebbero la faccia su qualsiasi campagna di Stato, anche la meno commendevole. Stupisce e addolora l’epiteto di “fascisti” che arriva dal “mio” campo. Chiaro che accetto ogni critica e ogni dialogo, ma se qualcuno mi dà del fascista gli allungo un cazzotto e amen. Comunque si, vedere compagni, riviste, siti e testate varie, tutte allineate al flusso di opinione mainstream, fa un po’ tristezza. Da l’idea di una sinistra smarrita, totalmente incapace di costruire un punto di vista alternativo sulle cose, sui processi, ancorata ad una internità alle logiche sistemiche, da criticare perchè “non fanno abbastanza” o non lo fanno come vorremmo noi, ma  senza mai arrivare al nucleo della faccenda, al “cosa stanno facendo”, ad una visione e un punto di vista alternativo, radicalmente autonomo dalla governance. E’ questo  proprio un segno dei tempi – l’epoca delle passioni tristi ma anche delle “elaborazioni tristi”…

– Ma non ti senti un irresponsabile?

Guarda che questa è una strategia ben collaudata, in un anno e mezzo di epidemia. Spostare le responsabilità sul piano dei comportamenti individuali – cioè su di noi -, aggirando i grandi nodi sistemici. Ci ricordiamo quelli che insultavano i runners? Ecco, sono gli stessi che insultano oggi i renitenti al vaccino. Figli di un clima irrazionale alimentato ad arte. E’ comodo per il potere rovesciarci addosso le questioni che non riesce ad affrontare, scavallare dalle responsabilità delle classi dirigenti a quelle dell'”individuo irresponsabile che non si vaccina”. Del resto il tema vaccini ha ridisegnato l’agenda delle priorità, cancellando del tutto la questione essenziale della riforma della sanità pubblica: vi ricordate – ripubblicizzare, territorializzare, assumere – chi ne parla più? Il tema sanità si è ridotto ad un generale in divisa che somministra vaccini. E anche la questione scuola-aule-trasporti: tutto rimosso, basta vaccinare personale e ragazzini e ogni cosa può proseguire come prima. L’elisir magico di Figliuolo oscura e si mangia tutti gli altri problemi. Una bella fortuna per quelli che comandano

– Ma nella cultura della sinistra, la responsabilità collettiva non deve prevalere su quella dell’individuo?

E’ un tema che si porrebbe se si trattasse di un vaccino che “arresta” la circolazione del contagio; in quel caso si potrebbe impostare una questione etica generale: ma ormai nessuno sostiene più questa ipotesi. Il guru Fauci è stato chiarissimo in materia: vaccinati e non vaccinati possono diffondere il virus allo stesso modo. I vaccinati si infettano e, in una certa percentuale, si ammalano anche. Quindi vaccinandoti fai una scelta di protezione individuale per te stesso. Lo dimostrano i tassi di circolazione in Inghilterra o Israele, i paesi più vaccinati del mondo.

– Ma quei paesi dimostrano che il vaccino funziona, i decessi sono pochissimi

Me lo auguro di cuore, magari mi convincerò a farlo anch’io. Però noto che lo story-telling è cambiato: il vaccino non ci “preserva dal virus” ma semplicemente “ci evita di finire in terapia intensiva”. Un legittimo ridimensionamento delle aspettative, che però conferma quanto dicevo: vaccinandoti al massimo preservi te stesso.

– E voi? Non vi volete preservare?

Certo ma questo movente appartiene proprio alla sfera delle scelte individuali, la famosa analisi rischi/ benefici che non è una prassi esoterica, ma quello che normalmente facciamo nelle scelte della nostra vita – prendere la patente o aprire un mutuo. Se il vaccino difende me, devo scegliere io se vaccinarmi o meno, in piena autonomia, come per tutti i trattamenti medici.  Ad esempio l’analisi rischi/benefici sul vaccino che farà un 80enne, sarà diversa da quella di un 20enne; dei bambini, poi, è meglio non parlarne, perché là entriamo nel campo dell’irrazionale – e speriamo nella sempre invocata responsabilità genitoriale…

-Però se ti ammali, perché hai rifiutato il vaccino, sulla società ricadono dei costi, a causa delle tue scelte.

Ma questo vale per tutti gli “stili di vita”. Le cause principali di morte sono di natura cardiovascolare: che facciamo, puniamo chi si alimenta male o chi non fa sport? Tutto scivolerebbe sul piano di uno Stato etico, retto di scienziati/sacerdoti, che prescrivono il giusto modo di vivere e declassano socialmente chi non si adegua. Le sigarette fanno più morti del covid, ma si vendono nel tabacchino sotto casa; obblighiamo la gente a seguire le terapie antifumo?

– Quindi tu non sei ostile al vaccino.

No, non ne ho neanche le competenze (tra l’altro molti sostengono che in questo caso sia anche improprio parlare di vaccini, per le caratteristiche proprie del trattamento). Io voglio solo applicare principi di prudenza e precauzione (primo: non nuocere) alla mia vita. Non mi aggrego a nessun esercito. E mi sento libero di cambiare opinione, quando lo riterrò necessario. In autunno si capiranno molte più cose (anche l’estate scorsa le terapie intensive erano vuote). E’ così folle, irresponsabile e antiscientifico, voler prendere un pò di tempo e valutare? Vorrei decidere senza avere una pistola puntata alla testa e senza essere esposto al pubblico ludibrio da un esercito di comunicatori-marchettari che hanno più o meno le mie stesse competenze. Se c’è da vaccinarsi, si farà e amen. Ma sarà una scelta mia, non certo perché me lo dice Draghi (uno dei killer che uccisero la Grecia solo 6 anni fa, un tizio pericoloso e oscuro a cui non affiderei neanche la cura di un mio capello). Se lo farò, sarà per mia decisione, non perché mi impediscono di sedermi al bar. Questi mezzucci ritorsivi sono squallidi, specie se usati contro i ragazzi giovani, sul terreno che li tocca di più, quello della socialità. Gli happening-vaccinali dei giovanissimi nel Lazio, mi sembravano una deliberata pazzia, essa si sintomo di totale irresponsabilità.

– Ma cosa doveva fare il governo, imporre il vaccino per legge?

Sarebbe stato più onesto e trasparente, avere il coraggio di imporre l’obbligo vaccinale. Perché non l’hanno fatto? Perché c’è sempre questa benedetta Costituzione che ostacola i piani dei nostri lungimiranti esecutivi? Perché non avevano il coraggio di aprire una battaglia culturale nel paese – meglio la lavagna dei buoni e dei cattivi? O perché in caso di futuri danni collaterali (Dio non voglia) le responsabilità pubbliche sarebbero enormi e incalcolabili, in presenza di una vaccinazione obbligatoria?

– Ma perchè essere così diffidenti sui vaccini? Nelle nostre scelte di vita ci affidiamo sempre agli “specialisti”. Perchè discutere di faccende che il 99% della popolazione non conosce?

Questo ragionamento ha un potenziale diseducativo enorme. Se il nostro dovere è “affidarci” ai saggi governanti, viene meno qualsiasi retorica democratica. Se non ho il diritto di parlare della mia salute, del mio corpo, che diritto di parola posso accampare quando si parla di scelte di finanza pubblica, di welfare, di pensioni? Anche lì “gli specialisti” rivendicheranno il monopolio della decisione. Al limite anche il mio padrone se vuole licenziarmi o delocalizzare, può rivendicare la sua scelta “competente” sulla mia ignoranza “egoista”. Spero non siamo ridotti a questo, specie a sinistra.

– Quindi è una questione più politica che sanitaria?

Ma certo, come si fa a non vederla? una gigantesca questione politica che sta imbarazzando molti. Ci sono compagni che dicono: ma basta parlare di vaccini, pensiamo alla GKN! Certo, ci pensiamo alla GKN. Ma spostare lo sguardo su altro, non rimuove “la mucca in salotto” che fingiamo di non vedere. Lo Stato che ti sanziona non perchè hai “fatto qualcosa” (ti sei drogato etc), ma perchè hai rifiutato di sottoporti ad un trattamento sanitario: è un precedente straordinario, inedito, inquietante. Come fanno tanti compagni a digerirlo? Deve dircelo Cacciari, una voce da salottino televisivo, che c’è qualcosa che non va? Penso a quei “nostri” intellettuali che hanno passato anni a strologare di biopolitica in tutte le salse e adesso, davanti alla governance autoritaria dei sistemi immunitari, tacciono perplessi. Il Green Pass non è già una versione della “patente digitale di cittadinanza a punti” in funzione in Cina – a meno che qualche matto non voglia spacciarla per un prodromo di socialismo…

– Quindi non ti senti un disertore o un imboscato o un opportunista?

Ecco, l’uso di questi termini rivela dove è nato tutto l’approccio sbagliato e pericoloso che adesso si sta sviluppando in forme  estreme. Fin dall’inizio è venuta fuori questa retorica della lotta alla pandemia come metafora della guerra. Lì è partito tutto un circo che ha formattato la testa della gente in direzione di una parodia militarista-patriottarda:  il coprifuoco decretato a mezzo DPCM, i generali, gli strateghi, i giornalisti embedded, la celebrazione dei caduti, i politici in pose marziali; e poi ci sono i “codardi”, i panciafichisti, i sabotatori, che non sono corsi ubbidienti e fiduciosi a vaccinarsi; una umanità negletta, di serie B, una zavorra per il paese, da sorvegliare e punire.

– Ma non si rischia di delegittimare la scienza?

Io quando ho avuto il Covid sono andato dal dottore, mica dallo sciamano. Non voglio delegittimare niente. Ma qui mi sembra che, più che al trionfo della scienza, stiamo assistendo al riemergere di un pensiero magico-religioso che pretende il monopolio della parola e dichiara eretici o apostati tutti quelli che mettono in discussione anche qualche elemento del suo discorso egemone. Medici radiati, infermieri cacciati – una insensata caccia alle streghe che potrebbe arrivare alle porte delle fabbriche, dei magazzini, degli uffici e coinvolgere tutti. E poi cos’è “la scienza”? Condividiamo tutti la medesima definizione? Ricordo quando occupavamo l’università, i compagni delle facoltà scientifiche ci propinavano sempre qualche seminario sull’epistemologia. Noi storcevamo il muso – che palle, che è sta roba, Kuhn, Feyerabend? Invece quei compagni ci stavano insegnando che la scienza non è un dogma antistorico ma un insieme mutevole di paradigmi, attraversati e prodotti da contraddizioni, fratture e interessi, destinati fatalmente ad essere superati, epoca dopo epoca. Bisogna accettare questa idea di finitezza e provvisorietà del discorso scientifico, altrimenti tende a trasformarsi in una nuova distopia religiosa. E i miserabili politici moderni sono ben lieti di passare dall’alibi del “vincolo esterno”(ce lo chiede l’Europa) a quello del “vincolo sanitario” (ce lo impone la scienza)

– In conclusione: ti vaccinerai?

Boh, non lo so. Prendo tempo, senza pregiudizi e senza ansie. Intanto in Israele stanno cominciando a somministrare la terza dose – notizia passata molto sottotono ma a che a me sembra enorme e apre pesanti interrogativi sul futuro.  Comunque resto fuori da questa dialettica asfittica no vax/si vax: sono per le scelte consapevoli e informate, non per l’arruolamento.


(*) Visto che quando si parla di “italiani non vaccinati”, in tv danno la parola solo a sciroccati e complottisti, allora mi sono intervistato da solo.

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Greenpass, nuovi confini e le frontiere della paura. Contributo per un ragionamento collettivo. https://www.carmillaonline.com/2021/07/29/greenpass-nuovi-confini-e-le-frontiere-della-paura-contributo-per-un-ragionamento-che-auspico-collettivo/ Thu, 29 Jul 2021 21:00:03 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=67436 di Deriva

Dall’inizio della pandemia non ho mai scritto su blog, né uso i social, né ero dell’idea che fosse utile l’allarmismo dell’emergenza securitaria iniziale quando non si sapeva cosa stava realmente accadendo. Sono una scienziata sociale, non un medico, quindi mi sono attenuta a ciò che so fare: osservare, non esprimere parole avventate, ma continuare a osservare e scrivere. E però ora, dopo 16 mesi dall’inizio di questa pandemia (non sono due anni, mi dispiace, ma solo 16 mesi. e la deformazione della percezione del tempo che noto attorno a me [...]]]> di Deriva

Dall’inizio della pandemia non ho mai scritto su blog, né uso i social, né ero dell’idea che fosse utile l’allarmismo dell’emergenza securitaria iniziale quando non si sapeva cosa stava realmente accadendo. Sono una scienziata sociale, non un medico, quindi mi sono attenuta a ciò che so fare: osservare, non esprimere parole avventate, ma continuare a osservare e scrivere. E però ora, dopo 16 mesi dall’inizio di questa pandemia (non sono due anni, mi dispiace, ma solo 16 mesi. e la deformazione della percezione del tempo che noto attorno a me è un primo elemento che trovo allarmante), dopo 16 mesi dall’inizio della pandemia, ecco che ora sono preoccupata.

Sono preoccupata del silenzio, della totale assenza di dibattito, della mancanza totale di spazi di discussione cui ci siamo abituati e di cui non sembra vediamo più gli effetti deleteri. Sono preoccupata dell’amnesia totale che vedo attorno a me: non ci ricordiamo più cosa dicevamo solo 12 mesi fa, quando da tante e tante parti leggevo non vogliamo tornare a quello che c’era prima, perché quello che c’era prima era il problema. Sembra che non riusciamo a imparare dalla storia, e che non siamo in grado di vedere la differenza che c’è, oggi come nel 1969, nel 1980 o nel 2001, fra incidente e strage, tra incidente accidentale, e concorso in strage.
Certo, c’è un virus e questo non fa bene a nessuno e non va sottovalutato. Ma come dimenticare che il grosso numero di morti non lo ha provocato il virus da solo, bensì la gestione folle che già 16 mesi fa metteva l’economia davanti alla salute pubblica? Come dimenticare la Val Seriana e la Val Brembana nel bergamasco, sacrificate per il PIL della Lombardia che non doveva fermarsi? Come non vedere la differenza di responsabilità tra l’incidente (accidentale o meno che sia) del virus, e la strage provocata dei morti sul lavoro, o nelle RSA (Confindustria e Oms e governi vari tutti responsabili)?

I punti sono tanti, che non avendo più voluto/potuto discutere, andiamo perdendo. Proverò a nominarne alcuni (senza pretese di esaustività):

– La paura è al centro di tutte le reazioni e discorsi sul Covid, e l’incapacità di parlare e fare i conti con la paura (e con la morte, che è parte della vita e non sua eccezione) è certamente il punto Uno.

– Porre la questione in termini di vaccino si/no è porre malissimo la questione. La hubris umana ha un limite. Benissimo che i vaccini proteggano e tutelino al massimo le persone più fragili ed esposte agli effetti nefasti del Covid. Altra cosa è credere che il vaccino possa sconfiggere una pandemia che è globale, in cui i vaccini stanno toccando una porzione infinitesimale della popolazione globale, mentre corpi e soprattutto merci continuano a circolare e con essi i batteri, i virus e le varianti incrociate.

– Credo che un punto importante sia accettare che non siamo in una POST-pandemia, ahimè, ma che ci siamo ancora dentro fino al collo. La pandemia c’è e ci sarà ancora, fino a che la sua curva non raggiungerà il livello alto per poi scemare. Una pandemia globale ha dei tempi che sono al di sopra della hubris umana e della umana volontà di dominio su tutto il mondo che ci circonda.

– Il greenpass è uno strumento di controllo sociale, ieri il Ministro Speranza ha dichiarato che “Il green pass è la più grande opera di digitalizzazione mai fatta” (qui): dunque il punto è la digitalizzazione e il controllo a tappeto di tutte le azioni quotidiane, non la salute pubblica. Equiparare controllo e salute è davvero un binomio difficile da digerire. Il greenpass è un nuovo confine che stiamo vedendo erigere attorno a noi: non più alle frontiere degli Stati nazionali, ma alle frontiere dei nostri corpi. Si tratta sempre di mura, di confini che determineranno chi ha o meno dei privilegi. Ma in tante e tanti non urlavamo: La carta è solo carta la carta brucerà? Dov’è finita quella solidarietà verso i sans-papier e le persone che non possono e non potranno comunque accedere a questo pass? (e qui non è solo questione di procedure, si chiama paura anche quella).

– Il greenpass viene rilasciato dopo 1 sola dose di vaccino, che è ormai risaputo NON coprire né tutelare la persona dagli effetti nefasti del virus. Dunque nuovamente mi pare che lo Stato si voglia deresponsabilizzare per fare andare avanti l’economia senza dovere più provvedere a “ristori”. Ma dov’è la tutela della salute? Infine: il greenpass non è richiesto per entrare in Chiesa. Andare a Messa ancora una volta si rivela un assembramento consentito e tollerato beffando ulteriormente scuole, teatri e gli altri luoghi di socialità e cultura.

E alcune domande:

– Quanti soldi sono stati stanziati per implementare il sistema pubblico sanitario in Italia e in Europa in questi mesi? Perché pensiamo che la soluzione alla pandemia sia un vaccino e un nuovo passaporto digitale, invece che risorse a strutture, cultura della salute, del cibo, importanza dello sport e un attenuazione degli stress e della paura che sono invece fortissimi inibitori del sistema immunitario?

– Quale è l’intervento di salute pubblica che giustifica l’ipotesi di obbligo vaccinale per i giovani? Questo punto mi fa talmente male che non riesco neanche a commentarlo, ma è di una gravità immonda, e che non ci siano discorsi seri che prendano in conto i rischi che non conosciamo degli effetti negli anni di questo vaccino nei giovani (perché non c’è stato il tempo tecnico necessario) è l’ennesima testimonianza che viviamo in una violenta gerontocrazia patriarcale.

– Cosa ha provocato l’emergere del Covid? E cosa ha trasformato un virus in una pandemia globale? Come mai non si parla degli allevamenti industriali, dei combustibili fossili, delle centrali nucleari, e di tutte quelle miriadi di cose che producono e quotidianamente fabbricano le condizioni perché si sviluppino questo o altri virus?

– Infine: come possiamo illuderci che un vaccino risolva la pandemia (o tanto più un documento di controllo digitale), se non affrontiamo in nessun modo le cause strutturali che l’hanno provocata?

Sono cresciuta in un contesto in cui la cultura non erano nozioni da ingerire attraverso uno schermo, ma un quotidiano allenamento al pensiero critico, alla riflessione, all’osservazione e all’utilizzo del cervello che sento di avere sotto la corteccia cerebrale.

Sono caduta nello sconforto quando vedevo persone accorrere in fila allo spriz appena riapriva il bar, tanto quanto ora pensare che il vaccino “è l’unica soluzione che abbiamo”. Tanto più trovo razionalmente infondata ogni equiparazione tra vaccino e greenpass. Difenderò sempre l’importanza dei vaccini per difendere le persone a rischio e limitare la circolazione del virus. Ma nessuno può farmi credere che il vaccino a meno dell’1% della popolazione mondiale possa arginare un virus che la mal-gestione delle istituzioni che ci governano ha trasformato in pandemia. Mi rifiuto di dimenticare le responsabilità politiche che hanno portato alla strage del bergamasco e su cui- tra l’altro, per inciso- non si vuole indagare, nonostante le richieste dei familiari delle vittime.

Mi rifiuto di smettere di utilizzare il mio cervello, perché il fatto che funzioni me ne lascia una responsabilità enorme. Mi rifiuto di pensare che fare una passeggiata con o senza cane possa fare male a qualcuno, che stare chiusa in casa faccia bene alla salute (mentre le fabbriche erano sempre piene), che oggi mangiare al ristorante o bere il caffè senza essersi potuti vaccinare equivalga ad attentare alla salute pubblica. C’è una bella differenza tra egoismo neoliberale che vuole solo fare crescere il PIL o tornare a una brutta copia di quel che era prima, e un singolo corpo che cammina e respira. Le stragi le fanno i padroni, e come tanti anni fa, ancora adesso spesso si fanno aiutare dai fascisti per ottenere il risultato che vogliono.

Non smettiamo di usare la testa, non smettiamo di essere solidali, non smettiamo di cercare e condannare le responsabilità strutturali che hanno condotto al punto in cui ci troviamo.

Infine: impariamo ad ammettere che abbiamo paura, anzi che siamo terrorizzati pure. Che la morte ci spaventa, che la malattia ci fa paura. Non è un male avere paura, è parte della vita la morte, come è parte dell’amore la paura della sua fine. Eppure, impariamo a conviverci, perché l’amore è più forte.

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La campagna militar-vaccinale https://www.carmillaonline.com/2021/01/04/la-campagna-militar-vaccinale/ Mon, 04 Jan 2021 22:00:47 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=64198 di Giovanni Iozzoli

Come volevasi dimostrare, questa maledetta pandemia sta devastando quel po’ di residui democratici di cui il mondo occidentale menava ancora vanto. In Italia ci siamo rapidamente assuefatti alla sospensione delle libertà costituzionali a mezzo DPCM; e il punto non è tanto l’utilità profilattica del lockdown (su cui esistono ampi margini di discussione) quanto la terribile passività con cui la società ha accettato e introiettato questa nuova schiacciante prassi: le libertà fondamentali non sono più indisponibili ai governi – non sono più naturalmente “nostre”, come recita il catechismo liberale; appartengono a [...]]]> di Giovanni Iozzoli

Come volevasi dimostrare, questa maledetta pandemia sta devastando quel po’ di residui democratici di cui il mondo occidentale menava ancora vanto. In Italia ci siamo rapidamente assuefatti alla sospensione delle libertà costituzionali a mezzo DPCM; e il punto non è tanto l’utilità profilattica del lockdown (su cui esistono ampi margini di discussione) quanto la terribile passività con cui la società ha accettato e introiettato questa nuova schiacciante prassi: le libertà fondamentali non sono più indisponibili ai governi – non sono più naturalmente “nostre”, come recita il catechismo liberale; appartengono a chi ha in mano gli strumenti di coercizione e il monopolio della forza (l’esecutivo). Un bel salto all’indietro di circa 250 anni, nel rapporto tra cittadini e Sovrano.

Oggi è la pandemia, domani potrebbe essere qualsiasi altra emergenza, più o meno fondata: la strada è ormai tracciata, la società si sta tristemente abituando al coprifuoco come governo delle crisi sociali. Ma il bello deve ancora venire. È cominciata infatti in questi giorni la rinomata campagna vaccinale; si è partiti con le fanfare e il giubilo a reti unificate, inscenando uno dei più ridicoli spettacolini mai allestiti nella lunga storia della patria retorica, con un esercito di giornalisti e soldati ad aspettare trepidanti un furgoncino DHL. Ma visti gli esiti di alcuni sondaggi, non all’altezza di tanti entusiasmi, il clima gioioso è presto degenerato: e adesso comincia a tirare un vento fetido di fascismo e coercizione. Chiunque osi manifestare una qualche timida obiezione o resistenza alla nuova “grande campagna”, viene immediatamente tacciato di essere “no vax” (epiteto ingiurioso che fa il paio con negazionista, affibbiato allo stesso modo al gen. Pappalardo e al filosofo Agamben) e minacciato esplicitamente di gravissime conseguenze. Anche solo per aver parlato.

Il docente di Infermieristica dell’Università di Firenze dott. Festini, ha detto a voce alta quello che molti sussurrano con preoccupazione: “lo capite che è impossibile mettere a punto e sperimentare un farmaco in sette mesi? Lo capite che, a meno di essere dei veggenti, in sette mesi non è possibile sapere nulla di attendibile riguardo alla sua efficacia, alla sua sicurezza ed agli effetti indesiderati?”. Parole di semplice buon senso (riportate da “Repubblica”) che immediatamente hanno fatto finire alla gogna il docente, più o meno come era toccato a Crisanti due settimane fa (tra l’altro il virologo che parla in romanesco ha risolto tutti i suoi dubbi con fulminea velocità, chissà perché…)

Il fatto è che la questione vaccini sfugge ormai a qualsiasi ragionamento scientifico; e non ci riferiamo solo all’enorme business delle aziende farmaceutiche o alla competizione geopolitica tra blocchi – tutti elementi che hanno condizionato pesantemente la pretesa “purezza scientifica” della ricerca. Il messaggio è che ci si deve vaccinare per “ragioni morali”, per il “bene della comunità”, per “battere questo nemico”. Recalcati ci informa che vaccinarsi è “un gesto etico”: bene, chi è chiamato a garantire, l’adempimento di tale gesto, se non uno Stato Etico? La scienza pretende di inverare il punto più alto della modernità, ma si arrocca sempre più spesso in una dimensione sostanzialmente premoderna.
E il linguaggio marziale che adotta è quello tipico dell’arruolamento militare: i riottosi sono disertori o addirittura sabotatori dello sforzo bellico, nemici della Patria.

Qua non si tratta di essere “pro o contro i vaccini” (questione aperta, su cui, anche all’interno di questa redazione convivono legittime opinioni diverse). Qui si tratta di capire se è ancora praticabile il diritto al Dubbio, che è il cardine di ogni progresso scientifico e, in ultima analisi della storia moderna dell’Occidente. La pseudo scienza da regime, che blandisce, promette, minaccia, riproduce piuttosto una logica essenzialmente religiosa: è necessario riporre fede nel vaccino (che è ormai è assurto al ruolo di elisir mitologico) e nei suoi sacerdoti. Punto. Il resto è eresia. O apostasia.

Il problema è che gli italiani sono poco marziali, non muoiono dalla voglia di arruolarsi. E non mostrano una grande spinta, non manifestano abbastanza fede, vorrebbero capire un po’ meglio la faccenda, sentire più campane; tra molti di loro serpeggia addirittura il sospetto che la sperimentazione reale degli effetti del vaccino comincerà proprio con la campagna vaccinale di massa. E allora, contro cacadubbi, panciafichisti e renitenti alla leva, partono i sinistri avvisi a reti unificate: se i virologi giurano su un vaccino che pochi di loro conoscono davvero, i costituzionalisti affermano che è lecito costringere gli italiani ad un TSO di massa senza violare la Carta (e si risveglia anche Ichino, che era un po’ fuorigioco, da tempo non poteva licenziare nessuno, e sentenzia che sì: lo scetticismo sanitario può anche essere giusta causa di licenziamento).

In ogni caso, se non fosse giuridicamente possibile l’obbligo vaccinale di massa (maledetta Costituzione, sempre in mezzo ai piedi dei governi) saranno messe in campo misure proscrittive o punitive – liste di reprobi, tesserini sanitari, divieti all’accesso di determinati servizi offerti dai privati, intralci alla mobilità, piccole e grandi rappresaglie contro i riottosi – all’insegna del motto: scoraggiare e punire.

Il bello è che tra i più prudenti nella corsa alla punturina, troviamo proprio infermieri e medici; chissà perché: forse perché la pensano come il docente universitario Festini – ma non possono dirlo pena radiazione dall’albo o magari fucilazione alla schiena. Del resto, anche all’epoca della Lorenzin i sindacati di categoria e alcuni ordini professionali si dichiararono contrari all’obbligo vaccinale per i loro iscritti (l’italianissimo: fate quello dico ma non fate quello che faccio). Sulle ragioni della prudenza vaccinale di molti sanitari di ogni ordine e grado, non c’è molto da dire, ognuno deve parlare per sé e per le proprie ragioni: ma se per questi lavoratori la libera espressione è sostanzialmente proibita, cosa resta se non le vie di fuga individuali, le allergie frettolosamente certificate, l’escamotage che permette di procrastinare la sgradita procedura senza perdere il posto?

Sulla questione vaccini, il governatore Toti (personaggio inquietante, ma al quale non difetta certo la sincerità), ha chiosato candidamente ai microfoni di un tg nazionale: “visto che sono già state violate le libertà costituzionali di movimento e di impresa, perché non si potrebbe imporre per legge a tutti il vaccino?” Già perché? Abbiamo fatto trenta… È questo è proprio l’orlo del baratro su cui stiamo danzando tutti; l’eccezionalità è sfuggita ad ogni controllo; l’inanità del governicchio, la faccia da democristiano di provincia del premier, non deve tranquillizzarci: immaginiamo cosa succederà quando questa nuova strumentazione decisionale sarà in mano a gente dalle idee pericolosamente più chiare. E la cosa più allarmante è la mancanza di discussione pubblica su questi temi, come se in pochi mesi queste enormità fossero state totalmente digerite e introiettate dalla società civile. Assunte come nuova inquietante normalità.

Questo è un campo che precede ogni dibattito vaccini si/vaccini no (sul cui merito la stragrande maggioranza di noi non avrebbe gli strumenti per intervenire); qui ci collochiamo un passo prima, sul terreno della crisi ideologica e politica dell’occidente: quell’ordito di suggestioni e prassi che assegnano il primato all’individuo e alle sue libertà, e che hanno consentito al nord euro-anglosassone di esibire da sempre una fasulla superiorità morale, rispetto al resto del mondo “illiberale” – spesso fornendo alibi alle proprie protervie militari ed economiche. Ecco: siamo oltre quella storia, siamo al di là di quello schema. Probabilmente ci eravamo arrivati anche prima, ma l’epidemia ha affrettato i tempi e squagliato il cerone di scena. Si apre uno spazio di dibattito sconfinato, per quanto in pochi al momento sembrano avere voglia di attraversarlo.

Oggi “l’Occidente delle libertà” è il campo in cui il controllo sociale, l’uso massiccio del carcere e dell’invadenza della magistratura, le terribili tecnologie dell’intercettazione e del pedinamento elettronico, l’interventismo amministrativo nei conflitti di classe, i divieti antisciopero, i daspo sociali e oggi il nuovo decisionismo anticontagio, stanno diffondendosi come metastasi. E sono pratiche speculari a quelle dei deprecati regimi autoritari (quei regimi accusati di controllare capillarmente i loro cittadini e negare la libera espressione!) che i liberali hanno sempre bollato come intollerabili e sulla cui opposizione hanno costruito l’idea e la suggestione del “mondo libero”. Quanto siamo lontani dai “patentini di cittadinanza digitale a punti” – il famigerato SCS – già in uso a Pechino? La Cina è vicina, decisamente.

La crisi del vecchio mondo sta sgravando un nuovo assetto sociale e l’epidemia rappresenta solo le doglie dolorose di questo parto travagliato. Tutti gli elementi erano già in incubazione, più o meno sottotraccia – li leggevamo e li temevamo. Oggi i processi si stanno compiendo: dovremo misurarci con nuove tecnologie di governo dei corpi, della salute, del lavoro, della conoscenza e della società nel suo complesso.
Negli anni scorsi, quando si strologava di biopolitica in tutte le salse, probabilmente nessuno immaginava che il nostro sistema immunitario sarebbe stato l’ultima frontiera da difendere dall’invasività della nuova governance capitalista. Il Covid esiste, è temibile e va contrastato: ma stiamo attenti a non risvegliarci in un mondo in cui la sua eredità sulle nostre società e sulla nostra salute, potrebbe essere anche più pesante del male.

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