conversione – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 30 Apr 2025 21:35:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Aisha, Pasqualino e lo scontro di civiltà https://www.carmillaonline.com/2020/05/28/aisha-pasqualino-e-lo-scontro-di-civilta/ Thu, 28 May 2020 21:00:34 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=60463 di Giovanni Iozzoli

Il mio giovane amico e collega Pasqualino è un concentrato antropologico di rara trasparenza. Modenese, figlio di meridionali, bassa scolarizzazione (molto bassa), operaio generico, già segnato da un futuro piuttosto in salita. Il suo eloquio andrebbe studiato in un dipartimento di linguistica: un impasto di italiano televisivo, da bar di periferia, napoletanismi arcaici e gergo da officina padana.

Pasqualino raramente si occupa delle questioni sindacali, che gli sembrano remote e ostiche come la biologia molecolare; né mai si è interessato alle faccende politiche. Da qualche giorno, però, il nostro ha [...]]]> di Giovanni Iozzoli

Il mio giovane amico e collega Pasqualino è un concentrato antropologico di rara trasparenza. Modenese, figlio di meridionali, bassa scolarizzazione (molto bassa), operaio generico, già segnato da un futuro piuttosto in salita. Il suo eloquio andrebbe studiato in un dipartimento di linguistica: un impasto di italiano televisivo, da bar di periferia, napoletanismi arcaici e gergo da officina padana.

Pasqualino raramente si occupa delle questioni sindacali, che gli sembrano remote e ostiche come la biologia molecolare; né mai si è interessato alle faccende politiche.
Da qualche giorno, però, il nostro ha scoperto una passione travolgente per il dibattito pubblico e l’attualità: concentrandosi essenzialmente sulla vicenda del ritorno in Italia di Silvia Romano.
Pasqualino pare abbia sviluppato un’avversione – potente e improvvisa, come un innamoramento – nei confronti di Silvia Romano Aisha. Pasqualino odia Silvia. Ed è riuscito persino a bersi una puntata intera dell’orrido Giletti, dedicata all’argomento, con la pretesa di discuterne il giorno dopo con i colleghi.

Naturalmente Pasqualino ignorava tutto circa l’esistenza di Silvia Romano, fino al giorno della sua sbandieratissima liberazione. Non sapeva neanche che fosse stata rapita, né se ne sarebbe dato gran pena se lo avesse saputo. Di sicuro ignora anche i dettagli a proposito del suo rapimento, il luogo dove è stata catturata, ad esempio – a 80 km dai resort di Briatore –, preferendo pensare piuttosto a un qualche oscuro, infido e misterioso “Medioriente”, come scenario di questa torbida vicenda che tanto lo indigna.

Il ragazzo è buono come il pane. Certe parole dure e sarcastiche sulla sua bocca stridono e lasciano sgomenti. La sua ostilità è il riflesso di discorsi assimilati in famiglia e nel suo circuito di estrema periferia, ancor più immiserito dalla reclusione anticovid; luoghi in cui la convivenza tra ragazzi italiani e stranieri è strettissima ma non pacificata, con tensioni identitarie sottotraccia che permangono, nei parcheggi notturni di polisportive vuote e bowling scalcinati. Del resto lo stesso Pasqualino, pur essendo un nativo, non si sente affatto un autoctono: la sua evidente “napoletanità” lo rende poco avvezzo a frequentare i suoi coetanei emiliani purosangue. Insomma: Pasqualino ce l’ha con Aisha, ma non sta neanche tanto bene con se stesso.

Dunque, considerando che il nostro uomo era totalmente disinteressato alla storia di Silvia prima dell’11 maggio e che se l’avesse conosciuta prima del rapimento non le avrebbe dedicato la minima attenzione, allora viene da chiedersi: perché la sua trasformazione in Aisha l’ha fatto così tanto imbestialire? Chi conosce Pasqualino, resta colpito e meravigliato dalla sua nuova verve (in)civile. Qual è il dispositivo segreto che accende gli animi dei mille “Pasqualini”, stancamente sottomessi dalle dinamiche della vita eppure capaci di insorgere fieramente scoprendo nemicità strampalate?

Mentre Aisha veniva sepolta dalle contumelie degli haters, le diverse anime (organizzate) dell’Islam italiano, la inondavano di video-auguri, complimenti ed effusioni on line. Inutile negare che per ogni associazione o comunità sarebbe un fiore all’occhiello una affiliazione della ormai celebre neo-convertita. Ma c’è anche la curiosità di capire meglio i moventi e le condizioni di questa ragazza: lei ha conosciuto solo un volto del complicato caleidoscopio dell’islam contemporaneo – quello di un salafismo combattente, povero e retrivo -, ma in Italia e in Europa avrà modo di confrontarsi con molti altri mondi, radicalmente diversi sia per consuetudini che per aspetti dottrinali. E’ vero che il conservatorismo prevale nella maggior parte delle moschee italiane, ma sta venendo avanti anche una giovane generazione di ragazzi – e soprattutto ragazze – che stanno ridisegnando la geografia della presenza islamica in Italia. Aisha che farà? Il tipo di imprinting che ha segnato la sua conversione, come si misurerà con questa complessità?

Torniamo al nostro Pasqualino, addetto al montaggio in una piccola aziendina metalmeccanica emiliana. Ho provato a farlo parlare un po’, per capire il senso della sua avversione contro Aisha. In certo casi meglio ascoltare, che imporre omelie democratiche. Mi ha semplicemente ripetuto con veemenza le solite bassezze che si sono sentite in questi giorni in tv o lette su certi giornalacci: perché abbiamo speso quattro milioni per liberare una traditrice? Ed è forse questa la parola chiave, per decostruire il suo discorso. Traditrice. Silvia ha tradito. E’ diventata un’altra. Ha persino somatizzato l’alterità – tanti avranno pensato che non somiglia nemmeno più alla ragazza delle foto pre-sequestro. E’ passata al nemico esibendone persino l’abbigliamento, a mo’ di stendardo saraceno.

Certo, si tratta di un Nemico difficilmente definibile, in termini razionali. Pasqualino si sente davvero in guerra con “l’Islam”? Si, più o meno. Anche se vive in apparente concordia dentro un rione multietnico, in mezzo a centinaia di musulmani, e nulla lo divide concretamente da loro – a parte qualche abitudine alimentare. Pasqualino avrebbe effettivamente più difficoltà a convivere con dei borghesi modenesi. Del resto, lui non conosce granché del suo Nemico, non sa cos’è “l’Islam”, né tanto meno gli interessa molto. Ma nel corso degli anni – quelli cruciali della sua crescita come individuo e cittadino -, con la persistenza di un veleno sapientemente inoculato ogni giorno, gli è stato spiegato che il Nemico esiste, che parla arabo e che rappresenta una minaccia per il suo mondo. Un giovane proletario italiano di trent’anni fa non avrebbe avuto nessun problema ideologico con l’Islam.

C’è da dire che l’operazione di costruzione del Nemico non si è posta solo sul piano (sub)culturale – avrebbe avuto basi troppo labili per resistere a lungo. Piuttosto, tale dispositivo narrativo si è innestato su una frattura naturale, e molto materiale, che si è aperta nella società tra quelli come Pasqualino e i circostanti mondi migranti; suo padre, un edile precario da molti anni, chissà cosa racconterà in casa circa i “ladri di lavoro” stranieri. Ed è proprio questo il terreno minato: l’occupazione degli spazi urbani, l’accesso al welfare e all’edilizia popolare, e soprattutto la competizione al ribasso sul mercato del lavoro, consentita dalle moderne relazioni industriali deregolate. Su questa base miserabile, è fiorita una versione altrettanto miserabile – e caricaturale – del famoso scontro di civiltà. Huntington ne resterebbe mortificato.

Nemico uguale Competitore. Competitore uguale Musulmano. Musulmano uguale Nemico. Una sequenza illogica che, pur conservando una sua dimensione materiale, mischia identità confessionali, etniche e sociali, in un guazzabuglio incendiario. E’ su tali fallaci equazioni che sono state costruite vent’anni di politiche culturali islamofobe: e hanno funzionato nella misura in cui hanno contribuito a frammentare ulteriormente i destini di classe, ai piani più bassi della piramide sociale. In certi stabilimenti industriali, tale separatezza è rappresentata plasticamente dall’organizzazione del lavoro e degli spazi: al piano superiore gli addetti alle reti commerciali e impiegatizie (autoctoni); in produzione, meridionali dalle residue stabilità contrattuali; nella logistica e nei reparti nocivi, stranieri “cooperatori” poveri e precari.

Il discorso islamofobo non è stato rozzo e banale come si pensa, aveva e ha una sua articolazione e qualche elemento di direzione politica. Ai livelli superiori hanno lavorato le star dal pedigree intellettuale, gente come Oriana Fallaci; ai piani bassi hanno picchiato ai fianchi le horror tv berlusconiane e i dispositivi media-onnivori come la Bestia salviniana. Su Carmilla, il nostro Gioacchino Toni tiene una rubrica periodica intitolata Nemico (e) immaginario: Pasqualino potrebbe incarnare la verità storica di questa nemicità immaginaria – il nemico come entità indefinibile, inafferrabile, eppure sempre ben presente nella tua testa, piazzato sul tuo stesso pianerottolo, solo apparentemente inoffensivo e cordiale, in attesa di colpirti alle spalle ed estrometterti da quel poco che hai.

Torniamo ad Aisha. L’opinione pubblica democratica e la stampa perbenista, hanno ovviamente dichiarato solidarietà a Silvia Romano, per gli attacchi subiti a causa della sua conversione. La maggior parte dei commentatori ne ha accettato con qualche perplessità le scelte; qualcuno, condiscendente ma molto dubbioso, ha evocato in modo sottile la necessaria verifica psichiatrica. In generale si cerca di tenere in piedi la maschera liberale che esalta la sacralità della libera scelta individuale. Il problema di questo approccio è il paternalismo di fondo: una tolleranza esibita verso modelli giudicati arretrati e indigeribili, ma che per il momento è più saggio rispettare, destinati come sono ad essere superati dialetticamente dallo sviluppo storico.

E’ una visione fiduciosamente positivista e ingenuamente illuministica: la religione è solo un ritardo dei popoli – “oppio e consolazione”, diceva Marx. Lasciamogli indossare il velo, perbacco. Prima o dopo quel velo cadrà, sotto la spinta della estetica della “libera società dei consumi” (non era proprio quello che si aspettava Marx) e finalmente potranno diventare come noi. La fascinazione fatale non ha già funzionato per i popoli ad est del Muro? Anche una parte del micromondo femminista condivide questo approccio. In generale presumiamo di essere il punto più avanzato di una linea retta e unilaterale di progresso e civilizzazione, che vede nel nostro modo di vivere, di essere uomini e donne del XXI secolo, lo stadio più avanzato e luminoso. Il progressista medio ama il mito del “buon selvaggio” da emancipare, tanto quanto il missionario è convinto della ineluttabilità della conversione.

Mentre lo xenofobo vorrebbe allontanare il diverso, l’illuminista é certo della sua assimilazione. Per entrambi la strada è segnata: il “pacchetto Occidente” va accettato in pieno, senza riserve, e nessuno sfuggirà all’eccelsa medicina – con le buone o con le cattive. E’ per questo che i popoli del sud del mondo, pur invidiando il nostro modello sociale e affrontando autentiche odissee per condividerlo, restano piuttosto diffidenti verso il sistema di valori che il nostro immaginario collettivo lascia trasparire: le nostre fiction, il nostro stile di vita sempre più slabbrato e scollato dalla quotidianità, dalla terra, dalla realtà, dalle cose essenziali che non sappiamo più riconoscere. Siamo diffidenti verso lo straniero, però consegniamo in mani straniere le cose più preziose che abbiamo – bambini e anziani, futuro e passato: anche nella xenofobia, offriamo di noi un’idea un po’ schizofrenica.

Nizza, 24 agosto 2016. A pochi passi dalla Promenade des Anglais, dove poche settimane prima c’è stata una sanguinosa strage terroristica, un nucleo di polizia interviene prontamente sulla spiaggia. Non sta sventando un attentato. Sta multando una signora che ha fatto il bagno ed è seduta sulla sabbia in burkini – un velo sulla testa e un paio di fuseaux. La polizia, inflessibile, le rammenta che in spiaggia è obbligatorio spogliarsi sulla base di un ordinanza del sindaco che impone – in un rovesciamento parossistico dei nostri anni ’50 – “il decoro dei costumi”. Succederà anche a Cannes e in altre località. Spogliarsi non è più una scelta ma un obbligo, un codice d’accesso necessario a condividere lo spazio pubblico. La gloriosa Repubblica affida a poliziotti da spiaggia quel che resta della sua grandeur: il tramonto dell’Occidente si misura sui centimetri di cosce e di glutei femminili esibiti sotto minaccia di multe ed ostracismo. Una rozzissima rappresaglia “anti-Islam” che però, sotto sotto, dice anche molto sulla condizione della donna: in Occidente, non “in Islam”.

Ma perché, secondo Pasqualino, Silvia va considerata una traditrice? Cos’è di preciso che ha tradito? Se il nemico è abbastanza indefinibile – musulmani sono i terroristi del Bataclan, ma anche i padroni del Paris Saint Germain e pure il suo gentile vicino di casa e i suoi colleghi di officina con cui cazzeggia tutto il giorno – anche il “suo” campo, quello che vorrebbe difendere, è tutt’altro che distinto e perimetrato. L’Italia? L’Occidente? Il cristianesimo popolare delle Madonne e di Padre Pio, tanto caro ai suoi nonni ma da cui lui non si sente attratto? Quali sono i due mondi in lotta? In questo delirio polisemico, per delimitare campi così ingarbugliati, Bin Laden andò a recuperare la parola “crociato” – salibyon – con cui definire gli americani, un termine che in arabo non ha neanche un vero e proprio corrispettivo (nella storiografia musulmana non esiste l’epopea delle “Crociate”). Quindi, tra crociati e neoconvertiti, Pasqualino si ritrova solo e sempre più confuso. Costretto a tagliare con l’accetta la sua vita e le sue appartenenze. E alla fine ritorna la domanda centrale: chi o cosa ha tradito, quella benedetta figliola che ora si fa chiamare Aisha?

Un paio di anni fa, una giovane ragazza si presentò in un centro islamico di Modena e chiese informazioni sull’Islam, da cui si sentiva attratta. Le spiegarono alcune cose e lei andò via soddisfatta. Il giorno dopo arrivò il padre, incazzato, a chiedere conto ai dirigenti della Moschea; gentilmente gli spiegarono che la ragazza era venuta con le sue gambe, che nessuno era intenzionato a plagiarla e che del resto era maggiorenne. E poi, gli chiesero con garbo, che male ci sarebbe se la giovane si interessasse all’Islam? Il padre, furente, gridò: meglio morta che musulmana! E non era una invettiva o una deplorevole iperbole. Per quel genitore, come per la maggior parte delle persone normali, la scoperta di una figlia tossicodipendente o prostituta o narcotrafficante o rapinatrice, stimolerebbe, dopo lo sconcerto iniziale, un moto di comprensione, il tentativo di recupero, di protezione, una interrogazione sulle proprie responsabilità. Ma davanti alla figlia musulmana, il senso di rottura irreversibile, di repulsione, di perdita, sarebbe enorme, non sopportabile. Quindi Pasqualino non è poi così sconclusionato, nella sua avversione. Essa è radicata nella società. Da noi non abbiamo dei movimenti esplicitamente anti-musulmani come Pegida; abbiamo piuttosto una “Pegida” diffusa, non organizzata ma non meno viscerale. La stessa parola Islam ha assunto un potenziale esplosivo, divisivo: è forse la categoria storico politica più dirompente e problematica dell’età contemporanea.

Silvia, diventando Aisha, ha effettivamente tradito “qualcosa”: un ethos comune, uno spirito dei tempi che vede nell’Islam un nemico irriducibile; e non è solo una roba da giornalismo sottoproletario alla Vittorio Feltri; l’Islam è pericoloso perché contrasta la concezione iperliberale dell’individuo padrone di sé e del mondo, signore dei mercati, performante, all’inseguimento furioso del conseguimento economico come fonte di senso esistenziale. Da questo punto di vista, l’Islam è oggettivamente una sopravvivenza “nociva al progresso” – con le sue priorità estranee all’imperativo economico, agli attaccamenti mondani, la repulsione per la logica finanziaria, una certa idea di destino e di “lentezza”, che era propria degli antichi.

Il monoteismo assoluto della Tecnica, i derivati, l’autorealizzazione dell’Io, il Prozac, il neo schiavismo liberista, la corsa demente alla catastrofe ecologica, il solipsismo metropolitano tutto spritz, palestra e distanziamento affettivo. Questi sono alcune degli elementi valoriali grazie a cui vorremmo convertire i barbari. E viene da ridere pensando che in realtà la maggior parte dei musulmani già convive perfettamente con questi fondamenti della modernità: anzi, quelli che esibiscono arcaismi pseudo-shariatici, sono coloro che in realtà si trovano più a loro agio nel mondo peccaminoso che l’Occidente gli ha squadernato davanti.

Il 20 novembre 1979, Muhamed Saif al Otaybi, notabile saudita, alla guida di un commando formato da alcune centinaia di insorti, si barrica nella Grande Moschea della Mecca, prendendo in ostaggio migliaia di pellegrini. E’ una profanazione senza precedenti ed un trauma per tutto il mondo arabo. Il re e il gruppo dirigente saudita, capiscono che scricchiolii pesanti stanno minando il trono d’oro su cui sono seduti: gli insorti li accusano di rammollimento filo occidentale. La Moschea viene espugnata dopo due settimane, i capi degli insorti giustiziati, ma le petrolmonarchie sanno che è arrivato il momento di uscire, metaforicamente, dai salotti. Era necessario lanciare un vero e proprio Jhiad che ricostruisse la propria verginità politico-religiosa e una qualche funzione di leadership dentro il mondo sunnita, dirottando verso un nemico esterno le energie ribollenti del mondo arabo. Ma chi doveva combattere, per loro, questa guerra assai poco santa?

La scelta cadde sui montanari afghani e l’Afghanistan divenne il terreno di una carneficina di lunga durata: da quel momento un fiume di milioni di petrol-dollari si riversò sugli altipiani sabbiosi, per trasformarli in una micidiale trappola antisovietica. Stravolgendo la vita, la cultura secolare e il tessuto sociale di villaggi e città. Gli Usa fecero altrettanto, nel più grande sforzo economico mai prodotto dai tempi del Vietnam. Nessun giovane rampollo saudita era però disposto ad andare a combattere e rischiare la pelle insieme ai rozzi pashtun; l’unico disponibile fu il giovane silenzioso figlio del costruttore yemenita Bin Laden, che portò tra le montagne afghane la bandiera saudita, rinnovando i suoi buoni rapporti (anche di business familiare) con gli americani. Il “data base” dei combattenti a libro paga della Cia si chiamava Al Qaeda. Poi divenne altro. Da lì comincia la storia del Jhiadismo contemporaneo e si sviluppa incontrollabilmente quella del salafismo: un fenomeno moderno, iperpolitico, ad alimentazione esogena.

Il salafismo combattente costituisce oggi un esercito di mercenari al servizio dei soliti noti attori: Arabia Saudita, Emirati, Turchia, Pakistan e naturalmente Usa e Israele, che impiega queste truppe in geometrie ad alleanze variabili, tra Siria, Iraq, Libia e Corno d’Africa. Lanciano guerre, guerriglie, destabilizzano governi, massacrano prevalentemente i musulmani (stando sempre ben attenti a non sparare una pallottola verso Tel Aviv). E aprono la strada ai bombardamenti umanitari e alla occupazione militare occidentale. La massa di risorse di cui dispone questo esercito – fatto anche di predicatori, madrasse, Ong, televisioni, uso spregiudicato del web: una Bestia versione salafita – ridisegna l’antropologia dei popoli, “wahabizza” interi territori, crea danni difficilmente reversibili. Basti vedere come hanno ridotto l’Afghanistan, 40 anni dopo il sedicente Jhiad. Tra queste bande mercenarie, gli Al Shabab che hanno rapito Silvia hanno un loro ruolo preciso, di ascendenza emiratina, per la precisione. E tutti costoro – Jhiadisti e Pasqualini – sono figure tragiche della crisi della modernità, non residui del passato.

E qui torniamo ad Aisha. Lei si è rivelata effettivamente una traditrice: ha tradito il vuoto pneumatico e il disperato nichilismo delle nostre “movide” metropolitane; ha tradito le estetiche conformiste e seriali; ha tradito il primato del denaro, del successo, e tutta l’ipocrisia neo coloniale dell’Occidente che avrà misurato e toccato con mano, già da volontaria, in mezzo alla miseria africana. C’è da augurarsi che la traditrice Silvia possa un giorno fornire il suo piccolo contributo nello sforzo di edificazione di un Islam europeo – mistico e colto, l’unico possibile nell’Occidente affamato di spiritualità –, che sarebbe una risorsa per questo continente, non un pericolo, fuori da ogni retorica “buonista”. Una storia che sta già dentro le radici d’Europa, nella nostra geografia, nella nostra cultura, nella nostra letteratura (come ben sa ogni liceale). Intanto, bentornata a casa, Silvia-Aisha.

]]>
Dylan il trasfigurato https://www.carmillaonline.com/2018/02/01/dylan-il-trasfigurato/ Wed, 31 Jan 2018 23:01:56 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=43025 di Sandro Moiso

Renato Giovannoli, La Bibbia di Bob Dylan. Volume I (1961 – 1978). Dalle canzoni di protesta alla vigilia della conversione, Àncora Editrice 2017, pp. 378, € 26,00 e La Bibbia di Bob Dylan, Volume II (1978 – 1988). Il “periodo cristiano” e la crisi spirituale, Àncora Editrice 2017, pp. 332, € 26,00

E’ un’opera monumentale quella cui ci troviamo di fronte con il lavoro di Roberto Giovannoli da poco pubblicato dalla casa editrice Àncora. E lo è ancora di più se si considera che dovrà essere completata da un terzo volume, previsto per la primavera di quest’anno, dedicato [...]]]> di Sandro Moiso

Renato Giovannoli, La Bibbia di Bob Dylan. Volume I (1961 – 1978). Dalle canzoni di protesta alla vigilia della conversione, Àncora Editrice 2017, pp. 378, € 26,00 e La Bibbia di Bob Dylan, Volume II (1978 – 1988). Il “periodo cristiano” e la crisi spirituale, Àncora Editrice 2017, pp. 332, € 26,00

E’ un’opera monumentale quella cui ci troviamo di fronte con il lavoro di Roberto Giovannoli da poco pubblicato dalla casa editrice Àncora. E lo è ancora di più se si considera che dovrà essere completata da un terzo volume, previsto per la primavera di quest’anno, dedicato agli anni compresi tra il 1988 e il 2012, che si intitolerà “Un nuovo inizio e la maturità” e comprenderà al suo interno gli indici delle canzoni, degli autori citati, dei temi, dei simboli e dei personaggi oltre a quelli delle Scritture citate in tutti e tre i volumi.

Più ancora che di fronte a un testo sulla presenza della Bibbia nell’opera del premio Nobel per la letteratura, ci troviamo davanti ad un’autentica Bibbia sull’opera di Bob Dylan, poiché per portarla a termine Giovannoli, ricercatore indipendente nel campo dei cultural studies ed autore di numerosi studi sul rapporto tra cultura popolare e cultura “alta”, ha osato fare ciò che nessun altro studioso aveva osato fare: analizzare l’intero corpus dylaniano sia mettendolo in rapporto con le sue radici popolari e dotte, sia andando ad identificare ogni possibile riferimento (frasi, canzoni, testi sacri) da cui il menestrello di Duluth ha tratto spunto per i suoi testi.

Una simile operazione era stata svolta in maniera sistematica soltanto da Greil Marcus nel suo Invisible Republic –Bob Dylan’s Basement Tapes nel 1997,1 che però si occupava esclusivamente delle circa 130 canzoni, scritte o rielaborate da Dylan e dai membri della Band durante il primo allontanamento dalle scene nel 1967, da cui sarebbero state poi tratte quelle che avrebbero dato vita nel 1975 all’omonimo album: The Basement Tapes.

Sempre Greil Marcus aveva scavato a fondo in una singola canzone di Dylan, Like a Rolling Stone, in un altro suo testo,2 ma nonostante le numerose opere dedicate all’autore americano, in Italia e all’estero, nessuno aveva mai osato spingersi così lontano e così in profondità nell’esegesi dell’opera dylaniana.

Come afferma Alessandro Carrera, un altro importantissimo studioso dell’opera di Dylan, 3

“Questo libro di Renato Giovannoli […] è una cosmologia di riferimenti, agganci, colpi di sonda, esplorazioni, ipotesi e dimostrazioni che stringono l’intera opera di Dylan in un solo covone, legato troppo bene per essere portato via da qualunque colpo di vento. Tante introduzioni sono possibili a Dylan; musicali, poetiche, sociologiche, politiche. Ma la Bibbia è l’accesso privilegiato, e questa mia premessa alla più generale introduzione articolata da Giovannoli non ha altro scopo se non inquadrare la religione secondo Dylan nel contesto dell’immaginazione spirituale della sua terra, in relazione ai tempi e al clima culturale che lo hanno formato come artista. Per l’esplorazione vera e propria, avrete a disposizione la mappa/territorio che Giovannoli ha approntato – un’opera unica, mai tentata finora in nessun’altra lingua, e che sarà molto difficile, se non impossibile, eguagliare.”4

Non a caso Carrera incrocia immaginario americano e religione, poiché se vi è una cultura che fin dalle sue origini, nel bene e nel male, sia a livello popolare che “colto”, è stata influenzata dalla narrazione biblica questa è stata sicuramente quella dell’America Settentrionale. In cui la data più appropriata per indicare simbolicamente il tempo dell’arrivo delle Sacre Scritture sembra essere quella dell’11 novembre del 1620, quando i Padri Pellegrini imbarcati sulla Mayflower, una nave partita da Plymouth in Inghilterra due mesi prima, sbarcarono erroneamente sulle coste del Massachusetts, essendo in realtà diretti verso la prima colonia del Nord America, Jamestown in Virginia fondata nel 1607.

Si trattava di rigidi puritani che si proponevano di purificare il culto della chiesa ed erano del parere che non bastasse separarsi dalla Chiesa di Roma, ma che si dovesse eliminare ogni traccia del cattolicesimo romano.
Perseguitati sia sotto il regno di Giacomo I Stuart che, successivamente, in Olanda, dove inizialmente avevano trovato rifugio, decisero di lasciare l’Europa e di iniziare una nuova vita in Nord America. Da qui è facile comprendere come il discorso biblico della Terra Promessa, e successivamente del Popolo eletto, avrebbe finito con l’influenzare le comunità che andarono istituendosi lungo le coste dell’Atlantico.

Anche se tale discorso finì troppo spesso col costituire una giustificazione per le prevaricazioni e le violenze nei confronti dei nativi americani, delle donne, degli schiavi africani là deportati e di tutti i rappresentanti delle ondate migratorie successive non appartenenti al gruppo WASP (White-AngloSaxon-Protestant), va però compreso come tale promessa di realizzazione collettiva ed individuale in una terra libera dalle catene dell’Ancien Régime finisse col tracimare all’esterno della cultura “bianca” e benestante dei commercianti e dei possidenti terrieri ispirati dal calvinismo, per cui l’accrescimento delle ricchezze collimava con il progetto divino di premiare i migliori, e riversarsi anche nell’immaginario degli strati più umili e non solo bianchi della popolazione.

Il gigantesco serbatoio mitopoietico della narrazione biblica, costituito da eroi, profeti, re, fughe dalla schiavitù, malvagi, guerre, traditori, donne dissolute, popoli in cammino nel deserto, vendette, punizioni divine, sacrifici, fede, promesse di salvezza, demoni, sepolcri, cadute dal Paradiso terrestre, redenzioni, diluvi e visioni apocalittiche ed ultramondane fornì quindi un materiale immenso per le narrazioni, le poesie, le canzoni, le ballate e gli insegnamenti per un popolo ancora disperso lungo le pianure del Midwest o della Valle del Missouri. Dalle Montagne Rocciose al Mississippi e alle piantagioni del Sud dove, spesso, padroni e schiavi, privati della loro iniziale identità culturale, finivano con l’attingere ispirazione dalla stessa fonte. Motivo per cui ancora oggi i membri del Tea Party e gli afroamericani appartenenti alle differenti congregazioni religiose possono far riferimento, da sponde opposte e con obiettive diversi, agli stessi inossidabili versetti.

Così mentre i contenuti illuministici della Dichiarazione di Indipendenza e della Costituzione americana sembrarono rimanere relegati alla Costa orientale, lungo la quale si erano diffusi tra i nuovi ceti borghesi, la Bibbia accompagnò gli spostamenti verso Ovest in un contesto in cui la cultura era ancora prevalentemente orale e le forme giuridiche della società traevano ancora spunto dalla consuetudine più che dal diritto scritto. In un contesto naturale e geografico in cui l’uomo bianco cristiano sarebbe andato incontro ai suoi demoni e a quelli suscitati in lui dalle poche letture che si sarebbe portato dietro.

Che poi, di volta in volta, il testo delle Scritture e il significato stesso delle parole potesse essere piegato o storpiato per motivi di interesse o di scarsa comprensione (talvolta anche e banalmente linguistica) non impedì al testo biblico di liberarsi dall’esegesi di carattere religioso per farsi carne e sangue di una cultura umile, rigida e condivisa in cui, probabilmente, a trionfare fu spesso il dio vendicativo del Vecchio Testamento più che quello della salvezza dei vangeli. Motivo per il quale, nella stessa, rimase costante la presenza della morte, del castigo e della lontananza, forse dell’impossibilità, del perdono e della salvezza se non per i pochi predestinati. Una visione drammatica del destino individuale di cui molte canzoni popolari statunitensi costituiscono ancora la testimonianza.

Forse anche per questo, come ebbe a dire D.H. Lawrence: “Nella sua essenza, l’anima americana è dura, solitaria, stoica e assassina. Finora non si è mai ammorbidita”. Lo prova tutta la grande letteratura statunitense. Dal capitano Achab di Melville ai fantasmi di Edgar Allan Poe (rispetto ai quali i fantasmi europei di Horace Walpole sembrano i personaggi di un innocuo racconto per ragazzi), fino alle inquietanti storie di Nathaniel Hawthorne e ai mostri di H.P. Lovecraft oppure al vitalismo impregnato di morte di Hemingway e alle violente, e prive di speranza, storie western di Cormac McCarthy.

Ma anche nella popular music, da Hank Williams a Elvis Presley, dagli spiritual a Johnny Cash, dal gospel e dal blues a Bob Dylan, dalla musica soul alle murder ballads dell’Ottocento e del Novecento, non vi è ambito che non sia stato in qualche modo investito da quella tradizione. Motivo per cui Dylan, come autorevole rappresentante della cultura americana del ‘900, non ha potuto né tanto meno si è mai sognato di sfuggire a quel pressante imperativo della cultura popolare.

Bob Dylan, vero nome Robert Allen Zimmerman, è come tutti sanno di origini ebraiche ed è chiaro che per molti versi la narrazione biblica del Vecchio Testamento appartiene forse più a quella cultura che non a quella cristiana, ma più che questa supposta, e mai chiarita, vicenda dell’influenza religiosa sulla famiglia Zimmerman,5 certo è che fin dai suoi primi anni il giovane futuro poeta e cantore è stato immerso nella cultura proletaria e provinciale della piccola città del Minnesota che gli ha dato i natali, dove ancora nel 1920 erano stati linciati tre afroamericani accusati dello stupro di una donna bianca (con successiva e relativa vendita della cartolina ricordo dell’evento qui riprodotta). L’incontro non ancora ventenne con la musica di Leadbelly e successivamente dei neri americani e dei folk singer bianchi ha poi fatto il resto. Di cui il lettore potrà trovare tutti i percorsi e le tracce nella dettagliatissima ricerca e ricostruzione filologica condotta da Giovannoli.

Se questa costituisce la parte più copiosa e rimarchevole del testo, ce n’è un’altra, che si sviluppa proprio a partire dalla sua “conversione” dichiarata al cristianesimo evangelico, altrettanto utile per comprendere ed inquadrare quella che è e rimane una delle figura più contraddittorie e sfuggenti della musica e della cultura, non più soltanto popular, americana.
Ed è ancora una volta Carrera ad introdurla quando, ricordando le stesse parole di Dylan a proposito della sua repentina, conversione alla fede cristiana, parla di trasfigurazione ovvero di rinnovamento totale, spirituale e fisico, del neo-convertito. Che dopo essere stato battezzato nel gennaio del 1979, si iscrisse ad un corso trimestrale di lettura biblica in una chiesa di Reseda, in California. “Avevo sempre letto la Bibbia, ma per me era letteratura. Non ero mai stato istruito in maniera tale che per me divenisse significato”, avrebbe ancora affermato in seguito.6

La trasfigurazione nel discorso biblico ha direttamente a che fare che la rivelazione del carattere divino di Gesù agli Apostoli, ma serve anche benissimo a chiarire, credo sinceramente e una volta per tutte, il vero segreto del peregrinare musicale e personale di Dylan. Dal suo incontro col rock’n’roll di Buddy Holly quando non è ancora diciottenne ai dischi di Leadbelly che lo condurranno verso Woody Guthrie e gli altri eroi del folk americano; dalla scoperta del comunismo attraverso la famiglia militante di Suze Rotolo (la ragazza fotografata insieme a lui sulla copertina del suo secondo album Freewheelin’ Bob Dylan) alla rinuncia al suono acustico a favore di quello elettrico che lo farà andare incontro alle ire di Pete Seeger e dei suoi fan tra il 1965 e il 1966. Dalla riscoperta della country music di Nashville attraverso l’amicizia con Johhny Cash alla zingaresca carovana della Rolling Thunder Review che lo vedrà andare ancora in tour con Joan Baez, Ramblin’Jack Elliott, Allen Ginsberg e Sam Shepard (solo per citare alcuni dei comprimari di quella storia) in una sorta di riscoperta dei Medicine Show dell’Ottocento e del vagabondare dei Beat degli anni cinquanta. Dalla riscoperta della musica nera, in tutte le sue forme o quasi, all’attuale passione per il grande American Songbook degli anni Trenta e Quaranta e la senile passione per l’interpretazione delle canzoni di Frank Sinatra.

All’interno di questa storia di continue, vertiginose e inaspettate mutazioni, la vicenda della conversione religiosa tra il 1978 e il 1981 è sicuramente centrale. Da questo punto di vista il cofanetto di 8 cd recentemente pubblicato dalla Sony nella Bootleg Series, di cui costituisce il tredicesimo volume, è particolarmente utile per comprendere l’impeto, la passione, la forza creativa con cui Dylan affrontò questa ennesima e centrale trasformazione. Poiché è proprio attraverso le riprese dei concerti dal vivo tenuti in quel periodo, contenute nel film-documentario Trouble No More che accompagna il cofanetto dallo stesso titolo, è possibile vedere, sentire , comprendere quella autentica energetica e vitale trasfigurazione che accompagnò quel momento.

“Dylan ha attraversato una fase di attivismo predicatorio nel biennio 1979-1980, quando i suoi spettacoli erano diventati una successione di canzoni, prediche e invettive nella più pura tradizione dei preacher afro-americani degli Stati del Sud, che sono pastori e performer allo steso tempo.[…] Il quietismo non è mai stato parte di ciò che Dylan è, qualunque cosa Dylan sia, ma molte altre fasi sono seguite, caratterizzate da un uso a volte confuso ma sul lungo periodo sempre più consapevole, sottile, spesso poeticamente e teologicamente polivalente, delle fonti bibliche e del loro uso nella tradizione musicale americana. E’ qui che abbiamo bisogno dell’aiuto di Renato Giovannoli” 7

Giovannoli ci guida infatti in un’autentica Biblioteca di Babele folk-rock-blues-gospel in cui il fraseggio biblico si accompagna alle voce delle coriste afro-americane che accompagnarono Dylan durante le tournée di quegli anni e al fraseggio delle chitarre elettriche che sottolineavano brani come Solid Rock oppure al suono dell’organo Hammond che sottolinea i versi di Slow Train o Gotta Serve Somebody.

E allora si comprende che tutto il percorso di Dylan è il frutto di una continua trasfigurazione, in cui tutto cambia: le canzoni, la voce, l’aspetto fisico dell’ex-menestrello. Non per calcolo, ma per autentico cambiamento, in cui il protagonista è trascinato da una forza più grande, che di volta in volta si manifesta sotto forma di autentica passione: per il rock’n’roll, la musica nera, il folk, la spiritualità del gospel e del soul, la voce di Sinatra o le parole di Woody Guthrie, ma che ogni volta Dylan deve fare completamente sua per poi esaurirla e passare ad altro. Like a Rolling Stone, come una pietra che rotola.

Ecco allora anche la spiegazione del suo rifiuto di interpretare sempre le stesse canzoni e allo stesso modo (magari quello desiderato dai fan), la sua noia nei confronti dei giornalisti, dei critici e di tutti coloro che lo vorrebbero inquadrato una volta per tutte in un clichè. Da cui rifugge da sempre non come poseur, per snobismo o per amore della trasgressione, ma per semplice desiderio di ricerca e di cambiamento. Mai sazio. Mai finito. Mai definitivamente soddisfatto.

Conscio, come si coglie ancora dal testo in questione, di avere un destino da compiere. Come Dylan stesso ha affermato in un’intervista rilasciata a Ed Bradley della CBS, il 5 dicembre 2004: “E’ la sensazione si sapere di sé stessi che nessun altro sa, di sapere che quell’immagine di te che hai mente si realizzerà. E’ una cosa da tenere per sé, perché è una sensazione fragile, Se la si mette in mostra, qualcuno la ucciderà”8

Verrebbe da dire di Dylan ciò che Glenn Gould, altro genio sfuggente, ebbe a dire di Richard Strauss: “un uomo che arricchisce la propria epoca perché non le appartiene e che parla per ogni generazione perché non si identifica con nessuna”.9 Mentre questa sua inafferrabilità lo avvicina ai personaggi del Mito, che lui stesso ha per così tanto tempo impiegato e rimaneggiato nelle sue canzoni, sempre inavvicinabili e mai completamente comprensibili se non per un simbolo forte e sempre riconoscibile: nel suo caso la canzone popolare in tutte le sue possibili declinazioni.

Vorrei, alla fine di questo excursus, ringraziare sinceramente non soltanto l’autore ma anche la casa editrice Àncora per la coraggiosa scelta di pubblicare un’opera fino ad oggi impensabile, mettendo a disposizione del pubblico una ricerca utilissima per tutti coloro che non solo vogliano avvicinarsi al “mistero” Dylan, ma più in generale ad una migliore, meno superficiale e meno scontata conoscenza della cultura americana. Popolare e non.


  1. Tradotto in Italiano come Bob Dylan. La repubblica invisibile, Arcana Editrice 1997  

  2. Greil Marcus, Like a Rolling Stone. Bob Dylan at the Crossroad, 2005, tradotto in Italia come Like a Rolling Stone, Donzelli 2005  

  3. Alessandro Carrera è professore di Italian Studies e di World Cultures and Literatures all’Università di Houston, in Texas, e ha tradotto per Feltrineli tutte le canzoni di Dylan nel monumentale Lyrics in tre volumi (2004 – 2016 – 2017), il primo volume delle Chronicles (2004) e revisionato la traduzione di Tarantula (2007) sempre di Dylan, pubblicati dalla stessa casa editrice, oltre ad aver pubblicato, sempre per Feltrinelli, La voce di Bob Dylan. Una spiegazione dell’America (2001). Ha inoltre curato un’antologia di articoli e saggi, Parole nel vento. I migliori saggi critici su Bob Dylan, pubblicato da Interlinea Edizioni nel 2008 e l’edizione italiana della Nobel Lecture di Dylan ancora per Feltrinelli nel 2017  

  4. Alessandro Carrera, Bob Dylan e la religiosità americana, saggio introduttivo a Renato Giovannoli, La Bibbia di Bob Dylan, Volume I, pp. 7- 8  

  5. Lo stesso Dylan avrebbe affermato in un’intervista rilasciata nel 1978: “Non mi considero né ebreo né non ebreo. Non ho una formazione ebraica. Non prendo partito per nessun atto di fede. Credo in tutti e in nessuno”. Cit. in A.Carrera, Bob Dylan e la religiosità americana, pag. 10  

  6. Cit. in A. Carrera, op. cit. pp. 11-12  

  7. Alessandro Carrera, op. cit. pag.19  

  8. Citata in A. Carrera, op. cit. pag. 8  

  9. cit. in Mario Bortolotto, Equivalenze puritane, prefazione a Glenn Gould, L’ala del turbine intelligente. Scritti sulla musica, Adelphi 1988 (ottava edizione 2013), pag. XXII  

]]>
Il patto col demonio prima di Faust https://www.carmillaonline.com/2017/01/03/il-patto-col-demonio-prima-di-faust/ Mon, 02 Jan 2017 23:01:27 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=34987 di Gioacchino Toni

cover_antenati-faustAlfonso D’Agostino, Gli antenati di Faust. Il patto col demonio nella letteratura medievale, Mimesis edizioni, Milano – Udine, 2016, 122 pagine, € 10,00

L’interessante saggio di Alfonso D’Agostino tratta le narrazioni dei patti che gli esseri umani stringono con il maligno – per sete di conoscenza, di potere, di ricchezza o di sesso – nella letteratura medioevale. Si tratta di uno studio di tipo letterario su un tema antropologicamente significativo concentrato sui tipi narrativi che anticipano la comparsa di Faust. Ad essere prese in esame sono fondamentalmente la letteratura latina [...]]]> di Gioacchino Toni

cover_antenati-faustAlfonso D’Agostino, Gli antenati di Faust. Il patto col demonio nella letteratura medievale, Mimesis edizioni, Milano – Udine, 2016, 122 pagine, € 10,00

L’interessante saggio di Alfonso D’Agostino tratta le narrazioni dei patti che gli esseri umani stringono con il maligno – per sete di conoscenza, di potere, di ricchezza o di sesso – nella letteratura medioevale. Si tratta di uno studio di tipo letterario su un tema antropologicamente significativo concentrato sui tipi narrativi che anticipano la comparsa di Faust. Ad essere prese in esame sono fondamentalmente la letteratura latina medievale e le letterature romanze dell’Età di Mezzo, pur non mancando riferimenti ad alcuni testi in altre lingue (es. greco) e di altri periodi (es. il teatro barocco).

A tale scopo l’autore, docente di Filologia romanza presso l’Università degli Studi di Milano, passa in rassegna tanto capolavori letterari – come Cantigas de Santa María di Alfonso X, Miracoli di Gautier de Coinci, Miracolo di Teofilo di Rutebeuf, Conde Lucanor di Juan Manuel, Libro de buen amor di Juan Ruiz, El mágico prodigioso di Calderón de la Barca… – quanto testi che, pur affrontando la tematica indagata, risultano di minore qualità letteraria.

The Tragical History of Doctor Faustus (ca. 1590) di Marlowe e Faust (1808) di Goethe hanno reso la vicenda di Faust “il patto col demonio per antonomasia” generando una miriade di varianti successive. D’Agostino sottolinea come la creazione di Marlowe, sicuramente debitrice di una lunga tradizione medievale, riesca a dar vita, «sulla base di una struttura testuale dai tratti fantastici, a un complesso sistema di potenzialità che avrebbe incrociato alcuni dei temi più scottanti della riflessione filosofica e dell’ispirazione artistica presenti e futuri. In primo luogo, la meditazione etica sulla scienza (da un lato) e le teorie dell’Uebermensch (ossia del Superuomo, dall’altro) assimilano a volte scienziati folli (o “stregoni”) e superuomini a Faust novelli, innescando non di rado procedimenti narrativi come quello fantascientifico degli universi paralleli o quello moral-metafisico del Doppelgänger (la figura del “doppio”). Ma […] anche la passione amorosa, il denaro e la volontà di potenza sono rappresentati sovente come daimones (spiriti, guide od ossessioni semi-divine) in grado di soggiogare l’animo umano. E nelle metamorfosi del tema s’inseriscono pure le tensioni polari fra libero arbitrio e necessità, fra titanismo e melancolia, fra pentimento e conversione» (p. 10).

patto-col-diavolo1

1. Un mago conduce Teofilo presso il diavolo che gli consegna un cartiglio con un sigillo: il patto è siglato – Taymouth Hours (Inghilterra, prima metà del XIV secolo), British Library, Londra

L’autore, nell’accennare agli esempi di patti col demonio moderni meglio riusciti indica The Bottle Imp (Il diavolo nella bottiglia, 1893) di Robert Louis Stevenson, l’incompiuto Master i Margarita (Il Maestro e Margherita, ante 1940) di Michail Bulgakov, Doktor Faustus (1947) di Thomas Mann, Mulata de Tal (Mulatta senza nome, 1963) di Miguel Ángel Asturias, oltre ad alcune opere che “affrontano o sfiorano” il patto diabolico, come The Picture of Dorian Gray (Il ritratto di Dorian Gray, 1890) di Oscar Wilde e The Monkey’s Paw (La zampa di scimmia, 1902) di William W. Jacobs.

D’Agostino opera una distinzione fra creature demoniache non-umane ed esseri umani che intrattengono rapporti col demonio, dunque in grado di stipulare accordi con esso. È di quest’ultima categoria che si occupa il saggio, sebbene le stesse creature demoniache a cui fa riferimento la prima tipologia possono risultare dalla trasformazione subita da esseri umani votati al male (es. i dibbuk della tradizione ebraica o il “principe impalatore” che diviene Dracula).

Altra distinzione esplicitata dall’autore è fra le narrazioni che trattano un vero e proprio patto col maligno e quelle in cui interviene il demonio, come nel caso del tema dell’alleato del diavolo o dei “figli di Satana”.

Un racconto che intende rappresentare il patto col demonio deve esplicitare come esso si sviluppi in una sua sequenza narrativa. Patti tra esseri umani e dèi sono presenti nella mitologia greca e latina o nella tradizione pagana ma, sostiene l’autore, non si trovano miti o vicende assimilabili al patto di tipo faustiano. È solo con l’aprirsi dell’era cristiana che si sviluppa tale tematica; la stessa interpretazione del serpente dell’Eden (Genesi) come demonio avviene in epoca decisamente posteriore.

patto-col-diavolo2

2. Grazie al patto demoniaco Teofilo entra in possesso di ingenti ricchezze – Taymouth Hours (Inghilterra, prima metà del XIV secolo), British Library, Londra

Nel suo studio D’Agostino, sulla falsariga di quanto fatto da Adolfo Mussafia a fine Ottocento con le novelle del Libro dei Sette Sapienti, distingue i diversi tipi di patto col diavolo indicandoli con un lemma latino, anche se il più delle volte i testi propongono contaminazioni tra tipi diversi. I principali lemmi individuati e proposti dall’autore sono: Servus, Theophilus, Gerbertus, Fur, Uxor, Abnegatio e Cyprianus.

A questi sette aggiunge altri nove “tipi minori” di patto col diavolo, poco studiati, a cui l’autore attribuisce un lemma provvisorio: Visio, Sosia, Triplicatio, Mater, Columba, Hostia, Marinus, Raptus, Odium.

Oltre a soffermarsi sullo studio dei tipi principali di patto ed una successiva più sommaria trattazione dei minori, il saggio affronta anche alcuni “tipi affini”, ove il protagonista nello stringere un patto col diavolo, anziché se stesso, gli offre la moglie od il figlio. Tali tipi affini vengono così indicati dallo studioso: Substitutio, Robertus ed Oblatus.

Passando in rassegna i sette tipi principali di patto col demonio, con il lemma Servus l’autore indica il patto di Proterio, servo di Felladio, contenuto nella Vita Sancti Basilii Caesareae Cappadociae Archiepiscopi (prototipo greco del V-VI sec) ove si ritrovano tanto gli attanti base (essere umano e diavolo ed oggetto del patto) che gli elementi facoltativi (intermediario, documento e sabba).

Con il lemma Theophilus si fa riferimento alla leggenda di Teofilo giunto a noi in forma scritta in greco da Eutychianos verso il 661 ove «il patto è descritto in tutta la sua ampiezza, con la “doppia conversione” del protagonista, lo stato di necessità, l’intermediario satanico, il sabba, il documento (che a un certo punto della metamorfosi del racconto sarà firmato col sangue dell’apostata), il rito di sottomissione, il pentimento, la preghiera alla Vergine e così via. Da risaltare la promozione del culto mariano e, al tempo stesso, l’evidente antisemitismo» (pp. 26-27). A tale tipo appartiene il Miracle de Theophile di Rutebeuf (sec. XIII).

patto-col-diavolo3_

3. Teofilo si pente e prega la Vergine Maria – Taymouth Hours (Inghilterra, prima metà del XIV secolo), British Library, Londra

A proposito del terzo tipo di patto medievale, indicato con il lemma Gerbertus, l’autore riprende la leggenda relativa a Gerberto d’Aurillac, papa Silvestro II (m. 1003), di cui vengono ricordati tanto gli studi di Arturo Graf (di fine Ottocento) quanto quelli di Massimo Oldoni (di fine Novecento). A partire dall’analisi del racconto di Walter Map, l’autore individua tra i caratteri specifici del Gerbertus: «la complessità dei moventi (l’erotismo si aggiunge alla passione per la scienza e al desiderio di potenza); la posizione ambigua del protagonista, che, contro il mònito biblico, pare in realtà voler servire due padroni; la sostanziale mancanza degli elementi “secondari”, come l’intermediario e il sabba; e il profilo tutto particolare del demonio, che risulta o poco determinato (come nella vicenda maggioritariamente ripetuta dalla tradizione) o al contrario fortemente virato nei colori della mitologia celtica» (p. 34). Il racconto di Walter Map introduce il personaggio del “diavolo-servitore” che è originariamente un folletto servizievole, animato da intenzioni più o meno buone che conduce al personaggio di Mefistofele.

La storia del ladro (spesso un ricco caduto in povertà) che stipula un patto col demonio al fine di poter rubare impunemente rappresenta il quarto tipo fondamentale di patto indicato dallo studioso con il lemma Fur. Tra gli esempi più importanti il saggio indica una novella del Conde Lucanor di Juan Manuel e un racconto del Libro de buen amor di Juan Ruiz, entrambi spagnoli e databili attorno agli anni Trenta del XIV secolo. A proposito del primo esempio D’Agostino sottolinea l’abilità nell’uso della “sospensione d’animo” (suspense) ed il ricorso ad un tempo della narrazione dilatato o contratto in maniera inversamente proporzionale al tempo del narrato.

Con il lemma Uxor viene indicato il quinto tipo di patto. Si tratta di un tipo scarsamente usato e può essere identificato da un exemplum raccolto da Klapper ove si narra di una donna che, maltrattata dal marito, ricorre ai consigli di un’anziana che al fine di farle riconquistare l’amore del marito coinvolge il demonio che impone alla donna il sacrificio dell’unico figlio e di rinnegare Cristo e i santi. Nonostante la sottomissione al volere del demonio la donna continua ad essere maltrattata dal marito ed il racconto termina con il pentimento al cospetto di un sacerdote della peccatrice che ottiene così il perdono. Abbiamo dunque il peccatore, l’intermediario, il demonio, l’abiura (con infanticidio), il pentimento e la redenzione. Oltre a ciò compare la figura del sosia, visto che il diavolo compare alla donna sotto le spoglie del marito.

patto-col-diavolo4

4. La Vergine Maria sconfigge il demonio facendogli vomitare il cartiglio con il patto – Taymouth Hours (Inghilterra, prima metà del XIV secolo), British Library, Londra

Con Abnegatio viene indicato il sesto tipo di patto che, sottolinea D’Agostino, «va considerato a parte, dato che in verità il patto col diavolo non giunge quasi mai a perfezionarsi, perché il peccatore, disposto a rinnegare Dio e i santi, si rifiuta di fare lo stesso nei confronti della Madonna» (pp. 45-46). Probabilmente la prima espressione latina di tale tipologia è rappresentata dal Dialogus miraculorum di Cesario di Heisterbach ma lo studioso preferisce «presentare il racconto, con parole di Angelo Monteverdi, secondo il testo dello Specchio di vera penitenza di Jacopo Passavanti, che peraltro segue l’Alphabetum narrationum di Arnoldo da Liegi, il quale a sua volta si ispira proprio a Cesario» (p. 47).

Il settimo tipo di patto viene indicato con il lemma Cyprianus. In questo viene fatto riferimento alla leggenda di San Cipriano del IV secolo anche se nella sua forma originaria manca l’apostasia. Si deve attendere qualche tempo affinché la vicenda si accosti al tema faustiano: «la piena adesione dell’exemplum ciprianeo al patto col diavolo si ha con gli sviluppi moderni del tema, che raggiungono il punto più elevato nel dramma di Calderón de la Barca, El mágico prodigioso» (p. 61).
Al tipo di patto definito Cyprianus nel saggio viene accostata la vicenda di Antemio e di Maria di Antiochia ove si rintracciano diversi tratti tipici come il movente passionale, l’intermediario, l’abiura, il documento scritto, l’incontro notturno col demonio, la processione… Si tratta comunque di un caso particolare visto che il peccatore pentito non riesce a rientrare in possesso della scrittura, resta dubbia la salvazione ed Antemio viene palesemente descritto con tratti diabolici prima del patto stipulato col demonio. Nonostante tale racconto si allontani da Cyprianus anche perché «il protagonista non è un mago (prima) né un martire (dopo)» (p. 66), vi sono elementi, come il movente passionale, la magia ed i ripetuti tentativi di seduzione della ragazza che lo possono accostare a tale tipologia.

patto-col-diavolo5

5. Teofilo si salva – Taymouth Hours (Inghilterra, prima metà del XIV secolo), British Library, Londra

Circa gli “altri tipi” di patto, con il lemma Visio l’autore si riferisce ad un peccatore che reso omaggio al demonio e consegnatogli un documento firmato col sangue ha una visione del suo giudizio. Con il lemma Sosia nel saggio viene fatto riferimento in particolare alla storia di un cavaliere che stipula un patto col demonio impegnandosi a non prestare ascolto ad una predica, a non farsi il segno della croce e ad evitare di entrare in chiesa. Convinto da alcuni amici il cavaliere entra in chiesa e, dopo che il diavolo, prendendo le sue sembianze, litiga coi vicini, il cavaliere decide di confessarsi. Con il lemma Triplicatio si rimanda alla storia di un uomo che per divenire ricco accetta di sottomettersi al diavolo a condizione che questi gli appaia tre volte prima della morte. Dopo che il demonio gli è apparso tre volte – non riconosciuto – sotto le sembianze di un povero, nella quarta apparizione il travestimento viene svelato e, nonostante le proteste, il demonio se lo porta all’inferno. Nel caso del Mater viene fatto riferimento alle vicende di un figlio che con la sua penitenza libera la madre – che aveva stretto un patto col maligno – dalle pene infernali. Con il lemma Columba il riferimento è alle vicende di un monaco che verrà perdonato dopo aver rinnegato il battesimo e Gesù per poter prendere in sposa la figlia di un sacerdote pagano. A proposito del tipo indicato con Hostia D’Agostino rimanda al patto non riuscito dell’exemplum del negromante di Magdeburgo nella raccolta di Klapper, mentre un altro patto non riuscito è nell’assempro 25 di Filippo degli Agazzari definito dallo studioso con il lemma Marinus dal nome del protagonista. Al XXXIX assempro di Filippo degli Agazzari è accostabile anche un originale racconto di Giovanni Sercambi in cui il protagonista «distilla odio allo stato puro» (p. 78) e per tale motivo viene lemmatizzo Odium.

Relativamente ai “tipi affini”, con Substitutio viene fatto riferimento al «miracolo della Madonna in cui Maria sostituisce la moglie ceduta al demonio» (p. 3) a partire dalla Legenda aurea di Iacopo da Varazze (storia ripresa, con qualche variazione nel Dit du povre chevalier di Jean de Saint-Quentin). Con il lemma Robertus ci si riferisce alla tipologia in cui è la prole ad essere offerta al maligno, mentre con Oblatus si prende in esame la storia di un fanciullo consacrato al demonio la cui prima redazione pare essere quella di un testo latino pubblicato da Mussafia simile a quello di Vincenzo di Beauvais, a cui ricorre Gautier de Coinci nel miracle intitolato Dou jovencel que li dyables ravi, mais il ne le pot tenir contre Nostre Dame.

 

]]>