conricerca – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 30 Apr 2025 21:35:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Immagini di classe. Produzione artistica, operaismo, autonomia e femminismo https://www.carmillaonline.com/2024/02/27/immagini-di-classe-produzione-artistica-operaismo-autonomia-e-femminismo/ Tue, 27 Feb 2024 21:00:08 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80892 di Gioacchino Toni

Jacopo Galimberti, Immagini di classe. Operaismo, Autonomia e produzione artistica, DeriveApprodi, Bologna 2023, pp. 416, € 28,00

In oltre quattrocento pagine corredate di numerose illustrazioni, il volume Immagini di classe di Jacopo Galimberti approfondisce la produzione di alcune generazioni di artisti, architetti, designer e storici/teorici dell’arte e dell’architettura legati, più o meno direttamente, all’operaismo e all’area dell’autonomia, indagando dunque i legami tra arti visive, idee politiche e produzione di sapere.

Dopo essersi occupato in apertura di volume della grafica delle riviste “Quaderni rossi” e “classe operaia” e dell’iconografia proletaria proposta da quest’ultima attraverso disegni e vignette, Galimberti passa [...]]]> di Gioacchino Toni

Jacopo Galimberti, Immagini di classe. Operaismo, Autonomia e produzione artistica, DeriveApprodi, Bologna 2023, pp. 416, € 28,00

In oltre quattrocento pagine corredate di numerose illustrazioni, il volume Immagini di classe di Jacopo Galimberti approfondisce la produzione di alcune generazioni di artisti, architetti, designer e storici/teorici dell’arte e dell’architettura legati, più o meno direttamente, all’operaismo e all’area dell’autonomia, indagando dunque i legami tra arti visive, idee politiche e produzione di sapere.

Dopo essersi occupato in apertura di volume della grafica delle riviste “Quaderni rossi” e “classe operaia” e dell’iconografia proletaria proposta da quest’ultima attraverso disegni e vignette, Galimberti passa in rassegna la produzione del Gruppo N, collettivo artistico che, riprendendo il primo operaismo, intese ripensare il rapporto tra tecnologia, arte e lavoro, per poi dedicare un capitolo all’influenza esercitata dall’operaismo sull’architettura facendo riferimento in particolare al collettivo fiorentino Archizoom nato a metà degli anni Sessanta.

Nel volume trova spazio la ricostruzione del dibattito che attraversa “Angelus Novus” e “Contropiano” circa le avanguardie storiche, il ruolo degli intellettuali e dell’architettura moderna, vengono riprese le riflessioni a proposito del rapporto tra architettura, urbanistica e politica prodotte da Manfredo Tafuri insieme al suo gruppo di ricerca nel corso degli anni Settanta ed esaminato, a partire dalla figura di Danilo Montaldi, il rapporto tra la pratica della “conricerca” e l’universo culturale e artistico.

Ad essere passate in rassegna da Galimberti sono, inoltre, alcune produzioni realizzate con media diversi appositamente per Potere operaio e i materiali a sostegno della Campagna per il salario al lavoro domestico prodotti dal Gruppo Femminista Immagine di Varese, nato attorno alla metà degli anni Settanta.

L’ultima parte del volume è dedicata alla grafica delle riviste e delle fanzine dell’area autonoma, in particolare alla ripresa delle avanguardie storiche nelle strategie comunicative del movimento del ’77, per poi concludersi con l’analisi di alcune opere realizzate durante e dopo gli arresti del 1979 da parte di artisti legati all’operaismo e all’autonomia.

Immagini di classe intende dunque ricostruire un legame, quello tra esperienze politiche radicali e riflessione/produzione artistica, scarsamente approfondito: le ricostruzioni di quell’assalto al cielo portato dalla stagione dei movimenti, che pure non sono mancate, hanno spesso affrontato i due ambiti in maniera disgiunta.

Di particolare interesse è il capitolo dedicato alla produzione del Gruppo Femminista Immagine di Varese, fondato nel 1974 da Milli Gandini, Mariuccia Secol e Mirella Tognola, a sostegno dell’International Wages for Housework Campaign portata avanti da femministe materialiste, alcune delle quali passate dall’esperienza di Potere operaio, come Mariarosa Dalla Costa.

Galimberti analizza in apertura di capitolo il manifesto del Convegno nazionale tenutosi a Roma il 29 aprile 1978 volto a lanciare la Campagna per il salario al lavoro domestico realizzato dalle componenti del Gruppo Immagine che, riprendendo una delle questioni centrali del network internazionale femminista – ben sintetizzata dalla frase «Col capitalismo cominciò lo sfruttamento più intenso della donna come donna e la possibilità alla fine della sua liberazione» di Mariarosa Dalla Costa e Selma James (Potere femminile e sovversione sociale, 1972) – recitava: «Soldi a tutte le donne», a suggerire da un lato «fino a che punto l’identità sociale delle donne fosse irretita nell’economia di mercato» mentre allo stesso tempo il manifesto graficamente ribadiva «la necessità di sviluppare un’azione politica di massa che saldasse chi riceveva un salario e le casalinghe, il cui lavoro era invece […] “demercificato”» (p. 246).

Betty Friedan (The Feminine Mystique, 1963) – ripresa successivamente da Leopoldina Fortunati (L’arcano della riproduzione. Casalinghe, prostitute, operai e capitale, 1981), altra ex militante di Potere operaio –, aveva evidenziato come l’ideologia della “mistica femminile” avesse contribuito a privare il lavoro domestico della sua dimensione economica legittimando così l’assenza di una sua retribuzione. Il manifesto prodotto dal gruppo intendeva dare immagine a questa oscillazione tra economia e natura in un contesto come quello italiano che negli anni Sessanta e Settanta, non di rado persino all’interno di formazioni politiche radicali, tendeva a considerare il lavoro riproduttivo alla stregua di una “vocazione femminile per natura” ricompensata con “l’affetto e l’amore”.

La forma sinuosa del corteo [proposta dal manifesto del Gruppo Immagine] rimandava infatti a un motivo classico che simboleggiava la prosperità: la cornucopia, un corno, spesso associato a una figura muliebre, da cui traboccano monete o alimenti che sono il frutto “del lavoro della natura”, per così dire. Questa scelta iconografica faceva sì che il poster del gruppo riuscisse a tradurre in termini visivi quello che Fortunati aveva definito come la doppia natura del lavoro domestico e del lavoro di cura: per l’ideologia capitalista, essi erano una “naturale” fonte di ricchezza e benessere, ma dal punto di vista delle “operaie della casa”, la forza-lavoro necessaria per svolgere queste mansioni era una merce e doveva essere retribuita come tale (247).

Con una personale tenuta a Roma nel 1975 dal titolo La mamma è uscita, Milli Gandini, una delle fondatrici del Gruppo Immagine, intese rispondere all’invito ad “uscire di casa” rivolto alle donne da Dalla Costa e James. Mossa dalla volontà di presentare momenti di «creatività del rifiuto del lavoro domestico», attraverso arazzi realizzati con una trama molto larga e scarsamente ricamati, Gandini intendeva palesare il rifiuto di quanto questi avevano storicamente rappresentato per le donne, ossia «tanto lavoro manuale da eseguire ripetitivamente con punti piccolissimi» («Le operaie della casa», novembre 1975 – febbraio 1976). La tecnica del punto croce veniva dunque sovvertita e trasformata in qualcosa di volutamente grossolano intendendo così rifiutare l’abnegazione ad un lavoro ripetitivo, alienante e non retribuito. Nella stessa mostra l’artista aveva voluto esporre anche utensili domestici, trasformati dal processo di ricontestualizzazione artistico in esempi di “rifiuto del lavoro” femminile.

Attraverso le sue realizzazioni Gandini ambiva inoltre a contribuire a quell’opera di controinformazione femminista portata avanti a metà degli anni Settanta dalle militanti della Campagna per il salario al lavoro domestico anche attraverso nuove forme di controinformazione visiva.

Galimberti ricostruisce inoltre le modalità con cui politica ed estetica si sono intersecate all’interno del gruppo femminista promotore della Campagna per il salario al lavoro domestico, focalizzandosi soprattutto sul discorso estetico sviluppato da militanti italiane come Laura Morato e Silvia Federici. Di quest’ultima, trasferitasi negli Stati Uniti nel 1967, lo studioso analizza le illustrazioni – in buona parte stampe del XVI e XVII secolo – scelte per il volume pubblicato in lingua inglese ad inizio del nuovo millennio Caliban and the Witch (2004) – in cui la militante aveva ripreso e ampliato un lavoro svolto con Fortunati a cavallo tra gli anni Settanta e gli Ottanta –, sottolineando come in tale apparato iconografico Federici intendesse proporre un uso innovativo delle illustrazioni nei testi di teoria politica.

Ad essere esaminato dallo studioso è anche il grande telo realizzato nel 1976 dal Gruppo Immagine e steso dietro al palco di un evento napoletano nell’ambito della Campagna per il salario al lavoro domestico, in cui erano state cucite con effetto filigrana in latino le Litanie della Beata Vergine Maria, figura modello di femminilità e maternità nell’Italia cattolica dell’epoca. A fare da controcanto al contenuto religioso era stata riportata in evidenza la scritta “Anche l’amore è lavoro domestico”, a sottolineare, così come avrà modo di argomentare Giovanna Franca Dalla Costa (Un lavoro d’amore: la violenza fisica componente essenziale del “trattamento” maschile nei confronti delle donne, 1978), come

il capitalismo [avesse] sostenuto l’ideologia dell’amore coniugale e, parallelamente, la stigmatizzazione delle sex workers proprio per imporre uno specifico modello di famiglia e legittimare, pertanto, il lavoro femminile non retribuito. Lo stupro e la violenza maschile non erano, quindi, eventi tragici e isolati, ma piuttosto misure standard che, in nome dell’ordine economico, i mariti mettevano in atto per garantirsi l’asservimento delle compagne (p. 259).

A Mariuccia Secol si devono grandi arazzi raffiguranti figure femminili astratte in cui a materiali nobili e pratiche complesse si alternano interventi poveri e grossolani al fine di criticare «l’immagine della casalinga virtuosa e compiaciuta della propria abilità nei lavori» (p. 260).

La questione della creatività femminile è stata posta la centro dell’incontro milanese Donne Arte Società tenutosi nel 1978 in un clima politico e sociale particolarmente teso. In quell’occasione le donne del Gruppo Immagine presentarono un documento – accesamente criticato da diverse partecipanti – con cui, rivedendo in maniera critica il tipo di militanza assunto negli anni precedenti, intendevano rivendicare il diritto a una pratica artistica più individuale e autoreferenziale e meno subordinata all’universo politico esistente.

Alla Biennale veneziana del 1978 intitolata Dalla natura all’arte, dall’arte alla natura, il Gruppo Immagine prospettò un riformulazione della dualità natura/arte intendendo, sostiene Galimberti, contrastare l’idea che le donne potessero “rappresentare la natura”, come a lungo sostenuto da diversi artisti maschi. Il Gruppo guardò criticamente anche all’ambito architettonico denunciando quanto la progettazione delle abitazioni avesse storicamente contribuito a limitare l’indipendenza delle donne e prospettando forme architettoniche alternative ed emancipative.

Il ritorno all’ordine che si diffuse in Italia sul finire degli anni Settanta comportò la fine tanto della Campagna per il salario al lavoro domestico quanto dello spirito militante e collettivo che aveva animato il Gruppo Immagine. Gli anni Ottanta sancirono una svolta tanto nella militanza politica quanto nella pratica artistica delle donne che condusse all’aprirsi un nuova e differente stagione.

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Macchinette per pensare l’oltre https://www.carmillaonline.com/2020/07/07/macchinette-per-pensare-loltre/ Tue, 07 Jul 2020 21:55:54 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=61150 di Veronica Marchio

Un cane in chiesa. Militanza, categorie e conricerca di Romano Alquati, a cura di Francesco Bedani e Francesca Ioannilli, pag. 142  € 7,65, Ed. DeriveApprodi, Collana Input, 2020

Il libro Un cane in chiesa. Militanza, categorie e conricerca di Romano Alquati, appena uscito per la collana Input di DeriveApprodi, sistematizza, come scrivono i due curatori Francesco Bedani e Francesca Ioannilli gli interventi al corso di formazione politica tenutosi a Bologna presso la Mediateca Gateway, raccogliendo i contributi, oltre che dei due curatori, di Federico Chicchi, Maurizio Pentenero, Salvatore [...]]]> di Veronica Marchio

Un cane in chiesa. Militanza, categorie e conricerca di Romano Alquati, a cura di Francesco Bedani e Francesca Ioannilli, pag. 142  € 7,65, Ed. DeriveApprodi, Collana Input, 2020

Il libro Un cane in chiesa. Militanza, categorie e conricerca di Romano Alquati, appena uscito per la collana Input di DeriveApprodi, sistematizza, come scrivono i due curatori Francesco Bedani e Francesca Ioannilli gli interventi al corso di formazione politica tenutosi a Bologna presso la Mediateca Gateway, raccogliendo i contributi, oltre che dei due curatori, di Federico Chicchi, Maurizio Pentenero, Salvatore Cominu, Anna Curcio, Guido Borio e Raffaele Sciortino.

L’obiettivo del lavoro, che si mostra immediatamente come un elaborato collettivo, uno strumento parziale, volutamente incompleto, è quello di fare emergere la ricchezza della produzione teorica di un militante politico, Romano Alquati, sconosciuto ai più oggi e sminuito da tanti ieri, nonostante la sua capacità teorica e politica di aggredire l’ignoto a partire dalla realtà contingente, verso un possibile tutto da costruire. Se nel già noto infatti c’è la tranquillità della riproduzione, nell’ignoto c’è il rischio della rottura. E il rischio non tutti decidono di correrlo.

Il testo si concentra sulla sua produzione teorica dagli anni Ottanta in avanti, provando a identificare quei nodi teorici e politicamente rilevanti che segnavano l’inizio di alcune tendenze della ristrutturazione capitalistica, oggi in potente dispiegamento, e al contempo costringevano a immaginare e tracciare le possibili linee della tendenza contro soggettiva antagonista. Tornerò più avanti su questi punti.

In tutti gli interventi che compongono il testo emerge un tratto fondamentale, un’esigenza particolare che si pone come necessità rispetto alla studio dei testi alquatiani – molti dei quali inediti. Cosa significa infatti, concretamente, non fare del suo pensiero un feticcio? Mi pare che l’elemento peculiare di un simile atteggiamento sarebbe quello, tipicamente intellettuale, di settorializzazione di un campo teorico. Lo specialismo, la specializzazione, è un mezzo tipicamente capitalistico di neutralizzazione – nel senso che produce neutralità – della conoscenza e della formazione; una pratica che incatena il pensiero per renderlo innocuo. Di Romano Alquati allora, sottolineano i curatori, bisogna provare a utilizzare il metodo dello sguardo complesso sulla realtà: per cogliere il senso della realtà che osserviamo e vogliamo capire e trasformarlo in senso della possibilità – come sottolinea Borio. Una lettura della complessità a partire dal punto di vista della parzialità.

Insomma, rifiuto dello specialismo dovrebbe significare saper utilizzare ciò che può essere utile per la costruzione di ipotesi di rottura rivoluzionaria nel presente, avendo però la capacità di mettere in discussione e buttare via ciò che non serve più.
Ciò sopratutto perché, come emerge in vario modo e con diverse sfumature dagli interventi, Alquati non era meramente uno studioso, né un pensatore, né un intellettuale o solamente un sociologo critico: era un militante politico, la cui soggettività si forma per rotture e salti e la cui produzione teorico-politica è attraversata da un senso politico intrinseco, che si concretizza nella pervicace ricerca di una possibile tendenza di uscita dalla civiltà capitalistica, rappresentata dal fatto che la «capacità umana vivente» – concetto complesso e articolato approfondito da tutti gli autori – è irriducibile alla logica del capitale.

Prima di venire agli argomenti sostanziali e pregnanti per l’attualità che maggiormente emergono dal libro, vorrei tracciare alcune linee conduttrici che attraversano i contributi e che, a mio avviso, sono esemplificative del pensiero e stile militante di Alquati, elementi che potrebbero servirci a pensare e ad agire l’oggi dove la teoria politica rivoluzionaria non è al passo con la realtà – avendone perso il senso –, e non è quindi in grado di collocarsi, brancolando nel deserto del già noto.

La prima linea è quella che fa emergere il modo di stare dentro e contro la composizione politica del suo tempo, cosa che Alquati ha messo in pratica per tutto il suo percorso militante. Dal volume questo aspetto emerge in modo straordinario e variegato. Quell’essere «cane in chiesa» assume una connotazione tutt’altro che negativa. Il pensiero di Alquati dava fastidio perché non compiaceva gli amici con atteggiamenti trionfalistici o celebrativi, il suo essere «spavaldo» indicava la capacità di relazionarsi e comparare, ma anche di criticare in modo serrato gli altri, ricercando limiti e insufficienze, non la mera esaltazione delle esperienze specifiche. Un militante che rifiutava le semplificazioni e le scorciatoie strumentali, ma osava scommettere con occhi fini e pervicace sapienza. Mi ha colpito particolarmente la definizione che viene data del suo carattere da Borio, quello di «intransigenza sostanziale rispetto a un individualismo finalizzato al compromesso e allo scambio vantaggioso per il posizionamento personale».

Una seconda linea, anch’essa presente in tutti i contributi, consiste nella decisiva dinamicità e circolarità del modo di ragionamento complesso di Alquati. La sua capacità di modellizzare la realtà che aveva di fronte, senza costruire una gabbia chiusa – quella sì reclusione nel già noto e non bisognosa di essere modificata. È l’intelligenza politica di distruggere ogni staticità deterministica, portando il pensiero sempre al limite della sua processualità e trasformatività. Come scrive Ioannilli, un atteggiamento capace di «afferrare quello che c’è, per costruire quello che manca». Il suo «Modellone» della civiltà capitalistica allora non rappresenta una chiusura teorica, ma l’indicazione di linee di fuga, la sistematizzazione della realtà per immaginare un contro-percorso, una necessità imposta dall’accentuata complessità, ma anche il punto medio di una costruzione attenta e permeabile alle insorgenze.

La terza linea, forse la più importante, è quella di rintracciare in Alquati la continua propensione alla ricerca di forze soggettive – o meglio contro-soggettive – che potessero mettere in discussione il livello alto del dominio capitalistico, come sottolinea Pentenero. La ricerca di un’intenzionalità autonoma e contro, che non ha nulla di oggettivo né lineare, ma è calata dentro l’ambivalenza dell’articolazione stessa dell’agente umano, capitalisticamente formato come attore, dotato di risorse calde proprie in quanto persona, e sempre potenzialmente orientato a dei fini contro quelli ufficiali. Detta con Cominu, la ricerca quindi di forze soggettive che ampliano le condizioni dell’ambivalenza per trasformarla in possibilità.

L’ultima linea trasversale agli interventi ed esplicativa del senso politico forte che sta dietro il pensiero di Alquati, è la sua attenzione al nodo della formazione militante. Come ribadiscono sia Borio che Bedani, il suo obiettivo era quello di costruire delle macchine teoriche aperte e ipotetiche. Delle macchinette utili a costruire delle capacità collettive di ragionamento per pensare oltre; la formazione infatti deve «cambiare qualcosa di rilevante nella soggettività della gente, oltre che nella sua competenza e cultura».

Passando agli elementi sostanziali tuttora rimasti irrisolti, rispetto ai quali Alquati ha avuto il merito di operare dei salti teorici, come sottolinea Sciortino, mi pare che essi siano almeno tre, e non sono mai da considerarsi come aspetti o del capitale o del «contro-percorso». Si tratta di ragionamenti che sono ben collocati dentro il presupposto che, come scrive Curcio, il grado di intensità e presenza di politicità intrinseca e ambivalenza – quindi di possibilità antagonista –, dipende da rapporti di forza storicamente determinati. Questi tre aspetti sono a mio avviso i seguenti: la crisi della salarietà nei suoi aspetti tradizionali, accompagnata dal processo di iperindustrializzazione dell’ambito della riproduzione; la centralità del concetto di soggettività; la questione di cosa possa essere un militante politico oggi.

Per quanto riguarda il primo aspetto, sono soprattutto Chicchi e Curcio a concentrarsi sul processo di radicalizzazione dell’estrazione capitalistica di valore che Alquati descrive a partire dagli anni Ottanta. A ciò segue la domanda che Chicchi si pone in merito a quali potrebbero essere oggi le nuove forme di salarietà e operaietà, laddove il processo di estrazione e valorizzazione investe la vita, e la «capacità umana vivente attiva» in generale. Un’impresizzazione del mondo della riproduzione sociale, per riprendere Curcio, dove però esso non assume solo un carattere produttivo, ma diventa riproduzione di capacità umana, mezzo di accumulazione e valorizzazione diretto, senza mediazioni.
Nell’ambito dei processi di ristrutturazione, avverte Alquati, le trasformazioni sistemiche non sono neutre, perché non indicano né liberazione già avvenuta, né cattura inesorabile da parte del capitale.

Il dibattito allora si concentra sulla necessità di riqualificare, se non mettere in discussione, i concetti marxiani di forza lavoro e sussunzione reale. Scrive Curcio che si passa dal fuori della forza lavoro al dentro della capacità lavorativa, che Alquati definisce come «forze attive», intese in quanto combinazione tra le capacità attive umane calde e le capacità fredde macchiniche. Il processo di sussunzione reale si estende si enormemente, ma emerge una incompletezza della sussunzione effettiva (data l’incapacità per il capitale di sussumere fino in fondo quelle risorse calde, che gli residueranno sempre).

Il secondo nodo è quello della soggettività. Come già accennavo in precedenza, Alquati si pone il problema delle forze contro-soggettive possibili per la fuoriuscita dalla civiltà capitalistica. Nel libro questo aspetto viene bene messo in evidenza; ritengo a maggior ragione che questo concetto, quello di soggettività, in quanto baricentrale all’interno del pensiero alquatiano, necessiti di essere trattato sempre meno come un concetto e sempre più come un punto di vista. Borio lo descrive bene nel suo contributo, quella della soggettività è una questione sostanziale, un «cruccio» che Alquati non smetterà mai di portarsi dietro; essa non è un modo di essere generico o oggettivamente dato, ma intenzionale. La soggettività è diversa dal soggetto, la prima è propria di tutti gli agenti umani viventi, mentre il soggetto, con propri fini, è potenziale. Entrambi sono campi di battaglia tanto per il capitale tanto per «noi». La soggettività va riferita non al soggetto – che per Alquati è già contro se c’è – ma alla persona, in quanto soggetto intermedio e portatore di ambivalenza. È la contro-soggettività che va ricondotta al soggetto, strappando al capitale l’iniziativa dei percorsi di risoggettivazione individuale e collettiva.

Concludo con l’ultimo nodo, forse per noi il più importante – noi che da Alquati vorremmo imparare un modo di stare al mondo che non si stanchi mai di dare fastidio a chi pensa di avere tante certezze – su cosa significa essere un militante politico. Come scrive Bedani, ispirando il titolo di questa recensione, il militante è colui che pensa per pensare oltre. Alquati considerava la militanza come posizionamento, radicamento, internità, conricerca, studio, atteggiamento.
Il militante è colui che riesce a collocarsi e muoversi su più piani utilizzando saperi, scienze, conoscenze ecc. La conricerca è esattamente la capacità di fare interagire forze soggettive con soggettività differenti. È la messa in discussione, scrive Chicchi, di un rapporto neutro del sapere con le lotte, per produrre autonomia che sta nell’imprevisto.

Per chiudere, credo che questo piccolo libro possa essere pensato come una macchinetta per pensare l’oltre, una macchinetta incompleta, tutta da mettere a verifica nella realtà, perché il senso della possibilità bisogna averlo prima di tutto nella testa.

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L’autonomia di classe…innanzitutto! https://www.carmillaonline.com/2016/05/16/lautonomia-classe-innanzitutto/ Mon, 16 May 2016 20:24:31 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=30537 di Sandro Moiso

MontaldiSaggioCopertina Danilo Montaldi, Saggio sulla politica comunista in Italia. 1919 – 1970, Edito per conto del Centro d’Iniziativa Luca Rossi (Milano) dalla Cooperativa Colibrì, 2016, pp. 480, € 29,00

A quarant’anni di distanza dalla sua prima pubblicazione1 torna disponibile, per l’opera meritoria del Centro d’Iniziativa Luca Rossi di Milano, un testo imprescindibile per la comprensione dell’evoluzione del movimento operaio italiano e del suo, o almeno presunto tale, partito più rappresentativo. Attenzione però, il [...]]]> di Sandro Moiso

MontaldiSaggioCopertina Danilo Montaldi, Saggio sulla politica comunista in Italia. 1919 – 1970, Edito per conto del Centro d’Iniziativa Luca Rossi (Milano) dalla Cooperativa Colibrì, 2016, pp. 480, € 29,00

A quarant’anni di distanza dalla sua prima pubblicazione1 torna disponibile, per l’opera meritoria del Centro d’Iniziativa Luca Rossi di Milano, un testo imprescindibile per la comprensione dell’evoluzione del movimento operaio italiano e del suo, o almeno presunto tale, partito più rappresentativo. Attenzione però, il lettore non si troverà davanti ad un testo di “Storia” del Partito Comunista Italiano, ma piuttosto ad un’opera militante tesa ad aiutare l’opposizione di classe ad uscire, soprattutto all’epoca della sua redazione, dall’impasse troppo spesso rappresentata dalla separazione tra una sinistra istituzionale, ormai interamente rivolta ad un’attività di tipo parlamentare ed amministrativo, e una sinistra extra-parlamentare, presunta rivoluzionaria, che della prima non faceva altro che ricalcare i passi.

Il testo di Montaldi quindi si distanziava per impostazione sia dalla monumentale e canonica Storia dello stesso partito che a partire dal 1967 e fino al 1975 la casa editrice Einaudi era andata pubblicando per opera di Paolo Spriano, sia dalla più “eretica”, ma pur sempre tradizionale per impianto, storia pubblicata in un primo tempo, subito dopo la crisi ungherese e l’avvio del processo di “destalinizzazione”, nel 1957 da Giorgio Galli (poi rivista e ampliata nel 19762 ).

Purtroppo l’opera di Montaldi, che aveva avuto una lunghissima e tormentata gestazione, veniva già all’epoca pubblicata postuma, poiché l’autore, nato nel 1929 a Cremona, era drammaticamente scomparso un anno prima nelle acque del fiume Roia, presso il confine italo-francese. Da questo fatto derivava, forse, una struttura del testo divisa in 82 capitoli privi di titoli che aiutassero il lettore ad individuare velocemente gli argomenti e gli eventi trattati nelle sua pagine. L’edizione attuale, però, ha supplito a questa “carenza” con un ricchissimo indice analitico. Cui, sempre nella stessa vanno aggiunti un importante carteggio tra l’autore e vari corrispondenti proprio sul lavoro fatto in preparazione del testo ed una più che ampia ed esaustiva bibliografia oltre che un sostanziale ampliamento dell’apparato di note già presente nella prima edizione.

L’opera veniva così a chiudere, forzatamente, il percorso di un intellettuale militante che dopo essere entrato nel PCI nel 1944 lo aveva abbandonato appena due anni dopo, sull’onda dell’espulsione dalla sezione cremonese del partito di quella componente internazionalista, legata ancora a Amadeo Bordiga, che avrebbe voluto spronare il proletariato a portare a compimento, armi alla mano, il processo “rivoluzionario” iniziatosi con la Resistenza.

Questa esperienza in giovane età aveva contribuito a spingere l’autore verso una ricerca militante e politica che nel volgere di pochi anni lo avrebbero portato a produrre una discreta mole di articoli e saggi destinati a segnare in maniera esemplare il rinnovamento del discorso sull’interpretazione da dare dei comportamenti e dell’azione politica e sindacale determinata dall’autonomia di classe e sull’inchiesta operaia (che egli contribuì a rinnovare sensibilmente dal punto di vista metodologico).3

Una metodologia che da un lato lo avrebbe avvicinato a Gianni Bosio nel campo della storia orale, mentre dall’altro lo avrebbe portato a dare vita a quella che sarebbe poi stata successivamente meglio definita da Romano Alquati come “conricerca”. Sergio Bologna avrebbe poi affermato, nella primavera del 1975, nel necrologio scritto in occasione della morte di Montaldi sulla rivista Primo Maggio che: “non c’è vigliaccata peggiore che dargli del sociologo, di attribuirgli uno sforzo di identificazione o di traduzione delle sue «storie dirette»”.

Montaldi non voleva essere inquadrato in una parrocchia politica. Forse non voleva nemmeno essere considerato un intellettuale. Usava gli spazi disponibili (libri, giornali, riviste, dibattiti) per portare avanti e affinare la sua ricerca e la sua visione dell’azione di classe, proprio come pensava che il proletariato avrebbe saputo fare, in piena autonomia, senza il bisogno di qualcuno che lo guidasse o che ne raccontasse la storia dall’esterno. L’autonoma azione politica doveva infatti preludere anche ad una autonoma ricostruzione della propria storia, non mediata da altri interessi che non fossero quelli della liberazione dalla servitù salariale e capitalistica.

Tali presupposti e tale metodo sono presenti, per forza di cose, anche nel “Saggio”, dove nelle parti più indirizzate alla critica ideologica delle posizioni assunte dal Partito attraverso lo stalinismo e il togliattismo l’autore si basa principalmente su documenti e testi della tradizione e della storiografia comunista “di vertice”, mentre in quelle destinate all’esplorazione delle possibilità insite nell’utilizzo, o nel ribaltamento, proletario dello strumento “partito” utilizza principalmente testimonianze dirette o materiali prodotti dalla “base” e dai suoi movimenti spontanei.

L’obiettivo del saggio di Montaldi sembra dovere e volere coincidere con quello della ripresa delle lotte che dal 1968 in avanti avevano rivitalizzato la classe operaia e il proletariato nel suo insieme. E l’autore lo sintetizza proprio nelle pagine finali del testo: “Una classe operaia che ha vissuto in modo dialettico il rapporto con il partito della burocrazia, saprà certamente condizionarlo e liberarsi dalla sua ipoteca fallimentare. La profonda secessione che si è verificata dal ’68 in avanti racchiude entro di sé il rifiuto di un passato che è stato anche di alienazione […] Un vasto processo di ricomposizione organizzativa del corpo rivoluzionario tende a rompere il vincolo nel quale, dal 1945, in Europa, il proletariato può vivere, dibattere, crescere, invecchiare, ringiovanire senza però poter mai uscire dalla condizione nella quale si trova ristretto. La condizione perché venga infranto tale giro vizioso […] è di spezzare l’accordo che lega i partiti tradizionali del movimento operaio alle forze della guerra e dell’imperialismo. Nella fabbrica e nella società certe premesse sono già state poste […] Il lungo lavoro della Direzione del PCI non è mai riuscito a stringere in uno schema di comodo la lotta di classe. Non si è tratto unicamente, come nel vecchio PSI, di una crescente influenza del sistema sul partito; con il PCI si è trattato, dal 1944, di un patto nazionale in rapporto con gli altri patti, tra gli Stati maggiori e i blocchi mondiali, a togliere indipendenza e autonomi a al proletariato” (pag. 346)

Nella interpretazione dell’autore in quella funzione contro-rivoluzionario Togliattismo e stalinismo avevano cercato di stringere, non sempre riuscendoci, in un abbraccio mortale la classe, cercando di impedirle qualsiasi autonomia di azione, tanto da far dire a Nicola Gallerano, nella nota introduttiva alla prima edizione, riportata anche nell’attuale, che il memoriale di Yalta, autentico testamento politico di Togliatti, “appare a Montaldi come il punto di arrivo e il suggello di tutta la storia politica del dirigente italiano, esempio di coerenza stalinista «strategica» proprio nel momento in cui è costretto a negarne più decisamente il corollario «tattico» (la dipendenza dall’URSS). Si comprende allora il senso del lavoro sul PC italiano e sulla figura di Togliatti, il dirigente che ne ha segnato di più profondamente il ruolo politico. «Stalinismo cosciente», «nazionale e statale» è quello di Togliatti; e la «continuità», la «staticità», anche, di Togliatti […] consiste nel suo discorrere da «statista», di «Paesi e nazioni, non di classi»” (pag.405)

Ecco allora rivelarsi tutta l’importanza della ricostruzione militante della politica comunista in Italia dal 1919 al 1970, validissima ancora oggi per comprendere come l’attuale Partito della Nazione finisca col coronare, e non tradire, lo spirito di un partito che dalla “svolta di Salerno” in poi non ha perseguito altro che il disarmo dell’autonomia di classe e la difesa degli interessi del capitale nazionale e sovranazionale. La cui la traiettoria, che avrebbe poi portato fino a Renzi e al suo PD, era già tutta compresa in quel giudizio e in quella prospettiva.

Un testo che se rivelava agli occhi dei lettori dell’epoca della sua prima uscita, tra cui mi annovero volentieri, la lotta all’ultimo sangue che si era svolta tra classe e stalinismo nell’URSS, anche con episodi di durissima resistenza operaia allo stakanovismo, e fuori dai suoi confini (dalla Spagna del ’36 all’Ungheria del ’56 e oltre), oggi si rivela ancora enormemente utile per una riflessione non solo sul divenire del rapporto tra classe e partito, ma anche sull’inutilità e la pericolosità di strutture politico-organizzative che tendano a rinchiudere le contraddizioni di classe in un ambito puramente parlamentare ed amministrativo.

Riflessione che accompagnò e costituì, quasi sempre, la base dell’irrequietezza politica e di tutto il lavoro di ricerca di Danilo Montaldi, dalla sua esperienza con gli internazionalisti della Sinistra Comunista, ancora ben radicata all’epoca della sua gioventù nel cremonese e nella Bassa Padana, agli incontri con i rappresentati degli Zengakuren giapponesi e da Socialisme ou barbarie fino ai prodromi dell’Autonomia operaia. Uno studioso militante tutto da riscoprire a partire, magari, proprio da questo fondamentale testo.

montaldi-feltrinelli N.B.
Per approfondire ulteriormente il discorso sulla figura di Montaldi (ritratto nella fotografia pubblicata qui a lato, è il primo da sinistra, con Giangiacomo Feltrinelli durante un dibattito a Cremona) si consigliano ancora i seguenti testi:

Danilo Montaldi e la cultura di sinistra del secondo dopoguerra, a cura di Luigi Parente, La Città del Sole, 1988, Napoli

Enzo Campelli, Note sulla sociologia di Danilo Montaldi. Alle origini di una proposta metodologica (in La Critica Sociologica n. 49, 1979)

Stefano Merli, L’altra storia. Bosio, Montaldi e le origini della nuova sinistra, Feltrinelli (1977)


  1. Edizioni Quaderni Piacentini, Piacenza 1976 (allora stampata in circa quattrocento copie)  

  2. Giorgio Galli, Storia del PCI, Bompiani 1976  

  3. Si vedano: Franco Alasia-Danilo Montaldi ( a cura di), Milano Corea. Inchiesta sugli immigrati, Feltrinelli prima edizione 1960, seconda accresciuta 1975; D.Montaldi, Autobiografie della leggera, Einaudi 1961; D.Montaldi, Militanti politici di base, Einaudi 1971; D.Montaldi, Korsch e i comunisti italiani. Contro un facile spirito di assimilazione, Savelli1975; D.Montaldi, Esperienza operaia o spontaneità, in Ombre Rosse n° 13, Savelli 1976; D.Montaldi, Bisogna sognare. Scritti 1952 – 1975, Edito per conto dell’Associazione culturale Centro d’iniziativa Luca Rossi – Milano – dalla Cooperativa Colibrì, 1994  

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