costruzione identitaria – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 31 Jul 2025 08:49:34 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Culture e pratiche di sorveglianza. Costruzione identitaria e privacy tra rassegnazione digitale e datificazione forzata https://www.carmillaonline.com/2021/12/03/culture-e-pratiche-di-sorveglianza-costruzione-identitaria-e-privacy-tra-rassegnazione-digitale-e-datificazione-forzata/ Fri, 03 Dec 2021 21:00:32 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=69431 di Gioacchino Toni

Riferendosi all’età contemporanea, le scienze sociali tendono ad assegnare una certa importanza al ruolo dei social media nella “costruzione del sé”, nella “costruzione antropologica della persona”. Nel recente volume di Veronica Barassi, I figli dell’algoritmo. Sorvegliati, tracciati, profilati dalla nascita (Luiss University Press, 2021) [su Carmilla], l’autrice evidenzia come, nell’era del capitalismo della sorveglianza, con la possibilità offerta dalle piattaforme digitali di raccontare storie personali negoziando la posizione che si occupa in società, sorgano alcune importanti questioni su cui vale la pena riflettere.

Innanzitutto si opera nell’impossibilità di controllare il contesto in cui le informazioni [...]]]> di Gioacchino Toni

Riferendosi all’età contemporanea, le scienze sociali tendono ad assegnare una certa importanza al ruolo dei social media nella “costruzione del sé”, nella “costruzione antropologica della persona”. Nel recente volume di Veronica Barassi, I figli dell’algoritmo. Sorvegliati, tracciati, profilati dalla nascita (Luiss University Press, 2021) [su Carmilla], l’autrice evidenzia come, nell’era del capitalismo della sorveglianza, con la possibilità offerta dalle piattaforme digitali di raccontare storie personali negoziando la posizione che si occupa in società, sorgano alcune importanti questioni su cui vale la pena riflettere.

Innanzitutto si opera nell’impossibilità di controllare il contesto in cui le informazioni personali vengono condivise e ciò, sottolinea la studiosa, determina il collasso dell’integrità contestuale, dunque la perdita di controllo nella costruzione del sé in quanto non si padroneggiano più le modalità con cui ci si presenta in pubblico. Si tenga presente che alla creazione dell’identità online concorrono tanto atti coscienti (materiali caricati volontariamente) che pratiche reattive (like lasciati, commenti ecc.) spesso in assenza di un’adeguata riflessione.

Nel costruire la propria identità online si concorre anche alla costruzione di quella altrui, come avviene nello sharenting, ove i genitori, insieme alla propria, concorrono a costruire l’identità online dei figli persino da prima della loro nascita. In generale si può affermare che manchi il pieno controllo sulla costruzione della propria (e altrui) identità online visto che si opera in un contesto in cui ogni traccia digitale può essere utilizzata da sistemi di intelligenza artificiale e di analisi predittiva per giudicare gli individui sin dall’infanzia.

Se a partire dalla fine degli anni Ottanta la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia ha posto l’accento su come i bambini non debbano essere intesi come individui subordinati agli adulti e bisognosi di protezione ma piuttosto come soggetti autonomi dotati di specifici diritti, il capitalismo della sorveglianza [su Carmilla], evidenzia Barassi, li ha nei fatti privati della loro autonomia. Sia perché il “consenso dei genitori” diviene il grimaldello per trattare i loro dati che perché le loro tracce digitali sono prodotte, raccolte e condivise da altri soggetti ben al di là del consenso e del controllo genitoriale. Ciò avviene in svariati ambiti – istruzione, intrattenimento, salute… – e le tracce digitali dei bambini prodotte tanto da loro stessi quanto da altri [su Carmilla] vengono utilizzate per indagare i loro modelli comportamentali, per fare ipotesi circa le loro tendenze psicologiche e per costruire storie pubbliche relative alla loro identità.

Essendo che le tracce digitali hanno a che vedere con l’identità sociale, nell’era del capitalismo digitale, sostiene Barassi, i social media sono divenuti un terreno di conflitto e negoziazione per le famiglie. Insistere tuttavia quasi esclusivamente sulle responsabilità dei genitori smaniosi di condividere dati sui figli rischia di mettere in secondo piano le responsabilità delle multinazionali della raccolta-elaborazione dei dati. Piattaforme dedicate all’infanzia come Messanger Kids di Facebook condividono le informazioni raccolte con terzi e ciò avviene perché tutte le principali Big Tech stanno investendo parecchio nella profilazione dell’infanzia e lo stanno facendo davvero con ogni mezzo necessario aggirando facilmente le legislazioni in materia.

Sebbene a proposito dell’impatto dei social media sul benessere psicologico dei bambini vi siano posizioni differenti all’interno dell’ambito accademico, non è difficile immaginare come tali piattaforme possano perlomeno contribuire a rafforzare culture e stereotipi negativi. Alcuni studi hanno mostrato, ad esempio, come le bambine siano indotte a conformarsi a stereotipi sessualizzati al fine di essere accettate socialmente. Trattandosi di strumenti espressamente realizzati per facilitare la raccolta, il tracciamento e la cessione dei dati ad altri soggetti, non è difficile immaginare come tutto questo materiale raccolto ed elaborato possa incidere sulla vita degli individui.

In una società ad alto tasso di digitalizzazione sono molteplici le modalità con cui si raccolgono dati sui bambini. La studiosa mette in evidenza come dietro ad alcune pratiche, spesso fruite come del tutto innocue e non intrusive, si nascondano vere e proprie strategie di profilazione. Si pensi non solo ai dati raccolti sui bambini dalle piattaforme didattiche utilizzate nelle scuole, di cui non è affatto chiara la gestione da parte delle aziende fornitrici del “servizio”, al tracciamento facciale a cui sono sottoposti sin da piccoli negli aeroporti e persino all’ingresso di parchi giochi come Disneyland, ove vengono loro fotografati i volti all’ingresso motivando blandamente tale pratica, nei rarissimi casi in cui i genitori ne chiedano il motivo, come un’operazione volta alla sicurezza, come ad esempio facilitare il loro rinvenimento in caso di smarrimento. Sebbene cosa ne faccia il colosso Disney delle foto scattate ai volti dei bambini non è dato a sapere, certo è che si tratta di dati estremamente sensibili essendo la fotografia del volto a tutti gli effetti un dato biometrico unicamente riconducibile all’identità di un individuo al pari dell’impronta digitale e della voce.

Altri sistemi di profilazione con cui entrano in contatto facilmente i bambini sono i giochi scaricati sugli smartphone o su altri dispositivi – che in alcuni casi, nota la studiosa, questi continuano a carpire immagini tramite la la videocamera dell’apparecchio anche quando il gioco non è in funzione –, i dati raccolti da piattaforme di intrattenimento come Netflix che, non a caso, lavorano sulla creazione di profili ID univoci. Persino le ricerche effettuate dai genitori attraverso i motori di ricerca online a proposito di disturbi o malattie dei figli concorrono all’accumulo di dati sensibili utili alla costruzione della loro identità digitale sin da bambini.

Tutto ciò non può che porre importanti interrogativi circa il concetto di privacy tenendo presente come questo derivi da uno specifico contesto politico, sociale e culturale. Buona parte del dibattito attorno alla privacy rapportata alle nuove tecnologie ruota attorno all’idea di una necessaria e netta distinzione tra una sfera pubblica (visibile) e una privata (riservata). Se l’avvento dei social media, su cui si è indotti a esibire/condividere tutto di se stessi [su Carmilla], sembra annullare sempre più la distinzione tra pubblico e privato, conviene secondo Barassi soffermarsi sull’importanza di tale dicotomia in quanto «consente di capire la filosofia individualista – e problematica – che definisce l’approccio occidentale verso la privacy e la protezione dei dati» (p. 89). La dicotomia tra ciò che è pubblico e ciò che è privato nella cultura occidentale «suggerisce che c’è una chiara differenza tra la sfera collettiva e quella personale, tra Stato e individuo, tra ciò che è visibile e ciò che è segreto» (p. 89).

Il concetto di privacy occidentale ha le sue radici nell’idea che «che dobbiamo proteggere il nostro interesse personale e le nostre famiglie nucleari prima di pensare alla dimensione pubblica/collettiva» (p. 89). Ed è in tale filosofia individualista della privacy che secondo la studiosa si annida il vero problema:

rapportare il concetto di privacy a quello di interesse individuale porta sempre a una riduzione del suo valore una volta che la privacy viene posta di fronte all’interesse collettivo. Questo è chiaro se pensiamo ai dibattiti sul riconoscimento facciale, sul contact tracing o su altre tecnologie implementate in nome dell’interesse collettivo. Dall’altra parte, intendere la privacy come fenomeno individuale ci porta a cercare soprattutto soluzioni individualiste a problemi che sono invece di natura collettiva (p. 90).

Circa la privacy dei bambini, dall’indagine svolta da Barassi emerge con forza nei genitori una sorta di “rassegnazione digitale”, dettata dall’impressione di non aver altra scelta, di cui approfitta il capitalismo della sorveglianza che però, nota la studiosa, si avvale anche della “partecipazione digitale forzata”. I soggetti fornitori di servizi a cui ricorrono quotidianamente le famiglie, dai servizi sanitari alle istituzioni educative, sempre più si affidano alla raccolta e all’analisi dei dati personali.

È attraverso la partecipazione digitale forzata a una pluralità di istituzioni, private e non, che i bambini vengono datificati, ed è per questa ragione che dobbiamo andare oltre la privacy come interesse privato dei bambini per studiare invece cosa voglia dire crescere in una società dove siamo continuamente costretti ad accettare termini condizioni di utilizzo, e dove i dati dei nostri figli vengono raccolti e condivisi in modi che sfuggono alla nostra comprensione e la nostro controllo. Solo così riusciremo a fare luce sulle ingiustizie e sulle ineguaglianze della nostra società datificata, e sul fatto che il mondo in cui pensiamo al valore della privacy nella vita di tutti i giorni dipende spesso dalla nostra posizione sociale […] C’è qualcosa di profondamente ingiusto nel diverso impatto che queste trasformazioni hanno avuto sulle famiglie altamente istruite o ad alto reddito da un lato, e su quelle a basso reddito o meno istruite dall’altro (pp. 94-95).

La diseguaglianza sociale in effetti, sottolinea la studiosa, gioca un ruolo importante nelle modalità in cui viene vissuta e affrontata la datificazione a cui si è sottoposti quotidianamente. I sistemi automatizzati di intelligenza artificiale tendono ad amplificare tale ingiustizia. Nelle società a forte datificazione i dati raccolti ed elaborati finiscono per essere utilizzati per profilare e indirizzare le vite degli individui. Piuttosto che concentrarsi esclusivamente sul problema della privacy, occorrerebbe piuttosto indagare quanto «la sorveglianza digitale e la datificazione di massa [siano] strettamente interconnesse con la giustizia sociale» (p. 97).

Sebbene spesso si parli di profilazione riferendosi al ricorso a tecnologie e algoritmi per l’analisi predittiva, in realtà, sottolinea Barassi, si tratta innanzitutto di «un processo antropologico che si estende oltre il mondo digitale e che ha a che vedere con la classificazione e la creazione di categorie, di raggruppare persone, animali, piante e cibi sulla base delle loro similitudini e differenze. È attraverso la creazione di categorie che definiamo le regole sociali» (p. 103). Tale pratica viene utilizzata anche per identificare il rischio. «Nella società moderna la profilazione è anche storicizzatone connessa al controllo della popolazione e all’oppressione razziale e sociale» (p. 103). La profilazione ha finito per far parte della vita quotidiana tanto nel farvi ricorso quanto nell’esservi sottoposti [su Carmilla]; «la profilazione è per definizione una pratica di correlazione di dati che serve per formare un giudizio» (p. 104).

Sebbene la profilazione sia un fenomeno sociale, antropologico e personale in atto ben da prima della trasformazione digitale, è nel passaggio di millennio che si determinano cambiamenti sostanziali: l’avvento di nuove tecnologie ha comportato tanto un aumento spropositato della quantità di informazioni personali che possono essere raccolte e intrecciate, quanto di strumenti utili a ottenerle al fine di realizzare profilazioni sempre più sofisticate. Nel saggio Big Other: Surveillance Capitalism and the Prospects of an Information CIvilization (2015) pubblicato sul “Journal of Informatin Technology” (30 gennaio 2015), Shoshana Zuboff ha spiegato come a suo avviso sia più efficace indicare tale contesto come “Big Other”, piuttosto che “Big Data”, in quanto tale dicitura rende meglio l’idea dell’architettura globale – composta da computer, network, sistema di accordi e relazioni… – di cui si avvale il capitalismo della sorveglianza nello scambiare, vendere e rivendere i dati personali.

Barassi evidenzia come un ruolo centrale all’interno di tale Big Other sia svolto dai “data broker”, aziende che raccolgono informazioni personali sui consumatori, le aggregano sotto forma di profili digitali per poi venderli a terzi. La raccolta di dati avviene sia dai registri pubblici che dalle piattaforme digitali e dalle ricerche di mercato, oltre che acquistandole dalle aziende che gestiscono app e social media. Un data broker può identificare, ad esempio, un individuo anche in base al suo aver manifestato interesse all’argomento diabete non solo per vendere l’informazione a produttori di alimenti senza zucchero, ma anche alle assicurazioni che, in base a ciò, lo classificheranno come “individuo a rischio” alzando il prezzo della sua polizza. Analogamente gli individui vengono profilati sulla base del reddito, dello stile di vita, dell’etnia, della religione, dell’essere o meno socievoli o introversi e così via agendo di conseguenza nei loro confronti. La raccolta di questi dati avviene in un regime da Far West a partire dalla più tenera età così da poter aggiornare costantemente e affinare il profilo individuale.

La studiosa sottolinea anche come i dati raccolti dalle Big Tech in ambito domestico non siano soltanto personali/individuali ma raccontino anche la famiglia intesa come gruppo sociale a partire dai contesti socioeconomici, valoriali e comportamentali e tutto ciò può condurre a gravi forme di discriminazione. Un’inchiesta di ProPublica, organizzazione no-profit statunitense, ha rivelato come Facebook consentisse pubblicità mirate discriminatorie rivolte alle sole “famiglie bianche”. Barassi sottolinea come tali meccanismi possano imprigionare i bambini in stereotipi discriminatori e riduzionisti limitandone la mobilità sociale; si rischia di divenire sempre più prigionieri delle classificazioni assegnate al proprio profilo digitale.

Dal 2019 Amazon raccoglie informazioni fisiche ed emotive degli utenti attraverso la profilazione della voce, mentre Google ed Apple stanno lavorando da tempo a sensori in grado di monitorare gli stati emotivi degli individui e tutti questi dati vanno ad aggiungersi a quelli raccolti a scopo di profilazione quando si cercano informazioni sulla salute su un motore di ricerca. Come non bastasse, le Big Tech affiancano alla raccolta dati sulla salute ingenti investimenti nell’ambito dei sistemi sanitari. Qualcosa di analogo avviene nel sistema scolastico-educativo ed anche in questo caso le grandi corporation tecnologiche hanno saputo approfittare dell’emergenza sanitaria per spingere sull’acceleratore della loro entrata in pompa magna nel sistema dell’istruzione.

I media occidentali da qualche tempo danno notizia con un certo allarmismo del sofisticato sistema di sorveglianza di massa e di analisi dei dati raccolti sui singoli individui e sulle aziende messo a punto dal governo cinese tra il 2014 e il 2020 al fine di assegnare un punteggio di “affidabilità” fiscale e civica in base al quale gratificare o punire i soggetti attraverso agevolazioni o restrizioni in base al rating conseguito. All’interesse per il sistema di sorveglianza cinese non sembra però corrispondere altrettanta attenzione a proposito di ciò che accade nei paesi occidentali, ove da qualche decennio «governi e forze dell’ordine stanno utilizzando i sistemi IA per profilarci, giudicarci e determinare i nostri diritti» (p. 122), impattando in maniera importante soprattutto sul futuro delle generazioni più giovani.

Sebbene non sia certo una novità il fatto che governi e istituzioni raccolgano dati o sorveglino i comportamenti dei cittadini, la società moderna ha indubbiamente “razionalizzato” tale pratica soprattutto in funzione efficientista-produttivista rafforzando insieme alla burocrazia statale gli interessi aziendali. In apertura del nuovo millennio, scrive Barassi, anche sfruttando l’allarmismo post attentati terroristici che hanno colpito gli Stati Uniti e l’Europa, molti governi hanno iniziato ad integrare le tecnologie di sorveglianza quotidiana dei dati con i sistemi di identificazione e autenticazione degli individui.

Alcuni studi hanno dimostrato come le pratiche di profilazione digitale messe in atto in diversi paesi, oltre ad essere discriminatorie, minino alle fondamenta i sistemi legali in quanto determinano in segreto quanto un cittadino sia da considerare “un rischio” per la società senza concedergli la possibilità di usufruire di un’adeguata tutela legale. Altro che “giusto processo”; soprattutto grazie alle leggi anti-terrorismo emanate dopo l’11 settembre 2001 ci si può ritrovare “condannati” senza nemmeno conoscerne il motivo.

Barassi riporta il caso della Palantir Technologies, vero e proprio colosso privato della sorveglianza e profilazione dei cittadini, capace di offrire servizi di raccolta e analisi dei dati ai governi e alle aziende private soprattutto occidentali. Ai sevizi di tale azienda, creata nel 2003, ricorrono le principali agenzie governative statunitensi (dall’FBI alla CIA, dal’Immigration and Customs Enforcement al Department of Homeland Security ed al Department of Justice). Attiva in oltre 150 paesi nel 2010, la Palantir Technologies ha saputo sfruttare abilmente l’attuale pandemia per diffondere i sui servizi in Europa.

La profilazione digitale dei cittadini si rivela strategica per molti paesi occidentali in cui istituzioni governative e apparati di polizia ricorrono sempre più a sistemi di IA, il più delle volte gestiti direttamente da aziende private, per prendere decisioni importanti sulla vita dei cittadini. Barassi sottolinea anche come numerosi studi abbiano dimostrato come le tecniche per il riconoscimento facciale, ad esempio, siano tutt’altro che attendibili e come le stesse tecnologie per l’analisi predittiva, oltre che non affidabili, tendano ad amplificare i pregiudizi e ad alimentare la diseguaglianza sociale. Una ricerca del 2019 pubblicata su “Science”, ad esempio, ha rivelato come il sistema sanitario statunitense ricorra ad algoritmi razzisti nel prendere decisioni in merito alla salute pubblica.

«Nell’era de capitalismo della sorveglianza non esistono più dati “innocui”, perché i dati che offriamo come consumatori molto spesso vengono utilizzati per determinare i nostri diritti di cittadini» (p. 133). Il software CLEAR, ad esempio, attinge dati di oltre 400 milioni di consumatori da un’ottantina di società che si occupano di bollette domestiche di vario tipo per poi rivenderli ad istituzioni governative che si occupano di frode fiscale e sanitaria, di immigrazione e riciclaggio di denaro o di prendere decisioni relative all’affidamento di bambini. «Senza che se ne rendano conto, i dati che gli utenti […] producono in qualità di consumatori domestici possono venire incrociati, condivisi e utilizzati per investigazioni federali» (p. 134). Altro inquietante caso riportato da Barassi riguarda Clearview AI, società produttrice di software per il riconoscimento facciale. Un inchiesta del “New York Times” del 2020 ha evidenziato come in alcune giurisdizioni statunitensi le forze di polizia utilizzassero tale software per confrontare le fotografie di individui ritenuti sospetti con gli oltre tre miliardi di immagini presenti online, soprattutto sui social.

***

È di questi giorni la notizia delle sanzioni comminate in Italia dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato a due tra le maggiori Big Tech

Tra gli utenti di Apple e Google e le due aziende esiste “un rapporto di consumo, anche in assenza di esborso monetario“. Perché “la controprestazione”, cioè il pagamento, “è rappresentata dai dati che essi cedono utilizzando i servizi di Google e di Apple”. È con questa premessa che l’Antitrust ha multato i due gruppi per un totale di 20 milioni di euro – 10 ciascuno, il massimo edittale – per due violazioni del Codice del Consumo, una per carenze informative e un’altra per pratiche aggressive legate all’acquisizione e all’utilizzo dei dati dei consumatori a fini commerciali (Apple e Google, multa Antitrust da 20 milioni: “Informazioni carenti sull’uso dei dati personali degli utenti e pratiche aggressive”, “Il Fatto Quotidiano”, 26 novembre 2021.

Nel Comunicato stampa emesso dall’AGCM il 26 novembre 2021 viene evidenziato come nella fase di creazione dell’account, Google «l’accettazione da parte dell’utente al trasferimento e/o all’utilizzo dei propri dati per fini commerciali» risulti pre-impostata consentendo così «il trasferimento e l’uso dei dati da parte di Google, una volta che questi vengano generati, senza la necessità di altri passaggi in cui l’utente possa di volta in volta confermare o modificare la scelta pre-impostata dall’azienda». Nel caso di Apple, prosegue il Comunicato stampa, l’architettura di acquisizione «non rende possibile l’esercizio della propria volontà sull’utilizzo a fini commerciali dei propri dati. Dunque, il consumatore viene condizionato nella scelta di consumo e subisce la cessione delle informazioni personali, di cui Apple può disporre per le proprie finalità promozionali effettuate in modalità diverse». Nel dettaglio si vedano: Testo del provvedimento GoogleTesto del provvedimento Apple

Alla luce di quanto detto in precedenza, è difficile immaginare che tutti questi dati sugli utenti raccolti subdolamente, legalmente o meno, vengano sfruttati “solo” a livello commerciale. Intanto si accumulano, poi potranno essere messi sul mercato ed essere elaborati e utilizzati per gli scopi più diversi.

È il capitalismo della sorveglianza, bellezza. E tu non ci puoi far niente! Se ci si deve per forza rassegnare a tale ennesimo adagio impotente, occorrerebbe allora riprendere anche l’efficace titolo di un recente film italiano: E noi come stronzi rimanemmo a guardare (2021, di Pierfrancesco Diliberto “Pif”).


Su Carmilla – Serie completa Culture e pratiche della sorveglianza

]]>
La moda fra senso e cambiamento identitario https://www.carmillaonline.com/2021/01/28/la-moda-fra-senso-e-cambiamento-identitario/ Thu, 28 Jan 2021 22:00:10 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=64682 di Gioacchino Toni

Il recente volume di Bianca Terracciano e Isabella Pezzini (a cura di), La moda fra senso e cambiamento. Teorie, oggetti, spazi (Meltemi 2020), si occupa dell’analisi semiotica della moda non accontentandosi di passare in rassegna teorie e padri nobili della disciplina ma procedendo lungo una scaletta che dalle teorie relative alla moda passa poi all’analisi di alcuni suoi oggetti e spazi.

Nella prima sezione del volume, dedicata alle teorie, Patrizia Calefato osserva come dalle riflessioni di Walter Benjamin sulla moda nella modernità, alimentate dal confronto con la metropoli ottocentesca e [...]]]> di Gioacchino Toni

Il recente volume di Bianca Terracciano e Isabella Pezzini (a cura di), La moda fra senso e cambiamento. Teorie, oggetti, spazi (Meltemi 2020), si occupa dell’analisi semiotica della moda non accontentandosi di passare in rassegna teorie e padri nobili della disciplina ma procedendo lungo una scaletta che dalle teorie relative alla moda passa poi all’analisi di alcuni suoi oggetti e spazi.

Nella prima sezione del volume, dedicata alle teorie, Patrizia Calefato osserva come dalle riflessioni di Walter Benjamin sulla moda nella modernità, alimentate dal confronto con la metropoli ottocentesca e con la scrittura di Charles Baudelaire, derivino premesse utili a comprendere le trasformazioni subite dalla moda nei tempi recenti. Come intuito dall’intellettuale tedesco, il termine moda manifesta una certa ambiguità denotando tanto una valenza negativa, per così dire “istituzionale”, riferita allo spettacolo consumistico, che una “meno convenzionale” che si manifesta attorno ai più recenti concetti di look, stili, e anti-mode. Muovendo dalla lettura politica operata da Hannah Arendt del rapporto tra gusto e senso comune in Kant e passando dal problema del contrasto tra il carattere di élite e quello di massa della moda posto da Jurij Michajlovič Lotman, Calefato ragiona su come la moda possa essere considerata un sistema capace di garantire una mediazione tra gusto, senso comune e comunità.

Tra i primi studiosi ad affrontare la moda attraverso un approccio semiotico, Algirdas Julien Greimas si interessa al vocabolario di questa per la sua peculiarità di prestarsi sia a una funzione tecnica di strumento di comunicazione interno a un gruppo specifico, che di risultare applicabile a tutti quei fenomeni sociali che hanno un carattere di attualità. Il “privilegio del verbale” di Greimas, sostiene Isabella Pezzini, non sembra discostarsi granché dalla convinzione di Lotman che vede nella lingua il “sistema modellizzante primario” di una cultura e che include la moda e l’abbigliamento nel suo progetto di semiotica della cultura.

A proposito dello studio della moda secondo una prospettiva semiologica, Pezzini si sofferma sul passaggio di testimone fra Algirdas Julien Greimas e Roland Barthes preoccupandosi di mettere in luce lo scarto che separa i lavori dei due. Mentre il primo sviluppa la sua analisi come studio storico-sociale del vocabolario francese orientato su uno strutturalismo storicista, il secondo esplora i parallelismi esistenti tra il linguaggio nel suo complesso e l’abbigliamento. La moda è vista dal francese come una lingua su cui mettere alla prova l’ipotesi saussuriana di una teoria generale dei segni contemplante al suo interno la linguistica. Se nello studiare il rapporto tra linguaggio e moda tanto Barthes che Greimas si concentrano soprattutto sul metalinguaggio dispensato dalle riviste, ora, suggerisce Terraciano nell’introduzione al volume, è piuttosto all’ambito dei social network che occorre far riferimento.

Per la formulazione di una teoria semiotica della moda, sostiene Ugo Volli nel suo intervento, è necessario partire da un’analisi della semiotica dell’abbigliamento in generale nella consapevolezza di come già quest’ultimo, oltre a una funzione pratica di protezione del corpo, sia organizzato in vista della produzione di senso. Nel ricavare un elenco di unità morfologiche di base della cultura vestimentaria occidentale moderna è possibile notare come, nonostante alcuni momenti di rottura, in genere il cambiamento proceda lentamente e senza grandi mutazioni. Tratteggiate le differenze principali che caratterizzano l’analisi degli indumenti in un approccio di tipo interpretativo e in uno di tipo generativo, si tratta, secondo Volli, di verificare se la semiotica, formatasi a partire dall’ipotesi sincronica della linguistica, sia applicabile alla moda che è caratterizzata da una natura diacronica.

Nel parlare di moda ci si riferisce a qualcosa di ben più complesso rispetto all’analisi dell’ambito vestimentario e della sua localizzazione; parlare di moda, scrive Giulia Ceriani nel suo contributo, significa confrontarsi con un laboratorio privilegiato dell’anticipazione che introduce nel presente le potenzialità della trasformazione e occorre considerare la sua peculiarità testuale in funzione dell’intenzionalità espressa dal fruitore effettivo che spazia dall’adesione emulativa, all’indifferenza sino al rifiuto di quanto di normativo ancora il sistema contiene. Attraverso l’iconizzazione e la condivisione sul web, la creatività della moda riesce in diversi casi a rappresentare fenomeni di cambiamento configurando identità che non riescono ad esprimersi agevolmente in altro modo

La seconda sezione del volume, dedicata agli oggetti, dopo essersi aperta con il contributo di Paolo Fabbri, che struttura attorno a una dettagliata analisi del cappello un sistema semiotico applicabile a ogni altro oggetto del sistema moda, lascia spazio alla disamina di Jorge Lozano del termine “lusso” a partire dalla pluralità di valorizzazioni che vi si possono attribuire e che, in una girandola di contraddizioni e opposizioni, come per certi versi già aveva compreso Benjamin, contempla tanto un’idea di superfluo che di necessario, di ostentato che di raffinato. Lo studioso, derivata la definizione di lusso dalla congiunzione su un quadrato semiotico della categoria semantica di /esclusivo/ con quella del suo opposto /eccezionale/, dopo aver passato in rassegna le modalità con cui si è storicamente guardato al lusso, giunge a individuarne il suo particolare carattere contemporaneo a partire dal legame che manifesta con la pratica dei selfie e la personificazione degli oggetti.

Ora, in piena simulazione generalizzata, sotto il dominio dei big data, in cui il futuro non tramonta e regna il presentismo, l’autentico emerge come tendenza, che, sebbene non possa sostituire l’unico, l’unicità, la caratteristica fondamentale dell’esclusivo, funge da consolazione. Da parte sua, l’eccezionale dell’originale e genuino, di ciò che ha l’aura e appartiene alla patria del lusso, attualmente adotta altre manifestazioni pregne di soggettività, espresse nel cyberspazio, configurate con nuovi materiali. Questa nuova eccezionalità può coesistere perfettamente con il non esclusivo, promuovendo quello che considero il nuovo lusso. (p. 137)

Riprendendo le riflessioni di Barthes, Floch e Greimas a proposito di passioni e prossemica, Gianfranco Marrone, propone un’interessante analisi semiotica degli occhiali a partire da come l’esigenza sociale estetica abbia per certi versi finito per scalzare tanto la funzione dei modelli da vista, con il suo presupporre un movimento del soggetto verso il mondo, quanto quella dei modelli da sole, che presuppone il movimento inverso del mondo verso il soggetto. «Il corpo-meccanismo e il corpo-rifugio cedono il passo al corpo desiderato e desiderante, soggetto di seduzione e oggetto di piacere» (p. 140). Ad esemplificare la trasformazione avvenuta si pensi a come dai modelli di occhiali con lenti da vista capaci al tempo stesso di riparare dalla luce solare si sia passati al caso, per certi versi opposto, dei modelli con lenti trasparenti non correttive: un ribaltamento epocale che ha trasformato gli occhiali da strumento per vedere in oggetto per essere visti.

Maria Pia Pozzato, prendendo in esame la tematica della modest fashion riguardante l’abbigliamento rapportato ai codici della religione islamica, ricostruisce come dal punto di vista semantico, in tale contesto, si sia data negli ultimi tempi una riformulazione del concetto di /modestia/, non più riconducibile alla rinuncia alla seduttività, all’anonimato, alla povertà di ornamento, all’astoricità: la modestia della modest fashion, sostiene Pozzato, sembra mantenere soltanto un sema di /pudicizia/ implicante la non visibilità di alcune zone del corpo lasciate invece maggiormente scoperte dalla moda occidentale. Il risultato che ne deriva si indirizza verso una moda “a doppia versione”, anziché di contrapposizione.

Paolo Sorrentino, chiudendo la sezione del volume dedicata agli oggetti, ricorrendo a una prospettiva lotmaniana, analizza la risemantizzazione operata dalla moda contemporanea di un capospalla appartenente alla tradizione sarda rapportandolo al sistema vestimentario dell’isola che lo ha via via escluso dalle pratiche quotidiane marginalizzandolo all’ambito dei rituali carnevaleschi.

Nella terza e ultima sezione di La moda fra senso e cambiamento, dedicata agli spazi, avvalendosi del lavoro che Denis Bertrand dedica all’importanza della raffigurazione spaziale nel discorso del romanzo, Isabella Pezzini approfondisce la nascita e l’attestarsi del grande magazzino francese nella seconda metà dell’Ottocento così come traspare dal romanzo Au bonheur des dames (1883) di Émile Zola. Venendo invece a spazi commerciali più recenti, Bianca Terraciano si concentra sulle modalità con cui alcuni negozi di moda, nell’era dell’e-commerce e dei social network, vadano alla ricerca di elementi distintivi che ne giustifichino la presenza e da questo punto di vista risulta di un certo interesse il rapporto che si viene a creare tra città, heritage culturale e consumi. Sempre restando a tendenze contemporanee, Claudia Torrini e Tiziana Barone indagano la propensione della moda contemporanea a ricorrere sempre più frequentemente all’arte come medium e su come l’intrecciarsi dei due ambiti comporti la condivisione di un linguaggio che permette al brand di proporre il suo sistema valoriale in quanto marca e al tempo stesso curatore di un’eredità territoriale da preservare e condividere con la collettività.

Al rapporto tra moda e costruzione identitaria sono invece dedicati gli ultimi interventi del volume. Nella semiotica Ana Claudia Mei Alves de Oliveira ricerca gli strumenti utili allo studio delle diverse maniere in cui la moda propone di vestire il corpo influendo sul soggetto e sulla costituzione della sua identità sociale. Preso atto di come, almeno a partire da metà Ottocento, all’interesse per le caratteristiche fisiche della produzione vestimentaria si sia sostituita una lettura del capo di abbigliamento come artefatto culturale sempre più complesso, Luca Marchetti passa in rassegna alcune opere che riguardano appunto la costruzione identitaria.

]]>
L’identità: un concetto avvelenato https://www.carmillaonline.com/2018/01/28/lidentita-un-concetto-avvelenato/ Sat, 27 Jan 2018 23:01:14 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=42691 di Armando Lancellotti

Detto approssimativamente: Dire di due cose, che esse siano identiche, è un nonsenso; e dire di una cosa, che essa sia identica a se stessa, non dice nulla (L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, 5.5303)

È cosa facilmente verificabile per chiunque che il concetto di identità sia oggigiorno uno dei più frequentemente utilizzati in tutti gli ambiti del discorso pubblico e questo ha dato luogo ad una moltiplicazione delle sue possibili declinazioni e delle sue differenti accezioni: identità occidentale, europea, nazionale, culturale, religiosa, etnica, locale o regionale, personale ecc. E poco importa se molte di queste espressioni abbiano [...]]]> di Armando Lancellotti

Detto approssimativamente: Dire di due cose, che esse siano identiche, è un nonsenso; e dire di una cosa, che essa sia identica a se stessa, non dice nulla (L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, 5.5303)

È cosa facilmente verificabile per chiunque che il concetto di identità sia oggigiorno uno dei più frequentemente utilizzati in tutti gli ambiti del discorso pubblico e questo ha dato luogo ad una moltiplicazione delle sue possibili declinazioni e delle sue differenti accezioni: identità occidentale, europea, nazionale, culturale, religiosa, etnica, locale o regionale, personale ecc. E poco importa se molte di queste espressioni abbiano oppure non abbiano un senso compiuto che ne permetta un utilizzo valido e pertinente, perché la rivendicazione identitaria sembra essere diventata un’ossessione a tal punto evidente, pervasiva e diffusa da non riuscire più neppure a mascherare le dinamiche che la producono, le esigenze e le difficoltà individuali e collettive che la alimentano. È come se lo sbriciolamento della realtà sociale, politica, economica, lavorativa – conseguenza di un mondo reso globale da un mercato totale in costante corto circuito e aggrovigliato su stesso nel circolo vizioso della riproduzione di iniquità sociale – avesse reso necessario il ricorso a pratiche identitarie, ovvero all’arroccamento difensivo su posizioni identitarie sufficientemente forti per fornire l’illusione di un barlume di sicurezza.

Che si tratti del più volte evocato “scontro di civiltà” o delle baggianate su presepi ed alberi natalizi da difendere da chissà quale nemico come simboli culturali-religiosi; che si parli delle frontiere mediterranee o balcaniche da presidiare per bloccare l’arrivo o il passaggio dei migranti o dei sempre più richiesti interventi politici di esclusione economico-sociale dei migranti stessi e di altre minoranze per la conservazione di un benessere invariabilmente decrescente, tutto ciò lo si fa sempre riferendosi, come base di legittimazione, ad una identità, da rivendicare, da riaffermare, soprattutto da difendere. Ci si definisce, a seconda di casi e contesti, occidentali, europei, cristiani, addirittura anacronisticamente patrioti, italiani o di altra nazionalità, insomma ci si propone come titolari di una identità, che ci determina, ci profila, ci consolida e infine ci contrappone agli altri, ai nemici.

Lo scenario politico poi (e non solo quello italiano), desertificato da una povertà di pensiero mortificante, abbonda di richiami ed appelli identitari, in applicazione della più elementare e banale legge del mercato, quella della domanda e dell’offerta che reciprocamente si condizionano: leader e partiti politici offrono temi identitari ad un’opinione pubblica che li domanda esponenzialmente; domanda a sua volta alimentata da un’offerta crescente e variegata.

Stando così le cose, una riflessione approfondita sul concetto di identità, come quella che propone Francesco Remotti nel suo Ossessione identitaria [Laterza 2010, ripubblicato nella collana Economica nel 2017], risulta particolarmente utile ed interessante. L’autore – antropologo e professore emerito all’Università di Torino – affronta lo studio del concetto di identità con gli strumenti dell’antropologia, delle scienze umane e sociali, della filosofia, giungendo a conclusioni, per sua stessa ammissione, diverse da quelle da lui proposte negli anni ’90 del secolo scorso, quando, in saggi come Contro l’identità [Laterza, 1996], ancora riteneva che l’idea di identità fosse un qualcosa di irrinunciabile e che bastasse attenuarne la forza, evitarne l’uso unilaterale ed invasivo. Oggi Remotti ritiene che si possa, che si debba fare un passo deciso in avanti e in direzione del rifiuto del concetto di identità, del suo definitivo abbandono, a causa della sua “tossicità”; l’identità infatti, afferma esplicitamente l’autore, è una “parola avvelenata” e pertanto socialmente perniciosa e contagiosa.

Le analisi e le argomentazioni di Remotti presuppongono una preliminare distinzione di due piani: quello analitico, delle riflessioni elaborate dagli studiosi delle scienze umane e sociali e quello operativo, dei concreti soggetti ed attori sociali; ovvero il piano della definizione teorica del concetto di identità e della storia dei suoi significati e quello pratico dell’effettivo agire sociale dei soggetti, individuali e collettivi, che attuano logiche e prassi identitarie.

La parola “identità” di per sé è «nitida, limpida, elegante, pulita» (p. X) e queste sue caratteristiche sono forse la conseguenza dell’ambito logico e metafisico in cui essa è stata originariamente elaborata e di quello giuridico ed amministrativo in cui è largamente impiegata. La “certificazione dell’identità” costituisce, infatti, uno degli atti fondamentali previsti dal nostro ordinamento giuridico e quello all’identità personale è considerato un diritto inalienabile dell’uomo. L’assunzione di una identità funge da ancoraggio a qualcosa di solido e stabile, quasi fosse una sorta di declinazione esistenziale e sociale del principio logico di identità e di non contraddizione: ognuno è se stesso e non può essere un altro. Pertanto, in quanto “promessa” di riconoscibilità e stabilità, il concetto di identità parrebbe essere meritevole di giudizio positivo, mentre la tesi di fondo del saggio di Remotti è del tutto opposta.

La negatività del concetto è data innanzi tutto dal fatto che “identità” è una parola ingannevole, mistificante, poiché promette o lascia intendere qualcosa che non c’è e che non può esserci, racconta un mito, un grande mito del nostro tempo. Almeno due – spiega lo studioso piemontese – sono le categorie principali dei miti: quelli che non si preoccupano di dissimulare la propria natura, tanto incredibili e fantasiosi sono le vicende e i personaggi narrati, e quelli che invece «esigono di essere trattati come realtà» (p.XII) e l’identità è uno di questi; il mito identitario è serio, anzi serioso, pretende rispetto e accreditamento di realtà, pur essendo in verità qualcosa di concretamente inafferrabile, indefinibile.

L’identità è un concetto “sostanzialistico”, cioè metafisico in senso classico, perché rimanda ad una sostanza, ad un nucleo originario, stabile e permanente. La sostanza infatti è il fondamento, ciò che permane pur nel variare dei suoi attributi; per l’ontologia classica è il significato più forte dell’essere, «è ciò che garantisce l’identità di una cosa sia nell’evolversi nel tempo e nel mutare delle condizioni, sia attraverso la molteplicità degli oggetti» (p. 26). Dal punto di vista filosofico il concetto trova il suo fondamento logico nel principio di identità e di non contraddizione, che ritaglia, delimita l’identità e la separa dall’alterità, la quale è definita solo relativamente, negativamente ed è allontanata dall’identità a tutela della sua purezza. È l’essere identico a se stesso dell’ontologia eleatica, che relega l’alterità nell’ambito del non essere.

Con la dialettica hegeliana – osserva Remotti – identità e alterità si riavvicinano: nella relazione dialettica l’identico si rovescia nel proprio negativo – l’altro da sé – che però viene riassorbito dallo sviluppo speculativo della ragione dialettica e dalla riaffermazione di una identità non più immobile e statica, ma progredente. Hegel emenda l’idea classica del principio di identità, affermandone l’astrattezza da un punto di vista dialettico: il principio di identità e di non contraddizione è lo strumento con cui opera l’intelletto producendo universali astratti, che solo il lavorio dialettico della ragione, che passa attraverso la relazione con l’altro, con il negativo dialettico, riesce a rendere concreti. L’identità si rovescia nell’alterità e l’Intero (la realtà, l’essere) è processualità storica non fossilizzata in sostanze statiche separate le une dalle altre. «A e non-A si intrecciano e si combinano per formare, a loro volta, altre entità in un movimento trasformativo continuo e inarrestabile» (p. 28). In Hegel l’identità statica è superata dalla convinzione che la realtà sia trasformazione, ma «l’idea di un principio unitario permanente» (p. 28) ricompare sotto la forma della direzione necessaria, che tutto ricomprende, che a tutto dà un senso e che l’Intero segue, realizzando se stesso come Risultato del proprio processo.

Mutatis mutandis, la stessa logica universalistica e necessitante dell’hegelismo sottende anche la dialettica marxista – sostiene Remotti – e così pur «fondando la dialettica su altri presupposti (materialistici invece che idealistici), il marxismo adotta una prospettiva di universalità, la quale giustifica l’inglobamento anche violento delle realtà locali entro un processo storico avente un significato e una destinazione universali» (p. 29).

Quando, a partire dagli anni ‘60/’70 del XX secolo, tramontano prospettive ed impostazioni universalistiche e fortemente generalizzanti, nelle scienze umane e sociali riprende l’attenzione per il concetto di identità, ma non più definito in termini sostanzialistici ed universalistici (non esistono più vie maestre, ma solo deviazioni dall’inesistente via maestra), bensì ripensato sotto la forma dei “soggetti”, individuali o collettivi, che prendono forma in un contesto di concrete e divenienti relazioni sociali e che aspirano ad una identità nella misura in cui sono in grado di richiedere ed ottenere “riconoscimento” dagli “altri”. Una nozione sociologica di identità, quella elaborata dalle scienze umane e sociali del Novecento, ben diversa da quella ontologica classica, ma che comunque richiede un «sufficiente grado di compattezza interna e una soddisfacente definibilità esterna» (p. 34).

È possibile – osserva Remotti – distinguere tra due diverse e fondamentali tipologie di richiesta sociale di riconoscimento, non necessariamente entrambe identitarie. La prima è quella identitaria in cui il soggetto richiede il riconoscimento della sua sostanza, della sua “essenza”; la seconda (riconoscimento non identitario) è quella in cui il soggetto richiede il riconoscimento della sua “esistenza” (diritti, progetti, obiettivi, ecc). Diritti, progetti, obiettivi di vita sono dialettici, mutevoli e precari, possono essere discussi, mediati, corretti in itinere, mentre l’identità sostanziale è un’essenza, pretende di essere riconosciuta come immutabile ed immobile. Essa vuole essere difesa nella sua purezza e percepisce l’”alterità” e l’”alterazione” come pericoli.

Secondo la logica identitaria l’altro è una minaccia anche quando o anche se non compie alcuna azione propriamente minacciosa e occorre liberarsene al più presto, anche preventivamente. L’identitarismo tende a dividere l’umanità in “gli uni” e “gli altri”. E infatti, sostiene Remotti, tra razzismo ed identitarismo non c’è poi molta differenza, perché entrambi si appellano ad una sostanza – prevalentemente biologica nel primo caso e storico-culturale nel secondo (anche se poi le due componenti possono spesso mescolarsi) – ed entrambi si pongono il fine prioritario della difesa della propria purezza dal contagio dell’alterità. Oggi il mito della razza, per ben note ragioni storiche, non gode di particolare fortuna e credito, anche se non mancano di certo e da più parti i tentativi di un suo rilancio e di un suo riaccreditamento nell’ambito del politicamente pensabile e dicibile. Allora a sostituirsi al mito della razza e, potremmo dire, a veicolarlo surrettiziamente è l’altro mito, invece molto in voga, il mito dell’identità, che per giunta non è considerato un mito, ma qualcosa di assolutamente reale.

Risulta, allora, chiaramente giustificata da quanto detto la proposta di Remotti di sbarazzarsi del concetto di identità e delle sue nefaste conseguenze e, sul piano terminologico, di sostituirlo con il concetto di “noi”, ben più concreto, meno velleitario ed assoluto. I “noi” sono da intendersi come soggetti sociali richiedenti riconoscimento, ma non necessariamente un riconoscimento identitario. Tra NOI e IDENTITA’, quindi, vi è differenza. Innanzi tutto i “noi” di cui possiamo fare parte in uno stesso momento della nostra esistenza sono molteplici: famiglia, vicinato, partito politico, classe sociale, fede religiosa, tifo calcistico, scuola, amicizia, ecc e ognuno di questi gruppi si può a sua volta suddividere in “noi” sempre più piccoli e differenziati. Inoltre l’”identità” è qualcosa di astratto, mentre i “noi” sono concreti. In quanto astratta, l’”identità” pretende l’immobilità, l’immutabilità, mentre i “noi” sono fluidi, divenienti, dinamici, situazionali. Il “noi” può essere un concetto poroso, che comprende l’alterità al suo interno, mentre l’”identità” o il “noi identitario” escludono l’alterità e rifuggono l’alterazione.

Occorre, pertanto, ridefinire, proprio alla luce degli sviluppi delle scienze umane e sociali, il concetto di identità, intendendolo non come qualcosa di già dato una volta per tutte e a cui assimilarsi, un qualcosa che pretenda di essere riconosciuto come identico a sé, bensì come il risultato di pratiche ripetute di riconoscimento all’interno di un contesto di relazioni reciproche che fanno dell’identità un qualcosa in fieri, un qualcosa di transitorio ed approssimativo. E questo qualcosa si definisce a posteriori, mai a priori e in quanto meta di approssimazione continua. L’identità va pensata – potremmo dire – come una kantiana “idea della ragione”, il cui uso corretto non è quello assoluto, cioè sostanziale e fondativo, bensì quello regolativo, cioè costituente un’ideale termine di tensione.

Il rapporto con l’alterità, inoltre, è da intendersi come qualcosa di indispensabile per il processo di definizione di un soggetto (individuale o collettivo) in qualche modo identitario, di una società o di una cultura. Si potrebbe dire che l’alterità è complementare e consustanziale all’identità. La “sfera eleatica” che l’identità pretenderebbe di essere mostra in realtà al proprio interno punti di discontinuità, fratture, un alternarsi continuo di pieno e di vuoto.
Per argomentare questa tesi Remotti fa ricorso alla teoria antropologica del “vincolo di particolarità”. «Che si tratti di sistemi, di istituzioni, di costumi, di culture, la convinzione è che essi siano sempre particolari e locali. L’universalità inerisce soltanto all’insieme delle potenzialità iniziali e inespresse, da cui prende avvio qualunque realizzazione umana, qualunque forma culturale» (pp. 10-11). All’interno delle “molteplici potenzialità iniziali” occorre operare numerose scelte, talvolta consapevoli e più di frequente inconsapevoli – quelle «che sono alla base delle configurazioni culturali, e che determinano i caratteri di ciò che si usa chiamare identità, si realizzano [spesso] a livello inconscio» (p. 11) – ma comunque sempre delle scelte che comportano l’esclusione delle opzioni altre, che però, proprio perché fatte oggetto di esclusione, determinano in modo vincolante il profilo di quanto è stato scelto, contribuiscono alla sua delineazione o definizione. Come a dire che una scelta è sempre limitata e limitante, cioè particolare e strettamente legata (vincolata) a ciò che ha scartato.

La consapevolezza delle dinamiche proprie del “vincolo di particolarità” permetterebbe, secondo Remotti, una riformulazione del concetto di identità in grado di mettere in evidenza i tratti di arbitrarietà, relatività, precarietà, incertezza e fluidità della scelta che ne costituisce il fondamento.

«Siamo così (questa – se proprio vogliamo – è la nostra identità), ma avremmo potuto essere diversamente» (p. 12).

L’identità pertanto, pensa Remotti, è un altrove, un al di là e tale deve rimanere. In questo modo si evidenzierebbero gli sforzi che i soggetti compiono per tendere verso la stabilizzazione. Sono gli sforzi che contano ben più del risultato, il quale non è da intendersi come qualcosa di astratto ed inafferrabile quale è il concetto di identità, ma come qualcosa di ben più concreto, seppur di grado inferiore: un po’ di coerenza, un po’ di continuità, un po’ di stabilità. Inoltre se l’identità viene prelevata da quell’altrove utopistico in cui deve rimanere e viene introdotta nell’ambito della concreta esperienza, questo comporta l’abbandono, la dimenticanza di una serie di importanti valori come l’alterità e l’alterazione, importanti tanto quanto quelli di stabilità e coerenza.

Il soggetto (individuale o collettivo) si trova, pertanto, all’interno di una banda di oscillazione i cui estremi sono l’Identità e l’Alterità e si avvicinerà all’uno o all’altro estremo a seconda delle circostanze, delle necessità, dei momenti. Entrambi gli estremi sono pericolosi: quello dell’Identità comporterebbe fossilizzazione ed esclusione di ogni forma di divenire e di dinamismo, quello dell’Alterità comporterebbe il rischio dello sfaldamento e del dissolvimento della soggettività stessa.

Appare chiaro come qui si tratti del ripensamento complessivo dell’idea di identità, che si pone in alternativa al tradizionale modo di intenderla che ne definisce il concetto in termini di necessità e di universalità immutabile; caratteri del concetto di identità che si fondano e si legittimano sulla base di una operazione di condanna e di cancellazione delle possibilità alternative scartate e di successiva ipostatizzazione della scelta operata. In questo modo si disconosce come l’identico e l’altro siano entrambi conseguenze, strettamente apparentate, dello stesso atto, l’atto della scelta che produce la biforcazione identità-alterità.

«Se le scelte sono possibili (non necessarie), se sono particolari (non universali), se sono precarie (non inevitabilmente durature o permanenti), ciò significa che sono anche revocabili. L’alterità è lì, minacciosamente incombente, inquietantemente a portata di mano: non è soltanto il sottoprodotto delle scelte (i suoi scarti), qualcosa che appare o si determina dopo il gesto della scelta; è invece alla radice stessa delle scelte» (p. 13).

Le nostre società, invece, tendono sempre più evidentemente in direzione dell’estremo dell’Identità, così evidenziando – ritiene Remotti – una crescente fragilità strutturale.
«Rincorrendo un sogno impossibile ed irrazionale, quello di afferrare un principio di per sé inafferrabile e inesistente, la cultura identitaria finisce per essere una cultura povera, che per giunta non conosce la sua miseria. In fondo, l’identità è l’ultima risorsa che rimane quando c’è penuria di strumenti per immaginare un futuro diverso, quando si chiudono gli occhi di fronte alle possibilità dell’alterazione» (p.XXV).

Se le scelte che fondano culture, civiltà, società, sistemi ed istituzioni sono inevitabilmente arbitrarie e precarie, allora ciò che si produce è quanto Remotti, diversamente rendendo l’espressione freudiana Das Unbehagen in der Kultur, esprime come “il disagio nella cultura”, applicando però il concetto secondo modalità prese a prestito – dice l’autore – da John Dewey. Per sfuggire a tale disagio, società e culture ricorrono al “camuffamento” della scelta fondativa e della sua precaria arbitrarietà, che viene sostituita da una pretesa necessità di tipo storico o naturale, operazione questa del camuffamento che poi si traduce nella “reificazione” (sopra da noi chiamata ipostatizzazione) dei prodotti della scelta, che risultano essere oggetti a sé stanti, dotati di realtà ed esistenza proprie ed indipendenti dall’atto decisionale da cui conseguono.

«Valori, significati, idee, tutto ciò che è incorporato nelle istituzioni, nei costumi, nella cultura non è più considerato come l’esito di scelte, ma come se avesse una realtà a sé stante, come se fosse una res, una “cosa” a parte rispetto alle possibilità di scelta degli individui. […] La reificazione uccide il senso delle possibilità; sopprime (o tenta di sopprimere) il senso della precarietà» (p. 14) e di conseguenza contrappone la pretesa di “integrità” (e la tutela di essa) alla possibilità di “integrazione”.

Sul piano operativo, infatti, cioè su quello pratico dei concreti attori e soggetti sociali, non su quello analitico degli studi delle scienze umane, permane l’aspirazione alla conquista e alla rivendicazione di un’identità concepita in termini ontologici, essenzialistici, che permetta agli attori stessi di sottrarsi al confronto e all’interazione all’interno dei concreti contesti di relazione sociale e di arroccarsi a difesa di una pretesa propria natura identitaria immutabile ed indiscutibile.

Due, riflette Remotti, sono le categorie principali dei processi di costruzione identitaria, «quella dell’”io” e quella del “noi”, intendendo per categoria dell’”io” i soggetti individuali e per categoria del “noi” i soggetti collettivi» (p. 39). Entrambe le categorie presentano alcuni tratti fondamentali comuni, come, innanzi tutto, il fatto che sia gli “io” sia i “noi” non siano delle entità già date e costituite, che poi agiscono e intrecciano rapporti, ma, al contrario, sono il risultato delle loro azioni e relazioni. In secondo luogo, l’essere sia degli “io” sia dei “noi” è prevalentemente di natura sociale, culturale, storica e in modo decisamente meno importante di natura biologica, anche se questo configurarsi come “artefatto umano” più che come “dato di natura” risulta più evidente nel caso dei “noi”, i quali, inoltre, si presentano in forme e modi estremamente più variabili e differenziati rispetto agli “io”.

Pertanto, dal punto di vista, per esempio, quantitativo, i “noi” possono variare dal limite minimo della coppia di individui al limite massimo dell’umanità intera, passando attraverso un popolo, una nazione, una civiltà, ecc. Inoltre, se l’impostazione tradizionale del pensiero e della cultura occidentali aveva per lo più ritenuto che prima vi fosse l’uomo come individuo, come soggetto a sé stante e poi che questo costituisse una collettività sociale, la filosofia e le scienze umane del Novecento si sono preoccupate di capovolgere il punto di vista, dimostrando che «l’io è un costrutto sociale, un artefatto culturale [e che pertanto prima] vi sono i noi entro cui si costruiscono gli io […], ovvero ancora che prima vi sono le relazioni e poi le entità entro cui esse intercorrono» (p. 41).

Entrambe le categorie di soggetti, però – io o noi – nel momento in cui rivendicano una identità, aspirano alla compattezza, alla eliminazione delle differenze interne, alla costituzione di una unità solida escludente gli altri; l’insistenza o l’ossessione identitarie conducono alla chiusura, alla indisponibilità al confronto e al rifiuto deciso della alterazione, che diviene un vero e proprio tabù: il terrore del “meticciato”.

La scelta identitaria è una scelta per niente affatto necessaria o inevitabile, bensì una scelta – dice Remotti – miope ed impoverente, in quanto si preclude la possibilità dell’arricchimento nel contatto con gli altri, disconoscendo che “noi” e “altri” costituiscono due entità complementari, mai definite o definibili una volta per tutte, ma mobili e simbiotiche, in quanto costituite di materia porosa e predisposta alla trasmissione e allo scambio. Portata all’estremo, una scelta identitaria assoluta conduce all’adozione di logiche di pensiero e di comportamento “totalitarie”, in quanto quello che potremmo definire come un “rischio totalitario” è insito nel concetto di identità, quando interpretato in senso sostanzialistico. Il totalitarismo come regime politico, sul piano ideologico e dell’autorappresentazione, si è sempre richiamato ad un concetto forte di identità, definendo in modo preciso un “noi” identitario, da contrapporre ad “altri” noi, di seguito gerarchizzati e combattuti sia difensivamente sia – più spesso – offensivamente.

Sostiene Remotti che per sfuggire al pericolo di derive violente prodotte dalle logiche identitarie occorrerebbe tenere a mente che «Per loro natura […] i noi sono noi-altri. Di solito, nelle lingue europee questa espressione è utilizzata per segnare ulteriormente la peculiarità e l’esclusività di un noi, il suo contrapporsi agli altri, configurandosi appunto come “altri” nei confronti degli “altri” (il “noialtri” rafforza il senso di identità del noi) […]. [Come a dire quindi che] il noialtri delle lingue europee è un noi-noi. Qui […] vorremmo attribuire all’espressione “noialtri” un diverso significato. Nella sua struttura morfologica l’espressione “noialtri” sarebbe infatti particolarmente adatta per sottolineare non l’esclusività e la contrapposizione, bensì la compresenza e l’intreccio intimo tra le due componenti, quella del “noi” e quella degli “altri”» (pp.49-50).

Sul nesso ricerca-rivendicazione identitaria e violenza, Francesco Remotti scrive alcune pagine davvero illuminanti, con cui concludiamo queste riflessioni sull’odierna ossessione identitaria.

In qualunque contesto o livello si posizioni, ogni noi comporta un qualche grado di violenza dovuto alla distinzione originaria, al gesto di separazione che lo costituisce e lo fa esistere. Ma la rivendicazione dell’identità è un sovrappiù di violenza; è un trasformare la separazione da gesto momentaneo, parziale, provvisorio, revocabile e rimediabile, in una situazione definitiva, permanente, bloccata, irrimediabile. Senza l’ossessione dell’identità, i noi, mentre si separano, si congiungono agli altri: sono noi e altri insieme. L’affermazione dell’identità sottrae invece il noi alle sue implicazioni con l’alterità: invocando l’identità i noi si purificano delle scorie dell’alterità al loro interno e assumono verso l’esterno, verso gli altri, un atteggiamento di radicale, essenziale estraneità. Con l’identità i noi si trasformano in isole, in fortezze, e si armano. Con l’identità i noi sono, divengono o pretendono di diventare “solo noi”, o meglio vogliono essere solo se stessi (A=A) (p. 48).

L’identità è quindi una strategia di difesa, anzi di iper-difesa, cieca ed eccessiva; ma proprio per questo è anche una strategia assai pericolosa, in quanto aumenta a dismisura i pericoli dell’alterazione. […] I “noi” interessati alla propria identità sono molto irritabili, suscettibili e quindi reattivi. I “noi” senza identità […] sono invece molto più tolleranti e molto più disponibili al mutamento […]. In conclusione, i “noi” ossessionati dall’identità sono assai più fragili, e proprio per questo assai più terribili. L’identità infatti non è soltanto una strategia di difesa: fomenta anche strategie di offesa. Ci vuole poco che dalla preoccupazione della propria integrità, dal senso di minaccia per la propria “purezza”, si passi ad una concezione dell’”altro” come un “nemico”, null’altro che un nemico. […] La “fine” dell’altro è la conclusione contenuta fin dall’inizio nella logica dell’identità. […] Fino a che i noi mantengono una certa distanza – una distanza di sicurezza, potremmo dire – rispetto all’ideologia dell’identità, si può sperare che essi non scivolino fino in fondo nel baratro della disumanizzazione dell’altro. Ma se le risorse (materiali e soprattutto culturali) a disposizione dei noi si riducono drasticamente, vi è da aspettarsi che la logica dell’identità invada la mente e il comportamento dei noi. Da questa logica i noi traggono motivi di massima solidarietà interna […] e nello stesso tempo da questa logica i noi sono condotti alla distruzione dell’altro, avendo come obiettivo la soluzione finale: eliminare definitivamente l’altro, affinché finalmente non vi siano più minacce per il noi. La storia del Novecento in Europa e altrove (dalla Germania nazista alle guerre dell’ex Jugoslavia, ai massacri del Rwanda) è una dimostrazione di questa tesi (pp. 98-99).

Per evitare questi rischi e per concludere con un auspicio propositivo, quanto mai adeguate risultano infine queste parole:

Se c’è un rapporto di identità che davvero può essere affermato, paradossalmente questo non è con se stessi, ma con l’alterità. Non solo, dunque, “je est un autre” (Rimbaud): “io è un altro”, ma anche “noi siamo gli altri”. Che lo vogliamo o no, che ne siamo consapevoli o meno, noi siamo inevitabilmente noialtri (p. 50).

 

 

]]>
Il reale delle/nelle immagini. Esibizionismo, selfie, mercificazione e costruzione identitaria https://www.carmillaonline.com/2016/04/18/il-reale-dellenelle-immagini-esibizionismo-selfie-mercificazione-e-costruzione-identitaria/ Mon, 18 Apr 2016 21:30:55 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=28952 di Gioacchino Toni

smartphone12«Un mondo dove ciò che conta è riuscire a raggiungere un certo livello di popolarità [presuppone che] tutto nella vita umana può essere quantificato e dunque può anche essere misurato e valutato. […] Ed è ciò che oggi sta avvenendo […] I “like” di apprezzamento o altri indicatori simili sono […] delle unità di misura del successo» (V. Codeluppi)

«devi diventare merce per poter propagandare altra merce» (G. Arduino – L. Lipperini)

Da qualche tempo sembra sempre più difficile affrontare la realtà senza ricorrere al filtro di una registrazione. Non è difficile imbattersi nelle località turistiche [...]]]> di Gioacchino Toni

smartphone12«Un mondo dove ciò che conta è riuscire a raggiungere un certo livello di popolarità [presuppone che] tutto nella vita umana può essere quantificato e dunque può anche essere misurato e valutato. […] Ed è ciò che oggi sta avvenendo […] I “like” di apprezzamento o altri indicatori simili sono […] delle unità di misura del successo» (V. Codeluppi)

«devi diventare merce per poter propagandare altra merce» (G. Arduino – L. Lipperini)

Da qualche tempo sembra sempre più difficile affrontare la realtà senza ricorrere al filtro di una registrazione. Non è difficile imbattersi nelle località turistiche in visitatori che rinunciano a godersi la visione diretta di ciò che hanno di fronte per riprenderlo col proprio telefonino, ossessionati dal dover registrare quanto hanno davanti agli occhi. Qualcosa di simile accade anche al pubblico degli eventi sportivi e dei concerti. Tanti affrontano l’esperienza del concerto impugnando e puntando verso il palco altrettanti smartphone al fine di catturare qualche memoria digitale dell’evento da poter poi condividere sul web. Probabilmente pochi si riguarderanno veramente le riprese effettuate, nel migliore dei casi i più finiranno per caricarne qualche frammento sul web condividendolo con schiere di conoscenti, più o meno virtuali, che, a loro volta, daranno un’occhiata fugace e magari contribuiranno a far girare, a vuoto, in rete il tutto. Nei concerti molti smartphone più che essere puntati verso il palco sono in realtà indirizzati verso i mega-schermi che, a loro volta, diffondono le immagini del palco registrate dall’organizzazione. Sicuramente un primo motivo di tale comportamento può essere individuato nel fatto che, soprattutto negli eventi di grandi dimensioni, il palco è molto lontano e la folla presente intralcia la visione e la ripresa ma, probabilmente, tale pratica è dovuta anche al fatto che il pubblico si è talmente abituato a fruire immagini che trova più interessante osservare, dunque registrare, le riprese elaborate e trasmesse dagli schermi che non “accontentarsi” della piatta visione del palcoscenico. Per quanto la band sia abile nel tenere il palco, non c’è paragone, per chi è cresciuto a riproduzioni di realtà, l’elaborazione offerta degli schermi è molto più accattivante.

Anche in diversi eventi sportivi si è avuta una vera e propria proliferazione di mega screen che trasmettono, in definitiva, ciò che lo spettatore visionerebbe in ambito domestico dal televisore. Alla visione diretta dell’evento si sostituisce la visione della sua spettacolarizzazione televisiva, quasi si fosse alla ricerca di una tele-visione del reale. La realtà sembra dunque essere fruita tele-visivamente in un gioco di specchi in cui ci si allontana sempre più dal reale: riprese di riprese a loro volta caricate sul web che le darà a vedere attraverso monitor.
Risultano davvero tanti gli schermi che si frappongono tra la realtà e la fruizione finale a partire dal monitor del primo apparecchio digitale di registrazione, passando per il grande schermo che diffonde le immagini e via via attraverso il monitor dello smartphone che riprende tale schermo… fino al monitor del computer che le darà a vedere. Sono davvero numerosi i filtri e le inevitabili modificazioni subite da quel frammento di realtà iniziale determinate dai diversi media e dalle scelte dei diversi operatori. Risulta difficile dire quale percezione di realtà sia possibile avere in un contesto di tale tipo.
Descrivendo questo fenomeno per cui le immagini sembrano via via sostituirsi al reale, Marc Augé, (La guerra dei sogni) sul finire degli anni Novanta, per spiegare la frustrazione provata nel percepire chiaramente tale deriva nel disinteresse collettivo, ricorre ad un efficace parallelismo con The Invaders (ABC, 1967/68), la serie televisiva statunitense ideata da Larry Cohen che mette in scena lo sbarco di extraterrestri intenzionati a conquistare il globo sostituendosi pian piano agli esseri umani. Augé, nel denunciare la crescente “messa in finzione” della realtà, afferma di sentirsi un po’ come il protagonista della serie che scopre il segreto della sostituzione ma fatica a convincere di ciò gli altri esseri umani.

Questa reticenza ad affrontare la realtà direttamente senza ricorrere a mediazioni (ri)produttive, aprirebbe numerose questioni su cui varrebbe la pena riflettere. Se, ad esempio, alla “messa in finzione della realtà” abbiamo dedicato spazio [su Carmilla], così come alle difficoltà di realizzare immagini documentarie capaci di fronteggiare la spinta contemporanea tesa alla «progressiva trasformazione dell’immagine in surrogato della realtà e della realtà in surrogato dell’immagine» (I. Perniola, L’era postdocumentaria, p. 98) [su Carmilla], in questo scritto vale la pena soffermarsi sul fenomeno dell’esibizionismo contemporaneo e sulla costruzione identitaria entro cui si colloca la pratica dei selfie.

eterotopie-11x17-codeluppi-metto-vetrina-1A tal proposito, riflessioni interessanti si trovano nel saggio di Vanni Codeluppi, Mi metto in vetrina. Selfie, Facebook, Apple, Hello Kitty, Renzi e altre «vetrinizzazioni», Mimesis, Milano – Udine, 2015, 118 pagine, € 10,00. Tale testo parte dalla presa d’atto di come i nuovi strumenti di comunicazione abbiano moltiplicato le possibilità di produrre e diffondere messaggi ed in particolare quelli che ogni individuo produce su se stesso.
Codeluppi sostiene che tutto ciò può essere fatto risalire alla diffusione settecentesca delle vetrine nelle grandi città e da allora gli individui hanno mutuato tale sistema comunicativo, basato sulla spettacolarizzazione e sull’esibizione dalle merci, applicandolo su se stessi, al fine di comunicare efficacemente a proposito della propria persona.
È vero che gli esseri umani hanno sempre tentato di valorizzare la propria immagine nei confronti degli altri ma ultimamente tale esigenza sembrerebbe essersi resa sempre più impellente, tanto che lo studioso, al fine di definirla, ricorre al termine “vetrinizzazione”, proprio per sottolineare come, nelle competitive società massificate ed urbanizzate, gli individui sentano sempre più urgente il bisogno di costruirsi identità distintive tese alla propria valorizzazione.

Codeluppi individua le radici del selfie nelle pratiche fotografiche ma nel caso del selfie non serve nemmeno un mediatore (il fotografo). Mentre l’antenato “autoscatto” tendeva ad essere essenzialmente privato, come le fotografie prima della diffusione dei nuovi media, il selfie tende ad essere eseguito per essere condiviso. La diffusione degli smartphone, dotati di obiettivo frontale, permette a tutti di aver sempre “a portata di mano” uno strumento in grado di fotografare e condividere tali scatti sul web istantaneamente. Secondo i dati riportati da M. Smargiassi (“La Repubblica”, 09/12/12), su Facebook ogni ora vengono caricati circa dieci milioni d’immagini.
La tendenza alla vetrinizzazione, secondo Codeluppi, deriva dalla necessità dell’individuo contemporaneo di creare e gestire la propria identità. Si tratta di un tentativo di catturare l’attenzione attraverso un adeguamento agli standard di rappresentazione sociale prevalenti nella società. Attraverso la pubblicazione del selfie in internet si cerca una certificazione pubblica della propria esistenza all’interno del web. In riferimento a ciò, da qualche tempo si è diffuso il termine “selfbranding” indicando con esso l’allestimento del proprio sé, la presentazione sociale, la trasformazione della propria soggettività in una realtà d’interesse pubblico.

Avendo a che fare con la fotografia, anche il selfie, sostiene l’autore, ha in qualche modo a che fare con l’immortalità. Le comunità tradizionali tendevano ad attribuire un senso di immortalità a tutti coloro che ne facevano parte; si viveva nella, ci si identifica in e si sopravviveva attraverso la comunità. I processi di modernizzazione e di urbanizzazione hanno frantumato le comunità ed hanno condannato gli individui ad una sorta di atomizzazione di massa. La fotografia, nel corso dell’Ottocento, ha permesso di “immortalare” la propria immagine, dunque ha offerto a tutti la possibilità di costruirsi un monumento. Secondo l’autore il selfie sviluppa le capacità della fotografia di conferire durata e diffusione sociale agli eventi personali, attraverso la fotografia ci si sentirebbe meno effimeri.
Nel selfie risultano importanti le azioni compiute dal soggetto che scatta la foto; davanti all’obiettivo frontale, si compiono movimenti tesi a valorizzare l’individuo e ciò risulta possibile grazie allo schermo che funziona da specchio per la performance messa in atto dal fotografo/fotografato. Nella pratica del selfie lo smartphone è a contatto col corpo ed è normalmente sempre a disposizione dell’individuo. Il selfie concentra l’attenzione su un’inquadratura limitata al volto o alla parte superiore del corpo di chi lo esegue, cioè a quanto è permesso dal porre l’obiettivo ad una distanza “di un braccio” (protesi telescopiche turistiche a parte). L’ambiente perde d’importanza, di esso interessa solo qualche indicazione relativa al luogo in cui si trova il soggetto che è il vero attore principale della “messa in scena”; l’obiettivo è fissare la presenza del soggetto all’interno di un evento. Se il selfie può ricordare la pratica del diario personale che testimonia la quotidianità di chi lo tiene, da esso si differenzia per il fatto che mentre il diario ha solitamente un carattere privato, il selfie per sua natura tende ad associarsi alla condivisione, all’esibizione pubblica.

Se da un lato il selfie può sembrare una risposta all’esigenza di dare consistenza a se stessi, di non essere fantasmi, dall’altro queste immagini contribuiscono a rendere l’individuo sempre più fantasmatico. Nella società contemporanea tutti cercano un pubblico e, spesso, si tende a parlare a proposito del selfie come di una pratica narcisistica. Secondo Codeluppi, però, non sono tanto i selfie, le fotografie o i media stessi a generare narcisismo, è piuttosto il tipo di società contemporanea a determinare il narcisismo in quanto impone condotte individualistiche che richiedono di prestare attenzione a come si è percepiti dagli altri.

Nel testo è riservato uno spazio al mito della trasparenza che sembra guidare la società contemporanea. Se nelle piccole società tradizionali tutti si conoscevano, nelle società di massa urbanizzate si ha a che fare con sconosciuti e per potersi fidare di chi non si consce si è alla ricerca di trasparenza. Negli ultimi tempi sono diversi i luoghi e gli spazi abitativi e di lavoro che si sono smaterializzati esaltando così da un lato l’idea che non si ha nulla da nascondere e, dall’altro, il fatto che sentirsi esposti può contribuire a generare l’idea di non essere soli, di poter sempre contare su una rete di conoscenze che trasmette sicurezza anche se, in realtà, tale rete di relazioni è talmente effimera e debole che difficilmente si può contare realmente su di essa. Il bisogno di trasparenza sembra essersi trasformato in “ossessione sociale” tanto che si è venuta a creare una società di “schiavi della visibilità”. La trasparenza si è, infatti, presto trasformata in vero e proprio “controllo sociale”, in un sistema di coercizione dell’individuo che pare sempre più impegnato a fornire e ad a gestire un’immagine personale adeguata alle richieste sociali.

lifestyleIl senso di solitudine ed isolamento sembrerebbe indurre l’individuo a cercare una platea per rafforzare l’identità e la strategia di vetrinizzazione pare tesa a magnificare e valorizzare se stessi. Però, mette in guardia Codeluppi, «più si celebra online la propria vita, più aumenta la propria insoddisfazione nei confronti di essa» (p. 41) perché si è costretti a rapportare la propria vita reale, non sempre idilliaca, con quella conformista ideologia della positività imperante nei social network che insistono col mostrare vite felici, divertimento, vacanze ecc. Tutti tentano di costruire un’immagine della propria esistenza conforme a quelle comunicate dai network, dunque i profili personali finiscono per assomigliarsi tutti essendo costruiti da un bricolage degli stessi materiali assemblati soltanto in maniera leggermente diversa.
Per quanto riguarda gli usi dei corpi sul web, Codeluppi nota la tendenza a superare le norme morali stabilite e l’indirizzo prevalente sembra essere quello di rinunciare al proprio diritto di privacy in cambio di una maggior efficacia nel comunicare la propria identità, il più delle volte costruita e gestita in maniera da renderla accattivante come richiesto dall’omologazione imperante sulla falsariga di quanto avviene nei reality show composti da (fino a quel momento) sconosciuti. «Rinunciando alla privacy, così, le persone pensano di poter operare come quei personaggi di successo che sono oggetto della loro venerazione» (p. 47).
Anche coloro che diventano celebrità su You Tube, sembrano sempre più votati ad incarnare un modello culturale conformista, il più delle volte “virato al positivo” ove «non è previsto uno spazio per i lamenti e le critiche e tutto dev’essere allegro e spensierato» (p. 47). Inoltre, sottolinea Codeluppi, quello degli youtuber «si presenta come un mondo decisamente consumistico. Un mondo dove ciò che conta è riuscire a raggiungere un certo livello di popolarità per poter firmare dei vantaggiosi contratti con le aziende al fine di promuovere i loro prodotti» (pp. 47-48). Come affermano G. Arduino e L. Lipperini: «devi diventare merce per poter propagandare altra merce, essere sempre connesso, sempre sulla scena, non distrarti mai» (Morti di fama. Iperconnessi e sradicati tra le maglie del web, 2013, p. 47). Codeluppi conclude pertanto che, in base a tale logica, diventa necessario «accettare l’idea che tutto nella vita umana può essere quantificato e dunque può anche essere misurato e valutato. Ed è ciò che oggi sta avvenendo, grazie soprattutto a una progressiva digitalizzazione di ogni cosa. I “like”di apprezzamento o altri indicatori simili sono infatti delle unità di misura del successo davanti al suo pubblico. E, proprio per questo, ciascuno tende a credere che il suo valore come essere umano sia strettamente dipendente da tali indicatori» (p. 48).

In effetti, seguendo il ragionamento di Codeluppi, non stupisce l’ansia da prestazione, la mania di controllare il numero di condivisioni e apprezzamenti che si ottengono con una pubblicazione di immagini o scritti sul web. Alla mania di controllare, magari con una certa frequenza, “il risultato” che si sta ottenendo, andrebbe forse sostituito un ragionamento circa la pratica stessa della condivisione e del giudizio nei social network. A proposito della fruizione della fotografia, Ilaria Schiaffini mette in luce come ultimamente la fruizione sia divenuta «sempre più frettolosa, o “distratta”, per usare le parole di Benjamin: l’utente tende a privilegiare la condivisione dell’immagine rispetto alla sua visione, il commento rispetto alla sua comprensione, e a sostituire l’esperienza diretta con la sua simulazione» (R. Perna, I. Schiaffini, Etica e fotografia p. 12) [su Carmilla]. Probabilmente tale riflessione può essere estesa a tutto ciò che viene caricato sul web, dunque, quando si va alla ricerca spasmodica dei “risultati ottenuti”, occorrerebbe tener presente che, soprattutto sul web, la condivisione sembra essere spesso un modo per rafforzare la convinzione di essere inseriti nel network, più che il risultato dell’analisi di un contenuto e ciò sembra valere tanto per colui che invia materiale, quanto per chi lo riceve e che a sua volta inoltra. Allo stesso modo i commenti non di rado vengono emessi senza che il materiale a cui si fa riferimento sia stato realmente analizzato. Facilmente il commento è “a pelle”, superficiale, non argomentato, così come spesso il materiale caricato è assemblato distrattamente. L’ossessione per il consenso tende, inevitabilmente, a spronare gli individui a caricare ed inoltrare materiali graditi ai più, in un gioco teso all’omologazione più deprimente. Non importa l’ampiezza del network di cui si desidera essere parte riconosciuta. Se è il consenso che si cerca, lo si ottiene più facilmente grazie alla condivisione di ciò che “piace a tutti”, come aveva ben compreso il re della mercificazione Andy Wharol. In altri casi la condivisione ed il giudizio positivo si riferiscono all’autore più che al contenuto da esso pubblicato o trasmesso. Alla celebrità è permesso trasmettere qualsiasi cosa, pochi “perderanno tempo” ad analizzare in profondità il contenuto di ciò che viene trasmesso; i giudizi si riferiranno facilmente a colui che ha emesso il messaggio. Questo lo avevano capito bene tanto Marcel Duchamp, con i suoi palloncini gonfi di “fiato d’artista”, quanto Piero Manzoni, con la sua “merda d’artista” venduta letteralmente a peso d’oro. Da questo punto di vista, per certi versi, ad essere condiviso e giudicato non è il materiale presentato ma l’autore stesso e ciò finisce con l’aumentare il panico in quest’ultimo che si vede così costantemente sotto esame.

Vale la pena riprendere la riflessione di Wu Ming 1 quando, giustamente, mette in luce come sia sterile porsi la questione nei termini di stare dentro o fuori dai social media. «Forse è più utile ragionare ed esprimersi in termini temporali. Si tratta di capire quanto tempo di vita (quanti tempi e quante vite) il capitale stia rubando anche e soprattutto di nascosto (perché tale furto è presentato come “natura delle cose”), diventare consapevoli delle varie forme di sfruttamento, e quindi lottare nel rapporto di produzione, nelle relazioni di potere, contestando gli assetti proprietari e la “naturalizzazione” dell’espropriazione, per rallentare i ritmi, interrompere lo sfruttamento, riconquistare pezzi di vita» (Wu Ming 1, Feticismo della merce digitale e sfruttamento nascosto: i casi Amazon e Apple).

 

 

 

]]>