controcultura – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 02 May 2024 00:30:26 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.25 La pillola rossa dell’alt-right – 3 https://www.carmillaonline.com/2023/07/23/la-pillola-rossa-dellalt-right-3/ Sun, 23 Jul 2023 20:00:32 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77812 di Gioacchino Toni

Con la comparsa nei primi anni Novanta dei videogiochi “sparatutto in soggettiva” è stata data la possibilità a tanti gamer maschi e bianchi di sfogare individualmente la loro dose di nichilismo, violenza e aggressività attraverso un’estetica e una cultura che promuovono la ricerca della sola soddisfazione individuale.

Degli elementi di contiguità tra l’universo videoludico e gli ambienti dell’alt-right statunitense si è occupato Matteo Bittanti sia direttamente che curando la pubblicazione di materiale anglosassone. «Aldilà di un’acritica accettazione della logica consumistica – mascherata dalla natura interattiva del videogioco che feticizza il fruitore “attivo”, “partecipativo” e “autonomo” rispetto al presunto [...]]]> di Gioacchino Toni

Con la comparsa nei primi anni Novanta dei videogiochi “sparatutto in soggettiva” è stata data la possibilità a tanti gamer maschi e bianchi di sfogare individualmente la loro dose di nichilismo, violenza e aggressività attraverso un’estetica e una cultura che promuovono la ricerca della sola soddisfazione individuale.

Degli elementi di contiguità tra l’universo videoludico e gli ambienti dell’alt-right statunitense si è occupato Matteo Bittanti sia direttamente che curando la pubblicazione di materiale anglosassone. «Aldilà di un’acritica accettazione della logica consumistica – mascherata dalla natura interattiva del videogioco che feticizza il fruitore “attivo”, “partecipativo” e “autonomo” rispetto al presunto consumatore passivo della televisione, del cinema e della letteratura – ciò che preoccupa maggiormente è la convergenza tra l’identità gamer e l’estrema destra»1.

Diversi studi evidenziano la parziale sovrapponibilità tra il target di riferimento dell’alt-right e quello dell’industria videoludica; se Kristin Bezio2, ad esempio, coglie la contiguità demografica tra i potenziali partecipanti alle discussioni promosse dall’alt-right e i gamer, Anita Sarkeesian3 individua diverse affinità in termini di immaginario, bersagli e strategie tra alcune campagne sorte all’interno dell’universo videoludico e i movimenti politici della destra radicale statunitense.

Il caso forse più eclatante di come una campagna d’odio esplosa nelle piattaforme degli appassionati di videogame fortemente intrisa di immaginario conservatore, reazionario, che desidera ripristinare un passato idealizzato in cui l’universo videoludico era appannaggio esclusivo di uomini bianchi eterosessuali, è sicuramente quello del cosiddetto GamerGate.

Tutto è iniziato nell’agosto del 2014 quando, a partire da  un’invettiva contro una sviluppatrice di videogiochi pubblicata dall’ex fidanzato su un blog, una nicchia di giovani gamer maschi e bianchi ha lanciato una delirante campagna votata a denunciare la “corruzione” del mondo dei videogiochi in buona parte, a loro dire, determinata dalla presenza di alcune donne intenzionate a stravolgerlo. Si è trattato di uno dei primi casi in cui una discussione priva di rilevanza pubblica, porta avanti da un gruppo di individui, grazie al web, è sfociata in una campagna reazionaria di proporzioni spropositate rispetto alla causa scatenate, palesando quanto rancore misogino e chiusura identitaria covassero in corpo tanti giovani gamer.

Michael Salter4 invita a guardare quanto si manifesta all’interno degli ambienti videoludici come a una spia delle trasformazioni sociali in atto. «Non a caso, è nel contesto videoludico che l’aggressione rappresenta una modalità standard di partecipazione pubblica sulle piattaforme tecnologiche». Gli abusi e le molestie che contraddistinguono gli ambienti dei gamer risultato «in stretta relazione alle dinamiche più reazionarie dell’identità maschile e alla sottesa ideologia della tecnologia digitale»5. In particolare, Salter ricostruisce l’evoluzione del concetto di gender in ambito informatico mettendo in luce i suoi legami con la “mascolinità geek” fondata sul concetto di padronanza tecnologica.

Nell’ambito di Gamergate, l’impulso maschile a difendere determinate tecnologie – videogiochi e internet in primis – dall’assedio (reale o percepito) da parte di donne e utenti più diversificati, ha evidenziato la fragilità della mascolinità geek e la sua dipendenza da forme inique di egemonia tecnica. Non è un caso che particolari piattaforme – come 4chan, 8chan, Reddit e Twitter – si siano rivelate terreno fertile per le campagne misogine di Gamergate6.

L’analisi di Salter mostra come «la lotta delle donne e di altri soggetti marginalizzati per accedere in modo più equo alla cultura e al contesto lavorativo dell’high tech» sia «complicata dalla mascolinizzazione della tecnologia, che privilegia l’egemonia di genere»7.

Nella cultura occidentale l’equiparazione della mascolinità alla tecnologia ha attribuito il primato maschile sull’accesso ai mezzi tecnici e la «progressiva mascolinizzazione delle industrie e delle culture informatiche ha incentivato intensi investimenti affettivi e identificazioni psicologiche da parte di uomini e ragazzi, generando permutazioni tecnologiche della soggettività maschile, che ha assunto nuove forme. Una delle più recenti è stata definita mascolinità geek8. Con tale espressione si indica «una soggettività di genere che prevede la rivendicazione – da parte di adulti e adolescenti di sesso maschile – della padronanza tecnologica come fattore essenziale dell’identità maschile»9.

La mitologia della rivoluzione informatica celebra gli ideali dell’individualismo, della competitività e dell’aggressività, elementi normativi nella mascolinità geek fin dall’avvento delle reti.[…] L’afflusso di utenti femminili e più diversificati sulle piattaforme di social media, nei videogiochi e in altri campi dell’elettronica di consumo ha messo in discussione l’equivalenza tra la tecnologia maschile e l’identità maschile geek. Il fenomeno è stato accompagnato da un’escalation di abusi e molestie che hanno avuto origine nelle sottoculture dominate dai geek, ma che oggi sono diventate parte del mainstream. […] Gamergate illustra in modo paradigmatico la congruenza sociotecnica tra la mascolinità geek e una comunicazione che prevede la sistematica oppressione dell’altro. Questa esplosione senza precedenti di molestie online che ha avuto origine all’interno delle sottoculture videoludiche si è diffusa in modo virale grazie a piattaforme come 4chan, 8chan, Reddit e Twitter. […] Tale campagna di abusi è diventata endemica perché la sua razionalità di fondo era evidente nella progettazione, governance e strategia comunicativa di numerose piattaforme online. Non si tratta di una mera coincidenza: l’architettura e l’amministrazione di queste piattaforme condividono l’ideologia della cultura geek e delle industrie correlate. Ergo, l’abuso online prodotto e promosso da questa campagna d’odio non è un’anomalia: la tecnologia è sempre simbolicamente e strategicamente implicata nelle affermazioni dell’aggressione maschile10.

Su GamerGate si sono fatti le ossa, conquistando la popolarità, personaggi poi divenuti di spicco nell’ambito dell’alt-right come Milo Yiannopoulos e Phil Mason.

Il nucleo narrativo di Gamergate secondo il quale i simboli della tecno-mascolinità, come i videogiochi e internet, sono stati attaccati frontalmente in una “guerra culturale” condotta da femministe e progressiste, si è fuso con altri movimenti reazionari dell’identità maschile, assumendo forme inaspettatamente virulente. 4chan e le forme associate di mascolinità geek hanno svolto un ruolo chiave nel promuovere e sostenere la campagna elettorale del presidente americano Donald Trump attraverso strategie che hanno offuscato il confine tra politica mainstream, misoginia organizzata e supremazia bianca11.

Se l’intrecciarsi di disuguaglianza di genere, alienazione capitalistica e tendenza maschile a riversare sulle donne le proprie frustrazioni non è di certo una novità, di nuovo c’è, secondo Salter, l’uso che ne ha fatto l’alt-right per mobilitare l’aggressività maschile.

Lo stesso Trump ha beneficiato dei meccanismi retorici e di mobilitazione che si sono sviluppati in rete nella sua campagna contro i politici di professione pretendendo di dare voce al rancore contro l’establishment di “un intero popolo” alle prese con gli effetti della globalizzazione. Trump è certamente espressione di un populismo che, riprendendo la definizione proposta da Jan-Werner Müller, può essere visto come

una particolare visione moralistica della politica, un modo di percepire il mondo politico che oppone un popolo moralmente puro e completamente unificato – ma, direi, fondamento immaginario – a delle élite corrotte o in qualche altro modo moralmente inferiori. Essere critici nei confronti di tali caste è una condizione necessaria ma non sufficiente per essere considerato populista […]. La rivendicazione di fondo del populismo è dunque una forma moralizzata di antipluralismo. […] Il populismo prevede un’argomentazione pars pro toto e la rivendicazione di una rappresentanza esclusiva, entrambe intese in senso morale, anziché empirico12.

Il web offre ai leader populisti la possibilità di attuare una relazione, almeno apparentemente, diretta con i propri seguaci, dunque di costruire una sorta di carisma digitale che, per quanto contraddittorio possa sembrare, bene si amalgama al mito della cultura online della “protesta senza leader”.

I leader carismatici contemporanei prescindono dal supporto dei partiti strutturati, o almeno tentano di celarlo il più possibile, sfruttando quell’immagine anti-establishment resa necessaria dall’impresentabilità delle formazioni politiche tradizionali, rafforzando al contempo i rapporti con i loro potenziali seguaci con «promesse che si sa già non potranno essere mantenute, solo per rassicurare un bacino elettorale sicuro di niente, ma solo di essere stato trascurato da tutte le altre forze politiche. Ad esso ci si rivolge cercando di creare processi identificativi inesistenti, facendo credere di essere parte della massa»13 anche miliardari abituati al lusso più sfrenato che hanno cosrtruito il loro impero economico in buona parte prorprio attraverso ciò che dicono di voler combattere.

Indubbiamente questa particolare forma di cyberpopulismo, derivata dall’idea che le tecnologie della connettività possano realmente sostenere un processo di autodeterminazione fondato sulla valorizzazione delle individualità, ha potuto dilagare anche perché si è rivelata «capace di assorbire le istanze sociali che sono state deluse dai processi di globalizzazione e di dislocazione della forza lavoro verso la periferia del mondo»14.

La fortuna di molti movimenti d’opinione etichettati come populismi, secondo Alessandro Dal Lago, è in buona parte dovuta al diffondersi di un tipo di comunicazione online in cui prevalgono i soggetti digitali sugli esseri umani reali.

Proprio per il fatto di essere attivo soprattutto nella dimensione virtuale questo tipo di attore ha caratteristiche uniformi, modulari, che integrano quelle eterogenee degli esseri sociali reali. Così, indipendentemente dalla professione, dalla posizione sociale, dall’educazione e così via, i soggetti digitali tenderanno a provare le stesse paure, a manifestare le stesse ossessioni, a essere sensibili agli stessi messaggi politici. Le differenze degli attori sociali reali sono integrate nell’uniformità delle loro versioni o estensioni digitali15.

L’editorialista del “Chicago Tribune” Clarence Page ha messo in relazione il successo della serie televisiva The People Vs. O.J. Simpson. American Crime Story (2016)16 e la campagna elettorale che ha portato Trump alla Casa Bianca, sostenendo che per entrambi i casi si può parlare di dispute tra “narrative” di intrattenimento17.

La “narrativa”, sostiene Page, ha un ruolo determinante nella vittoria elettorale e il consenso può essere ottenuto ricorrendo a strategie da reality show date in pasto a un pubblico avido di essere intrattenuto: occorre dire qualcosa di scandaloso per poi, mentre tutti ne stanno ancora discutendo, rilanciare con una nuova affermazione scioccante. Ai seguaci spetta il compito di costruire sui social una comunità di sostengo impenetrabile da ogni altra informazione discordante. Quando serve riconquistare il centro della scena si ricomincia da capo rimettendo in moto il meccanismo.

Trump si è rivelato sicuramente abile nell’adottare per le sue campagne meccanismi propri dei reality show, di buona parte dell’entertainment della tv generalista contemporanea e dello stesso universo online, in questo, non poi così diverso dagli odiati media verticistici tradizionali di cui si pretende tanto diverso.

Una caratteristica riscontrabile nei dibattiti digitali, sostiene il sociologo Dal Lago, è la tangenzialità: il più delle volte gli interlocutori evitano di entrare nel merito di ciò che commentano, preferendo limitarsi a sfruttare l’occasione per ribadire punti di vista e credenze già posseduti e sostanzialmente indipendenti da ciò che si dovrebbe commentare. Nelle discussioni l’utente digitale pare essere alla ricerca di un pretesto per sfogarsi, per ribadire le proprie credenze in maniera, appunto, tangenziale rispetto alla questione iniziale: molti dibattiti online si rivelano contenitori di interventi del tutto privi di argomentazioni.

Negli Stati Uniti, a tutto ciò si deve aggiungere un sempre più esibito orgoglio del “non sapere le cose”, soprattutto in ambito politico. L’ignoranza, al pari di una narrazione semplicemente altra, poco importa quanto improbabile possa essere, diviene una sorta di trincea entro cui rifugiarsi per evitare il difficile confronto con quanto viene derubricato come narrazione dominate, dunque da rigettare aprioristicamente.

Tutto ciò, sostiene Tom Nichols, La conoscenza e i suoi nemici. L’era dell’incompetenza e i rischi per la democrazia (Luiss University Press 2023), si colloca ben oltre la tradizionale avversione americana per gli intellettuali. Ciò che si sta palesando negli Stati Uniti da qualche tempo non è soltanto un’incredibile disponibilità a credere a qualsiasi cosa non sia percepita come versione manistream, ma anche un’orgogliosa e arrogante opposizione attiva ad approfondire le questioni su cui si interviene pur di non abbandonare la comfort zone delle proprie improvvisate convinzioni. Non si tratta di «non fidarsi di qualcosa, metterla in discussione o cercare alternative», quanto piuttosto di «una miscela di narcisismo e disprezzo per il sapere specialistico, come se quest’ultimo fosse una specie di esercizio di autorealizzazione»18.

La propensione a cercare informazioni che avvalorino e rafforzino ciò in cui già si crede e a rigettare aprioristicamente quanto possa contraddirlo non nasce certo con internet ma è indubbio quanto questo si presti al meccanismo del “bias di conferma”. Se le leggende popolari e altre superstizioni sono tipici esempi di bias di conferma e di argomentazioni non falsificabili, i casi più estremi, sostiene Nichols, sono ravvisabili nelle teorie complottistiche. «I teorici del complotto manipolano tutte le prove tangibili per adeguarle alla loro spiegazione, ma, quel che è peggio, usano anche l’assenza di prove come conferma ancora più definitiva. […] Fatti, assenza di fatti, fatti contraddittori: tutto è una prova. Nulla può mettere in crisi la convinzione su cui si basa la teoria»19.

Il successo del genere conspiracy thriller, continua Nichols, deriva anche dal suo eroicizzare l’individuo che trova la forza e il coraggio di combattere contro una grande cospirazione capace di soffocare qualsiasi altro comune mortale. «La cultura americana, in particolare, è attratta dall’idea del dilettante di talento (in contrasto, per esempio, con gli esperti e le élite) che può sfidare interi governi – o organizzazioni addirittura più grandi – e vincere»20. Le teorie del complotto, che oggi sembrano sembrano derivare soprattutto dal disorientamento economico e sociale provocato dalla globalizzazione, risultano particolarmente attrattive per coloro che hanno difficoltà a dare un significato alla complessità e non sono in grado o non intendono compiere lo sforzo necessario per approfondire spiegazioni meno suggestive21. L’alternative right è prosperata online anche grazie a tutto ciò.

Se nel successo di Trump numerosi commentatori hanno visto una sorta di reazione della “gente qualunque” sentitasi abbandonata dallo snobismo liberal, in realtà, secondo Angela Nagle, a darsi è stato piuttosto il passaggio

da una certa forma di elitismo sottoculturale a un improvviso amore per il proletariato, addirittura per il disinteressato sostengo dei meno fortunati, come se la destra sostenesse da sempre argomenti come quelli di Thomas Franck e non, come in effetti era sempre accaduto, tesi favorevoli alla diseguaglianza o altri argomenti misantropici o economicamente elitari a sostegno della gerarchia naturale22.

Ben da prima che la retorica della “gente qualunque” diventasse onnipresente sui siti di destra, personaggi dell’alt-right come Milo Yiannopoulos si facevano fotografare con t-shirt recanti la scritta “Stop Beeing Poor”, riprendendo una maglietta sfoggiata da Paris Hilton. Dopo il successo trumpiano lo stesso Yiannopoulos ha tenuto diverse conferenze sulla “nuova classe operaia bianca”.

A fronte di questo improvviso interesse per la classe operaia bianca, occorre sottolineare come nell’ambito dell’estrema destra statunitense vi fosse la tendenza a rigettare l’idea dei conservatori che voleva la massa come loro “naturale” alleato ritenendo piuttosto ormai irrecuperabile la società massificata e indottrinata dal “multiculturalismo femminista di sinistra”. Nell’universo dell’alt-right sul web prevale da tempo una sottocultura snobistica verso le masse e la cultura di massa; la destra radicale online si vuole ristretta avanguardia altra rispetto alla massa nei cui confronti guarda con diffidenza quando non con ostilità.

Sono state proprio le idee incredibilmente vacue e fraudolente della trasgressione controculturale a creare il vuoto in cui oggi può confluire qualsiasi cosa purché ostenti sdegno dei gusti e dei valori manistream. È proprio questo che ha permesso che una cultura oggi evidente in tutto il suo orrore venisse romanticamente interpretata dai progressisti come una forza di opposizione all’egemonia culturale. La verità che tutto ciò ha svelato, secondo [Angela Nagle], è che sia la cultura vicina alla destra di 4chan, sia quella politicamente ipercorretta dell’accademia, hanno subito il fascino controculturale dello sdegno per tutto ciò che è di massa23.

Angela Nagle sottolinea anche come i Cultural Studies della Scuola di Birmingham abbiano guardato con occhi eccessivamente acritici alle sottoculture esaltandole per la loro carica radicale, trasgressiva e antiegemonista. Tale benevolenza deriverebbe, secondo la studiosa Sarah Thornton24, dal desiderio di trovare nelle sottoculture una sponda utile a contrastare le ideologie dominanti e perché tanto l’oggetto di studio (le sottoculture) che chi le affrontava (studiosi) erano accomunati da una sostanziale ostilità nei confronti della società di massa.

Il limite di approcci come quello di Dick Hebdige25, secondo Thornton, consiste nella tendenza a guardare alle sottoculture come a realtà nude e pure, mentre, a suo avviso, queste si intrecciano inevitabilmente con l’ambito mainstream e ciò risulterà sempre più evidente a partire dagli ultimi decenni del vecchio millennio quando il sistema si è dimostrato perfettamente in grado di riassorbire anche le spinte culturali più provocatorie rendendole profittevoli26:

rispetto alla scena inglese indagata da Hebdige le cose sono cambiate e parecchio, tanto da rendere oggi problematico anche solo ricorrere al termine sottocultura nelle modalità con cui vi si ricorreva qualche decennio fa. Ad essere mutata è anche la capacità della macchina del business di mercificare e di riassorbire fenomeni nati più o meno con intenzioni sottrattive, se non antagoniste, rispetto al sistema stesso. […] Da qualche tempo lo stesso ricorso alla provocazione è divenuto una strategia utilizzata con una certa frequenza dalla cultura e della moda manistream. […] Nella contemporaneità sembra ormai che normalità e devianza, da questo punto di vista, siano due strade, nemmeno così diverse, che conducono all’omologazione della mercificazione. Indipendentemente da quale sia il percorso seguito, le identità faticosamente costruite necessitano comunque di conferme, di una patente ottenuta attraverso una pubblica accettazione e qua fanno capolino i social network, ove i like o altri indicatori di apprezzamento rappresentano l’unità di misura del successo davanti al pubblico27.

Nelle sottoculture geek, sostiene Angela Nagle, l’idea di preservare il proprio ambito da contaminazioni che potrebbero “normalizzarlo” è molto presente. In tali ambienti generano forte disprezzo, ad esempio, le giovani ritenute un po’ superficiali con gusti mainstream che tentano di inserirsi nelle sottoculture alt-right utilizzando scorrettamente gli indicatori di appartenenza al gruppo dimostrano così di non aver compreso lo status elitario dei suoi appartenenti e per questo sono trattate con ostilità.

Come molte sottoculture, anche quelle della galassia alt-right, quasi sempre dominate da nerd maschi e bianchi, guardano con ostilità a tutto ciò che non appartiene alla loro cerchia. Chi, ad esempio, non trova esaltante il ritorno al separatismo razziale o l’idea di porre fine all’emancipazione femminile viene frequentemente accusato in internet, soprattutto se donna, di essere “normie” e “basic bitch”. «Siamo al punto che l’idea di essere figo/controculturale/trasgressivo può mettere un fascista in posizione di superiorità morale rispetto a persone normali», scrive Nagle; occorre dunque «riconsiderare il valore di queste idee di controcultura ormai stantie e logore»28.

Angela Nagle, oltre all’indubbio merito di ricostruire i conflitti culturali online degli ultimi decenni che hanno contribuito a formare l’immaginario di tanti giovani statunitensi che nel frattempo si sono fatti adulti, mostra anche come ribellione, provocazione e logiche controculturali che prendono di mira il sempre più logoro establishment non siano affatto esclusiva di una sinistra che, quando non si palesa essa stessa come establishment, ha saputo esprimere

un progressismo puramente identitario e autoreferenziale, cresciuto a sua volta nelle sottoculture web e arrivato poi nei campus universitari […]. Tutto d’un tratto sembrano lontanissimi i giorni dell’utopia, della rivoluzione digitale senza leader di Internet, quando i progressisti si rallegravano che “il disgusto” fosse “diventato un network” e fosse esploso nella vita reale29.

Quel disgusto fattosi network online non ha fatto che rigurgitare dapprima sullo schermo, poi fuori da esso, i peggiori istinti di esseri umani alienati e incapaci di mettere radicalmente in discussione un modello economico, di vita e di relazioni sociali che rappresenta la causa principale delle loro sofferenze.

Di certo la via di uscita non la si otterrà inseguendo le promesse reticolari-partecipative di un web sempre più indirizzato al controllo comportamentale e predittivo, capace di estrarre profitto anche dalle pretese antisitemiche sullo schermo più radicali, né rincorrendo le logiche della “pillola rossa” rivelatrice di verità il più delle volte coincidenti con semplicistici ribaltamenti di quanto passa il manistream, credendo davvero che le culture dei due ambiti siano nettamente differenziabili.

Le tecnologie della connettività online che stanno facendo la fortuna dell’alterntive right si stanno rivelando inadeguate allo sviluppo di esperienze realmente trasformative della realtà in senso libertario e solidaristico.

Sulla Rete riecheggiano e si amplificano i problemi di quella che abbiamo chiamato società del comando: la disgregazione sociale, la precarietà, la frattura tra dinamismo psicosomatico e realtà sociale, il carattere oppressivo e discontinuo del potere governamentale. Se si vogliono dare nuove prospettive al pensiero della resistenza o dell’antagonismo bisogna ripartire da qui, dalle derive della singolarizzazione che distorce la socializzazione e determina alienazione. Se l’obiettivo è quello di riuscire a organizzare le nostre singolarità in una soggettività politica, […] non si tratta più di liberare un desiderio ormai addomesticato o una pulsionalità repressa, ma di dare una forma sostenibile e vitale alla corporeità, oggi sempre più esaltata e allo stesso tempo mortificata nelle dinamiche del consumo e dello sfruttamento30.

In astinenza da piazze e socialità novecentesche, occorrerà  negare sostegno a un establishment impresentabile, non tanto perché “corrotto” ma innanzitutto in quanto espressione di un sistema di per sé indifendibile, e al contempo evitare di farsi prendere dalla frenetica ricerca di facili quanto improbabili scorciatoie ottenute attraverso semplicistici “ribaltamenti” di quanto è mainstream, di guardare a indigeribili alleanze, di indirizzarsi verso logiche complottistiche e parole d’ordine improponibili pensando davvero di poter controllare il mostro anziché farsi dominare da questo.

La pillola rossa dell’alt-right – serie completa


Bibliografia

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  2. Kristin Bezio, Ctrl-Alt-Del: GamerGate as a precursor to the rise of the altright, in “Leadership”, 2018, vol. 14, n. 5. 

  3. Anita Sarkeesian, Anita Sarkeesian Looks Back at GamerGate, in “Polygon”, 23 dicembre 2019 

  4. Michael Salter, Dalla mascolinità geek a Gamergate: la razionalità tecnologica dell’abuso online, in Matteo Bittanti (a cura di), Game Over. Critica della ragione videoludica, Mimesis, Milano-Udine, 2020. 

  5. Ivi 142 

  6. Ivi, p. 143. 

  7. Ivi, p. 169. 

  8. Ivi, p. 146. 

  9. Ivi p. 147. 

  10. Ivi, pp. 149-151. 

  11. Ivi, p. 161. 

  12. Jan-Werner Müller, Cos’è il populismo, Egea, Milano, 2017. 

  13. Anna Camaiti Hostert, Enzo Antonio Cicchino, Trump e moschetto. Immagini, fake news e mass media: armi di due populisti a confronto, Mimesis, Milano-Udine, 2020, pp. 56-57 [su Carmilla]

  14. Alessandro Dal Lago, Populismo digitale. La crisi, la rete e la nuova destra, Raffaello Cortina Editore, 2017, p. 22 [su Carmilla]

  15. Alessandro Dal Lago, Populismo digitale, op. cit., pp. 73-74. 

  16. The People v. O.J. Simpson: American Crime Story (2016) – prima stagione della serie televisiva American Crime Story prodotta da FX Netwoks – riprende il libro di successo The Run of His Life: The People v. O.J. Simpson (1997) di Jeffrey Toobin. 

  17. Cfr. Anna Camaiti Hostert, Enzo Antonio Cicchino, Trump e moschetto, op. cit. 

  18. Tom Nichols, La conoscenza e i suoi nemici. L’era dell’incompetenza e i rischi per la democrazia, Luiss University Press, Roma 2023, p. 13. 

  19. Ivi, p. 69. 

  20. Ivi, p. 71. 

  21. Cfr.: Wu Ming 1, Come nasce una teoria del complotto e come affrontarla, prima parte, in “Internazionale”, 15 ottobre 2018; Wu Ming 1, Come nasce una teoria del complotto e come affrontarla, seconda parte, in “Internazionale”, 29 ottobre 2018 

  22. Angela Nagle, Contro la vostra realtà. Come l’estremismo del web è diventato manistream, Luiss University Press, Roma, 2018,, pp. 143-144. 

  23. Ivi, p. 149. 

  24. Sarah Thornton, Club Cultures. Music, Media and Subcultural Capital, Polity Press, Cambridge, 1995. 

  25. DickHebdige, Sottocultura. Il significato dello stile, Meltemi, Milano, 2017. Sul volume si veda: Gioacchino Toni, La rivolta dello stile. Dick Hebdige e la “sottocultura”, in “Il Pickwick”, 18 ottobre 2017. 

  26. Gioacchino Toni, Estetiche inquiete. Quando lo street style diventa mainstream, in “Carmilla”, 5 giugno 2022. 

  27. Gioacchino Toni, La rivolta dello stile. Dick Hebdige e la “sottocultura”, op. cit. 

  28. Angela Nagle, Contro la vostra realtà. Come l’estremismo del web è diventato manistream, op. cit., p. 152. 

  29. Ivi, p. 168. 

  30. Pablo Calzeroni, Narcisismo digitale. Critica dell’intelligenza collettiva nell’era del capitalismo della sorveglianza, Mimesis, Milano-Udine, 2019, pp. 126-127 [su Carmilla]

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La pillola rossa dell’alt-right – 2 https://www.carmillaonline.com/2023/07/14/la-pillola-rossa-dellalt-right-2/ Fri, 14 Jul 2023 20:00:47 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77740 di Gioacchino Toni

Come visto precedentemente [su Carmilla], gli ambienti mediali si sono rivelati in grado di intensificare gradualmente l’odio provato da un individuo agendo sulle sue capacità decisionali fornendogli opportunità volte a stimolare e soddisfare i suoi desideri più riprovevoli su cui canalizzare frustrazioni e disillusioni maturate quotidianamente.

L’alt-right online si è dimostrata efficace nell’integrare ideologie debolmente correlate a temi e argomenti di grande interesse. Luke Munn ha ricostruito il processo attrattivo della destra alternativa statunitense: attraverso un calibrato periodo di acclimatazione viene definita una nuova base cognitiva [...]]]> di Gioacchino Toni

Come visto precedentemente [su Carmilla], gli ambienti mediali si sono rivelati in grado di intensificare gradualmente l’odio provato da un individuo agendo sulle sue capacità decisionali fornendogli opportunità volte a stimolare e soddisfare i suoi desideri più riprovevoli su cui canalizzare frustrazioni e disillusioni maturate quotidianamente.

L’alt-right online si è dimostrata efficace nell’integrare ideologie debolmente correlate a temi e argomenti di grande interesse. Luke Munn ha ricostruito il processo attrattivo della destra alternativa statunitense: attraverso un calibrato periodo di acclimatazione viene definita una nuova base cognitiva per ciò che è accettabile; dal momento in cui il discorso viene riconosciuto come consueto e condivisibile, l’utente viene accompagnato in modo “naturale” verso lo stadio successivo ove incontrerà immagini più forti e discorsi più radicali.

Naturalmente, gli individui affiliati anche in modo informale all’alt-right sono relazionali nel senso che sono connessi a vaste infrastrutture sociali e comunità online. Ma non appartengono a un’organizzazione e nemmeno a una cellula. Infatti, questi giovani, spesso disoccupati, si ritirano intenzionalmente dalla società, abbracciando il loro nuovo isolamento sociale anziché rifuggerlo […] Le recenti violenze perpetrate dall’alt-right sono difficili da prevedere e prevenire. Il razzismo e la xenofobia degli aggressori sono stati alimentati, coltivati e incoraggiati negli ambienti più disparati della rete […] Istigando soggetti alienati attraverso una retorica basata sull’odio e l’antagonismo, l’esito non può che essere distruttivo. Le condizioni che alimentano e incentivano l’indignazione, che incitano alla violenza, che perpetuano gli stereotipi razzisti, prima o poi spingeranno un soggetto particolarmente impressionabile e psicologicamente debole a comportamenti estremi1.

Gli individui che esprimono idee vicine all’alt-right sono il più delle volte persone comuni – spesso giovani bianchi disoccupati che si isolano intenzionalmente dal resto della società – che, un passo alla volta, meme dopo meme, video dopo video, hanno maturato convinzioni che considerano corrette e lapalissiane. Pur non facendo parte di gruppi “emarginati” o “assediati”, i discorsi di molti uomini bianchi che si sono avvicinati all’alt-right sono infarciti di retorica di persecuzione e vittimismo. Stando a un recente rapporto, circa undici milioni di statunitensi si dicono persuasi che nel loro paese i bianchi siano le “vittime” ed esprimono la profonda convinzione dell’importanza della “solidarietà bianca”2. «In breve, ci sono undici milioni di americani potenzialmente ricettivi ai messaggi dell’alt-right. Considerato nel più ampio contesto della popolazione, il simpatizzante dell’alt-right è un normale radicale e un estremista mainstream»3.

Lungi dall’essere per forza un emarginato, il soggetto su cui può far presa la retorica dell’alt-right è un individuo disilluso e cinico che, anche quando socialmente inserito, non trova felicità nella sua quotidianità e nel sistema politico che la governa. Un individuo alla ricerca di una sua dimensione all’interno di una comunità strutturatasi nell’universo online su una specifica questione che spesso diventa la sua unica questione esistenziale, una figura che, secondo Matteo Bittanti 4, non è molto diversa da quella di tanti gamer appassionati di giochi “sparatutto in prima persona” che magari, in diversi casi, sono usciti dagli schermi per partecipare all’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021.

Oltre che poter contare su una rete di supporter influenti e su un’immensa disponibilità economica, senza le quali, è bene sottolinearlo, nessuna escalation si sarebbe potuta dare, Trump ha saputo sfruttare la cultura dell’altrnative right permettendole di contaminare l’establishment. Nell’analizzare il successo del tycoon statunitense, Alain Badiou5 ha argomentato come a suo avviso le posizioni politico-culturali di questo outsider rappresentino una sorta di “esteriorità interna” al sistema, un’esteriorità dispensatrice di false promesse portate avanti con un linguaggio roboante, violento, demagogico, irrazionale e semplicistico che non ha esitato a recuperare vecchi immaginari nazionalisti, razzisti, bigotti e sessisti, pur presentandoli, talvolta, in maniera nuova.

Come diversi analisti, anche Badiou ritiene che il successo di Trump sia stato costruito sfruttando quel senso di profonda frustrazione derivata dall’incapcità di proiettarsi nel futuro patito da larghi strati della popolazione privi, come sintetizza efficacemente Fabio Ciabatti, di «un insieme sufficientemente forte e articolato di principi condivisi in grado di fungere da mediazione tra il soggetto individuale e il progetto collettivo dell’emancipazione, di costituire un’unione strategica globale di tutte le forme di resistenza e di azione politica»6.

La “pillola rossa” offerta dall’alt-right e la “pillola blu” dispensata dall’establishment, al di là del diverso colore, conterrebbero, in definitiva, il medesimo principio attivo volto a preservare le fondamenta basilari di un sistema che non ammette alternative a sé stesso.

Sandro Moiso individua nella retorica del “duro lavoro”, onnipresente nel discorso dell’alt-right trumpiana, uno degli elementi cardine del suo successo tra la working class statunitense.

Perché è proprio nel concetto di lavoro inteso come partecipazione alla creazione della ricchezza della Nazione che si nasconde la grande fascinazione esercitata dal fascismo su una parte significativa della classe operaia. Nazionalismo, razzismo, esclusione e prevaricazione di genere, bellicismo non sono altro che i corollari, a livello ideologico, di un concetto che è penetrato in profondità nella mentalità di coloro che collegavano e collegano ancora il benessere proprio alla fatica e allo sfruttamento produttivo. […] Il barbecue famigliare e buy american cui il nuovo presidente invita i suoi elettori è fatto di cibo spazzatura e di illusioni di grandezza, di violenza e odio nei confronti degli immigrati e di qualsiasi nemico. Esterno o interno che sia7.

Tutto ciò, sostiene Moiso, era già presente, per quanto in maniera meno esplicitata, in quell’establishment di cui l’universo alt-right trumpiano si dichiara nemico. Rispetto alla tranquillizzante “pillola blu” proposta dall’establishment liberal-democratico o conservatore, ciò che la “pillola rossa” alt-right trumpiana ha esplicitato è «l’intima connessione tra interesse privato e nazionale che è il fondamento dei rapporti di produzione basati sull’appropriazione privata della ricchezza socialmente prodotta. Da cui deriva l’intrinseca e inscindibile connessione che corre tra le politiche liberali e il loro rovescio apparente: il fascismo»8.

Se al fine di “smascherare” qualche personaggio o istituzione dell’establishment nel corso del tempo hanno fatto ricorso a forme di “hacktivismo moralizzatore” tanto militanti di sinistra che di destra, questi ultimi hanno saputo garantirsi una certa egemonia all’interno della chan culture. Spetta a 4chan il ruolo di apripista in tale ambito. Per dare un’idea del bacino su cui ha potuto contare la cultura di destra fattasi egemone su 4chan, basti pensare che la sezione del forum Something Awful intitolata The Anime Death Tentacle Rape Whorehouse, inaugurata nel 2003, luogo di ritrovo di tanti appassionati di anime giapponesi, ha  raggiunto circa 750 milioni di visualizzazioni mensili nel 2011.

Attraverso una prolifica produzione di meme e troll la comunità di 4chan ha dato voce a una cultura profondamente misogina di appassionati di videogame di guerra e di film come Fight Club (1999) di David Fincher e The Matrix (1999) di Lana e Lilly Wachowski, per quanto letti da una prospettiva probabilmente altra rispetto a quella degli autori. L’anonimato consentito dal sito ha certamente incoraggiato i partecipanti a esprimersi senza freni in un’escalation sempre più sguaiata in cui l’ironia e la parodia hanno finito per intersecarsi con le provocazioni, le minacce e gli insulti della destra radicale. «La troll culture di 4chan brulicava di razzismo, misoginia, deumanizzazione, pornografia disturbante e nichilismo anni prima di diventare una forza centrale dietro l’estetica e lo humor della alt-right»9.

Ad accomunare tanti frequentatori di 4chan e gli estremisti della destra più radicale è stata la comune insofferenza nei confronti del politcally correct, del femminismo, del multiculturalismo e, soprattutto, il timore che tali tendenze potessero “infettare” il loro mondo online privo di regole e dominato dall’anonimato. Il livello degli insulti e delle minacce online ha spesso preso come bersaglio le donne accusate, in definitiva, di aver condotto al declino del “maschio occidentale”. Nella preoccupazione per la mascolinità bianca e occidentale che emerge in molta web culture anonima e priva di leader, secondo Nagle, si potrebbero cogliere  la avvisaglie di un malessere occidentale che va ben al di là dello specifico.

All’espansione di politiche identitarie liberal ha fatto da contraltare il proliferare di reazioni sempre più sguaiate e incattivite portate avanti, in internet, attraverso raffiche di meme e troll virulenti fino alle minacce dirette con tanto di  pubblicazione di informazioni riservate, indirizzi compresi, dei soggetti presi di mira, soprattutto da parte dei gamer antifemministi, dunque allargando, di fatto, la sfera d’azione al di fuori degli schermi.

Secondo Nagle a diffondere la misoginia – come del resto il razzismo, la transfobia ecc. – presente in internet nelle pieghe del corpo sociale, più che le frange radicali dell’alt-right sarebbe stata la sua componente maggioritaria, la cosiddetta alt-light, grazie a personaggi come Milo Yiannopoulos, molto popolare su Twitter e su diversi blog, Mike Cernovich, autore di una celebre guida all’essertività maschile, e una schiera di produttori di meme (Pepe the Frog ecc.) mossi, più che da una visione politica precisa, dalla propensione al politicamente scorretto fine a sé stesso.

Sebbene si tenda ad associare la cultura della trasgressione alla sua manifestazione negli anni Sessanta del secolo scorso nell’ambito di quella rivoluzione sessuale che ha nei fatti minato alle fondamenta la famiglia tradizionale, di per sé, sostiene Angela Nagle, la trasgressione si è storicamente mostrata «ideologicamente flessibile, politicamente intercambiabile e moralmente neutr[a]» tanto da poter «caratterizzare la misoginia tanto quanto la liberazione sessuale»10.

Figure di spicco delle battaglie culturali condotte dalla destra trumpiana come Milo Yiannopoulos e Allum Bokhari nel tratteggiare il pantheon intellettuale dell’alternative right citano personalità quali: Oswald Spengler (Il tramonto dell’Occidente, 1918); H.L. Mencken, avverso al New Deal e promotore di una critica nietzschiana alla religione e alla democrazia rappresentativa; Julius Evola, soprattutto per la sua esaltazione dei valori tradizionali maschilisti; Samuel Francis, paleoconservatore avverso al neoconservatorismo capitalista. Anche la Nouvelle Droite francese rientra nell’eterogeneo pacchetto di influencer a cui guarda l’alt-right statunitense.

Durante gli anni della presidenza Obama, sostiene Nagle, i millenial liberal dotati di buon livello culturale non hanno approfittato dello spazio offerto dai nuovi media dopo il declino dei quotidiani e delle televisioni generaliste, tradizionali luoghi di dibattito politico. Si sono limitati a riempire le piattaforme di contenuti melensi, pieni di sentimenti edulcorati ritenendoli sia attrattivi che utili a costruire identità politica.

Affetto da miopia o da sprezzante disinteresse e snobismo, l’universo liberal non ha saputo/voluto vedere come nel frattempo l’alt-right stesse costruendo un impero mediatico online alternativo e stratificato capace di intercettare «adolescenti che creavano meme ironici e pubblicavano online contenuti contrari all’etichetta comportamentale di Internet formavano un esercito di riserva di produttori di contenuti, composti perlopiù di immagini in stile manga e anime spesso utilizzati in un contesto di umorismo nero»11.

Un esercito facilmente convocabile da parte di celebrità della destra alternativa online come Milo Yiannopoulos, Andrew Breitbart, Cathy Young, Mike Cernovich, Alex Jones, Richard Spencer, ecc. Un mileu di personalità decisamente eterogeneo per quanto accomunato dal livore nei confronti della politica e del giornalismo tradizionali che, dopo l’elezione di Trump, evento che ha ulteriormente rafforzato la loro notorietà mediatica, in molti casi ha dato luogo, come prevedibile, ad esasperate lotte intestine.

La metafora della “pillola rossa” ha permesso tanto ai misogini quanto ai razzisti di raccontare come si sono “risvegliati” «dall’ingannevole prigione mentale del pensiero liberal»12. L’alt-right ha un ruolo di primo piano nella cosiddetta  “maschiosfera”, ambito egemonizzato dalla misoginia di individui in preda a forme di risentimento nei confronti delle donne, come nel caso di quanti si dichiarano soggetti al “celibato involontario” o denunciano le preferenze delle donne per i “maschi alfa” su quelli “beta”. «Sotto i vessilli del “movimento degli uomini” negli Stati Uniti si sono riuniti gruppi di diverso orientamento, da quelli cristiani come i Promise Keepers al movimento mitopoietico del poeta Robet Bly, impegnato nella ricerca dell’autenticità maschilista persa in una società moderna femminilizzata e atomizzata»13.

Tra le figure più note della galassia in cui misoginia e razzismo si mescolano vi è sicuramente James C. Weidmann (“Roissy in DC”) autore di proclami in cui miscela psicologia evoluzionista, antifemminismo e difesa della razza bianca dicendosi convinto che il “declino della civiltà bianca” derivi dall’immigrazione, dalla mescolanza razziale e dalla scarsa attività procreativa delle donne bianche “fuorviate dal femminismo”. Secondo Weidmann, tale declino potrebbe essere invertito attraverso la “restaurazione del patriarcato” e la “deportazione di chi non è bianco”.

Il sito Vox Day, oltre a vedere nel femminismo una minaccia per la civiltà occidentale, palesa la sua contrarietà al concetto di “stupro nel matrimonio” ritenendolo “un attacco all’istituto del matrimonio, al concetto di legge oggettiva e, di fatto, al fondamento stesso della civiltà umana”. Il movimento separatista di uomini eterosessuali Men Going Their Own Way (MGTOW) rifiuta “relazioni romantiche” con donne per protestare contro la cultura che le invita alla realizzazione personale e all’indipendenza. Tra i personaggi più in vista a cui si rifà il movimento vi è lo scrittore maschilista e suprematista bianco Francis Roger Devlin, nemico della “morale elastica” e della “confusione dei ruoli”.

Secondo Nagle molti giovani statunitensi sono attratti dalla galassia dell’estrema destra per il suo denunciare la rivoluzione sessuale come causa delle unioni matrimoniali sempre meno durature e per il suo aver posto fine ai vincoli del matrimonio non appena scemato il rapporto d’amore sgravando i coniugi dal tradizionale obbligo di sacrificarsi per la famiglia. Il prolungarsi indefinito dello stato di irresponsabilità adolescenziale avrebbe dunque condotto a una gerarchia sessuale in cui le donne, rotti i vincoli di monogamia, si concederebbero quasi esclusivamente ai maschi al vertice della piramide sociale condannando tanti altri al celibato involontario.

L’ostilità viscerale degli uomini nei confronti delle donne presente sul web sembra spesso mossa da un senso di rivalsa nei loro confronti. «Sono proprio i giovani uomini con difficoltà relazionali con l’altro sesso e che hanno sperimentato il rifiuto a riempire spazi come Incel, la sezione di Reddit dedicata al celibato involontario, nella quale cercano consigli o soltanto la possibilità di esprimere la propria frustrazione»14. La rabbia che cova tra i livelli inferiori della “gerarchia sessuale”, ossia i maschi che si sentono scarsaemnte desiderati dalle donne, è tale da esplodere, in taluni casi, in maniera estrema.

Alla maschiosfera appartengono anche i Proud Boys, fondati da Gavin McInnes, che si rifanno alla dottrina “No Wanks” e che indicano tra i loro principi guida: «governo minimo, massima fedeltà, opposizione alla correttezza politica, diritto a detenere armi, guerra alle droghe, confini chiusi, opposizione alla masturbazione, culto dell’imprenditorialità e culto delle casalinghe»15. McInnes ha più volte affermato di aver derivato alcune linee di condotta dalla scena hardcore statunitense degli anni Ottanta; non a caso le stesse produzioni grafiche dei Proud Boys riprendono la pratica do-it-yourself degli ambienti punk-hardcore.

L’eterogeneo universo dell’alternative right statunitense si contraddistingue anche per la presenza di una serie di teorie del complotto proliferate e cresciute online poi, in taluni casi, uscite dagli schermi fino a raggiungere il manistream16.

I teorici del complotto lavorano sullo stupore, sulla fascinazione, sui punti di vista inconsueti. Nel fare questo, intercettano e soddisfano bisogni autentici: nelle nostre vite abbiamo bisogno di sorpresa, meraviglia, nuove angolature da cui guardare il mondo e sentirci diversi. I teorici del complotto forniscono tutto ciò e fanno sentire speciali i loro seguaci. Non a caso usano la metafora della “pillola rossa” tratta dal film Matrix: prendere la pillola rossa significa scoprire la verità sul complotto e vedere finalmente la griglia nascosta della realtà»17.

[continua]


La pillola rossa dell’alt-right completo: Parte 1 – Parte 2  – Parte 3


  1. Luke Munn, Il processo di radicalizzazione dell’alt-right, in Matteo Bittanti (a cura di), Reset. Politica e videogiochi, Mimesis, Milano-Udine, 2023, pp. 158-159. 

  2. Cfr. George Hawley, The Demography of the Alt-Right, in “Institute for Family Studies”, 9 agosto 2018. 

  3. Luke Munn, Il processo di radicalizzazione dell’alt-right, op. cit., p. 161. 

  4. Matteo Bittanti (a cura di), Reset. Politica e videogiochi, Mimesis, Milano-Udine, 2023 [su Carmila] 

  5. Alain Badiou, Trump o del fascismo democratico, Meltemi, Milano, 2018. 

  6. Fabio Ciabatti, Dopo Trump, il rilancio dell’idea comunista per superare lo sgomento, in “Carmilla”, 12 maggio 2018. 

  7. Sandro Moiso, Hard working men: alle radici del fascismo di Trump (e non solo), in “Carmilla”, 21 febbraio 2017. 

  8. Sandro Moiso, Hard working men: alle radici del fascismo di Trump (e non solo), op. cit. 

  9. Ivi, p. 149. 

  10. Angela Nagle, Contro la vostra realtà. Come l’estremismo del web è diventato manistream, Luiss University Press, Roma, 2018, p. 53. 

  11. Angela Nagle, Contro la vostra realtà. Come l’estremismo del web è diventato manistream, Luiss University Press, Roma, 2018, p. 66. 

  12. Ivi, p. 126. 

  13. Ivi, p. 125. 

  14. Ivi, p. 139. 

  15. Ivi, p. 135. 

  16. Cfr.: Wu Ming 1, Come nasce una teoria del complotto e come affrontarla, prima parte, in “Internazionale”, 15 ottobre 2018; Wu Ming 1, Come nasce una teoria del complotto e come affrontarla, seconda parte, in “Internazionale”, 29 ottobre 2018. 

  17. Wu Ming 1, Come nasce una teoria del complotto e come affrontarla, seconda parte, op. cit. 

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Ed.912 e dintorni – Editoria e controcultura italiana tra anni ’60 e ’70 https://www.carmillaonline.com/2022/03/16/ed-912-e-dintorni-editoria-e-controcultura-italiana-tra-anni-60-e-70/ Wed, 16 Mar 2022 21:00:39 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=70942 di Gioacchino Toni

Nell’ambito delle iniziative e delle pubblicazioni dedicate all’intrecciarsi di vicende artistiche e impegno politico in Italia a cavallo tra anni Sessanta e Settanta, vale la pensa segnalare l’uscita del saggio di Federica Boragina, Editoria e controcultura: la storia dell’Ed.912, (posmedia books, 2021), dedicato all’importante esperienza editoriale milanese che ha preso il via negli anni Sessanta.

Fondata nel 1966 da Gianni-Emilio Simonetti, Gianni Sassi e Sergio Albergoni, a cui si aggiungeranno poi Tommaso Trini, Germano Celant, Mario Diacono e Maria Volpi, la casa editrice Ed.912 prende vita all’interno di una scena [...]]]> di Gioacchino Toni

Nell’ambito delle iniziative e delle pubblicazioni dedicate all’intrecciarsi di vicende artistiche e impegno politico in Italia a cavallo tra anni Sessanta e Settanta, vale la pensa segnalare l’uscita del saggio di Federica Boragina, Editoria e controcultura: la storia dell’Ed.912, (posmedia books, 2021), dedicato all’importante esperienza editoriale milanese che ha preso il via negli anni Sessanta.

Fondata nel 1966 da Gianni-Emilio Simonetti, Gianni Sassi e Sergio Albergoni, a cui si aggiungeranno poi Tommaso Trini, Germano Celant, Mario Diacono e Maria Volpi, la casa editrice Ed.912 prende vita all’interno di una scena artistica del capoluogo lombardo particolarmente effervescente a cavallo tra i due decenni, una scena che non manca di intrecciarsi con i nascenti ambienti controculturali e politici. Sul finire degli anni Sessanta l’avventura di Ed.912 si allontana dall’iniziale ambito strettamente artistico per abbracciare la montante cultura alternativa della “città dei capelloni”.

Il volume di Boragina si apre ricostruendo l’ambiente artistico-culturale milanese che farà da premessa all’esperienza della casa editrice Ed.912 a partire dalla mostra organizzata da Daniela Palazzoli e Gianni-Emilio Simonetti nel 1964 Gesto e Segno presso la galleria Blu di Milano – incipit dell’avventura Fluxus italiana – e dall’esperienza della East 128 di Fernanda Pivano ed Ettore Sottsass dei primi anni Sessanta – a cavallo tra Palo Alto in California e la città meneghina –, passando poi dalla breve stagione della rivista Pianeta Fresco e poi di Mondo Beat, che non mancò di scagliarsi apertamente contro Pivano e Feltrinelli accusati, nel loro agire all’interno dell’industria culturale, di banalizzare, quando non di commercializzare, la protesta giovanile.

L’attività di Ed.912 prende il via con la realizzazione del numero zero della rivista da-a/u delà intitolato Ready-Game-Bum che nella sua forma oggettuale si propone come una scatola, su cui campeggia l’inquietante scritta “Attention (handle with care) contains explosive”, contenente una radio a galena e un provocatorio messaggio dattiloscritto che invita a innescare un’esplosione. Oltre a giochi linguistici dal sapore non-sense, evidenti sin dal nome della testata, occorre sottolineare il ricorso a caratteri a stampa minuscoli e maiuscoli ed a trattini di punteggiatura che richiamano i giochi grafici di George Maciunas.

Le prime proposte di Ed.912 tendono a porre l’attenzione non tanto sulla tipologia dei prodotti editoriali, quanto piuttosto «sul carattere corale delle attività di sostegno, diffusione e sperimentazione. L’ambizione è avere un orizzonte internazionale, facendo da collettore e diffusore della cosiddetta “nuova nuova avanguardia”» (p. 57).

Se sin dagli esordi Ed.912 non manca di esporsi politicamente, dichiarandosi disponibile ad inviare gratuitamente le sue pubblicazioni ai reclusi nei campi profughi e nelle carceri civili e militari, allo stesso tempo non disdegna di dialogare con l’industria culturale accettando la distribuzione delle proprie realizzazioni nelle librerie Feltrinelli e di ricorrere ad annunci pubblicitari.

Tra le realizzazioni più importanti della casa editrice, oltre alla rivista bit, in doppia lingua italiano-inglese, di cui vengono pubblicati dieci numeri usciti in maniera irregolare dal marzo 1967 al giugno 1968, si possono ricordare le tre serie di manifesti d’artista (“dEDsign”, “Situazione” e “No”) realizzati in 500 esemplari numerati con l’obiettivo di condurre l’arte ad invadere l’ambito della comunicazione pubblicitaria e della propaganda politica.

Nonostante l’esplicito riferimento a temi politici, nazionali e internazionali, nonché l’esplicita vicinanza al clima della contestazione, nel corso del 1967 l’Ed.912, attraverso la produzione di manifesti, da un lato ha evidenziato la vicinanza dei linguaggi artistici all’espressività extra-artistica dei movimenti giovanili, dall’altro orientando la stessa operatività artistica verso una dimensione plurale, seriale, capace di veicolare una “rivoluzione culturale” dall’interno del sistema dell’arte (p. 105).

Il quinto numero di bit ha fatto parlare di sé per la celebre grafica di copertina realizzata da Pietro Gallina recante la sagoma di una donna, con una copia della rivista in tasca, che dirige il getto di una bomboletta spray verso il volto di un poliziotto in uniforme inglese. La rivista suggerisce di acquistare una bomboletta messa in vendita dall’editore con un invito perentorio: “Dipingi di giallo il tuo poliziotto”.

Sul finire del 1967 il clima nel capoluogo lombardo si surriscalda e la rivista stessa passa velocemente dalla critica culturale ironica a dare spazio alle molteplici iniziative di lotta e contestazione che attraversano la società dalle università alle fabbriche fino alle mostre e alle iniziative artistiche e culturali. Tale scelta è accompagnata anche da una nuova produzione di manifesti che continua a ricorrere al succinto e diretto linguaggio della pubblicità. Tra il 1968 ed il 1969 la casa editrice dà alle stampe un volume dedicato al Maggio francese e due relativi all’Internazionale Situazionista (L’estremismo coerente dei situazionisti e Capitalismo moderno e rivoluzione).

L’ultima parte del volume di Federica Boragina si sofferma invece sulle travagliate vicende editoriali del libro …ma l’amor mio non muore. Origini documenti strategie della «cultura alternativa» e dell’«underground» in Italia, uscito originariamente per la casa editrice Arcana nel 1971, riuscendo a scampare al sequestro delle copie stampate soltanto perché queste furono vendute prima.

Ristampato recentemente da DeriveApprodi, il volume si presenta come una sorta di sguaiata antologia di rivolta esistenziale, prima ancora che politica, contenente consigli pratici relativi al difendersi dai gas lacrimogeni, alla fabbricazione di bottiglie incendiarie, sostanze stupefacenti, ripetitori radio pirata, oltre che volantini, stralci di giornali, illustrazioni e fumetti insieme a commenti situazionisti, beat ecc. “Una critica ironica, divertita, colta, cattiva allo stato presente delle cose” curata, oltre che da Gianni-Emilio Simonetti, da Riccardo Sgarbi, Guido Vivi e altri.

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Estetiche inquiete. Dalla “K” alla “X”, dall’estremo all’eXtremo https://www.carmillaonline.com/2021/05/04/estetiche-inquiete-dalla-k-alla-x-dallestremo-allextremo/ Tue, 04 May 2021 21:00:19 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=66117 di Gioacchino Toni

A distanza di un paio di decenni dalla sua prima uscita, torna in libreria, in una nuova edizione ampliata e corretta, il volume di Massimo Canevacci, Culture eXtreme. Mutazioni giovanili tra i corpi della metropoli (DeriveApprodi 2020). Entrando nel vivo dei rapporti tra giovani e metropoli, media, scena artistica e musicale, l’autore si sofferma su alcuni ambiti delle culture giovanili degli anni Novanta del secolo scorso che hanno fatto ricorso con una certa frequenza a modalità comunicative caratterizzate da un uso insistito della lettera “X”. Una costellazione sociale ed un immaginario espressioni di un mutamento radicale delle forme [...]]]> di Gioacchino Toni

A distanza di un paio di decenni dalla sua prima uscita, torna in libreria, in una nuova edizione ampliata e corretta, il volume di Massimo Canevacci, Culture eXtreme. Mutazioni giovanili tra i corpi della metropoli (DeriveApprodi 2020). Entrando nel vivo dei rapporti tra giovani e metropoli, media, scena artistica e musicale, l’autore si sofferma su alcuni ambiti delle culture giovanili degli anni Novanta del secolo scorso che hanno fatto ricorso con una certa frequenza a modalità comunicative caratterizzate da un uso insistito della lettera “X”. Una costellazione sociale ed un immaginario espressioni di un mutamento radicale delle forme di vita di un periodo segnato dalla trasformazione del sistema produttivo, dalla scomparsa del Muro, dal dissolversi delle grandi narrazioni e delle strutture politiche tradizionali. Forme embrionali di una trasformazione che, in alcuni suoi tratti, sembra anticipare quell’intrecciarsi di materiale e immateriale che è tra i tratti caratterizzanti l’attualità.

Il contesto attuale si basa su una compenetrazione – ubiqua, sincretica, polifonica e metafeticista – tra materiale e immateriale, tra metropoli comunicazionale e tecnologie digitali che è stato intravisto e in gran parte anticipato in quegli anni, purtroppo senza poter affermare una visione altra rispetto a quella che successivamente sarà dominante (p. 5).

Canevacci affronta la trasformazione della “città industriale”, con le sue specifiche modalità produttive e conflittuali, nella recente “metropoli comunicazionale” attraversata da «soggettività mutanti, culture digitali, movimenti tra asfalto lacerato e social purificato, migrazioni diasporiche» (p. 5). Un nuovo panorama composto da «soggettività connettive», più che collettive, in cui l’impossibilità di distinguere nettamente uno spazio pubblico da uno privato ha sicuramente inciso sulla costruzione delle nuove identità.

Canevacci dichiara esplicitamente di essersi voluto tenere alla larga da quelle sistematizzazioni, classificazioni e comparazioni con cui molti sociologi, antropologi e giornalisti tendono a incasellare “i giovani” in quanto si dice convinto che le culture giovanili restano liquidi frammenti refrattari alle rigide catalogazioni.

Nella prima parte del volume l’autore intende ridefinire gli scenari entro cui si collocano i frammenti giovanili contemporanei e lo fa a partire dalla presa d’atto dell’obsolescenza dei concetti di «controcultura» e di «subcultura». Nato sul finire degli anni Sessanta, esplicitando un intento oppositivo e alternativo nei confronti dell’esistente, il termine “controcultura”, sostiene l’autore, esaurisce la sua parabola vitale all’inizio degli Ottanta quando le culture giovanili non sono più “contro” una cultura dominante che nel frattempo sembra essersi frammentata in una pluralità di poteri, né a favore di una “cultura contro”. «Non esiste più una controcultura perché è morta la politica come utopia che trasforma il mondo impegnando il futuro prossimo» (p. 17). Con la scomparsa dell’ideologia e della politica tradizionali scompare anche il concetto di “contro”. È proprio da tali dissolvimenti che, sostiene Canevacci, si sono liberate le culture giovanili «eXtreme».

Anche il concetto di subcultura, secondo l’autore, ha fatto il suo tempo. Se il termine controcultura ha una matrice politico-alternativa, quello di subcultura indicare invece un sottoinsieme di una cultura più generale di cui è pur sempre parte integrante e, nella sua parzialità, non manca di ereditare i limiti del più generale concetto di “cultura”.

Se non è affatto detto che le culture giovanili siano per forza eXtreme, mette in guardia Canevacci, nemmeno tutte le subculture hanno carattere antagonista.

Lungo i flussi mobili delle culture giovanili contemporanee – plurali, frammentarie, disgiuntive – le identità non sono più unitarie, ugualitarie, compatte, legate a un sistema produttivo di tipo industrialista, a uno riproduttivo di tipo familista, a uno sessuale di tipo mono-sessista, a uno razziale di tipo purista, a uno generazionale di tipo biologista. Quindi, rispetto alle culture giovanili, una subcultura non è per sua natura una controcultura, perché può essere anche una cultura pacificata, ordinata, mistica, ecc. (p. 21)

L’obsolescenza del termine subcultura deriva dalla mancanza di una cultura generale unitaria di cui una parzialità farebbe dunque parte. «Se fin dall’inizio era già difficile definire i punk un’espressione sottoculturale (Hebdige), ora la morte del carattere nazionale – che ordinava una scala gerarchica piramidale da una punta egemonica fino a una base subalterna, sui cui dislivelli si ordinavano queste “culture-sotto” – trascina con sé anche la morte delle subculture» (p. 22).

Canevacci coglie in alcune trasformazioni della comunicazione dei giovani più irrequieti i segni di importanti cambiamenti epocali. «Per un transito multi-narrativo attraverso le interzone delle culture giovanili, si potrebbero assumere come indicatori due lettere: “k” e “x”» (p. 47). La prima rimanda alle controculture giovanili di tipo antagonista degli anni Settanta: in quella “K” «si concentravano grappoli di significati che caratterizzavano il soggetto come portatore di dominio. Così “Kultura” significava che la cultura – come forma libera ed espressiva del sapere – si era trasformata in qualcosa di opposto: in trasmissione di valori autoritari» (pp. 47-48).

A partire dagli anni Ottanta l’equazione K=dominio tende a svanire e si attesta uno slittamento di significati. La “K” non denuncia più l’autoritarismo (la stagione dei “Kossiga”) ma viene fatta propria dagli ambienti antagonisti con finalità per così dire “autocelbrative”, probabilmente per rafforzare la propria immagine di “potenza” (la stagione delle “okkupazioni”). Una transizione semantica che conduce dalla denuncia del potere alla celebrazione della (propria) potenza.

Se la “K” degli anni Ottanta è comunque figlia – cambiata di segno – del sistema politico comunicativo precedente, la “X” degli anni Novanta non sembra derivare dalla conflittualità del passato, salvo il ricorso ad essa in ambito afroamericano – Malcom X – al fine di rimarcare un necessaria riscrittura identitaria. Poi la “X” farà la sua comparsa negli ambienti punk e successivamente in Internet abbinata all’eccesso, all’irregolare, all’alieno, allo scandalo e così via.

Oltre a questa carica semantica di “contro” e di “proibito”, la “X” assume altri concentrati di senso: […] la “X” a poco a poco è divenuta una sorta di ideogramma che, grazie al suono fonetico inglese (x = ecs), ha finito con incorporare il timbro sonoro dell’irregolare. La misura extra-extra-large come incontenibile, la musica hard core come inascoltabile, le immagini-graffiti come insopportabili, il porno XXX come invisibile. Molte forme della comunicazione giovanile oppositiva assumono la “X” come codice (lemma) che salta i confini e che sta contro i confini. E in questo si trovano – e non per la prima volta – vicini, troppo vicini, ai lessici di pubblicitari, serial, siti-web. (pp. 50-51)

Convinto che nel contesto contemporaneo nessun luogo possa essere «una “sezione” di qualcosa di più vasto: un anticipo sull’utopia. Una “prefigurazione”», l’autore decide di abbandonare «metodologie estratte dal sociale per “classificare” queste culture giovanili» preferendo ricorrere a «concetti obliqui, visori-indicatori, moduli sfaccettati che emergono dalla metropoli. Uscire dal sociale ed entrare nella metropoli significa […] percepire le culture eXtreme (X-terminate) in modi mobili, irrequieti, oppositivi». Dunque, Canevacci si prodiga nel «narrare tessuti comunicativi immateriali fatti di frammenti, stili, codici, corpi, techno» (p. 53) dando vita a una ricerca che intende «focalizzare quelle schegge anomiche delle culture giovanili metropolitane che riescono a esprimere conflitti e innovazioni tra i flussi della comunicazione materiale e immateriale. Per questo sono eXtreme» (p. 54). Dunque, l’autore delimita il campo delle culture estreme giovanili

a quelle che si muovono disordinatamente tra gli spazi metropolitani e scelgono di innovare conflittualmente i codici. Di smuovere i significanti statici. Di produrre significati alterati. Di liberare segni fluidi dai simboli solidi. È questo flusso che, per differenziarlo da un generico uso di estremo (sport-sesso-politica-arte), chiamo eXtremo. Culture eXtreme sono quelle che, nel corso della loro autoproduzione, si costruiscono secondo i moduli spaziali dello sterminato. Le culture eXtreme sono sterminate: eX-terminate: nel senso che spingono a non essere terminate, a sentirsi come interminabili, a rifiutare ogni termine alla loro costruzione-diffusione processuale. Culture interminabili in quanto rifiutano di sedersi tra le mura della sintesi e dell’identità, che inquadrano e tranquillizzano. Normalizzano e sedentarizzano. (p. 54)

La parte centrale del volume è dunque dedicata ad un excursus sulle culture giovanili sterminate in un fluire di paragrafi che tratteggiano un’epoca: T.A.Z. – Rewind; Interzone; Merci-tatuate; Fucking Barbies; Fika Futura; Corpi inorganici; Toretta; Torazine; Rave; Fluid Video Crew; Luther Blissett; Cherokee; Anarcociclisti; Decoder; Link; Pirateria di Porta; Brain-Machine; Fin*techlan; Rewind; NDE.

Nella sua parte finale il volume cambia rispetto alla prima edizione: il capitolo “Concetti liquidi” lascia il posto al nuovo “Concetti anomici”: «tensioni che connettono le interzone eXtreme (le correnti differenziate delle culture sterminate) e alcune esplorazioni di senso inconcepite. Culture sterminate, interzone eXtreme, concetti anomici: sullo scorrere di queste tre differenze si articola, innalza e defluisce il testo» (p. 12). Compongono questa nuova stesura i paragrafi: Aporia; Diaspora; E-space; Nonorder; Anomia; Mediascape; Amnesia.

Le ultime pagine sono invece dedicate ad una riflessione dell’autore circa le modalità con cui ha condotto il suo lavoro di ricerca sulle culture eXtreme negli anni Novanta, sul rapporto tra spontaneità e improvvisazione, tra regole e infrazione, liberazione e regressione… sul ricorso ad una «metodologia vagante» nell’ambito della etnografica sulla gioventù contemporanea.

Piacciano o meno, gli anni Novanta hanno lasciato il loro segno sul presente. Si può essere perplessi o dissentire sull’approccio con cui l’autore ha condotto la sua disamina e su alcune sue interpretazioni ma Culture eXtreme resta un testo che a due decenni di distanza dalla sua prima stesura si rivela ancora capace di mostrare risvolti delle culture giovanili degli anni Novanta che tanti sociologi, antropologi e giornalisti non hanno saputo cogliere.


Estetiche inquiete

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Ignora chi t’ignora https://www.carmillaonline.com/2020/09/14/ignora-chi-tignora/ Mon, 14 Sep 2020 20:30:45 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=62659 di Mauro Baldrati

Il 21 agosto, un venerdì, ho scritto una mail – corredata da queste foto – al Comune di Casalecchio di Reno (BO), all’attenzione dell’assessore all’Ambiente: “Gentile dottoressa, a Cesenatico, dove mi trovo, nel parco del Levante ci sono queste postazioni, piccole palestre all’aperto, molto utilizzate. Perché nel parco Talon, visto che ora è un insieme di prati, non ne impiantate di simili? Il parco è frequentato da sportivi, e penso che la cosa sarebbe molto apprezzata. Cordiali saluti.”

A tutt’oggi non c’è risposta. Ma è normale. Questo comune [...]]]> di Mauro Baldrati

Il 21 agosto, un venerdì, ho scritto una mail – corredata da queste foto – al Comune di Casalecchio di Reno (BO), all’attenzione dell’assessore all’Ambiente: “Gentile dottoressa, a Cesenatico, dove mi trovo, nel parco del Levante ci sono queste postazioni, piccole palestre all’aperto, molto utilizzate. Perché nel parco Talon, visto che ora è un insieme di prati, non ne impiantate di simili? Il parco è frequentato da sportivi, e penso che la cosa sarebbe molto apprezzata.
Cordiali saluti.”

A tutt’oggi non c’è risposta. Ma è normale. Questo comune ha la caratteristica di non rispondere alle mail. Un anno fa ne ho inviata un’altra al settore Lavori Pubblici che recitava: “Ma come avete potuto permettere all’impresa che ha effettuato gli scavi per le canalizzazioni della fibra di ricoprire gli stessi col cemento e non con l’asfalto? Ora si sta spaccando, e sarà necessario rifare il lavoro.”

Nessuna risposta. Anzi, il comune ha eliminato i link dei settori dall’home page, così se qualcuno vuole scrivere o telefonare alla Cultura, all’Ambiente, deve procurarsi i recapiti per conto suo. E’ un segnale. Un segnale di modernità. Infatti l’ente pubblico si ritira, dai territori, dai cittadini, che probabilmente sono visti come rompiscatole, portatori di richieste e osservazioni “basse”, che disturbano il manovratore.

Questa modalità si è estesa a tutto il paese, in tutti i settori. Visto che siamo tutti scrittori, è arcinoto che gli editori e gli agenti non rispondono alle mail. Viene da dubitare della loro stessa esistenza. O meglio, gli agenti talvolta rispondono, specialmente quelli medi o piccoli, ma chiedono compensi per valutare le opere. Poi, si vedrà.

E pensare che io, che ho attraversato vari periodi storici, gli anni Sessanta, Settanta, Ottanta (dei Novanta e 00 cosa si può dire?), ho avuto la fortuna di conoscere l’era antica in cui tutti rispondevano. Editori, critici, altri autori. E non con le mail, ma con lettere scritte a mano o a macchina, affrancate e spedite.

Durante l’adolescenza scrivevo di getto, con una sorta di furore, dei poemi con la modalità prosa spontanea, che copiavo da Jack Kerouac, uno dei miei eroi, insieme a Allen Ginsberg e Henry Miller. Un giorno decisi di spedirne uno a Fernanda Pivano, che aveva tradotto quasi tutti i beat, e a Mario Praz, che aveva scritto l’introduzione al Tropico del Cancro. Della Pivano ero riuscito a procurarmi l’indirizzo, per Praz scrissi semplicemente sulla busta: Mario Praz c/o Accademia dei Lincei, Roma.

Arrivarono le risposte, a pochi giorni di distanza l’una dall’altra. La Pivano scriveva a macchina, Praz con la stilografica, con una calligrafia chiusa, acuminata. La Pivano diceva che se volevo continuare a scrivere dovevo rendere le mie emozioni, le mie storie, dopo averle ripulite dalle scorie intimiste, universali. Così chi leggeva poteva trovare, nella mia scrittura, emozioni e istanze sue. Per anni quelle parole mi sono tornate alla mente, mentre cercavo la mia strada. E ancora oggi le considero un insegnamento importante. Mario Praz scriveva semplicemente che non capiva i giovani. Ci provava, si impegnava, ma era inutile. Per lui eravamo dei mondi lontanissimi. Non era affatto contento di questo. Lo considerava un suo limite, ma non riusciva a superarlo.

Dunque questa è la situazione. Può peggiorare? Immagino di sì, visto che sembra non esserci limite al peggioramento. Forse gli editori più potenti si rinchiuderanno dentro cittadelle fortificate, con guardie armate all’ingresso, assediate da folle di scrittori inferociti mutati in zombies. E potrebbe verificarsi un’effrazione improvvisa che manderebbe tutti nel panico: “E’ entrato uno scrittore!” Sirene, guardiani armati di mitra a canna corta che corrono in tutte le direzioni.

Pertanto, cari scrittori e aspiranti tali, bisogna prenderne atto, e adeguarsi. Ma come? Incazzandosi. Sì, è un sentimento non solo inevitabile, ma utile. Ma quale tipo di incazzatura? Se non ha sbocchi rischia di rivolgersi contro se stessi, provocando depressione, rancore, e malattia che va ad aggiungersi ad altra malattia. Perché è risaputo che gli scrittori sono quasi tutti dei sociopatici che reagiscono con la fantasia ai problemi di rapporto con loro stessi e con gli altri. Migliorano la realtà, senza uscire di casa, senza viverla veramente.

Invece, se proprio non si può fare a meno di perseverare, non c’è che uno sbocco possibile. Gli editori e gli agenti vi ignorano? Non continuate a insistere, ad aspettare risposte che non arriveranno. Loro vi ignorano e voi ignorate loro. Anzi, cancellateli dalle vostre menti, fate tabula rasa. Nessuna polemica coi vari vincitori dei campielli e delle streghe, e coi grandi editori che pubblicano certi libri fetentissimi. E se fossero creature virtuali create dai computer quantici delle cittadelle fortificate?

Ovviamente detto così, col punto finale, significa qualcosa di molto brutto. Significa la solitudine, privata e pubblica. Il vuoto, l’oscurità. Invece bisogna lavorare. Come? Studiando, non solo scrivendo.

Intanto bisogna capire come hanno fatto, i nostri antenati degli anni Sessanta, Settanta e Ottanta, a creare un mondo parallelo alternativo. Infatti questa era la parola: ALTERNATIVA. Quelli della controcultura, del do it! si organizzavano. Fondavano dei movimenti di assistenza e di supporto, distribuzione abiti, coordinamenti di avvocati, giornali autogestiti, teatri, concerti. Il concetto era quello di fondare cellule alternative sane in un organismo malato, che diffondendosi potevano guarirlo.

Questa modalità è continuata nei due decenni successivi con l’underground, il do it yourself! dei punk e della new wave, soprattutto nel campo della musica, che resta un sistema di comunicazione universale, perché sconta in misura minore il limite della lingua.

Per cui sarebbe interessante studiare i loro linguaggi, le loro iniziative, cercando documenti e filmati. Esistono anche dei libri utili, uno dei quali è il sempre attuale L’orda d’oro.

Ma non basta. Lo studio deve riguardare anche le opere. La ricerca della propria strada non deve fermarsi. Questo è il punto più delicato. Non è che il mitico esordiente una mattina scende dal letto, butta le braccia in alto e grida alè!!! scriverò un libro che spacca! Magari sì. Magari è nato un nuovo Rimbaud, ma c’è da dubitare fortemente. Lo studio deve uscire dalle viscere, dallo stomaco, dallo stato di esaltazione, e guardare i dintorni. Come sono i tempi, i luoghi, i flussi? Cosa accade dentro il tempo morto, nello spazio trafitto dalla deiezione umana e dai virus? Anche perché, rispetto agli antenati, è sorto un nuovo problema. Anzi, IL problema: l’omologazione di ciò che resta dei lettori. Gli antenati avevano un seguito, un pubblico. Avevano i cittadini del mondo alternativo. Oggi, sembra che il pubblico moderno si precipiti negli store per allungare la mano verso le gigantesche pile dei colibrì e compagnia bella. Quella è la merce che bisogna comprare. Che deve essere non solo letta, ma piaciuta.

Poi, a quel punto, poiché lo stato delle cose riguarda anche gli editori minori, che cercano di sopravvivere all’esterno della cittadella, potrebbe nascere un consorzio di tutela, tipo quello del Parmigiano. Una gabbia per le copertine uguale per tutti, con libertà di immagini, di grafica, di titolo e, in basso, la dicitura Editori Alternativi, seguita dal nome dell’editore affiliato al consorzio. Per esempio, Gli Imperdonabili, hanno elaborato un decalogo con le istruzioni per scrivere narrativa. Si può non essere d’accordo, si può non adottarlo, ma l’idea di un gruppo di tipi che scrivono in modalità collettiva è intrigante. Il tutto sotto l’ombrello del consorzio. Un marchio di identità e di qualità.

E’ un sogno?
Chissà.
Però sarebbe l’inizio di una costruzione, una fondazione, una macchina da guerra.
E come in ogni guerra è indispensabile studiare anche il Sun Tzu.
L’arte di combattere senza combattere.

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Ma chi sono gli scrittori falliti? https://www.carmillaonline.com/2020/07/23/ma-chi-sono-gli-scrittori-falliti/ Thu, 23 Jul 2020 20:30:52 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=61305 di Mauro Baldrati

Un anno – era il 2005 – ho partecipato a una serata di gala del Premio Strega, la presentazione dei cinque finalisti: Maurizio Maggiani, Giuseppe Conte, Maurizio Cucchi, Edoardo Nesi e Valeria Parrella. L’evento si teneva a Bologna, e io andai come inviato del sito di Giulio Mozzi Vibrisse. Per la verità mi inviai da solo, ma scrissi comunque un reportage che pubblicai sul sito, che purtroppo ha chiuso i battenti per riconversione completa, e tutto il materiale pregresso andò perduto. Giulio ci invitò, prima di procedere, a fare un [...]]]> di Mauro Baldrati

Un anno – era il 2005 – ho partecipato a una serata di gala del Premio Strega, la presentazione dei cinque finalisti: Maurizio Maggiani, Giuseppe Conte, Maurizio Cucchi, Edoardo Nesi e Valeria Parrella. L’evento si teneva a Bologna, e io andai come inviato del sito di Giulio Mozzi Vibrisse. Per la verità mi inviai da solo, ma scrissi comunque un reportage che pubblicai sul sito, che purtroppo ha chiuso i battenti per riconversione completa, e tutto il materiale pregresso andò perduto. Giulio ci invitò, prima di procedere, a fare un back up dei nostri pezzi, ma in quel periodo non avevo tempo per una lunga ricerca nell’archivio. Ma è più probabile che credessi in una certa volatilità delle opere, che appaiono e scompaiono, come tanti casi della vita.

Vinse Maurizio Maggiani (che nei comunicati stampi era diventato Baggiani). Non lessi il suo libro, Il viaggiatore notturno, come nessuno dei libri degli altri finalisti. Non per qualche motivo particolare. Non per snobismo. A parte i thriller e i noir, non riesco quasi più a uscire dalla lettura e rilettura dei cosiddetti “classici”, molto Ottocento e anche Novecento. Non è un vanto, anzi, la considero una lacuna. O addirittura una forma di difesa. Ma così è.

A quei tempi non seguivo le questioni letterarie; partecipavo alle discussioni sui blog, spesso alle risse, su vibrisse e Nazione Indiana. Vertevano soprattutto su testi pubblicati su quei blog, che erano aggrediti con estrema violenza dai troll, personaggi molto temuti perché avevano come unico obiettivo, che portavano avanti come una missione, la tortura dell’autore, fino alla sua distruzione.

Non le seguivo perché la mia formazione affonda nell’adolescenza della fine degli anni Sessanta/prima metà dei Settanta. Noi avevamo i “nostri” giri, i nostri spazi, le nostre riviste. La critica verso “gli altri” esisteva, e come: la guerra in Vietnam, l’establishment, il razzismo, i diritti civili. Poi intervenne la lotta di classe, lo sfruttamento sul lavoro, la devastazione ambientale per il profitto. Ma erano critiche dei massimi sistemi, in cui comunque abbiamo creduto, e sono convinto che quelli della mia generazione che hanno partecipato a certe controculture siano i più antirazzisti, ambientalisti e rispettosi delle idee altrui dell’intera specie umana.

Questo disinteresse e questa identità collettiva sono proseguite anche nel decennio successivo, quando mi capitò un lavoro nella redazione di Frigidaire, a Roma. Ci rubavano spesso i pezzi, o pezzi di pezzi, senza mai citare la provenienza. Qualcuno si arrabbiava, ma i più si divertivano. Senza alzarsi dalla sedia gli embedded scrivevano di autori, artisti, musicisti ancora sconosciuti che avevamo scoperto noi con gli articoli in prima linea di Stefano Tamburini, Pierfrancesco Pacoda e pochi altri. Non ci riguardava. Che rubassero pure.

Io credo che questo disinteresse per un mondo morente, che si preoccupa solo del suo piccolo profitto, il mondo upper class dell’editoria e annessi che ha smesso di fare ricerca per inseguire la pancia della rimodernata borghesia spaventata e confusa, sia da recuperare. Magari aggiornato, come si fa per il marxismo. Sia da recuperare una certa identità collettiva, una fiducia nel proprio lavoro e non andare in crisi se “loro” non prestano attenzione, non rispondono alle mail, non scrivono recensioni, non espongono negli scaffali delle librerie chi non fa parte del giro upper class. Orgoglio e consapevolezza della propria appartenenza, questa sarebbe la salvezza. Non sarebbe neanche il caso di contestare, di arrabbiarsi. Fatti Loro. Anzi, più modernamente: cazzi loro.

Perché non è vero ciò che scrive Monica Rossi, ossia che gli scrittori che vendono 200 copie non sono veri scrittori (“definirsi scrittori con 200 copie vendute è una grandissima cazzata frutto di una visione distorta dell’editoria prima e della vostra vita poi”) ma falliti rabbiosi che si sfogano sul web con attacchi e insulti: i discendenti dei famigerati troll. No: falliti sono quelli che vendono 200 copie e imitano gli scrittori maggiori. Oppure gli editori piccoli che galleggiano a fatica e imitano le copertine e i contenuti degli editori maggiori.

Ma detta così, 200 copie = fallimento è, come direbbe la stessa Monica Rossi, una cazzata. Perché il fallimento è un concetto borghese, che si basa sul fatto che tutto debba avvenire all’interno di un sistema dove si esalta il mito del successo a tutti costi, del diventare famosi ecc. E’ una sorta di nuova versione del darwinismo sociale, una dottrina reazionaria e irrazionalista che de-storicizza ogni dinamica umana per inserirla in un procedimento solo biologico, per cui i più forti, i più dotati emergono e i deboli, i falliti, sono costretti a subire e a servire. E’ come tra ricchi e poveri. Non c’entrano la storia, l’economia, il sistema. I poveri sono falliti perché non sono riusciti a diventare ricchi, né benestanti. Perché è giusto. Perché è naturale.

Gli scrittori da 200 copie sono tali anche (soprattutto?) perché la classe dominante editoriale li relega negli scaffali verticali delle librerie, quando sono distribuiti. Che al massimo li gratifica con schedine di quindici righe con francobollo della copertina nelle pagine periferiche dei giornali. Tra di loro possono esserci certamente gli imitatori, ma nel gruppo si trovano anche ottimi autori che nessuno caga, che noi di carmilla abbiamo più volte recensito o presentato.

Monica Rossi però scrive anche cose giustissime: che la risposta di questi autori falliti è l’invidia, l’odio verso chiunque abbia successo (altro retaggio dei troll). E’ vero. Ma occorre anche riflettere, non solo da un punto di vista darwinista sociale. Come si deve sentire un emarginato? Non è naturale una forma di rabbia verso il balletto delle super recensioni dei soliti, che sono coloro che vendono?

Vero, ma la rabbia andrebbe lavorata. Gli operai manifestano, espongono cartelli, rilasciano interviste. Gli scrittori falliti potrebbero manifestare, con cartelli contro i padroni dell’editoria? Ho idea che farebbe un po’ ridere.

Marina Cuollo, una ragazza disabile mia amica su Facebook, scrive, sulla sua pagina: “Siamo nel Disability Pride Month e io ci ho messo un po’ a comprendere davvero il significato di orgoglio.⁣ Trovare l’orgoglio dentro di noi è un percorso lungo e complicato. Esattamente com’è complicato per una pianta crescere in un terreno ostile.” ⁣E’ perfetto: Scrittori Falliti Pride. Sarebbe utile, e benefica, la presa di coscienza della propria classe. E accettare, perché è scontato, che lassù se le cantano da soli, purché si venda. Non bisogna dimenticare, infatti, che i neoliberisti sono eleganti, educati, tengono preferibilmente un profilo basso, purché si venda. Questo è l’Enunciato Unico.

Gli scrittori falliti dovrebbero prendere coscienza che quelli che hanno successo se ne fregano di loro e delle loro sfuriate o “scaracchi” di disprezzo. Per cui dovrebbero ricambiare con lo stesso disinteresse e lasciarli nel loro mondo maggiore desertificato.

Ma detta così è un’altra cazzata.

Primo: non imitare. Significa sognare un successo che è una truffa neoliberista. E quindi è inevitabile il fallimento. Invece cercare uno stile originale, un contenuto originale, magari in controtendenza, ma non ostile. Nessuna sfida antidemocratica al lettore. Questo tra l’altro è valido anche in politica, infatti la comunicazione di molta sinistra antagonista è troppo dura, respinge invece di accogliere.

Secondo, questa presa di coscienza dovrebbe essere condivisa anche da alcuni editori, e soprattutto dai lettori, dei quali la maggioranza insegue i libri famosi, già celebrati, già letti. Pertanto sarebbe fondamentale creare, organizzare un mondo alternativo, come era negli anni antichi che ho citato, dove le parole d’ordine erano dot it! (gli hippies della controcultura anni Sessanta) e do it yourself! (i punk del decennio successivo).

Terzo (soluzione estrema, che non contraddice il primo e il secondo): forse sarebbe meglio darci un taglio. Perché si vuole scrivere a tutti i costi in un sistema simile? Perché non cercare di curare il sintomo, o addirittura la malattia? Può darsi che la letteratura sia in via di estinzione, o addirittura estinta. Come certa musica classica. Come certo jazz.

Ma questo è complicato e difficile. Il processo sarebbe talmente lungo che gli scrittori falliti non riuscirebbero neanche a vederne il primo, timido inizio. Morirebbero prima. Ma esistono i posteri…

In ogni caso riuscire a non voltolarsi nella delusione, nel rancore e nella rabbia impotente fa sentire meglio.
Garantito.

(Le foto: 1 e 2, Walker Evans, 3 M. Baldrati)

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Due passi avanti nell’Underground e uno indietro nell’oblio. https://www.carmillaonline.com/2019/10/02/due-passi-avanti-nellunderground-e-uno-indietro-nelloblio/ Wed, 02 Oct 2019 21:01:22 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=54843 di Sandro Moiso

Barry Miles, Beatles. The Zapple Diaries, Jaca Book, Milano 2019, pp. 272, 30,00 euro

Zapple presenterà suoni di ogni tipo…non necessariamente la musica che conoscete, amate o temete. (Comunicato stampa per il lancio negli USA della nuova etichetta discografica dei Beatles, 1° maggio 1969)

Per una volta iniziamo dalla fine ovvero dalle parole con cui John Lennon descrisse all’autore del libro il fallimento dell’avventura artistica e imprenditoriale della Apple, l’etichetta discografica che i quattro di Liverpool avevano fondato e si erano intestati non soltanto per promuovere le proprie opere, [...]]]> di Sandro Moiso

Barry Miles, Beatles. The Zapple Diaries, Jaca Book, Milano 2019, pp. 272, 30,00 euro

Zapple presenterà suoni di ogni tipo…non necessariamente la musica che conoscete, amate o temete. (Comunicato stampa per il lancio negli USA della nuova etichetta discografica dei Beatles, 1° maggio 1969)

Per una volta iniziamo dalla fine ovvero dalle parole con cui John Lennon descrisse all’autore del libro il fallimento dell’avventura artistica e imprenditoriale della Apple, l’etichetta discografica che i quattro di Liverpool avevano fondato e si erano intestati non soltanto per promuovere le proprie opere, ma anche per lanciarsi nel mondo dell’underground e della controcultura attraverso la sua parallela Zapple: “Apple è stata una manifestazione di ingenuità beatlesiana, di ingenuità collettiva: dicevamo che avremmo fatto questo e quello, che avremmo aiutato chiunque e via dicendo: E siamo rimasti fregati alla grande, proprio alla grande. Non si sono fatti vivi gli artisti migliori, nessuno che valesse la pena di registrare – ci siamo beccati tutti gli scarti, gente a cui tutti gli altri avevano chiuso la porta in faccia. E gli altri, quelli che ci stavano veramente dentro, sono rimasti alla larga perché erano troppo orgogliosi”.
Un’efficace descrizione di un fallimento forse annunciato ma che, allo stesso tempo, descrive e sintetizza le speranze, le ingenuità, le gelosie e l’inettitudine che caratterizzarono la breve stagione della controcultura, al di qua e al di là dell’Atlantico, sul finire degli anni Sessanta.

Barry Miles (classe 1943), autentico cronista di quella cultura a cavallo degli anni Sessanta e Settanta cui ha dedicato decine di testi, fu indubbiamente tra i protagonisti di quella stagione: fondatore di International Times, meglio nota come IT, la prima rivista underground inglese ed europea, gestore di librerie e gallerie d’avanguardia (tutte destinate a chiudere quasi sempre rapidamente i battenti), amico e sodale di musicisti, poeti e artisti sui due lati dell’Atlantico, oltre ad essere anche tra gli organizzatori del 14 Hour Technicolor Dream, il concerto tenutosi il 29 aprile 1967 presso la Great Hall dell’Alexandra Palace di Londra, che avrebbe lanciato definitivamente gruppi come i Pink Floyd e i Soft Machine.

Nel testo, uscito in lingua originale nel 2014 per la Elephant Book Company Limited e corredato da un apparato iconografico piuttosto ricco ed interessante nell’attuale edizione, con ironia molto british e molta partecipazione, con qualche tracci di antipatia nei confronti di John Lennon e Yoko Ono e di ammirazione per il giovane Pul McCartney, narra appunto le vicissitudini di un esperimento creativo ed imprenditoriale, quello della Zapple Records, destinato all’insuccesso probabilmente fin dai primi vagiti che ne accompagnarono la nascita, di cui ci rimangono soltanto due opere, criptiche ed insolute: The Unfinished Music no.2. Life with Lions di John Lennon e Yoko Ono, assistiti da due musicisti jazz d’avanguardia come John Tchicai al sax e John Stevens alle percussioni, e Electronic Sounds di George Harrison, destinate a vedere la luce entrambe il 9 maggio 1969.

Come afferma nella sua prefazione Enzo Gentile:

I solchi del primo vinile rilasciano rumori, feroci feedback chitarristici, singhiozzi, strepiti: in parte le registrazioni provengono dall’ospedale in cui Yoko era stata ricoverata per una minaccia d’aborto.
Sono macchie di vita, emozioni e virus potentissimi, da sprigionare tra lo stupore dei media e la sostanziale incomprensione dei fans dei Beatles: i quali contemporaneamente lanciavano sul mercato il singolo Get Back, seguito dopo qualche settimana da The Ballad of John and Yoko, mentre correvano a pieni giri anche i motori delle session di Abbey Road, previsto per fine settembre.
Uno tsunami continuo, inafferrabile, il precipizio e l’estasi dentro il perimetro beatlesiano che oggi pare irreale, quasi una sfida al buon senso comune…

Un’esperienza crepuscolare, sul finire della storia del quartetto che più ha segnato la musica pop degli anni Sessanta in termini di successo, creatività e innovazione, che non vide coinvolti soltanto altri musicisti ma, soprattutto, anche poeti e scrittori del calibro di William Buttoughs, Allen Ginsberg, Lawrence Ferlinghetti, Richard Brautigan, Charles Bukowski, Ken Weaver (membro dei Fugs) e Charles Olson.

Sì, poiché mentre gli artisti che furono prodotti e raggiunsero il successo con l’etichetta Apple, o anche soltanto lo sfiorarono, furono piuttosto insulsi come Mary Hopkins oppure i Grapefruit, il piano della Zapple prevedeva la pubblicazione di dischi contenenti le registrazioni di tali altri poeti mentre recitavano o leggevano le loro opere. Pare oggi incredibile, quando anche le letture di Patti Smith sembrano stentare a raccogliere un minimo di successo, ma all’epoca la poesia registrata poteva raggiungere buoni livelli di vendita e i festival di poesia potevano essere affollati anche da migliaia di persone.

Barry Miles avrebbe dovuto essere il responsabile di tali registrazioni e di tale settore della Zapple ed effettivamente ne realizzò diverse, sia in patria che negli Stati Uniti. Ma quell’esperienza doveva essere fatta, shakespearianamente, della sostanza dei sogni e quelle che furono realizzate effettivamente furono pubblicate solo successivamente, alla chiusura dell’esperienza Zapple, su altre etichette (EMI-Harvest, Folkways, Fantasy), mentre quelle di Charles Bukowski uscirono soltanto nel 1988 come album doppio per la King Mob: At Terror Street and Agony Way.
La parte più consistente di questi diari è proprio quella dedicata a questi incontri e all’influenza che alcuni di questi poeti, principalmente Burroughs con la sua tecnica di cut-up e Ginsberg con le sue stravaganze, ebbero sui Beatles e su John e Paul in particolare.

Un libro sicuramente da leggere per conoscere e approfondire la storia, e non il mito, di un’epoca e di un gruppo fondamentali per l’evoluzione della musica popolare e della cultura contemporanea, attraverso la breve vita di un’etichetta e di un progetto (febbraio 1969 – giugno dello stesso anno) destinati all’oblio nei fatti e al culto nella memoria di chiunque li abbia conosciuti e apprezzati.

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Pratiche di controcultura – Avanguardia di massa, indiani metropolitani e dintorni https://www.carmillaonline.com/2018/11/13/pratiche-di-controcultura-avanguardia-di-massa-indiani-metropolitani-e-dintorni/ Tue, 13 Nov 2018 22:01:59 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=49492 di Gioacchino Toni

Maurizio Calvesi, Avanguardia di massa. Compaiono gli indiani metropolitani, Postmedia Books, Milano, 2018, pp. 102, €12,60

«Gli esiti ulteriori delle avanguardie non sono ipotizzabili che in una direzione di massa e politicamente incidente, e, piaccia o no, le ultime [sono venute], con il loro neoavanguardismo tra manieristico e goliardico e tuttavia sperimentato in una corretta ipotesi antiprofessionale e intersoggettiva da quegli sciagurati degli indiani metropolitani» Maurizio Calvesi

A distanza di quarant’anni dalla sua prima pubblicazione nel 1978 torna in libreria, grazie a Postmedia Books, il volume in cui Maurizio Calvesi ragionava, “in diretta con gli eventi”, sul processo [...]]]> di Gioacchino Toni

Maurizio Calvesi, Avanguardia di massa. Compaiono gli indiani metropolitani, Postmedia Books, Milano, 2018, pp. 102, €12,60

«Gli esiti ulteriori delle avanguardie non sono ipotizzabili che in una direzione di massa e politicamente incidente, e, piaccia o no, le ultime [sono venute], con il loro neoavanguardismo tra manieristico e goliardico e tuttavia sperimentato in una corretta ipotesi antiprofessionale e intersoggettiva da quegli sciagurati degli indiani metropolitani» Maurizio Calvesi

A distanza di quarant’anni dalla sua prima pubblicazione nel 1978 torna in libreria, grazie a Postmedia Books, il volume in cui Maurizio Calvesi ragionava, “in diretta con gli eventi”, sul processo di appropriazione e riuso dei linguaggi dell’avanguardia da parte di gruppi giovanili a ridosso del ’77. La nuova edizione di Avanguardie di massa, che ai saggi contenuti nell’originaria aggiunge altro materiale di Calvesi, rappresenta il primo volume della collana Quaderni della Fondazione Echaurren Salaris che, oltre alla gestione di una tra le principali collezioni esistenti di pubblicazioni futuriste e di materiali legati alla controcultura italiana, è attiva nella promozione di studi e pubblicazioni incentrati su tali argomenti. La collana, diretta da Raffaella Perna, intende promuovere e diffondere lo studio dell’arte e della cultura visiva del XX e XXI secolo attraverso la pubblicazione di materiali di approfondimento della storia delle prime e seconde avanguardie del Novecento e, soprattutto, della controcultura italiana e internazionale.

In una serie di scritti stesi a ridosso dell’esplosione del ’77, e raccolti in Avanguardia di massa, Calvesi riflette sul recupero e sul riutilizzo dei linguaggi delle prime e delle seconde avanguardie novecentesche da parte dei gruppi giovanili sul finire degli anni Settanta. Collage, détournement ed happening diventano pratiche di sovversione del linguaggio egemonico e con esso strumenti dell’azione politica con cui una parte importante del movimento del ’77 sferra il suo attacco all’immaginario dominante. Si può dire che in quel roboante scorcio di anni Settanta la sperimentazione artistica sia davvero fuoriuscita dagli atelier di un’avanguardia ristretta divenendo patrimonio condiviso da quella moltitudine di studenti, giovani lavoratori precari e proletari scolarizzati che compone il movimento del ’77. L’avanguardia si è fatta di massa.

«Diversamente da altri intellettuali italiani che in quel momento prendono in esame il fenomeno», scrive Raffaella Perna nella Postfazione alla nuova edizione di Avanguardie di massa, «la prospettiva adottata da Calvesi è quella dello storico dell’arte, attento più agli esiti espressivi e linguistici che all’ideologia promossa dai gruppi antagonisti» (p. 92). Da accademico individua puntualmente i richiami alle avanguardie novecentesche e da critico militante analizza attentamente le modalità di riappropriazione e quelle con cui cui vengono agiti nel presente. Perna ricorda come lo studioso in un volume del 1970 dedicato al Futurismo – Calvesi fu sicuramente tra i primi nel dopoguerra ad intraprendere una sua rivalutazione critica – avesse già individuato in quel movimento d’avanguardia una fonte per le contestazioni del ’68 cogliendo i punti di contatto «nel disprezzo dell’accademismo e delle istituzioni, nell’apologia della gioventù, nell’antiriformismo, nel vitalismo e nel rifiuto dell’arte romantico-borghese» (p. 92). L’aver saputo individuare gli elementi di continuità tra prime e seconde avanguardie novecentesche, continua Perna, ha sicuramente permesso allo studioso di guardare senza pregiudizi alle esperienze creative portate sulla scena dagli indiani metropolitani.

I ragionamenti di Calvesi partono dal confronto tra l’inaugurazione nel febbraio del 1977 del Centre George Pompidou a Parigi e la comparsa degli indiani metropolitani visti come due aspetti complementari di massificazione della cultura: se nel primo caso, secondo lo studioso, è possibile individuare un esempio di nuovo consumismo culturale, nel secondo è ravvisabile una modalità di consumo da intendersi come distruzione permanente.
È a partire da tale riflessione che Calvesi giunge ad indagare i legami tra le esperienze di contestazione degli anni Settanta e le pratiche delle avanguardie artistiche. «Attraverso un confronto serrato tra i proclami del Dada, del Surrealismo e soprattutto del Futurismo e gli slogan del ’77, Calvesi propone una genealogia che servirà da modello per le successive letture dedicate al rapporto tra avanguardia e movimento, la cui eco si riflette ancor oggi sugli studi recenti, in molti dei quali l’esperienza futurista è riconosciuta come una fonte importante per la cosiddetta al creativa del movimento» (p. 93).

In questa nuova edizione di Avanguardie di massa è riportato un intervento steso da Calvesi nel 1998, vent’anni dopo i sui scritti “in diretta” di fine anni Settanta. A distanza di due decenni lo studioso, riflettendo “a freddo” su quegli anni turbolenti, riconosce a Pablo Echaurren un ruolo cruciale nella creazione dell’immaginario visivo del ’77. Dopo aver compreso “a caldo” «i risvolti e le implicazioni critiche della prima “avanguardia di massa”», sostiene Perna, occorre riconoscere a Calvesi il merito di aver «gettato le basi per la sua storicizzazione» (p. 94).


Su Carmilla:

Pablo Echaurren, il movimento del ’77, gli indiani metropolitani e la “massificazione dell’avanguardia”

Raffaella Perna, Pablo Echaurren. Il movimento del ’77 e gli indiani metropolitani, Postmedia Books, Milano, 2016, 112 pagine, € 22.50

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La Brigada para leer en libertad: Paco I. Taibo II intervista Noam Chomsky https://www.carmillaonline.com/2014/11/22/brigada-para-leer-en-libertad-paco-i-taibo-ii-intervista-noam-chomsky/ Sat, 22 Nov 2014 03:41:33 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=18936 di Simone Scaffidi Lallaro*

brigada2La XIV Feria Internacional del Libro di Città del Messico svoltasi nello storico Zocalo, cuore dell’impero azteca prima e centro del potere colonialista poi, ha visto il coinvolgimento nell’organizzazione degli eventi della Brigada para leer en libertad, garantendo così un terreno fertile per discutere di letteratura e utopia. La Brigada para leer en libertad è un’associazione culturale nata nel 2010 con l’obiettivo di incentivare la lettura e lo studio della Storia messicana. Fra gli animatori e le animatrici del progetto compaiono tra gli altri il nome [...]]]> di Simone Scaffidi Lallaro*

brigada2La XIV Feria Internacional del Libro di Città del Messico svoltasi nello storico Zocalo, cuore dell’impero azteca prima e centro del potere colonialista poi, ha visto il coinvolgimento nell’organizzazione degli eventi della Brigada para leer en libertad, garantendo così un terreno fertile per discutere di letteratura e utopia. La Brigada para leer en libertad è un’associazione culturale nata nel 2010 con l’obiettivo di incentivare la lettura e lo studio della Storia messicana. Fra gli animatori e le animatrici del progetto compaiono tra gli altri il nome dello scrittore Paco Ignacio Taibo II e della sua compagna Paloma Sáiz Tejero. La brigata si occupa di cultura e letteratura con la consapevolezza del valore sociale che questo implica, la sua azione non si limita  all’organizzazione di presentazioni e festival letterari indipendenti e internazionali, al recupero di libri altresì condannati al macero e all’edizione di numerosi titoli, ma aspira a creare laboratori permanenti e territoriali per la condivisione dei saperi. Ne sono una prova la trentina di biblioteche di quartiere che la brigata ha contribuito a creare, così come i tianguis (termine con il quale si definisce il mercato tradizionale di epoca pre-ispanica in Centro America) di libri disseminati per le piazze del Distretto Federale.

La Fiera Internazionale del Libro di Città del Messico si è svolta dal 10 al 19 ottobre, tra i molti incontri organizzati dalla Brigada para leer en libertad anche quello in videoconferenza con il linguista statunitense, e molto altro, Noam Chomsky. Vi proponiamo di seguito la traduzione dell’intervista a cura di Simone Scaffidi Lallaro che ha visto alternarsi le voci di Paco Ignacio Taibo II, del giornalista de “La Jornada” Fabrizio Mejía Madrid e di Noam Chomsky.

Paco Ignacio Taibo II: In questi nove giorni abbiamo discusso qui nello Zócalo di Città del Messico, in un momento di grande intensità politica, con un tremendo conflitto nazionale, di Storia e utopia. Mi sembrava dunque perfetto poter parlare con te di questi temi, mescolando il tutto con la letteratura, perché è molto impegnativo avvicinarsi criticamente alla Storia senza l’aiuto della letteratura e dell’utopia. Tu sei uno dei pochi compagni che propone costantemente di riscattare l’utopia. Si può vivere senza molte cose ma non si può vivere senza utopia. Che ne pensi?

Noam Chomsky: È molto difficile per chiunque poter descrivere come sarebbe uno stato di utopia in un mondo dove la medesima esistenza, non solo degli essere umani ma del pianeta stesso è a rischio quanto la nostra, proprio per questo in qualsiasi pensatore cresce l’esigenza di poter descrivere come sarebbe uno stato di utopia.

Paco Ignacio Taibo II: Eppure la necessità, se non di definire la parola ma di sapere ciò che sta dietro alla parola, la sensazione d’intravedere la luce alla fine del tunnel, è fondamentale per la sopravvivenza del pensiero critico.

Noam Chomsky: È necessaria una distinzione tra quelle che sono le prospettive della vita e le mete della vita, le prospettive sono mete di lunga durata e sono stati del mondo nei quali gli esseri umani desidererebbero stare. Le mete sono più immediate, risolvono problemi che gli esseri umani hanno in questa vita, e per poterle raggiungere – e risolvere quei problemi – è fondamentale partire dai principi, da quei principi che le persone possiedono, e in seconda battuta pensare già a uno stato ideale che sarebbe visionario.

Paco Ignacio Taibo II: Quali identificheresti come grandi e imminenti problemi che dovremmo combattere già da ora, oggi?

Noam Chomsky: Sono due i problemi cruciali in questo momento. Il primo è la minaccia sempre presente di una guerra nucleare. Il secondo, che mette in pericolo anche l’esistenza della specie, è il disastro ecologico che stiamo portando avanti noi esseri umani, che non si arresta e non s’intravede come si possa arrestare. Questi sono solo due dei problemi fondamentali che abbiamo, fare una lista dei problemi minori e più piccoli sarebbe un lavoro interminabile.

Fabrizio Mejía Madrid: Sono passati diversi anni da quando Chomsky ha visitato il Venezuela di Hugo Chavez e poi la Bolivia di Evo Morales, disse che in America del Sud si assisteva a un’esperienza utopica, si riferiva soprattutto al fatto che dopo 500 anni giungeva alla presidenza della Bolivia un indigeno con un programma che aveva a che vedere con la sostenibilità ecologica, con una commistione di alta tecnologia e tradizione. Che ne pensa ora Chomsky dell’America del Sud e nello specifico dei processi in corso in Bolivia e Venezuela?

Noam Chomsky: Beh, non c’è dubbio che l’America Latina abbia fatto grandi passi avanti per uscire dalla condizione di colonialismo nella quale si era ritrovata dopo 500 anni di dominazione straniera. Ora ha potuto finalmente confrontarsi a tu per tu, verso l’esterno, con il potere. I migliori esempi sono tanto il Venezuela quanto la Bolivia ma non si può nascondere che ora il lavoro è verso l’interno, dove i paesi latinoamericani continuano a vivere condizioni di oppressione, non più a causa dei governi esterni ma a causa di una minoranza rappresentata dagli eredi di coloro che li conquistarono. Dunque il lavoro che deve seguire è la liberazione dei popoli di fronte a questa minoranza che detiene il potere e che continua a essere tale e quale ai successori della colonizzazione europea.

Paco I. Taibo II: Stiamo vivendo in Messico un periodo inquietante, un periodo molto complicato. I cittadini, il paese, la maggioranza, sono sottomessi a una triplice e velenosa offensiva. Assistiamo per prima cosa all’offensiva neoliberale più brutale che si sia conosciuta in Messico, che distrugge i diritti agrari, i diritti dei lavoratori, che distrugge la detenzione nazionale del petrolio. In secondo luogo, l’aumento brutale di un attitudine autoritaria e repressiva da parte del governo e dei governi locali, e per terzo la delirante guerra contro il narcotraffico iniziata dal governo Calderon. È molto faticoso trovare un modo per unificare l’enorme dissenso che si è creato nel paese e dargli un solo obiettivo. Hai qualche idea brillante per aiutarci a uscire dal marasma?

Noam Chomsky: Le tre fasi distruttive sono effettivamente queste e il Messico ha un complice per questi problemi, quel complice sono gli Stati Uniti. Innanzitutto la maggior parte del consumo della droga che si produce o che passa per il paese finisce negli Stati Uniti, in cambio gli Stati Uniti danno al Messico le armi con le quali i messicani si stanno uccidendo tra loro. Gli Stati Uniti hanno una grande responsabilità. Se a questo aggiungiamo le politiche suicide che i governanti messicani stanno attuando e le riforme suicide che stanno realizzando ci troviamo di fronte a un enorme problema. Tutti gli sforzi che i popoli latinoamericani hanno attuato per ottenere l’indipendenza dal potere degli Stati Uniti sono stati sistematicamente boicottati dagli Stati Uniti e del Canada. I popoli latinoamericani in Conferenze Internazionali come quella di Cartagena hanno cercato di bloccare il potere degli Stati Uniti, di avere politiche più liberali in merito al consumo di droghe e alla lotta al narcotraffico, e gli Stati Uniti e il Canada hanno messo il veto a tali risoluzioni prese dai popoli dell’America Latina. Allo stesso tempo, mentre i popoli latinoamericani diventano più forti, come un blocco unificato contro gli Stati Uniti e il Canada, i governanti messicani hanno preso la decisione di allearsi con gli Stati Uniti girando le spalle ai popoli latinoamericani. E qui il vecchio adagio messicano: il Messico è molto lontano da Dio e molto vicino agli Stati Uniti.

Fabrizio Mejía Madrid: Chomsky è stato un duro critico della politica esterna e interna del suo paese: gli Stati Uniti. Uno dei concetti chiave che ha sviluppato è quello relativo alla fabbricazione del consenso, manufacturing consent, che è in linea con ciò che è accaduto in Messico con l’invenzione da parte dei mezzi di comunicazione ufficiali della figura di Peña Nieto. La mia domanda per Chomsky è: di fronte al potere dominante dei mezzi di comunicazione ufficiali cosa deve fare la resistenza critica per risolvere il problema?

Noam Chomsky: La strada è sostenere con tutti i nostri mezzi la stampa indipendente e faccio gli auguri a “La Jornada” per il suo compleanno. Considero La Jornada il quotidiano più indipendente della storia. Credo che i movimenti sociali indipendenti e i gruppi di contestatori debbano rivedere i loro mezzi di informazione, lavorare tra loro e aiutarsi. Sono cosciente che questo porti a un sorta di anarchia della divulgazione dell’informazione, ma ciò non è così problematico, bensì benefico nella misura in cui si sono raggiunte molte cose grazie al movimento di moltissime persone che lavorano in modo indipendente e si scambiano di giorno in giorno le informazioni. Credo che sia grazie a questo se esiste una società più civilizzata come mai era successo prima nella Storia.

Paco I. Taibo II: Noi che siamo qui siamo book believers, crediamo nel potere della parola scritta e non solo nel potere della parola scritta sotto forma giornalistica o informativa, crediamo nel potere della letteratura, non so se è perché siamo pazzi o perché siamo messicani, entrambe le possibilità son da considerarsi degne. In Messico abbiamo provato l’immenso potere della divulgazione dell’informazione attraverso la letteratura, il confronto, le critiche, le letture. Che ne pensi di ciò?

brigadaNoam Chomsky: Non so esattamente cosa sta accadendo in Messico, però negli Stati Uniti e in Europa c’è stata un’enorme diminuzione dei giovani che si avvicinano ai libri e alla lettura. Ogni giorno si legge meno letteratura, ogni giorno si legge meno anche a livello accademico, nelle università. I giovani si avvicinano più a Internet, più ai mezzi di comunicazione virtuali e questo ha fatto sì che si metta da parte il potere della parola scritta. Credo che questo sia un problema grave, e ricordo i tempi in cui quando scrivevo potevo creare metafore rimandando ai classici della letteratura supponendo che le persone avrebbero potuto capire qual era il messaggio che stavo comunicando. Ora non posso più farlo, perché quando lo faccio, la gente, i nuovi lettori, soprattutto i giovani, non lo capiscono più. Questo è uno dei problemi che dobbiamo comprendere e saper affrontare per poter riempire questo vuoto, questo buco informativo in relazione alla formazione culturale dei giovani. C’è uno studio sui movimenti sociali del XIX secolo intitolato suppergiù “L’avvicinamento idealista delle classi lavoratrici alla letteratura in Inghilterra” dove l’autore, Jonathan Rose, sostiene che a quei tempi le classi lavoratrici, le classi popolari, si avvicinavano moltissimo alla lettura. In questa maniera godevano di un livello intellettuale e culturale superiore a quello degli aristocratici. Allo stesso tempo si riunivano le persone delle classi popolari, i lavoratori, gli operai, e discutevano le opere di Shakespeare, di psicologia, gli ultimi testi di Marx, quello che aveva appena pubblicato Freud. Oggi questo non succede più e ne sono un riflesso le problematiche sociali che affliggono gli stati.

Paco I. Taibo II: Ora farò un’affermazione provocatoria: ho una profonda sfiducia in uno scienziato sociale che non legge romanzi, so che non è il tuo caso – ho le prove del contrario – che ne pensi di una frase demolitrice come questa?

Noam Chomsky: Gli scienziati sociali devo essere coscienti che nella letteratura si trovano cose che non si trovano nei testi accademici, in letteratura il lettore si può avvicinare alle passioni umane, alle necessità psicologiche, a tutte quelle cose che gli scienziati sociali non vanno necessariamente a toccare ma che sanno che esistono. La letteratura apre questa porta per poter parlare di quello di cui nell’accademia non si parla.

Fabrizio Mejía Madrid: Dici e credo sia evidente che l’accelerazione vissuta negli ultimi 30 anni, in particolare tecnologica, ci ha levato profondità. È certo che non discutiamo più di marxismo e di psicanalisi: si è formata una cultura più superficiale?

Noam Chomsky: Beh, sicuramente oggigiorno ci sono vuoti culturali enormi, ma i progressi tecnologici hanno anche permesso che segmenti di popolazione che in precedenza, in nessuna circostanza, avrebbero avuto accesso all’educazione, ora possano più facilmente avvicinarsi agli strumenti educativi. Ciò che ha comportato la diffusione della tecnologia è pertanto un problema complesso, che si relaziona sia con questioni positive che negative. Gli intellettuali e i critici devono dedicarsi ad analizzare e mettere in luce più le questioni problematiche che le questioni benefiche, perché le questioni benefiche parleranno e lavoreranno da sole. È necessario enfatizzare e criticare quelle cose che la tecnologia sta frenando o rendendo superficiali.

Paco I. Taibo II: Ho la sensazione che cambiare il Messico implichi, oltre a moltissime altre cose – trasformarlo, portarlo verso il progresso reale – un’alleanza con il meglio degli Stati Uniti, con i suoi settori più pensanti come il movimento del lavoro, con le organizzazioni sociali, con la parte migliore dei suoi intellettuali e con il meglio di Hollywood, inclusa Rita Hayworth.

Noam Chomsky: Sai una cosa? Quando avevo 12 anni vidi una pellicola con Rita Hayworth e mi innamorai immediatamente di lei.

Taibo II: C’è una spiegazione alla mia teoria su Rita Hayworth: molti anni fa sostenni che non era necessario bombardare i talebani con le bombe, ma bisognava bombardarli con videocassette contenenti un video di Rita Hayworth mentre si levava il guanto in “Gilda”.

Noam Chomsky: (ride)

Fabrizio Mejía Madrid: Forse voi sapete che Chomsky è stato il principale critico della politica dei bombardamenti in Medio Oriente, fin dai suoi anni nella Guerra del Vietnam quando andò con una spedizione – diciamo giornalistica – per conoscere i casi del Laos e della Cambogia che erano stati bombardati a causa della guerra del Vietnam, poi andò a Beirut e infine diventò un grande oppositore alla politica dei bombardamenti degli Stati Uniti. Oggi gli Stati Uniti affrontano l’ISIS, lo Stato Islamico, in Siria, Tuchia, Iraq, ecc. Cosa pensa oggi Noam Chomsky di questa nuova guerra che si realizza con robots, i famosi droni?

Noam Chomsky: La guerra e i bombardamenti con i droni, sono senza dubbio alcuno l’atto più terrorista che si è portati a capo nella storia dell’umanità e che violenta un principio storico fondamentale: ovvero che tutte le persone sono innocenti fino a quando non si dimostri la loro colpevolezza. Oggigiorno, a causa di questo modo di fare la guerra da parte degli Stati Uniti e di altri paesi, il concetto di colpevolezza si è trasformato: colpevole ora è quella persona che decidiamo in una riunione alla Casa Bianca e tutte le persone che gli stanno intorno.

Fabrizio Mejía Madrid: La mia ultima domanda per Chomsky tratterà la sua auto-definizione politica: tu sei un anarchico o che altro?

Noam Chomsky: Tra i molti concetti che ho di anarchismo il concetto nucleare e primordiale è quello che si generò durante il periodo dell’Illuminismo e che afferma semplicemente che il potere è sempre illegittimo fino a che non dimostri il contrario. Mantenendo l’ordine delle cose, nel mondo che abbiamo, i poteri stabiliti non hanno potuto in nessun momento dimostrare che sono legittimi, e per tanto da questa prospettiva sì mi considero anarchico, e invito il resto delle persone a considerarsi tali.

Link al video: QUI

*Traduttore dell’intervista.

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Hackmeeting 2014 a #Bologna #XM24 https://www.carmillaonline.com/2014/06/20/hackmeeting-2014/ Thu, 19 Jun 2014 22:00:54 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=15369 di Jacopo Anderlini

hackmeeting logo[Questo articolo è stato pubblicato sul numero 119 della rivista Germinal]

Il prossimo 27, 28 e 29 giugno, a Bologna presso lo Spazio Sociale Autogestito XM24, via Fioravanti 24, si terrà la diciassettesima edizione dell’Hackmeeting: una tre giorni che dal 1998 unisce e mette in relazione i vari soggetti che animano il mondo delle controculture digitali. Certo, non basta questa scarna definizione a dare conto della composizione che caratterizza, e ha caratterizzato, l’evento e l’importanza che questo ha significato, [...]]]> di Jacopo Anderlini

hackmeeting logo[Questo articolo è stato pubblicato sul numero 119 della rivista Germinal]

Il prossimo 27, 28 e 29 giugno, a Bologna presso lo Spazio Sociale Autogestito XM24, via Fioravanti 24, si terrà la diciassettesima edizione dell’Hackmeeting: una tre giorni che dal 1998 unisce e mette in relazione i vari soggetti che animano il mondo delle controculture digitali. Certo, non basta questa scarna definizione a dare conto della composizione che caratterizza, e ha caratterizzato, l’evento e l’importanza che questo ha significato, e significa, per i movimenti sociali e controculturali. L’Hackmeeting non è solo l’espressione di diverse soggettività ed esperienze, ma ha allo stesso tempo creato e formato una comunità – ibrida, mutevole, molteplice, anche contraddittoria – che ha attraversato e composto – e continua a farlo – tempi e spazi dei movimenti sociali. Una rete di relazioni e interazioni che ha visto nascere progetti fondamentali come Autistici & Inventati (A/I), collettivo che si colloca nell’intersezione tra hacking e attivismo politico fornendo strumenti e conoscenze orientati alla condivisione, alla tutela della privacy e dei diritti digitali, all’autonomia e alla libertà nelle comunicazioni telematiche.

In un motto, che era quello di Primo Moroni e che è stato fatto proprio dal collettivo, “Socializzare saperi, senza fondare poteri”. E in effetti proprio dalle pagine del libro che A/I ha pubblicato sui suoi dieci anni, +kaos, Agenzia X, Milano, 2012, emerge da diverse voci come l’Hackmeeting sia stato il brodo di coltura, il terreno fertile in cui esperienze diverse si sono intrecciate e contaminate confluendo in progetti esistenti o facendone emergere di nuovi.

Le origini – ECN

Per riuscire a restituire il senso e la portata di ciò che è stato ed è Hackmeeting, non solo per la cultura hacker ma anche per i movimenti sociali in Italia, occorre raccontare come è nata questa esperienza e descrivere in quale contesto si è formata. Una delle realtà – o per meglio dire, reti – che ha più contribuito alla nascita di Hackmeeting nel 1998 è sicuramente ECN – European Counter Network.

ECN è una rete di controinformazione che emerge dieci anni prima dall’esigenza di diversi spazi sociali europei di comunicare ed interagire oltre le forme tradizionali. In Italia questo percorso vede la partecipazione di diverse radio di movimento – Radio Ondarossa, Radio Onda d’urto, Radio Blackout, Radio Sherwood e altre -, di centri di documentazione e/o librerie alternative e di spazi sociali di Bologna, Padova, Milano, Firenze, Brescia, Roma, Torino.

L’obiettivo è mettere in relazione le forme di comunicazione “tradizionali” con i nuovi mondi digitali e le possibilità che questi offrono.

Nei primi anni ‘90 ECN dà vita ad una rete BBS di movimento per scambiare informazioni e dati tra i vari nodi sparsi per l’Italia. Le BBS (Bulletin Board System) si possono considerare dei server con forum, divisi per aree tematiche, in cui è possibile discutere ma anche scambiarsi dati e files. Si creano le prime corrispondenze internazionali per via telematica, con altri spazi in Europa ma anche in Sud America. Le radio di movimento utilizzano questo strumento per aggiornamenti in diretta da altre città, approfondimenti e per scambiare contenuti tra loro. La mole di informazioni raccolte e veicolate dalla BBS di ECN dà vita ad un bollettino periodico cartaceo pubblicato dal gruppo di Bologna e diffuso in tutta Italia.

Negli anni successivi ECN si evolve e continua con rinnovato impegno a sviluppare progetti sempre più basati sulla comunicazione digitale e in particolare sulla diffusione – dalla prima metà degli anni ’90 – di Internet e del World Wide Web. In particolare, nel 1996 viene creata Isole nella Rete, la prima esperienza in Italia a fornire spazi web, email e servizi di rete ai centri sociali e alle realtà antagoniste attraverso la gestione diretta di un server di movimento. All’interno dello stesso progetto inoltre viene creato un portale di controinformazione diviso per aree tematiche.

In questo periodo quindi le contaminazioni e le interazioni tra spazi sociali e nuove tecnologie si moltiplicano e si sviluppano inoltre rapporti con i gruppi artistici cyberpunk, attivi soprattutto a Milano. È questo lo scenario che caratterizza la nascita e realizzazione del primo Hackmeeting in Italia.

Il primo Hackmeeting

«Era il 1998. In lista ECN si discuteva di come in Olanda con “Access for all” e in Germania con il “Chaos Computer Club” fossero stati realizzati dei campeggi hacker. Decidemmo allora di coinvolgere Strano Network e di proporre ai compagni dei CPA [storico centro sociale fiorentino] l’organizzazione di un evento analogo. Quello che poi sarebbe diventato l’Hackmeeting.» (Ferry Byte)

L’idea di Hackmeeting nasce così, in una discussione sulla mailing-list di ECN che riuniva i compagni della rete di diverse città. A Firenze, l’idea coglie subito l’entusiasmo di Strano Network, gruppo di comunicazione antagonista che, assieme a ECN, propone l’evento al CPA. All’inizio c’è un po’ di diffidenza da parte dello spazio rispetto alla tematica, ma dopo qualche tempo si decide la realizzazione di Hackmeeting per il giugno del 1998.

Vengono predisposti gli spazi del Centro sociale secondo uno schema che verrà mantenuto – e arricchito – negli anni: un dormitorio, che all’interno del CPA viene predisposto ai piani alti, e diverse sale per seminari, workshop, laboratori. Il CPA viene “connesso ad internet” e si effettua la cablatura di tutti gli spazi all’interno:

«Io e una compagna siamo stati ore solo a smatassare i fili di rame per cablare il centro.» (Ferry Byte)

Con l’avvicinarsi della tre giorni, da parte dell’amministrazione comunale cresce la paura per “attacchi hacker” alla propria rete dal momento che il CPA in quel periodo lotta per evitare lo sgombero e si trova a contrapporsi più volte con il Comune. Il timore è tale che per tutta la durata dell’evento, la rete di server del Comune viene messa offline per precauzione.

Di ben altro tipo, improntati alla socialità e alla condivisione, saranno i rapporti tra Hackmeeting e il quartiere e in generale la città.

Si svolge quindi l’evento il 5, 6 e 7 giugno con una grandissima partecipazione:

«la cosa sorprendente è la quantità di persone che vengono. In qualche modo c’è rappresentato tutto lo spettro, tutte le sfumature, del mondo legato alle nuove tecnologie che emergeva allora.» (Ferry Byte)

Un contesto eterogeneo in cui vengono realizzati molti seminari e laboratori – alcuni ideati durante lo stesso svolgimento dell’Hackmeeting – in particolare sulla crittografia e la sicurezza digitale. Viene presentato kryptonite, un testo fondamentale per la cultura hacker italiana.

Importante anche la presenza di partecipanti internazionali, come gli spagnoli di nodo50, collettivo hacker e di controinformazione attivo ancora oggi, e gli olandesi di Xs4all.

Temi importanti come la sicurezza delle comunicazioni in rete vengono affrontati in maniera diretta come ricorda in un aneddoto Ferry Byte:

«Un compagno di nodo50 si divertiva ad andare in giro a consegnare dei bigliettini agli altri partecipanti con scritta la password della loro email o di altri loro account. Una sorta di “terapia d’urto” per sollecitarli ad avere una maggiore coscienza dei propri dati.»

L’Hackmeeting è anche questo: un modo di affrontare le innovazioni tecnologiche e ciò che esse comportano con puntualità e allo stesso tempo in maniera non convenzionale, inventando continuamente nuove forme di comunicare assieme. Una sperimentazione costante che caratterizza tutta l’iniziativa e che porta alla creazione, tra le altre cose, di una radio e una tv pirata che trasmettono in tutto il quartiere Firenze Sud.

Con questo primo Hackmeeting nasce quindi non solo un incontro annuale che continua a svolgersi ancora oggi, ma si forma una comunità che influenzerà grandemente i movimenti sociali e il loro rapporto con le nuove tecnologie. Da questa esperienza prendono forma gli hacklab, laboratori comunitari di hacking che andranno a diffondersi in tutta Italia, e diversi collettivi come il già ricordato A/I.

Quello che emerge da questo primo Hackmeeting è la volontà di scambiarsi conoscenze a vari livelli di socialità e di contaminazione. Negli anni questo percorso ha visto cambiamenti ed evoluzioni: «A quei tempi c’era molta più voglia di stare sul piano sociale della comunicazione e ora invece mi sembra che ci sia una tendenza a fare le cose in maniera eccessivamente autoreferenziale. Una volta era più presente la prospettiva sociale. Spero che si ritorni un po’ a questo spirito, vedo troppa autoreferenzialità, che politicamente non porta a nulla.» (Ferry Byte)

Ripercorrendo le origini di questa iniziativa, l’obiettivo è stato quello di trasmettere per quanto possibile la complessità delle istanze che la attraversano, cercando di coglierne la continua mescolanza. “Hackmeeting è quello che ci porti”, un momento di incontro reale di comunità virtuali, in cui socializzare saperi.

Ringrazio per questo articolo Vittorio, storico militante del movimento bolognese e tra i fondatori di ECN con cui ho potuto discutere a lungo e il cui contributo è stato fondamentale per ricostruire il periodo e Ferry Byte, militante di ECN e figura importante della scena hacker e controculturale italiana, che ha voluto ricordare assieme a me il primo Hackmeeting.

Audio Spot Hackmeeting 2014 – Link

Diffusione Materiali – Link

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