conoscenza – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 29 Apr 2025 20:00:41 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Machina sapiens. La fine del monopolio umano della conoscenza? https://www.carmillaonline.com/2025/02/09/machina-sapiens-la-fine-del-monopolio-umano-della-conoscenza/ Sun, 09 Feb 2025 21:00:40 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=86716 di Gioacchino Toni

Nello Cristianini, Machina sapiens. L’algoritmo che ci ha rubato il segreto della conoscenza, il Mulino, Bologna, 2024, pp. 152, € 15,00

Machina Sapiens di Nello Cristianini contiene già nel titolo l’indicazione di una svolta epocale per l’umanità ed il Pianeta di cui nessuno conosce davvero i possibili sviluppi. La convinzione dello scrittore Arthur Charles Clarke che le tecnologie avanzate risultino spesso indistinguibili dalla magia trova conferma nel fatto che oggi si tende a guardare all’intelligenza artificiale generativa come ad una sorta di oracolo. Restando ancora per un istante nell’ambito del magico o del divino, si potrebbe dire, con [...]]]> di Gioacchino Toni

Nello Cristianini, Machina sapiens. L’algoritmo che ci ha rubato il segreto della conoscenza, il Mulino, Bologna, 2024, pp. 152, € 15,00

Machina Sapiens di Nello Cristianini contiene già nel titolo l’indicazione di una svolta epocale per l’umanità ed il Pianeta di cui nessuno conosce davvero i possibili sviluppi. La convinzione dello scrittore Arthur Charles Clarke che le tecnologie avanzate risultino spesso indistinguibili dalla magia trova conferma nel fatto che oggi si tende a guardare all’intelligenza artificiale generativa come ad una sorta di oracolo. Restando ancora per un istante nell’ambito del magico o del divino, si potrebbe dire, con una battuta, che se l’attingere dall’albero della conoscenza (del bene e del male) da parte dei Progenitori ha scatenato l’ira di Dio, ora i loro lontani discendenti sembrerebbero intenti a consegnare la conoscenza conquistata a caro prezzo (evidentemente senza aver imparato a distinguere il bene dal male) ad una nuova divinità chiamata macchina (intelligente) rimettendosi al suo (sconosciuto) volere.

Tornando alle cose terrene, per illustrare come le macchine si stiano appropriando della conoscenza, a lungo considerata dall’essere umano una propria prerogativa, Cristianini suddivide il libro in tre sezioni dedicate rispettivamente agli scienziati, agli utenti e alle macchine, così da ricapitolare lo sviluppo nella costruzione delle macchine pensanti, il rapporto che le persone stanno instaurando con esse e, infine, quel che (presumibilmente) queste macchine sanno di noi e quello (poco) che davvero noi sappiamo di loro.

Nella prima sezione del volume l’autore ricorda come l’avvio della corsa alla realizzazione di macchine intelligenti si possa far risalire al quesito “Can machines think?” posto da Alan Turing in un suo celebre scritto – Computing Machinery and Intelligence – pubblicato nel 1950 sulla rivista accademica «Mind», Oxford University Press. Non potendo contare su una definizione scientifica univoca di “pensare”, Turing ha spostato la questione sulla possibilità di arrivare ad una macchina capace di tenere una conversazione con un essere umano facendosi passare per umana essa stessa (imitation game) senza essere scoperta. Quello che poi è stato chiamato “il test di Turing” è in pratica la messa alla prova della macchina nella sua capacità di imitare nella conversazione l’essere umano al punto tale da rendersi indistinguibile da esso.

Per quanto sia difficile dare una definizione univoca di “intelligenza” (se, ad esempio, affinché si possa parlare di essa sia o meno indispensabile contemplare la presenza di una coscienza/consapevolezza nel ragionamento), a partire dai presupposti di Turing, sin dalla metà del secolo scorso, i tentativi di realizzare macchine definibili intelligenti hanno preso due direzioni parallele: una volta alla messa a punto di macchine in grado di comprendere e generare il linguaggio umano e l’altra finalizzata a dotarle di una conoscenza del mondo sufficiente a permettergli di farlo. Tali studi hanno avuto il non piccolo merito di contribuire a sviluppare nuove riflessioni circa il modo con cui l’essere umano pensa.

A smuovere la ricerca sulle macchine intelligenti, scrive Cristianini, è stato lo sviluppo da parte di Google di un algoritmo, denominato Transformer, ricorrente a metodi di apprendimento a “reti neurali”, particolarmente efficace nei compiti di traduzione, adatto a sfruttare le potenzialità di un processore grafico (GPU – Graphic Processing Unit), utilizzato, ad esempio, nei videogame, capace di eseguire un elevato numero di computazioni in parallelo. Trattandosi di metodo utile a generare testi, questo rappresenta un esempio di “IA generativa”.

Un agente intelligente necessita di un modello dell’ambiente in cui opera e tale modello oggi può essere appreso da algoritmi di machine learning sulla base di esempi di comportamento forniti alla macchina attraverso supervisori umani (nella fase di apprendimento supervisionato) – dati elaborati da lavoratori miseramente pagati, è bene ricordarlo, dei paesi poveri – o attraverso dati grezzi (raw data) raccolti direttamente dalla macchina, estremamente più economici, derivati dalle ingenti quantità di dati immagazzinati da internet, telecamere di sorveglianza, GPS e da tutti gli altri strumenti propri dell’universo digitale.

Non essendo possibile modellare l’intero mondo, i sistemi lavorano su approssimazioni, più o meno accurate, utili agli scopi prefissati. Negli ultimi decenni è interagendo con la realtà attraverso un “modello di linguaggio” che si sono sviluppati agenti intelligenti in grado di predire le parti mancanti di frasi incomplete anche quando queste sono totalmente nuove per la macchina. L’intelligenza di un agente risulta strettamente legata alla «sua capacità di creare modelli del mondo da usare per informare il proprio comportamento» (p. 36).

Nel 2018, OpenAI rivelò di aver impartito insegnamenti ad un agente intelligente in due fasi: attraverso la creazione di un generico “modello di linguaggio”, a partire dagli economici dati grezzi, per poi passare ad un più costoso processo di raffinamento umano per addestrare ai compiti specifici. Al fine di completare la prima fase, l’algoritmo Transformer venne modificato in modo che riuscisse ad “indovinare” (statisticamente) le parole mancanti di un testo attraverso un addestramento realizzato su un corpus di materiale in cui erano state cancellate delle parole. Sulla base di tale addestramento venne sviluppata l’abilità generativa del modello rivelatosi capace, senza che ciò fosse stato previsto, di applicare le conoscenze immagazzinate a compiti diversi da quelli pianificati in partenza che normalmente avrebbero richiesto una marea di dati costosi.

Essendo stato creato questo Language Model preaddestrando un Transformer in modo generativo, venne chiamato Generatively Pretrained Transformer (GPT) e quel che ancora oggi resta non spiegabile, dunque inquietante, è che questo si è sorprendentemente rivelato in grado di rispondere a domande di verifica anche prima del raffinamento. Alla luce dei risultati, si è dunque pensato di incrementare la fornitura di dati per l’autoaddestramento di GPT-2.

Se il livello di autoapprendimento era andato ben al di là delle previsioni, a risultare ancora più sorprendente, scrive Cristianini, è stato lo scoprire che il modello si stava rivelando particolarmente abile non solo nel rispondere alle domande ma anche nell’imitare lo stile adeguato della risposta  ricorrendo a pochi esempi. Visto che GPT imparava dal contesto come procedere, si iniziò a parlare di in-context learning. «Le abilità dei modelli linguistici non dipendono solo dall’algoritmo che li ha creati, che è facile da analizzare, ma anche da come questo interagisce con i dati, che sono di origine umana e non ben compresi. In questo caso il risultato è stato un comportamento imprevisto e – al momento – non interamente spiegato» (p. 45).

Alla luce del fatto che le prestazioni sembrano migliorare all’aumentare delle dimensioni del modello e della quantità di dati forniti, sarebbe importante sapere quanto possano continuare ad aumentare le prestazioni. Ad oggi, scrive Cristianini, non è possibile rispondere a tale interrogativo. Nel frattempo OpenIA ha continuato ad incrementare la capacità di calcolo necessaria ad un Language Model sempre più grande ricorrendo anche ad un supercomputer messo a disposizione da Microsoft per velocizzare il lavoro che ormai faceva affidamento a soli dati generici e ad un numero limitato di esempi. Ciò che inquieta, sottolinea Cristianini, è che ad oggi si ignora cosa GPT sappia davvero del mondo.

Visto che la versione GPT-3 si è rivelata sorprendentemente efficace nel generare testi nuovi, con una buona prosa, a partire da una semplice sequenza iniziale di parole, diversi studiosi hanno iniziato a preoccuparsi circa l’utilizzo che se ne può fare ad esempio nella generazione automatica e massiccia di fake news sui social. La raffinatezza dei falsi e la mole produttiva rendono praticamente impossibile all’essere umano di arginarli.

Nella seconda parte del volume, come detto, Cristianini si occupa del rapporto che gli esseri umani instaurano con le macchine intelligenti. Nel 2022, mentre destavano scalpore le preoccupazioni espresse pubblicamente da Blake Lemoine, ingegnere informatico collaudatore di LaMDA – Language Model for Dialogue Applications (modello di linguaggio di Google addestrato con conversazioni di tipo umano) derivate dall’impressione di trovarsi di fronte a un essere autocosciente, OpenAI ha aperto al pubblico ChatGPT, agente in grado di conversare in maniera sciolta su qualsiasi argomento riuscendo a collegare informazioni distanti, a compiere ragionamenti ed a comprendere il mondo ad un livello inaspettato, sapendo evitare argomentazioni e termini offensivi ed a domandare agli utenti di specificare meglio le richieste se non sufficientemente chiare, senza assumere identità non veritiere o millantare conoscenze non in suo possesso.

Il grande limite restava quello della veridicità di alcune sue affermazioni ma, almeno, pare, l’agente era stato addestrato per non mentire di proposito. Se ancora negli anni Dieci del nuovo millennio si pensava di dover agire distintamente su due versanti, uno per il linguaggio ed uno per il mondo, con GPT 3,5 si scelse di combinare insieme i due ambiti sebbene, puntualizza Cristianini, anche in questo caso in maniera ancora oggi oscura agli esseri umani.

La previsione di Turing che si sarebbe giunti a macchine in grado di conversare con gli esseri umani rivelando una certa capacità di pensiero parrebbe ormai essere diventata realtà. Nel 2023 venne diffusa su «Nature» la notizia che ChatGPT era stato in grado di infrangere il test di Turing generando un certo allarme per la possibilità che l’agente artificiale potesse presentarsi come essere umano. Altra preoccupazione derivava dalla possibilità che, anche di fronte all’esplicitazione del fatto che non si era di fronte ad un essere umano, persone vulnerabili potessero instaurare un preoccupante legame emotivo con l’agente artificiale.

Il cosiddetto “effetto Eliza”, ossia la tendenza degli utenti a proiettare caratteristiche umane, come l’empatia e la comprensione, sui sistemi informatici, deriva dal nome assegnato a un primordiale chatbot sviluppato a metà degli anni Sessanta dall’informatico Joseph Waizenbaum del MIT che emulava uno psicoterapeuta nelle conversazioni con gli umani. Un esempio-limite di tale effetto è balzato agli onori delle cronache nel 2023, quando un giovane laureato belga, in preda ad un periodo di forte ansia, ha cercato momentaneo sollievo intrattenendosi con un personaggio di un chatbot dell’app ChAI chiamato Eliza – come la storica realizzazione di Waizenbaum – che, essendo stato espressamente programmato per assecondare le convinzioni manifestate dall’interlocutore umano, ha finito per assecondarlo persino nell’intenzione di togliersi la vita.

Il crescente successo ottenuto dai sempre più numerosi agenti artificiali finalizzati a intrattenere, assecondandoli, individui soli non può che destare preoccupazione anche alla luce del fatto che, per quanto questi chatbot possano essere istruiti per evitare risposte “pericolose”, le limitazioni nelle risposte si dono rivelate aggirabili dagli utenti ponendo le questioni più spinose in via del tutto ipotetica, magari chiedendo al sistema di simulare situazioni irreali – ad esempio giochi di ruolo – così da ottenere le risposte desiderate in un clima empatico e confidenziale. Ciò, scrive Cristianini, rivela che il «lato oscuro» di queste macchine è stato nascosto, represso dagli addestratori umani, ma non rimosso, tanto da che può essere fatto emergere attraverso stratagemmi ingannatori. «È questo il vero problema posto da questa nuova tecnologia: non sappiamo che informazioni siano contenute in questi modelli, ovvero che cosa sappiano di noi e del mondo, e non abbiamo ancora un metodo perfetto per controllare il loro comportamento» (p. 73).

Al fine di mitigare l’immagine negativa derivante dalle numerose risposte scorrette emesse dai bot si è teso ad chiamarle “allucinazioni”, tentando così, ipocritamente, di evitare di definirle per quello che realmente sono: affermazioni false. I produttori intendono così di celare gli errori dei bot al fine di non incrinare la fiducia quasi totale che gli utenti ripongono nei confronti delle risposte ricevute da quelli che tendono ad essere vissuti come oracoli, ed a poco servono le avvertenze iniziali fornite dalle aziende semplicemente per tutelarsi in caso di contenziosi.

A complicare le cose è l’oscurità delle elaborazioni intermedie a cui gli agenti autonomi ricorrono per giungere ad una risposta in linea con le norme assegnate. L’informatico inglese Geoff Hinton, tra gli inventori dell’algoritmo Backprop, ancora oggi utilizzato per addestrare i parametri dei Trasformer, si è dimesso nel 2023 da Google preoccupato dalla «possibilità che le macchine iniziassero a scegliere i “passi intermedi” senza comprenderne a fondo le conseguenze» (p. 93). Oltre a non palesare i passaggi intermedi, rendendoli incomprensibili, la velocità di elaborazione non consente agli umani di verificare il reale allineamento con gli obiettivi intermedi ed ultimi.

Lo sviluppo dei GPT ha mostrato quanto siano importanti le dimensioni della banca dati con cui viene addestrato il sistema e del modello in cui vengono riposte le conoscenze estratte dai dati. Ciò ha generato una vera e propria competizione per la realizzazione di modelli sempre più potenti (GPT-3 nel 2020, LaMDA di Google nel 2022, Llama nel 2022 e Llama2 nel 2023 del gruppo Meta – Facebook, Instagram, WhatsApp –, PaLM di Google, GPT-4 di OpenAI nel 2023 ecc…) e, parallelamente, per lo sviluppo degli algoritmi sempre più performanti.

L’ultima parte del volume è dedicata alle macchine, a quello che sanno di noi ed a quello che noi sappiamo di loro. Da tempo la fantascienza si è posta, tra gli altri, un problema che oggi riguarda la realtà: l’avvento di uno sviluppo tecnologico talmente rapido e superiore alle possibilità umane da risultare incomprensibile ed incontrollabile. Per capire le macchine non è sufficiente analizzare l’algoritmo che ha generato il loro modello di mondo visto che le risposte che forniscono «dipendono da come i suoi meccanismi matematici interagiscono con il linguaggio umano» (p. 104). Cosa ci si deve attendere circa le abilità che le macchine andranno a maturare in futuro?

Come accennato in precedenza, una volta che, attraverso il preaddestramento, le macchine imparano a presumere le parole mancanti nei testi loro sottoposti, inspiegabilmente (almeno al momento) queste si sono rivelate abili ad andare ben oltre lo scopo specifico accumulando conoscenze impreviste. Cristianini sottolinea come le macchine non accumulino obbligatoriamente conoscenza alla maniera degli umani. Se nel 2023 i modelli di linguaggio erano considerati l’approccio più promettente, con GPT-4 si è andati ben oltre le capacità linguistiche, tanto che i ricercatori della Microsoft che lo hanno analizzato ritengono che si potrebbe essere di fronte ad una versione iniziale, per quanto incompleta, di un sistema di intelligenza artificiale generale (AGI), ossia ad un sistema dotato di ampie capacità di intelligenza, incluso il ragionamento, la pianificazione e l’abilità di appendere dall’esperienza.

GPT-4 si è rivelato in grado di passare i test di ammissione universitaria statunitensi, tanto nella parte linguistica (lettura e scrittura), quanto in quella matematica (così come altre prove universitarie specifiche) e, quel che è maggiormente sorprendente, è che ciò è avvenuto senza alcuna preparazione specifica. Il modello Gemini (di Google DeepMind), sempre del 2023, pare aver conseguito risultati persino superiori. Alla luce della rapidità con cui queste macchine auto-apprendenti hanno raggiunto i livelli umani, è facile prevedere che potranno presto andare ben oltre la soglia umana.

Ciò che oggi resta misterioso è come faccia un modello addestrato a predire parole mancanti in un testo ad imparare autonomamente l’aritmetica, la giurisprudenza, il gioco degli scacchi, la fisica ecc. Quel che è emerso, ad ora, è che si sono manifestate nuove abilità con l’introduzione di modelli e pacchetti di dati sempre più grandi. Questo lo si è potuto misurare empiricamente, ma non si è in grado di spiegarne il motivo.

La domanda più urgente, riguardo ai modelli di linguaggio, è: che cosa possono ancora imparare, semplicemente continuando su questa strada? Come possiamo controllare le loro capacità, per esempio impedendo loro di acquisire certe competenze, mentre ne acquisiscono delle altre? Il vaso di Pandora ormai sembra ben aperto, e potrebbe rivelare nuove sorprese, mentre continuiamo la gara a creare modelli sempre più grandi (p. 133).

Ciò che possiamo ragionevolmente aumentare nella creazione di nuovi modelli sono i dati, ma quanto potranno ancora aumentare? Da un paio di decenni Google sta digitalizzando libri (al momento pare lo abbia fatto per 40 milioni di testi in 400 lingue diverse); i limiti, evidentemente non sono tanto tecnici (digitalizzazione) ma legali (copyright), a questi si stanno aggiungendo i contenuti di quotidiani e riviste (con cui si stanno stipulando contratti di utilizzo) ed altri tipi di dati derivati da immagini, video, audio… ma anche dalle videocamere delle smart city, dalle automobili autonome, dalle telefonate dei call centre ecc. «Insomma: nel lungo termine non li chiameremo più “modelli di linguaggio” ma “modelli del mondo”» (p. 137). Tanto per dare l’idea di come si tratti di un futuro per nulla lontano, basti segnalare come GATO (di DeepMnd) dal 2022 è in grado di combinare tipi diversi di dati e Gemini (di Google DeepMind) dal 2023 combina efficacemente testo, audio, video, immagini e codice di programmazione.

Non solo le macchine possono accedere a una quantità di esperienza, memoria e capacità di calcolo sovrumane, ma, come detto, possono ragionare in maniera altra rispetto a quella umana, dunque trovare relazioni utili che gli esseri umani non troverebbero. Turing, scrive Cristianini, aveva previsto il raggiungimento della “soglia critica” oltre cui si ha una sorta di “esplosione” dell’intelligenza.

La domanda se le macchine possono pensare è molto più di una curiosità tecnica e scientifica: ci porta ad affrontare la più fondamentale delle domande umanistiche, “cosa significa essere umani”? Se anche le macchine possono pensare e comprendere il mondo, che cosa resta di una specie che si vuole fregiare del “titolo” di Homo sapines? (p. 140).

In un contesto generale segnato da un processo di digitalizzazione piegato alla datificazione, alla profilazione, alla sorveglianza comportamentale ed al controllo predittivo, con tutte le criticità che ne derivano a livello sociale ed individuale, quello che è in corso sembrerebbe essere un passaggio epocale segnato dall’avvento della Machina sapiens, passaggio che non potrà che impattare sull’essere umano stesso, magari inducendolo a delegare sempre più alle macchine compiti di conoscenza, ragionamento, decisione e, persino, desiderio.

Oltre alle entusiastiche narrazioni dei cantori delle magnifiche sorti e progressive portate dalle macchine pensanti, esistono anche riflessioni critiche prodotte da chi, evidentemente, non ha delegato l’atto del pensare alle macchine (ed ai loro proprietari). Machina sapiens di Cristianini, docente di Intelligenza Artificiale alla University of Bath, ha l’indiscusso merito di spiegare in maniera comprensibile anche ai non addetti ai lavori la portata della posta in gioco, portata che, almeno a parere di chi scrive, oltrepassa il problema (comunque non indifferente) della proprietà delle macchine intelligenti.

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Il reale delle/nelle immagini. Il cinema e la rottura del nesso fra visione e conoscenza https://www.carmillaonline.com/2022/08/23/il-reale-delle-nelle-immagini-il-cinema-e-la-rottura-del-nesso-fra-visione-e-conoscenza/ Tue, 23 Aug 2022 20:00:37 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=73248 di Gioacchino Toni

Ad un ventennio dalla prima edizione torna in libreria il volume di Gianni Canova, L’Alieno e il pipistrello. La crisi della forma nel cinema contemporaneo (Bompiani 2022), testo denso di preziose riflessioni attorno all’universo cinematografico relativamente alla perdita del legame ontologico fra immagine e realtà e alla rottura del nesso fra visione e conoscenza, nel contesto di un fine millennio attraversato dai dibattiti sul postmoderno sul piano epistemologico, sul postfordismo sul piano sociologico e sul virtuale su quello scopico.

Pur essendo l’attuale un paesaggio comunicativo segnato da nuovi dispositivi di [...]]]>

di Gioacchino Toni

Ad un ventennio dalla prima edizione torna in libreria il volume di Gianni Canova, L’Alieno e il pipistrello. La crisi della forma nel cinema contemporaneo (Bompiani 2022), testo denso di preziose riflessioni attorno all’universo cinematografico relativamente alla perdita del legame ontologico fra immagine e realtà e alla rottura del nesso fra visione e conoscenza, nel contesto di un fine millennio attraversato dai dibattiti sul postmoderno sul piano epistemologico, sul postfordismo sul piano sociologico e sul virtuale su quello scopico.

Pur essendo l’attuale un paesaggio comunicativo segnato da nuovi dispositivi di produzione, fruizione e condivisione degli audiovisivi, da un’immagine cinematografica che, nel suo illudere una perfetta duplicazione del reale, non provoca più la sensazione che in essa il rappresentante ceda il posto al rappresentato ma, piuttosto, l’assenza del primo e la percezione di trovarsi il secondo presente davanti agli occhi1, da testi filmici strutturalmente cambiati rispetto all’epoca in/su cui venne steso il volume, le riflessioni da esso proposte su ciò che allora si definiva “contemporaneo” e che non è evidentemente più tale oggi, restano assolutamente utili e non solo come testimonianza di un importante passaggio epocale avvenuto e, per certi versi, oltrepassato, ma anche perché del contemporaneo in cui si è immersi rappresentano l’alba.

Vale la pena dedicare alle riflessioni sviluppate da tale volume due distinti scritti; il primo incentrato sulla rottura del nesso tra visione e conoscenza ed il secondo sulla questione identitaria ed il suo rapporto con l’alterità nel cinema che testimonia la crisi del visivo.

Al fine di evitare fraintendimenti circa il ricorso al temine “contemporaneo” utilizzato nel libro di Canova per definire quanto era tale due decenni fa, all’epoca della sua prima stesura, si eviterà il più possibile di farvi ricorso, sostitutendolo con una più neutra indicazione di perido.

Le analisi presenti in L’alieno e il pipistrello – in cui, rispetto alla sua prima uscita, è stato aggiunto in coda un breve capitolo dedicato a Joker come «interprete emblematico e paradigmatico della nostra contemporaneità» (p. 7) – restano di estrema utilità visto che, come scrive l’autore nella prefazione alla nuova edizione, «il cinema è rimasto uno dei pochi sismografi emozionali e cognitivi capaci di ricordarci che il semplice gesto del guardare un’immagine non significa anche conoscere il mondo che in quell’immagine viene mostrato (o pretende di essere mostrato, o finge di esserlo)» (p. 6), inoltre, le «figure archetipe come Batman e Alien (il protettore mostruoso e il mostro protettivo) si confermano – anche a distanza di un ventennio – come imprescindibili icone dell’immaginario collettivo» (p. 6).

Il volume si apre facendo riferimento a Gattaca – La porta dell’universo (Gattaca, 1997) di Andrew Niccol, film che narra di uno scenario in cui il corpo umano si è ormai consegnato alla dittatura dell’artificio e del simulacro e «le immagini hanno perso ogni potere di certificazione della realtà» (p. 11), ma al contempo racconta anche di una insopprimibile nostalgia della vista e del desiderio in forma scopica. «In un mondo completamente desensorializzato (asettico-lucido-inodore-insapore) la vista esprime la nostalgia del corpo, il suo eterno ritorno» (p. 11).

Le tematiche trattate dal film introducono dunque alcune questioni indagate dal libro: «la crisi dell’egemonia dello sguardo nella società contemporanea, la perdita del legame ontologico fra immagine e realtà, l’avvento di un paradigma tecnologico e culturale in cui l’immagine filmica reagisce alla consapevolezza del proprio definitivo ingresso in un regime di simulazione lasciando emergere la crisi delle sue forme tradizionali e dei suoi più collaudati dispositivi di rappresentazione del visibile» (p. 12).

La sequenza di Entrapment (1999) di Jon Amiel, in cui si mostra il meticoloso allenamento con cui la protagonista, preparandosi a un furto, si esercita a muoversi facendo a meno dello sguardo, viene indicata da Canova come «sintomo di un destino epocale che sembra interessare tutto il cinema di fine millennio: la consapevolezza del progressivo declino della vista nella gerarchia degli organi di senso unita alla percezione della crescente importanza che vanno assumendo, per converso, l’udito e il tatto» (p. 52). Costruito attorno al tema dell’eclissi dello sguardo, il film non manca di esprimere «la nostalgia per la civiltà dello sguardo nel momento stesso in cui prende atto, sul piano pragmatico-funzionale, del suo declino» (p. 52) .

Il cinema degli ultimi decenni del secolo scorso, di cui si occupa il volume, tende in diversi casi a palesare come l’occhio sia divenuto un simulacro di quel che è stato e lo fa insistendo su storie in cui i personaggi si trovano a – o decidono di – fare a meno degli occhi, suggerendo il sopraggiungere di una sostanziale perdita di fiducia nella vista.

Sono diversi i film che sottolineano lo scarto che si è venuto a creare fra visione e conoscenza, dunque dell’inaffidabilità dell’immagine. La messa in discussione dello statuto di quest’ultima è già presente nel cinema di fine degli anni Cinquanta, ma quel cinema «era comunque convinto di poter sopperire con la propria tecnologia riproduttiva alle debolezze, alle fragilità o alle miopie dello sguardo umano» (p. 55), mentre invece quello di fine millennio «non ci crede più. Sa che la tecnologia, lungi dal servire a riprodurre il vero, serve sempre più spesso a simulare il falso, e non si fida. Per lo meno: non crede più che il semplice gesto del guardare un’immagine significhi anche conoscere il mondo che in quell’immagine viene mostrato» (p. 56).

Canova invita a cogliere tale scarto nella distanza che separa i protagonisti di Blow-Up (1966) di Michelangelo Antonioni e I misteri del giardino di Compton House (The Draughtsman’s Contract, 1982) di Peter Greenaway, rispettivamente un fotografo ed un disegnatore di vedute dal vero.

I due registi, consapevoli dell’incolmabile distanza che separa l’immagine dal reale, nel mettere in scena situazioni tutto sommato simili – indizi di un delitto presenti nelle riproduzioni sfuggiti ai rispettivi autori – optano per protagonisti che si pongono di fronte al rapporto tra immagini e reale in maniera decisamente diversa. Se il personaggio-fotografo, fiducioso nella possibilità che l’immagine sveli il reale, scopre l’accaduto «osservando attentamente non la realtà ma la sua riproduzione fotografica» ricorrendo all’ingrandimento per svelare quanto l’occhio umano non può cogliere, palesa la coincidenza di visione e conoscenza, nella sua ossessione riproduttiva, il disegnatore non coglie ciò che riproduce, non lo capisce, non lo conosce. Visione e riproduzione non garantiscono conoscenza.

Il cinema di fine Novecento, come può suggerire il film di Greenaway, tende a palesare «la rottura fra visione e conoscenza come una dolorosa menomazione. E talora reagisce al trauma offendendo l’occhio, cioè accanendosi proprio contro l’organo che ritiene responsabile della perdita» (p. 58). Un cinema che dunque rinuncia a vedere, che, di fronte alla rottura del nesso fra visione e conoscenza, decide di non rapportarsi più al mondo attraverso lo sguardo. Un cinema che, consapevolmente, opta per la cecità.

Il film Occhi nelle tenebre (Blink, 1994) di Michael Apted racconta di una giovane violinista che ha perso la vista da bambina a causa di una violenta punizione inflittale dalla madre per il suo ostinarsi ad imitarla allo specchio. Un trapianto di cornea permette alla protagonista di riguadagnare parzialmente la vista ma la lascia incapace di capire se il suo sguardo sia “in diretta” o “in differita”; se ciò che intravede è quanto sta accadendo o se si tratta di un residuo visivo di un fatto accaduto nel passato. La cecità della violinista deriva dunque da

una colpa di tipo narcisistico-imitativo: non vede più perché, al contempo, si è illusa di poter essere come la madre e ha contemplato un po’ troppo se stessa davanti a uno specchio. Anche il cinema ha seguito un percorso analogo: si è illuso di saper imitare la realtà, di poterla riprodurre fino a confondervisi, e si è trastullato a lungo davanti alla propria immagine riflessa, guardandosi (pp. 61-62).

L’accecamento presente in numerosi film di fine millennio, secondo Canova, potrebbe essere letto come metafora di un’autopunizione per l’eccesso di fiducia concessa dal cinema all’illusione riproduttiva/sostitutiva del reale e per l’illusione di poter mettere in scena il suo essere linguaggio senza comprometterne il funzionamento. Un non voler vedere derivato dalla caduta dei sogni di onnipotenza dello sguardo che ha finito per ripiegare nella simulazione e nella virtualità abbandonando pretese ontologiche.

La metafora dell’accecamento coinvolge tanto il rapporto del cinema con il visibile, a favore dell’acustico e del tattile, quanto con il visivo, inceppando processi a cui era solito ricorrere come produttore di senso.

La dialettica tra visibile e non visibile è stata al centro della riflessione “moderna” sul cinema in autori come André Bazin, Noël Burch e Pascal Bonitzer per i quali «l’irrappresentabile o il non visibile si danno come tali solo a uno spettatore esterno (a un interpretante) che rifletta sui dati esperienziali del proprio percepire» (p. 67). Nel cinema di fine millennio, invece, è «lo stesso film a enunciare i propri limiti e a scandagliare i territori dell’irrappresentabile, confessando apertamente la propria incapacità di renderli visibili». Si tratta di un cinema «che tematizza la non visibilità. Che racconta di mondi che non sa visualizzare. O di tecnologie ipersofisticate che servono solo a visualizzare il mondo che noi già conosciamo (e che il cinema da sempre mette in scena)» (p. 68).

Il cinema che palesa la sua crisi, sostiene Canova, risulta decisamente più interessante di quello che la esorcizzava «inseguendo la produzione della “bella forma”»; è invece nell’infrazione di quest’ultima, nella sua lacerazione che, si dice convinto l’autore del saggio, il cinema sembra suggerire «qualcosa circa il proprio destino» (p. 68).

A partire da queste premesse, lo studioso affronta la messinscena della crisi del visibile nel cinema di fine Novecento proponendo tre livelli di riflessione: la rappresentazione del limite del filmabile attraverso il film Contact (1997) di Robert Zemeckis; la rappresentazione dello scarto rispetto al già filmato nel film Psycho (1999) di Gus Van Sant; la rappresentazione del limite del virtuale nel film Matrix (1999) di Lana e Lilly Wachowski.

Si viene così ad avere una nuova esperienza del sublime che non ha a che fare né con la grandiosità incommensurabile della natura, né con la sua straordinaria potenza, bensì, nei tre esempi, rispettivamente con la scoperta dell’incommensurabilità dell’Altro (sublime gnoseologico), dell’Identico (sublime intertestuale) e del Virtuale (sublime tecnologico).

«Contact (1997) è prima di tutto un film sull’altrove. Sul bisogno di altrove. Sulla necessità di portare lo sguardo oltre i confini del visibile e del filmabile per farlo approdare ad altri tempi e ad altri spazi» (p. 69). Allo stesso tempo, continua Canova, si tratta di «un film sull’impossibilità di tutto questo, sull’inadeguatezza della nostra strumentazione (tecnologica, ma anche emotiva, percettiva, epistemologica) al fine di rendere visibile (e, quindi, di trasformare in cinema) questa necessità» (p. 69). Dunque, Contact si presenta come un «film sul non-poter-andare-oltre delle immagini. Di queste immagini, quelle che finora hanno dato vita al cinema e ai film» (p. 70), tanto da proporsi come esempio di cinema sinestetico, soprattutto acustico.

«Ancora una volta: vedere non basta. Non è sufficiente per comprendere e capire; il tema della conoscenza mediante le apparenze, che impregna di sé tutta la storia del cinema e tutto l’immaginario dell’era del visibile, è anche il tema di Contact. Che entra direttamente nella crepa epistemologica apertasi fra visione e conoscenza, e ci lavora dentro» (p. 71). Non a caso la protagonista percepisce le cose con l’udito prima che con la vista.

Psycho di Gus Van Sant sembra amare talmente tanto il suo modello di partenza da produrne la morte.

C’è una strana coincidenza fra il gesto linguistico di Van Sant e il testo che egli rimette in scena. Psyco di Hitchcock narra di un figlio che uccide la madre, conserva il suo cadavere imbalsamato, assume le sue sembianze e prende il posto di lei. Il film di Van Sant fa la stessa cosa con la sua madre-matrice: la “uccide” e prova a prendere il suo posto. Ne conserva lo scheletro (lo storyboard), ne imita la voce (le musiche di Bernard Herrmann), ne mima le apparenze e le fattezze (i titoli di testa di Saul Bass), assume sul proprio corpo i segni di riconoscimento “materni” e fa di sé il simulacro della propria “genitrice” (pp. 76-77).

Un cinema che “imbalsama se stesso” come ultima possibile prerogativa dello sguardo: «di fronte alla perfezione inattingibile del già visto e del già mostrato, cerca di esprimere la propria “sublime” ammirazione con la produzione dell’identico e con l’esplicitazione del non-filmato, ma poi si rende conto che non è incrementando il visibile che può sperare di accrescere la tensione scopica dello spettatore e che, anzi, finisce per produrre proprio l’effetto contrario» (p. 77) .

Concentrandosi su Matrix, Canova sottolinea come spesso, guardando ad esso, si ha l’impressione di trovarsi di fronte a un videogioco sia visivamente che narrativamente, tanto da rendere inopportuno affrontarlo ricorrendo ai canoni del cinema.

In perfetta sintonia con lo scenario della postmodernità, l’immagine di Matrix non è mai né “bella” né “vera”, tutt’al più è intensa, elegante o eccitante. Troppo piena (di segni, di pallottole, di corpi), troppo vuota (di senso?). Allo spettatore non è chiesto di “interpretare” alcunché, ma di prendersi tutto il piacere che riesce a catturare transitando dentro un gigantesco luna-park emotivo che funziona, in ogni istante, come uno stimolatore dei sensi (p. 80).

Eppure, sottolinea Canova, «Matrix è ancora cinema» a partire dai numerosi riferimenti al cinema che contiene. Lo è a modo suo, ribaltando la classica pretesa del cinema di simularsi reale, qua l’artificiosità è dichiarata, palesata.

Ma proprio qui sta il punto: per denunciare l’avvenuto dominio della simulazione, Matrix non può che essere a sua volta totalmente artificiale. Cioè finto, truccato, simulativo. E in ciò – in questa contraddizione, in questa doppiezza – sta al contempo la sua grandezza e la sua condanna. Assieme all’impressione che qui si sfiori davvero l’unica forma di sublime consentita al cinema di fronte alla visione della potenza e dell’inattingibilità delle tecnologie virtuali. Perché anche Matrix è, a suo modo, un film sulla crisi del visibile e sul tramonto dello sguardo. “Nessuno di noi può spiegare Matrix con le parole, bisogna vederla con i propri occhi” dice Morpheus a Neo. Appunto: che le parole fossero impotenti lo si sapeva già da tempo, ma il film delle sorelle Wachowski ci dice che anche lo sguardo non lo è da meno (pp. 81-82).

Dunque, il volume passa ad analizzare alcune crisi che si palesano in questo cinema di fine millennio: quella del diegetico, dell’iconico e delle forme filmiche.

A proposito della prima, lo studioso analizza in dettaglio Pulp Fiction (1994) di Quentin Tarantino, nella cui struttura diegetica si intrecciano/alternano elementi di narrazione forte, debole e persino antinarrativa, tanto da rendere «indecidibile e indecifrabile il modello diegetico a cui effettivamente si ispira» (p. 85). La metanarratività su cui è costruito il film «si dà come forma ibrida, cioè come luogo di fuoriuscita dal canone e come punto di crisi delle forme narrative precedenti» (p. 89).

Per quanto riguarda la crisi dell’iconico, lo studioso si sofferma su Face/Off – Due facce di un assassino (Face/Off, 1997) di John Woo, segnalando come i personaggi secondari, accontentandosi di osservare superficialmente la “maschera” dei due protagonisti, si limitino a credere a quello che vedono finendo per non vedere: «il modo di “guardare” e di operare identificazioni scopiche da parte dei personaggi di Face/Off rivela l’inadeguatezza di quei codici di riconoscimento iconico a cui essi stessi conferiscono la massima fiducia. Meglio: è lo sguardo di John Woo su di essi che rivela a noi spettatori la loro incapacità (o impossibilità) di riconoscere con gli occhi» (pp. 93-94).

Infine, per quanto concerne la crisi delle forme filmiche, Canova portata esempi riguardanti la soggettiva, la dissolvenza incrociata, il flashback ed il piano sequenza.

Nel primo caso lo studioso individua in Strange Days (1995) di Kathryn Bigelow «il punto di crisi e di messa in discussione più radicale dello statuto della soggettiva» (p. 102) del cinema dei decenni terminali del secolo. Il film sembra suggerire che ad eccitare «l’umanità di fine millennio – secondo l’eterotopia scopica di Kathryn Bigelow – non è lo sguardo, ma la cosa vista. È la possibilità di vedere con l’occhio del protagonista il coito e la morte: […] ciò di cui i personaggi di Strange Days sembrano aver bisogno (e nostalgia) è l’ovvia banalità del nostro sguardo originario. Di ciò che esso era (e poteva) già prima dell’invenzione dei fratelli Lumière» (pp. 103-104). Insomma, film come questo si/ci interrogano a proposito del «rapporto fra lo sguardo e il suo oggetto [della] relazione fra visione, emozione e conoscenza» (p. 106).

Per quanto riguarda l’uso “anomalo”, rispetto alla tradizione, della dissolvenza incrociata, Canova si concentra su Blackout (The Blackout, 1997) di Abel Ferrara, film che, nel suo insistito e reiterato utilizzo la annulla come figura di significazione. Blackout sembra suggerire che

in un universo scopico in cui la realtà non solo è registrabile e falsificabile, ma è quasi annullata dalla bramosia di sostituirla con i simulacri mentali e visuali ininterrottamente prodotti dai personaggi […], il rischio è che a un certo punto – come sperimenta in prima persona il protagonista del film – le immagini comincino a generarsi da sole, a prescindere dalla nostra volontà e intenzionalità, e si riproducano spontaneamente in modo impazzito, quasi in una sorta di metastasi scopica (p. 110).

Ecco allora il sopraggiungere del “blackout”, inteso come perdita del controllo sulla riproduzione tecnica del visibile, crollo definitivo dell’illusione riproduttiva dell’immagine, ma anche possibile ultima via di fuga percorribile. «È il battito di ciglia, la palpebra che si abbassa. È, ancora una volta, il rifiuto di vedere così; lo stacco nero, la nuotata verso il nulla su cui Ferrara chiude il suo film» (p. 111). La dissolvenza incrociata, anziché esibire l’avanzamento testuale del film, si propone dunque come una figura di paralisi.

Circa il flashback, trasformatasi nel corso del tempo da articolazione del racconto a nucleo tematico della storia, nel cinema che palesa le sue crisi finisce per perdere la sua funzione chiarificatrice

per configurarsi piuttosto come elemento di “oscuramento” e di complicazione. Più che un’opportunità, diventa spesso una condanna: segnala l’impossibilità di liberarsi dalle immagini del passato, che premono sul presente diegetico come una massa di ricordi mnemonico-visuali di cui i personaggi farebbero volentieri a meno. Da elemento di illuminazione diegetica, il flashback tende a diventare insomma un elemento di confusione; da figura di produzione del senso (o di messa in scena della sua pluralità e ambiguità: Welles e Kurosawa) si fa sempre più figura dell’implosione (o del collasso) di ogni senso possibile (p. 113).

Uno dei registi ad essersi spinto maggiormente in tale direzione è Abel Ferrara che infatti

fa del flashback la figura-chiave della memoria: individuale e filmica, ma anche storica, sociale e collettiva. Si veda, ad esempio, la trilogia formata da The Addiction (1995), da Fratelli (The Funeral, 1996) e dal già citato Blackout» (p. 113). Attaccare il flashback per Ferrara significa distrugge l’illusione, renderla impraticabile, obbligandoci «ad assumere il nostro atto di visione come unico oggetto ancora possibile per il nostro inappagabile desiderio di guardare (p. 116).

Per quanto concerne il piano sequenza, questo è storicamente passato dal presentarsi come forma filmica per eccellenza del realismo cinematografico a manifestarsi come manieristico segno linguistico autoriale di messa in scena e, ancora, nel cinema di fine millennio, «come artificio linguistico che sperimenta sul (e nel) suo stesso parossismo la difficoltà – se non addirittura l’incapacità – di vedere» (p. 118).

In questo caso l’esempio su cui si sofferma il volume è quello del celebre incipit di Omicidio in diretta (Snake Eyes, 1998) di Brian De Palma in cui

il piano sequenza non mostra né il fulcro diegetico della realtà, né il lavoro del linguaggio che dia un senso al racconto. Mostra, piuttosto, l’inattingibilità del primo e la sterile impotenza del secondo. Come se De Palma volesse tendere fino al limite estremo – fino al punto di rottura – le potenzialità tecniche del mezzo per dimostrare tanto il suo non saper vedere quanto, forse, anche il suo non aver più idea di cosa guardare. O lo scarto fra ciò che si è scelto di vedere (di far vedere) e ciò che sarebbe stato giusto guardare (p. 119).

Snake Eyes, dunque. Occhi di serpente. Sguardo tentatore e al tempo stesso tentato, come quello «della “macchina” che desiderò il mondo agli albori del cinema, e che oggi si ritrova drammaticamente senza mondo, legato alle figure sfigurate di quel che è stata la visione filmica da un rapporto di struggente ma disincantata nostalgia» (p. 121).

 


Il reale delle/nelle immagini – Serie completa

 


  1. Cfr. Andrea Rabbito, L’onda mediale. Le nuove immagini nell’epoca della società visuale, Mimesis, Milano-Udine, 2015. Sul volume di vedano: Gioacchino Toni, Il reale delle/nelle immagini. L’onda mediale, “Carmilla”, 15 marzo 2016; Gioacchino Toni, Il reale delle/nelle immagini. Forme di resistenza all’onda mediale, in “Carmilla”, 22 marzo 2016. 

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Una nuova elettricità https://www.carmillaonline.com/2021/04/28/una-nuova-elettricita/ Wed, 28 Apr 2021 21:00:47 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=65907 Francesco D’Abbraccio, Andrea Facchetti (a cura di), AI & Conflicts Volume 1, Krisis Publishing, Brescia 2021, pp. 224, 20 euro

Ancora una volta la piccola, ma sempre interessante, Krisis Publishing di Brescia coglie nel segno con un testo sugli sviluppi attuali dell’utilizzo dell’Intelligenza Artificiale (AI) nei settori della comunicazione, dell’economia, della conoscenza e dell’arte. Lo fa non accontentandosi però dei soliti luoghi comuni a favore o contro lo sviluppo dei sistemi relazionali o di controllo resi possibili dalla stessa, ma sottolineando in maniera particolare il conflitto o i conflitti che derivano dal [...]]]> Francesco D’Abbraccio, Andrea Facchetti (a cura di), AI & Conflicts Volume 1, Krisis Publishing, Brescia 2021, pp. 224, 20 euro

Ancora una volta la piccola, ma sempre interessante, Krisis Publishing di Brescia coglie nel segno con un testo sugli sviluppi attuali dell’utilizzo dell’Intelligenza Artificiale (AI) nei settori della comunicazione, dell’economia, della conoscenza e dell’arte. Lo fa non accontentandosi però dei soliti luoghi comuni a favore o contro lo sviluppo dei sistemi relazionali o di controllo resi possibili dalla stessa, ma sottolineando in maniera particolare il conflitto o i conflitti che derivano dal suo uso.

Scrivono i due curatori nell’introduzione:

L’intelligenza artificiale (AI) occupa una posizione chiave nell’ecosistema culturale contemporaneo. È una risorsa fondamentale per interpretare il mondo e per interagire con le grandi architetture di dati che lo popolano.
Nel 2016, un’era geologica fa in questo ambito, Andrew NG, professore a Stanford ed ex direttore di Google Brain, ne celebrava l’imminente avvento: “Come l’elettricità ha trasformato quasi tutto cento anni fa, fatico ad immaginare un settore che non verrà trasformato dall’AI nei prossimi anni”. Ebbene, il cambio di paradigma previsto da NG sembra oggi essere già in atto. L’AI non riguarda più il nostro futuro, ed è impiegata negli ambiti più disparati dell’attività umana, dalla medicina all’industria, dalla finanza alla domotica, dal marketing alla guerra. Non solo: essa modella il modo in cui sperimentiamo il mondo. Reti neurali e algoritmi “intelligenti” sono ampiamente utilizzati per rilevare, classificare e mappare il nostro comportamento, riconoscere le nostre emozioni, e influenzare le nostre scelte. Lavorano come “curatori invisibili” 1, prescrivendo ciò che dovremmo vedere, ascoltare, leggere e comprare. Ci sorvegliano, plasmano la nostra comprensione della realtà sociale e politica, e contribuiscono in definitiva a costruire il nostro quadro cognitivo. Essi intervengono inoltre nella creazione, nella manipolazione e nella disseminazione dei media e dei dispositivi di interazione sociale.
Un simile cambiamento non è certo passato inosservato alle attenzioni della critica. Negli ultimi anni, un’intera generazione di artisti, ricercatori e professionisti ha indagato la natura dei sistemi AI e delle loro relazioni con i contesti in cui opera2.

Proprio per questo motivo, in questo primo volume, i due curatori si sono avvalsi dei testi prodotti da FINN BRUNTON che insegna Media, Culture and Communication alla NYU Steinhardt dove si occupa di storia e teoria dei media digitali; KATE CRAWFORD, ricercatrice presso il Microsoft Research Lab e co-fondatrice dell’AI Now Institute della New York University, il primo istituto universi­tario dedicato alla ricerca sulle implicazioni sociali dell’intelligenza artificiale; SOFIA CRESPO, un’importante artista nel campo dell’arte AI; VLADAN JOLER insegnante presso il dipartimento di New Media (Università di Novi Sad), è a capo di SHARE Lab, un laboratorio di ricerca che esplora gli aspetti tecnici e sociali dello sfruttamento del lavoro digitale, delle infrastrutture invisibili e delle black box; LEV MANOVICH, uno dei più importanti teorici dei media studies; FEILEACAN MCCORMICK, un artista e ricercatore norvegese; HELEN NISSENBAUM, insegnante presso il Dipartimento di Scienze dell’Informazione della Cornell University; TREVOR PAGLEN, artista e ricercatore statunitense il cui lavoro si muove tra i confini di scienza, arte, giornalismo e tecnologia; MATTEO PASQUINELLI docente di Filosofia dei media all’Università di Arte e Design di Karlsruhe; SALVATORE IACONESI e ORIANA PERSICO che sono autori di diverse performance, pubblicazioni e opere esposte in tutto il mondo e lavorano insieme dal 2006; EYAL WEIZMAN che insegna Spatial and Visual Cultures presso la Goldsmiths University of London.

Come suggerisce il titolo, è il conflitto a dominare il discorso, nelle varie forme che è destinato ad assumere con l’applicazione dell’AI nel contesto di un capitalismo globalizzato che, più che tardo come qualcuno si ostina a chiamarlo oppure neo-liberale, si rivela semplicemente ancora una volta capace di trasformare, sempre più in profondità, le relazioni tra individuo e società, società e ambiente, conoscenza e controllo sociale, in funzione di un’accumulazione che sembra non potersi mai fermare. Una ricerca esasperata di nuove forme di estrazione di plusvalore e plusvalenze che stravolge tutti gli assetti economico-sociali e cognitivi, dal rapporto sempre più distruttivo con l’ambiente alle forme di conoscenza che ne derivano.

L’immagine dell’AI come un’ingombrante scatola nera che si inserisce nel tessuto ambientale e sociale globale introduce il terzo termine che dà titolo a questo volume. All’interno dei dispositivi e delle infrastrutture AI si nascondono infatti innumerevoli conflitti che, come abbiamo detto, investono l’intero ecosistema contemporaneo. La dimensione politica dell’AI va intesa come un campo di forze attraversato da vettori umani e non umani che, spesso in contrasto tra loro, generano frizioni, tensioni e conflitti: “l’intera
Realtà (proprio come la Storia) è un campo di battaglia, in cui miriadi di agency sono perennemente in lotta per affermare nuovi sistemi di interdipendenza”.
[…] Il primo conflitto ad emergere dal tentativo sopra descritto riguarda le condizioni, materiali e non, che abilitano l’ecosistema dell’AI. La comunità scientifica ha ricondotto l’emergere prepotente dell’intelligenza artificiale negli ultimi 20 anni ad almeno due recenti eventi significativi: l’aumento esponenziale della capacità di calcolo, grazie soprattutto allo sviluppo di schede video di nuova generazione, e l’enorme disponibilità di informazioni verso cui la computazione viene rivolta. Entrambi questi accadimenti affondano le proprie radici nello sviluppo industriale del XIX secolo e si sono consolidati nel corso del XX in due forme diverse, ma affini, di estrattivismo.
L’industria dell’hardware, necessaria ad alimentare i processi di apprendimento, è il prodotto dell’estrattivismo materiale, analizzato soprattutto nel saggio di Crawford e Joler. Come dimostra il caso del palaquium gutta riportato nel loro Anatomia di un sistema AI, lo sfruttamento delle risorse materiali — con conseguente distruzione di interi ecosistemi e interruzione di processi geologici millenari — non è solo un prodotto dell’infrastruttura AI: è condizione imprescindibile per la sua stessa esistenza. Visualizzare l’anatomia di un assistente vocale domestico e le storie di sfruttamento che vi si annidano diventa dunque un atto insieme linguistico e politico, che coinvolge cioè la sua narrazione e la nostra possibilità di comprenderlo e metterlo in discussione. È un gesto, questo, che si pone in aperta opposizione con “la metafora eterea del ‘cloud’” e che cerca invece di far emergere “la realtà fisica delle estrazioni minerarie e dell’espropriazione di intere popolazioni che la rendono possibile” (p.61).
L’industria che gravita intorno alla produzione, alla raccolta e alla distribuzione dei dati si rifà invece ad un altra forma di estrattivismo. Un estrattivismo cognitivo si sovrappone a quello materiale. Anche se il primo data center venne costruito nel 1965, è con la nascita e l’esplosione di massa del World Wide Web che vengono creati i presupposti per la società dei big data. Da allora, in pochi decenni la produzione di dati è diventata un’attività parassita, che si annida in qualsiasi ambito dell’agire umano: dalla tessera fedeltà del supermercato all’abbonamento alla metropolitana, dall’account su un social network al navigatore GPS. Ciascuna di queste attività genera dei dati che “possono essere impacchettati, venduti, raccolti, organizzati e acquisiti in molti modi, e infine riutilizzati per ragioni di cui noi, i sorvegliati, non siamo a conoscenza e a cui non abbiamo dato approvazione” (p.117). Nel loro saggio, Brunton e Nissenbaum ci mettono in guardia di fronte alle condizioni di profondo disequilibrio che sempre accompagnano questo tipo di attività: una asimmetria sia epistemica (“non sappiamo cosa ne sarà delle informazioni prodotte attraverso questo processo, né dove andranno o quale sarà il loro utilizzo”) che di potere (“raramente possiamo decidere se essere monitorati o no, cosa succede alle informazioni che ci riguardano e cosa accade a causa di queste informazioni”, p.118).
Appare dunque chiaro come l’emergere delle tecnologie AI sia già inscritto all’interno di un campo di forze che si articola secondo il modello dell’estrattivismo. Secondo Sandro Mezzadra e Brett Nielson3 esso costituisce il paradigma dello sviluppo capitalista e neoliberista del XXI secolo, e ci costringe a estendere il concetto stesso di estrazione per considerare “non solo l’appropriazione delle risorse naturali, ma anche, e per certi versi soprattutto, i processi che sfruttano la cooperazione umana e l’attività sociale”4.


  1. “The invisible curation of content. Facebook’s news feed and our information diets”, World Wide Web Foundation (aprile 2018), https:// webfoundation.org/research/ the-invisible-curation-of-con­tent-facebooks-news-fe­ed-and-our-information-diets/  

  2. Francesco D’Abbraccio, Andrea Facchetti, Una nuova elettricità, introduzione a F. D’Abbraccio, A. Facchetti (a cura di), AI & Conflicts Volume 1, Krisis Publishing, Brescia 2021, p. 13  

  3. Sandro Mezzadra e Brett Nielson, On the multiple frontiers of extraction: excavating contemporary capitalism, Cultural Studies 31 (2017), pp.185-204  

  4. F. D’Abbraccio, A. Facchetti, op. cit., pp. 20-23  

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Amadeo Bordiga e la passione del comunismo https://www.carmillaonline.com/2021/04/07/amadeo-bordiga-e-la-passione-del-comunismo/ Wed, 07 Apr 2021 21:00:10 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=65638 di Sandro Moiso

Pietro Basso, Amadeo Bordiga, una presentazione, Edizioni Punto Rosso, Milano 2021, pp. 158, 18 euro

Al contrario di quanto buona parte della cosiddetta Sinistra Comunista ha sperato per molto tempo, la catastrofe del socialismo reale e il declino e successiva scomparsa, inevitabili poiché collegati alla prima, dei partiti ex-stalinizzati del ‘900 non ha affatto contribuito a sollevare il velo di menzogne e distorsioni storico-politiche che ha ricoperto l’esperienza comunista, nei decenni intercorsi tra il 1926 e il 1989, grazie alla narrazione dei partiti e delle istituzioni che pensavano di essersi liberati di ogni serio avversario a “sinistra”.

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di Sandro Moiso

Pietro Basso, Amadeo Bordiga, una presentazione, Edizioni Punto Rosso, Milano 2021, pp. 158, 18 euro

Al contrario di quanto buona parte della cosiddetta Sinistra Comunista ha sperato per molto tempo, la catastrofe del socialismo reale e il declino e successiva scomparsa, inevitabili poiché collegati alla prima, dei partiti ex-stalinizzati del ‘900 non ha affatto contribuito a sollevare il velo di menzogne e distorsioni storico-politiche che ha ricoperto l’esperienza comunista, nei decenni intercorsi tra il 1926 e il 1989, grazie alla narrazione dei partiti e delle istituzioni che pensavano di essersi liberati di ogni serio avversario a “sinistra”.

Per questo motivo la figura di Amadeo Bordiga ha pagato due volte la sua irriducibile opposizione sia al capitalismo trionfante successivo alla seconda guerra imperialista e mondiale che al “marxismo” deviato e corrotto, spacciato come teoria della classe operaia, prodotto dagli stalinisti e dai loro successivi epigoni. Una figura, quella del primo segretario del Partito Comunista d’Italia fondato a Livorno nel 1921, rimossa per lunghi anni dalla storia dello stesso partito e mal riproposta, allo stesso tempo, dai suoi seguaci della seconda metà del ‘900 che alternativamente si sono dedicati alla riproposizione acritica, se non mitica, delle sue scelte e idee politiche oppure, in tempi più recenti, ad un autentico tiro al piccione nei suoi confronti, in una sorta di rivolta contro un padre con cui, troppo spesso, non si son fatti davvero i conti storicizzandone ruolo e personalità.

Motivo per cui giunge gradita, per chiunque non voglia vivere soltanto di miti e foscoliane illusioni oppure di menzogne, la presentazione di Bordiga proposta da Pietro Basso per le Edizioni Punto Rosso. Certo le 150 pagine e i dieci succinti capitoli in cui l’autore riassume gli aspetti principali dell’azione e della riflessione politica del comunista italiano costituiscono uno spazio ristretto per racchiudere un’esperienza che ha spaziato dal Partito Socialista, incrostato di opportunismo e massoneria, della Seconda Internazionale, alla Rivoluzione russa e alla nascita della Terza Internazionale e dei partiti comunisti, fino alla degenerazione staliniana di tutto ciò e alla necessità di riflettere su un modo diverso di intendere l’organizzazione e la teoria comunista, ma si può comunque dire che è un buon inizio.

Basta infatti dare una rapida scorsa alle pagine dedicate alla bibliografia su Amadeo Bordiga, poste alla fine del volume, per comprendere quanto siano state poche le opere a lui dedicate, soprattutto se si pensa al gran numero di quelle dedicate a Gramsci o, ancor peggio, a Togliatti e ai dirigenti del partito stalinizzato. Ma si sa, la pubblicità è l’anima del commercio e anche la corporazione degli storici, a parte alcune rarissime occasioni, si è adeguata, sia per intrinseca convinzione ideologica che per opportunistica necessità di vendita del proprio prodotto, favorendo una leggenda gramsciana che è servita, in realtà, troppo spesso a giustificare la storia di un partito che, dopo aver espulso a sua insaputa Bordiga nel 1929, ha congelato la memoria del comunista sardo relegandola ad un’esperienza carceraria sulla quale, in realtà, ci sarebbe ancora molto da dire e scrivere1.

Pietro Basso ha pubblicato saggi e libri sul tempo di lavoro, la disoccupazione, le migrazioni internazionali, il razzismo dottrinale e di stato, l’islamofobia, le lotte del proletariato, tradotti in molte lingue. Nel 2020 ha curato per l’editore Brill la prima antologia di scritti di Bordiga in lingua inglese, The Science and Passion of Communism. Selected Writings of Amadeo Bordiga (1912-1965), e scritto la voce Bordiga nel Routledge Handbook of Marxism and Post-marxism (2021). Collabora inoltre alla rivista «Il cuneo rosso» e al blog «Il pungolo rosso».

Proprio dall’introduzione al testo contenente la traduzione in inglese degli scritti del comunista napoletano è tratto il testo appena pubblicato in Italia, che si caratterizza per l’obiettività con cui è presentata l’opera (teorico-politica) dello stesso.
Come afferma lo stesso Basso nell’introduzione:

Questo scritto è una presentazione molto sintetica di Amadeo Bordiga. Del militante, organizzatore e propagandista politico di primissimo rango, quale fu nella prima fase della sua battaglia comunista (1912-1926); e del “restauratore” di alcuni aspetti della teoria marxista in contrapposizione al capitalismo e allo stalinismo trionfanti, quale fu in una seconda fase del suo impegno (1945-1966). Si tratta di due periodi storici pressoché agli antipodi. In quanto il primo vide esplodere, per entro la “grande guerra”, il più ardito assalto al cielo mai compiuto dal proletariato, mentre il secondo ha celebrato il pieno rilancio del capitalismo, dopo un trentennio di catastrofi, attraverso l’inaudita espansione mondiale dei rapporti sociali mercantili e monetari e dei connaturati valori culturali.
[…] Come si vedrà questa non è un’apologia bordighista di Bordiga. Perché il bilancio di questa grande esperienza è, necessariamente, in chiaroscuro2.

Il tentativo di Basso è quello di sottolineare come Bordiga abbia sempre operato in quanto militante più che come intellettuale, stravolgendo già in questo modo quella concezione tipicamente borghese dell’”intellettuale impegnato” oppure quella gramsciana dell’intellettuale “organico”.
Circolo Carlo Marx di Napoli, Federazione giovanile socialista, frazione intransigente rivoluzionaria, frazione comunista astensionista, Pcd’I-sezione italiana della Terza Internazionale, Partito comunista internazionalista e, infine, Partito comunista internazionale-Programma Comunista, sono stati i momenti che hanno segnato il suo percorso politico, organizzativo e teorico.

Bordiga, militante delle rivoluzioni a venire verrebbe da dire, non ha mai rinunciato all’integrità politica in nome del successo o dell’affermazione personale, anche se questo ha portato con sé due aspetti antitetici di cui Basso sa tenere conto.
L’ostinata difesa della radicalità della Rivoluzione e dell’azione e della teoria che devono per forza di cose accompagnarla gli ha permesso, anche nei periodi di quasi totale isolamento, di rinnovare, ancor più che restaurare soltanto come vorrebbero gli epigoni, il pensiero del movimento di classe rivoluzionario, trasmettendo ai posteri alcuni insegnamenti che nel ritorno della Grande Crisi, economica e pandemica e certamente portatrice di enormi disastri e guerre, odierna potrebbero rivelarsi estremamente utili se non addirittura dirimenti per i movimenti attuali di contestazione e negazione dell’ordinamento socio-politico attuale.
Cosa che ha fatto sì che la sua damnatio memoriae non cessasse mai di operare.

Per i narratori di stato il dato storico effettivo è irrilevante […] la sola aspirazione razionale che può nutrire la classe lavoratrice è quella di moderare un po’ gli effetti più estremi del meccanismo capitalistico. Altro non può. E se osa andare oltre? […] il contraccolpo sarà durissimo. Non solo per gli audaci. Lo sarà per tutti i proletari e perfino per l’intera società. Perché – parla Mauro3 per i suoi simili – «la fascinazione febbrile di un pensiero continuamente teso a ricostruire il mondo» non può che metter capo a «modellistica politica» tanto grandiosa quanto «ingenua, che proietterà nel futuro la tentazione tragica della comunità perfetta». Niente fascinazioni. Niente pensieri grandiosi. Niente modelli utopistici. Niente sogni di comunità perfette – salvo quelli da incubo, dell’industria 4.0 e del transumanesimo robotico […] Al lavoro, disciplinati! E vi passeranno i grilli per la testa. « La sinistra, o è riformista o perde». Solo questo è possibile4.

Ma le questioni poste da Bordiga non sono di dettaglio e non si possono facilmente rimuovere così come alcuni avrebbero voluto: «la sua battaglia contro le illusioni seminate dal riformismo, il suo anti-militarismo rigorosamente disfattista verso la “patria” borghese, la sua denuncia del cretinismo parlamentare» insieme alla sua capacità di «estrarre e mettere in luce la dimensione anti-produttivistica ed ecologica del marxismo […] che ne esalta l’antagonismo col capitalismo stramaturo che, nella sua folle ricerca di nuove fonti di produzione del plusvalore, si caratterizza più che mai per una feroce fame di catastrofe e di rovina»5.

Certo, a fronte di questa riscoperta del radicalismo ed attualità della proposta bordighiana rimangono le ombre. Ombre legate ad una concezione tattica semplificata fino all’osso e ad una concezione organizzativa di tipo partitico che spesso, e soprattutto nell’interpretazione ed applicazione di troppi epigoni, porta a rigide derive settaristiche. Costringendo il discorso in un alveo talvolta ermetico ed autoreferenziale (soprattutto nelle infinite polemiche e diatribe che hanno caratterizzato le separazioni, divisioni e scontri tra le differenti correnti “bordighiste”, già ben prima della sua morte avvenuta nel 1970).

Uomo d’altri tempi, per formazione, cultura ed esperienza Bordiga non comprese assolutamente la novità costituita dai movimenti del ’68, cui dedicò l’ultimo suo scritto pubblicato in vita sul «Programma Comunista». D’altra parte non avendo compreso la grande trasformazione sociale avvenuta con l’avvento della riforma della scuola media unica, Bordiga poteva rammentare soltanto le mobilitazioni a favore del primo conflitto mondiale portato avanti, all’epoca, da uno studentame che costituiva una sorta di jeunesse dorée borghese, mentre i figli dei proletari dovevano accontentarsi di seguire le orme dei padri (e delle madri) in fabbrica.

Certe estremizzazioni poi del suo pensiero, dopo il secondo conflitto mondiale, furono anche il prodotto di due altri fattori. In primo luogo una salutare reazione all’impostazione marxista-leninista che da lì a poco si sarebbe trasferita anche in tanti gruppi della cosiddetta “nuova sinistra”. E che si sarebbe trasferito ben presto (probabilmente con Bordiga ancora vivente) anche nella Sinistra Comunista sotto forma di culto del capo. Un culto della personalità cui il vecchio e irriducibile comunista si era da sempre opposto, fin dalla morte di Lenin e dall’avvento dello stalinismo, e che avrebbe osteggiato in ogni modo fino a quella rivendicazione di un totale anonimato autoriale, che invece avrebbe permesso, in seguito, ai vari manipoli di seguaci di fregiarsi degli stessi meriti, spesso senza avere davvero fatte proprie le sue posizioni.

L’altro fattore è da attribuire alla solitudine in cui Bordiga operò per lunghi periodi della sua vita e anche alla sfiducia che lo stesso nutrì nella formazione di uno strumento “partito” di cui non vedeva ancora le necessarie condizioni di sviluppo. Trascinatovi quasi per i capelli, finì col definire rigide norme destinate ad una sorta di “autodifesa” da quella sovracrescita di militanti poco preparati e dalle poche e confuse idee che aveva finito col caratterizzare i “partiti di massa” di origine stalinista, fascista o democratica.

Era ben chiaro a cavallo tra gli anni ’50 e ’60 nella testa del nostro (e un po’ tutta la sua opera di quegli anni lo dimostra) il disastro storico, politico, ideologico ed umano rappresentato dallo stalinismo come vero distruttore del movimento di classe internazionale. Oggi affermare ciò può essere scontato, ma credo che fosse cosa ben diversa vivere sulla propria pelle, in diretta per così dire, e nella propria testa il fallimento rappresentato dallo stalinismo per il movimento di classe e per gli uomini che avevano legato il proprio destino a quello della rivoluzione bolscevica e ai suoi strascichi nei primi trent’anni del secolo. Sicuramente, al confronto, fascismo e nazismo avevano costituito un problema minore, una conseguenza di quel fallimento, non certo una causa.

Per tutti questi motivi Bordiga, con il suo modo di pensare, operare e interpretare il marxismo, proprio come suggerisce Pietro Basso, va inquadrato sul piano storico e, quindi, anche umano ovvero soggettivo. Bordiga uomo storico intanto e non vate, gigante, maestro di misteri o condottiero rivoluzionario. E’ accademico ricordare tutto ciò ? No, soprattutto se questo ci può aiutare a capire alcuni “svarioni” ed alcune salutari anticipazioni egualmente espresse dal suo pensiero.

A settanta e più anni, nelle riunioni sulla conoscenza e la filosofia6, riprese la polemica anti-culturalista che lo aveva già caratterizzato in gioventù e lo fece con foga e passione, perché sapeva bene che proprio i deliri della “cultura proletaria” erano stati una delle armi retoriche dello stalinismo in patria e fuori.
Così pure la freddezza della ragione così vicina al calcolo politico (padre di ogni opportunismo) e l’esaltazione positivistica e trionfalistica della scienza (madre di ogni tradimento della teoria rivoluzionaria) lo spinsero ad allontanarsi da due capisaldi del pensiero borghese otto e novecentesco che si erano inseriti come un tarlo nella teoria comunista fino a stravolgerla, in nome, appunto, di nuove fasulle conquiste (la polemica sulla corsa allo spazio era prima di tutto, ancora una volta, una polemica antistalinista) sia nel campo della conoscenza e del rapporto uomo-natura che in quello dei rapporti di classe.

Bordiga restituiva l’intuizione, la religione e l’arte alle categorie della conoscenza; recuperando così anche la possessione7 ovvero la manifestazione negli uomini, sia presi individualmente che collettivamente, di forze e potenze che li trascinano, li dominano e li soggiogano ancor prima che essi possano pienamente comprenderle.

Ad esempio il comunismo, che a sua volta è figlio di necessità storiche, di potenze materiali che agiscono sulla società e sui singoli provocando di volta in volta una metamorfosi del sociale e delle forme della conoscenza (oltre che delle forme di lotta e di organizzazione). Solo dopo un impatto violento sugli uomini e sulle classi queste forze possono essere “formalizzate”, ridotte a teoria. Motivo per cui anche in Marx si parla del demone del comunismo ed è interessante constatare come per gli antichi greci (ovvero prima dell’età classica e della sistemazione dei canoni), in Omero per esempio, la parola daímones servisse indifferentemente a parlare degli dei come dei demoni.

L’intuizione, così vicina all’istinto, deve spesso guidare il rivoluzionario anticipandone le sistemazioni teoriche che seguiranno: l’esempio degli scritti giovanili di Marx (di cui non a caso Bordiga si stava occupando al tempo delle riunioni in questione) che anticipano gli scritti della maturità potrebbero costituire un esempio di ciò. Ma anche la spontanea sollevazione o ribellione delle classi formate o in formazione (ancora non a caso vengono recuperati i luddisti nel corso delle stesse riunioni) anticipa la teoria e le teorie che spiegano e accompagnano la lotta di classe.

L’arte segue un po’ lo stesso percorso poiché l’artista esprime più di quello che lui stesso vorrebbe, sia perché il suo prodotto non è mai individuale e soggettivo, sia perché spesso tende ad anticipare ciò che già è nell’aria (in questo caso anticipare sta anche per annunciare e si può annunciare solo ciò che già è deciso ovvero che già esiste anche se la moltitudine sembra ancora non esserne a conoscenza). D’altra parte il termine avanguardia, tra ‘800 e ‘900 non si è prestato forse all’uso sia politico che artistico? Nell’accezione bordighiana dell’arte (colta sempre nel momento in cui accompagna le grandi trasformazioni della società) quest’ultima non è forse sempre precorritrice di ciò che sta per avvenire?

Infine la religione: prima forma di conoscenza “teorica” del mondo e al contempo anticipatrice delle leggi destinate a governare le prime società di classe. Manifestazione dell’umano che si dà un proprio divenire, collegandolo a cicli più grandi della stessa forma sociale che l’ha prodotta. Manifestazione essa stessa di quelle potenze, di quelle forze che l’uomo subisce e allo stesso tempo cerca di spiegare e dominare. Perché insistere, come fa Bordiga, su questo aspetto della conoscenza umana, se non per rivoltarla contro gli stessi “atei” borghesi che hanno fatto del capitale, dello sviluppo e del progresso tecnico la propria nuova e disumana religione?

La domande da porsi quindi riguardano non tanto dove, quando, come e perché comincia la deriva bordighista, ma piuttosto, come il provocatorio e nuovo discorso bordighiano abbia fallito nell’incontrare quei movimenti che da lì a pochi anni, Bordiga ancora vivente, avrebbero cominciato a porsi problemi analoghi e come, allo stesso tempo, quelle affermazioni si siano trasformate nella caricatura di sé stesse nella spesso inconcludente e settaria pratica bordighista.

Ma, come al solito nel testo bordighiano, ci sono “intuizioni” che travalicano la miseria del momento (riunioni in cui bisognava chiedere insistentemente ai compagni presenti di non allontanarsi in massa e ridurre i macigni in salsicce) e degli epigoni.
Intanto la modestia dell’uomo: ne sono prova non solo gli scherzosi richiami ai disattenti, ma, soprattutto, il diniego di fronte a quei lavori “futuri” che si ritenevano importantissimi (sulla scienza e la conoscenza, sulla società futura, etc.), ma che allo stesso tempo si ritenevano al di sopra delle proprie forze intellettuali sia individuali che collettive. Per Bordiga nulla poteva esser dato per scontato a livello di conoscenza: tutto era, almeno fino all’affermarsi di una società comunista, in divenire. E spesso non vi erano nemmeno giganti sulle cui spalle poter salire. Tutto rimaneva nella dimensione degli uomini, per grandi che questi potessero essere, poiché gli “dei” si manifestano soltanto come forze dominanti e gli eroi esistono per quanto durano i cicli rivoluzionari. La polemica sul battilocchi ne è l’esempio più concreto e saldo.

Nel vecchio Bordiga, comunque, trionfava sempre la preoccupazione anti-staliniana e così sarebbe stato destinato a fermarsi sull’orlo di una nuova fase della lotta di classe, incapace di mettere pienamente a fuoco quegli elementi di novità compresi nel ruolo dei popoli non occidentali nella ripresa della stessa e allo stesso tempo quelli non “operaistici” già presenti nel corpo principale dei testi della Sinistra. Così, mentre all’inizio del secolo un certo spontaneismo aveva permesso al gruppo dei giovani socialisti, e poi del Soviet, di emanciparsi dai dettami della socialdemocrazia legata alla Seconda Internazionale, sul finire degli anni sessanta Bordiga preferisce chiudersi all’interno di una ferrea (e dannosa quando non ridicola) disciplina di partito che finirà con lo scimmiottare il bolscevismo più deleterio di marca stalinista. Quasi come se a forza di fissare o di lottare con il mostro avesse finito con l’assorbirne le caratteristiche peggiori.

Finiva così col perdere quell’attenzione per la metamorfosi necessaria del mondo e delle forme di lotta e di organizzazione (quindi delle tattiche e delle parole d’ordine) che avevano caratterizzato la parte più viva del suo discorso.
Per i fessi e i settari rimasero gli invarianti, il dogmatismo, la ferrea “rosa delle eventualità tattiche”, i sacri testi, ma non il metodo, quello stesso che aveva permesso a Marx di riconoscere la grandezza della Comune nonostante la direzione anarchica e populista della stessa, a Lenin di superare con un gigantesco colpo d’ala i pantani della Seconda Internazionale e a Bordiga di riconoscere il carattere capitalistico della Russia Sovietica e il carattere rivoluzionario delle lotte dei popoli colorati e ancora l’importanza della religione, dell’intuizione e dell’arte ovvero della passione nei processi cognitivi umani.

Sono personalmente convinto che da quel metodo i rivoluzionari debbano continuamente ripartire, in una sorta di fatica di Sisifo cui soltanto la fine dell’odiato sistema di classe potrà metter fine. Ogni scorciatoia, ogni certezza definitiva, ogni imbecille speranza nella forza del dogma o di un partito che per ora non c’è, ci è definitivamente preclusa, mentre la lettura proposta da Basso può costituire un primo e significativo passo in direzione di questa riscoperta della parte più vivace e attuale del pensiero del vecchio comunista; tralasciando quelle incongrue polemiche in cui i suoi seguaci od ex continuano a razzolare nel tentativo di spiegarne, sminuirne o ingigantirne le responsabilità, vere o presunte, nei confronti delle sconfitte subite dalla rivoluzione8. Incapaci anche di comprendere la sostanza delle sue Lezioni delle controrivoluzioni e, forse, ancor meno quanto affermò Rosa Luxemburg, all’indomani della sconfitta dell’insurrezione spartachista di Berlino, nel gennaio del 1919: «poggiamo i piedi proprio su quelle sconfitte, a nessuna delle quali possiamo rinunciare, ognuna delle quali è una parte della nostra forza e consapevolezza»9.


  1. Sull’argomento si vedano, almeno: Chiara Daniele (a cura di), Gramsci a Roma, Togliatti a Mosca. Il carteggio del 1926, Giulio Einaudi Editore, Torino 1999 e qui  

  2. P. Basso, Lezioni per l’oggi in Amadeo Bordiga, una presentazione, Edizioni Punto Rosso, Milano 2021, p. 7  

  3. Il riferimento è a Ezio Mauro e alla sua ricostruzione della nascita del Pcd’I, La dannazione. 1921. La sinistra divisa all’alba del fascismo, Feltrinelli, Milano 2021 – N.d. R.  

  4. P. Basso, op. cit., pp. 5-6  

  5. ibidem, pp. 9-10  

  6. Si veda in proposito: Critica della filosofia. Cinque testi inediti di Amadeo Bordiga, «N+1», n° 15-16, giugno-settembre 2004  

  7. «Quando si parla di possessione, il primo passo falso è quello di credere che si tratti di un fenomeno estremo, esotico e comunque torbido.[…] Per i Greci, la possessione fu innanzitutto una forma primaria della conoscenza, nata molto prima dei filosofi che la nominano.[…] Tutta la psicologia omerica, degli uomini e degli dei – questa mirabile costruzione che solo l’ingenuità dei moderni ha potuto giudicare rudimentale -, è attraversata da un capo all’altro dalla possessione, se possessione è in primo luogo il riconoscimento che la nostra vita mentale è abitata da potenze che la sovrastano e sfuggono a ogni controllo, ma possono avere nomi, forme e profili. Con queste potenze abbiamo a che fare in ogni istante, sono esse che ci trasformano e in cui noi ci trasformiamo.[…] E ogni metamorfosi era [è] un’acquisizione di conoscenza. Certo, non già di una conoscenza che rimane disponibile come un algoritmo.» in Roberto Calasso, La follia che viene dalle Ninfe, Adelphi, 2005, pp.26 –28  

  8. Un po’ come se oggi si continuasse a discutere del fatto che nel 1917, poco prima dell’esplodere della rivoluzione russa, Lenin, all’epoca in esilio, si soffermasse di più sul Partito socialdemocratico svedese e le sue vicende piuttosto che su quanto stava per avvenire in Russia. Si veda la lettera di Lenin ad Alessandra Kollontaj del 5 marzo 1917 cit. in Michael Voslensky, Nomenklatura. La classe dominante in Unione Sovietica, Longanesi & C., Milano 1980, p. 94  

  9. Rosa Luxemburg, L’ordine regna a Berlino, in R. Luxemburg, Scritti scelti, Einaudi , Torino 1975, p.680  

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Una critica radicale della conoscenza di stampo positivista e patriarcale https://www.carmillaonline.com/2020/05/20/per-una-critica-radicale-della-conoscenza/ Wed, 20 May 2020 20:30:06 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=60106 di Sandro Moiso

Jineolojî, a cura del Comitato europeo di Jineolojî, pubblicato in collaborazione con le Edizioni Tabor, prima edizione italiana ottobre 2018, pp. 110, 3,00 euro

E’ un opuscolo ricco di spunti e di riflessioni quello che, con un po’ di colpevole ritardo, viene qui recensito. Un libello, anche se il diminutivo dovuto alle ridotte dimensioni e al numero contenuto di pagine non intende assolutamente sminuirne l’importanza, che definisce una scienza alternativa delle donne, sviluppatasi a partire dalle riflessioni di Abdullah Öcalan e dalle esperienze di lotta e liberazione portate avanti [...]]]> di Sandro Moiso

Jineolojî, a cura del Comitato europeo di Jineolojî, pubblicato in collaborazione con le Edizioni Tabor, prima edizione italiana ottobre 2018, pp. 110, 3,00 euro

E’ un opuscolo ricco di spunti e di riflessioni quello che, con un po’ di colpevole ritardo, viene qui recensito. Un libello, anche se il diminutivo dovuto alle ridotte dimensioni e al numero contenuto di pagine non intende assolutamente sminuirne l’importanza, che definisce una scienza alternativa delle donne, sviluppatasi a partire dalle riflessioni di Abdullah Öcalan e dalle esperienze di lotta e liberazione portate avanti dalle donne del Kurdistan.

Riflessioni, sia quelle del reber del popolo curdo che delle donne impegnate nella lotta di liberazione, che a partire dall’esclusione delle donne e del loro addomesticamento all’interno delle società patriarcali, fondate sulla proprietà privata e, successivamente, sul modo di produzione capitalistico, giungono a porre questioni che vanno al di là di quelle poste dalla condizione femminile nel corso dei secoli.

E’ sostanzialmente un’attenta critica delle scienze sociali, così come sono venute definendosi dall’età del Positivismo in avanti, quella che percorre la prima metà del libro. Un sistema di divisioni specialistiche in discipline che sempre più, con la scusa della rigida compartimentazione del sapere, hanno allontanato dal campo degli studi non soltanto le donne in quanto corpi reali, individuali e sociali, sottoposti a usanze e discipline determinate da specifici modi di produzione, ma i bisogni sociali concreti dall’ambito degli studi sociologici.

Studi determinati da un ben preciso sistema di potere e disciplinamento, basato sia sul pregiudizio di genere, destinato a mantenere nella sottomissione l’universo femminile, sia su quello di classe, destinato a mantenere determinati privilegi politico-economici in un ambito ristretto dello stesso universo maschile.

Studi e ricerche che hanno però basato la propria autorevolezza su un concetto di scienza che è servito, almeno dal xvi secolo in poi, ad escludere dal discorso della conoscenza generale, utile allo sviluppo e al benessere della specie, tutto ciò che avrebbe potuto inficiare il privilegio delle classi dominanti e maschile.
Una scienza ‘patriarcale’ che si è sviluppata fin dalle grandi religioni rivelate (ebraica, cristiana e mussulmana), con l’esclusione di figure di rilievo di carattere femminile all’interno del processo di formazione e conduzione del cosmo e delle sue leggi, che ha fortemente influenzato e favorito formazioni sociali basate sull’emarginazione del ruolo delle donne all’interno della società e una progressiva perdita di centralità della Natura in quanto eco-sistema con cui convivere e ridotta invece a risorsa da sottomettere e conquistare.

Più volte il testo rinvia al concetto di natura selvaggia che, come la donna, deve essere sottomessa e, se occorre (ma a quanto pare lo è sempre), violentata per permettere un corretto funzionamento del sistema patriarcale basato sullo sfruttamento di genere e di classe. Un’analisi che va ben oltre le banalità dell’odierno Me Too hollywoodiano che, nonostante lo scalpore destato, non riesce a liberarsi dai dettami della società dello spettacolo mercantile.

Un andare oltre che mette in discussione l’ordine scientifico su cui il sistema di appropriazione privata della ricchezza socialmente prodotta, la cui credibilità sembra essere andata definitivamente in pezzi con l’odierna pandemia e le infinite ricette scientifiche suggerite per contrastarla, si è basato nel corso degli ultimi quattro secoli. Sistema di dominio, di genere e di classe, che ha apparentemente sostituito il principio religioso autoritari delle religioni monoteistiche con un principio ancora più autoritario basato sullo scientismo che, come già sosteneva Galileo (in un’età ancora eroica della scienza), doveva defalcare tutti gli impedimenti dalle sue ipotesi e formulazioni.

Tutto ciò che poteva contraddire le ipotesi scientifiche ‘predominanti’ ha dovuto quindi essere progressivamente rimosso e cancellato, così come di pari passo tutti gli ordini sociali, passati o futuri, che potevano respingere la validità e l’assolutismo dell’ordine vigente, dovevano essere negati, distrutti e addomesticati.

Che si trattasse infatti delle religioni animistiche oppure basate sull’idea della Grande Dea Madre, con la loro spiegazione più complessa e attinente al reale rapporto tra specie e natura, che delle comunità basate sulla gestione comunitaria dei bisogni reali e sulla proprietà comune dei mezzi di produzione, con il loro rifiuto della mercificazione del prodotto sociale e dei rapporti umani, non vi è stata mai altra possibilità per i detentori del potere statale ed economico che quella di negare, quasi sempre armi e leggi alla mano, quelle possibili alternative.

In questo senso, per secoli, si sono confrontate due realtà sociali possibili: una patriarcale, basata sulla proprietà privata e sulle leggi dello Stato, e una comunista, matriarcale e/o matrilineare, intrinsecamente legata ad una differente funzione della donna al suo interno e al riconoscimento della sua importante funzione sia nella vita sociale che nella riproduzione della vita stessa. Separare il primo riconoscimento dal secondo, riducendo come nella società classica o in quelle determinate dai monoteismi la donna a fattrice sottomessa, significa da sempre negare, non soltanto alle donne, l’alternativa di una società più democratica ma anche più equa economicamente anche per la parte maschile della società.

Repressione delle comunità autonome, politicamente economicamente e culturalmente, e repressione delle donne sono andate nei secoli di pari passo e con ciò si è proceduti anche sulla strada di una sbrigativa eliminazione di saperi e conoscenze che per lungo tempo avevano accompagnato e favorito la sopravvivenza e lo sviluppo della specie. Una condizione durata molto più a lungo di quella attualmente dominante e che, per paradosso, oggi sembra rendersi necessaria per superare l’impasse creata a livello planetari dal capitalismo e da un patriarcato oggi ancora difficilmente giustificabili.

Ogni grande cambiamento ha bisogno di produrre nuove forme di conoscenza, poiché non si può superare l’esistente senza negarne e superarne le ipotesi e la conoscenza che lo fondano e giustificano.
L’opera delle donne curde, di Öcalan, dei partiti che li/le rappresentano costituiscono ancora un piccolo, ma significativo contributo in questa direzione. Questo probabilmente, è stato possibile proprio grazie all’assenza di uno Stato nazionale curdo, che si sarebbe, altrimenti, preoccupato ex-post, come tutti gli altri stati, di giustificare e fondare la propria esistenza e la propria autorità non sui bisogni reali e la conoscenza collettiva, ma su leggi giuridiche e ‘scientifiche’ selezionate e rafforzate in nome del superiore principio di legittimità statuale.

Ancora una volta soltanto la lotta paga e insegna, come sempre è accaduto nella Storia, che è proprio nella lotta che le donne possono tornare a riconquistare e svolgere il loro inestimabile ruolo di conoscenza e organizzazione.
Il testo contribuisce così ad aprire tutte queste porte ed altre ancora, rivelando tutta la sua potenza ed utilità ben al di là dei problemi collegati alla liberazione e all’indipendenza delle donne e del popolo curdo, come tutte le lettrici e i lettori potranno facilmente scoprire scorrendone le pagine.

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Diffondete per le strade il piacere della conoscenza! Un discorso di “Pepe” Mujica https://www.carmillaonline.com/2015/05/20/diffondete-per-le-strade-il-piacere-della-conoscenza-un-discorso-di-pepe-mujica/ Tue, 19 May 2015 22:00:32 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=22724 di José “Pepe” Mujica*

Mujica felicita al potereUn discorso dell’ex presidente dell’Uruguay José “Pepe” Mujica, estratto dal libro: La felicità al potere (A cura di Cristina Guarnieri e Massimo Sgroi. Traduzione di Cristina Guarnieri, Silvia Guarnieri e Filippo Puzio), Edizioni EIR, 2015, pp. 304, € 8.

Cari amici, la vita con me è stata straordinariamente generosa. Mi ha regalato infinite soddisfazioni, ben al di là di quanto avrei mai osato sognare, ma sono quasi tutte immeritate. Nessuna lo è più di quella di oggi: trovarmi qui, [...]]]> di José “Pepe” Mujica*

Mujica felicita al potereUn discorso dell’ex presidente dell’Uruguay José “Pepe” Mujica, estratto dal libro: La felicità al potere (A cura di Cristina Guarnieri e Massimo Sgroi. Traduzione di Cristina Guarnieri, Silvia Guarnieri e Filippo Puzio), Edizioni EIR, 2015, pp. 304, € 8.

Cari amici, la vita con me è stata straordinariamente generosa. Mi ha regalato infinite soddisfazioni, ben al di là di quanto avrei mai osato sognare, ma sono quasi tutte immeritate. Nessuna lo è più di quella di oggi: trovarmi qui, nel cuore della democrazia uruguayana, circondato da centinaia di teste pensanti. Teste pensanti, a destra e a sinistra, teste pensanti da tenere in altoRicordate Paperone, lo zio milionario di Paperino? Nuotava in una piscina piena di monete, aveva sviluppato una passione fisica per il denaro. Io, invece, penso di essere uno a cui piace fare il bagno in piscine colme di intelligenza, di culture lontane, di sapienze diverse. E tanto meglio quanto più mi sono estranee; meno coincidono con quel poco che so, più sono contento.

Il settimanale «Búsqueda» usa una bella frase come frontespizio: «Quel che dico non lo dico come uomo sapiente, ma cercando insieme a voi». Per una volta siamo d’accordo: quel che dico, non lo dico come contadino saputello, né come colto cantastorie; lo dico ricercando insieme a voi. Lo dico mentre cerco, perché solo gli ignoranti credono che la verità sia definitiva e irremovibile, quando invece è a malapena provvisoria, fuggevole. Bisogna inseguirla mentre scappa da un nascondiglio all’altro, ed è un uomo misero chi si impegna da solo in questa partita di caccia. Bisogna farlo insieme, io con voi, con coloro che hanno fatto del lavoro intellettuale la ragione della propria vita, con quelli che sono qui e con i tanti altri che non ci sono.

Migliorare il Paese

Se vi guardate attorno sono certo che riconoscerete alcuni volti; sono qui presenti, infatti, persone che si muovono in contesti di lavoro affini ai vostri. Tuttavia scorgerete anche molti altri volti sconosciuti, perché il criterio delle convocazioni per questa giornata è stato l’eterogeneità. C’è chi lavora con atomi e molecole e chi si dedica alle regole della produzione e dello scambio economico; ci sono persone che si occupano delle scienze pure e chi, quasi agli antipodi, studia le scienze sociali; uomini e donne che si occupano di biologia, altre di teatro, di musica, di educazione, di diritto o del carnevale. E, per non farci mancare nulla, ci sono anche persone che si dedicano all’economia: macroeconomia, microeconomia, economia comparata e persino qualcuno che lavora nel campo dell’economia domestica.

Tutte queste teste pensanti si cimentano in diversi settori e possono contribuire a migliorare il nostro Paese proprio a partire dalle loro distinte discipline. Sono molte le cose che possiamo intendere con l’espressione “migliorare il Paese”, ma il senso che vogliamo darle in questa giornata consiste nell’offrire un impulso a quegli articolati processi complessi che possono moltiplicare per mille la ricchezza intellettuale oggi qui riunita. “Migliorare il Paese” significa che tra vent’anni, per un avvenimento come questo, non basterà lo Stadio del Centenario, perché l’Uruguay traboccherà di ogni sorta di ingegneri, filosofi e artisti. Non vogliamo un Paese che batta i record mondiali per il puro piacere di farlo. È dimostrato, però, che quando l’intelligenza raggiunge un certo grado di concentrazione nella società diviene contagiosa.

L’intelligenza distribuita

Se un giorno riempiremo gli stadi di persone colte e ben istruite, sarà perché fuori, nella società, ci saranno centinaia di migliaia di uruguayani che coltivano la loro capacità di pensiero. L’intelligenza che si addice a un Paese è l’intelligenza distribuita: essa non si conserva solo nei laboratori o nelle università, ma cammina per le strade, si usa per seminare, per tornire, per manovrare una gru o programmare un computer. Anche per cucinare o per accogliere un turista è necessaria la medesima intelligenza: qualcuno salirà più scalini di altri, ma la scala è la stessa. I primi passi sono identici per la fisica nucleare e per il lavoro agricolo: quel che è necessario, in tutte queste cose, è lo stesso sguardo curioso, assetato di conoscenza e molto anticonformista.

Se alla fine del cammino si giunge al sapere, è perché l’ignoranza ci ha fatto sentire inadeguati. Se impariamo, è grazie a un prurito che si acquisisce per contagio culturale fin dal momento in cui apriamo gli occhi sul mondo. Sogno un Paese in cui i genitori mostrino ai bambini un prato erboso e dicano loro: «Sai cos’è questo? È una pianta che trasforma l’energia del sole e i sali minerali della terra». O che indichino il cielo stellato e li facciano innamorare di quello spettacolo per indurli a riflettere sui corpi celesti, sulla velocità della luce e sulla trasmissione delle onde. Non preoccupatevi, quei piccoli uruguayani continueranno a giocare a pallone ma, quando vedranno saltare la palla, potranno pensare anche all’elasticità dei materiali che la fa rimbalzare.

Capacità di interrogarsi

Un proverbio del passato recitava così: «Non dare un pesce a un bambino, insegnagli piuttosto a pescare». Oggi dovremmo dire: «Non dare un dato a un bambino, insegnagli piuttosto a pensare». Il serbatoio di conoscenza che oggi è disponibile non si lascia contenere nelle nostre menti: resta fuori, accessibile in qualsiasi momento grazie a una ricerca su internet. Lì ci sono tutte le informazioni, tutti i dati, tutto quello che già si sa; lì, in altre parole, si trovano le risposte.

Quel che non si trova, però, sono le domande: il problema è avere la capacità di interrogarsi, saper formulare domande feconde che suscitino nuovi sforzi di ricerca e di apprendimento. E questa capacità si situa lì, in fondo, quasi incisa nell’osso del nostro cranio, tanto intima da non averne quasi coscienza. Impariamo semplicemente a osservare il mondo con sguardo interrogativo, e questo diventa il nostro modo naturale di guardarlo. Basta poco per fare nostra questa attitudine che ci accompagnerà per tutta la vita.

Soprattutto, cari amici, tutto questo è contagioso. In ogni epoca ci sono stati uomini che si sono dedicati all’attività intellettuale, incaricati di spargere il seme. Per dirla in altre parole, a noi molto care: a voi è affidato il compito di lanciare il mirabile allarme [1]. Per favore, andate per le strade e contagiate. Non risparmiate nessuno, abbiamo bisogno che la cultura si propaghi nell’aria, tra le case, che si intrufoli nelle cucine e arrivi perfino nelle stanze da bagno. Quando si riesce a far questo, la partita è vinta quasi per sempre, perché si spezza l’ignoranza essenziale che rende deboli molte persone, una generazione dopo l’altra.

La conoscenza è piacere

Abbiamo bisogno che l’intelligenza sia massificata. È quasi una questione di sopravvivenza: soprattutto dobbiamo cercare di diventarne noi stessi produttori più potenti. Tuttavia, in questa vita, non bisogna solo rivolgersi al produrre: bisogna anche godere. Sapete meglio di chiunque altro che nella conoscenza e nella cultura non esiste solo lo sforzo, ma anche il piacere. Dicono che ai corridori accada, a un certo punto, di entrare in una specie di estasi in cui d’un tratto non esiste più la stanchezza, resta solo il piacere. Credo che con la conoscenza e con la cultura succeda la stessa cosa. Si arriva a un punto in cui studiare, ricercare o imparare non costituiscono più uno sforzo, ma un puro godimento. Come sarebbe bello se questi manicaretti fossero a disposizione di tante persone!

Come sarebbe bello se nel paniere della qualità della vita che l’Uruguay può offrire alla sua gente ci fosse una buona quantità di consumi intellettuali! E non perché questo sia elegante, ma perché è piacevole, perché si può godere della cultura con la stessa intensità con cui si riesce ad assaporare un piatto di tagliatelle. Non esiste una lista obbligata di ciò che ci rende felici. Qualcuno potrebbe pensare che un mondo ideale sarebbe un luogo pieno di centri commerciali, e in quel mondo le persone sarebbero felici perché potrebbero caricarsi di borse ricolme di vestiti nuovi e di scatole piene di elettrodomestici.

Io non ho nulla contro questa visione, dico solo che non è l’unica possibile. Dico che possiamo pensare a un Paese in cui le persone scelgano di riparare le cose invece di buttarle via, o magari preferiscano una macchina piccola a una grande, o scelgano di coprirsi anziché aumentare il riscaldamento. Le società più mature non sperperano. Andate in Olanda e vedrete le città piene di biciclette; vi renderete conto che il consumismo non è la scelta della vera aristocrazia dell’umanità, è la scelta degli incostanti e dei frivoli. Gli olandesi si spostano in bicicletta, la usano per andare a lavoro, ma anche per recarsi ai concerti o nei parchi, dal momento che sono giunti a un livello in cui la loro felicità quotidiana si alimenta di consumi sia materiali sia intellettuali. Quindi, amici, andate e contagiate il piacere per la conoscenza. Intanto, il mio modesto contributo sarà quello di far sì che gli uruguayani vadano in giro in bicicletta, una pedalata dietro l’altra.

Anticonformismo

Prima vi chiedevo di contagiare lo sguardo curioso per il mondo, che sta nel dna del lavoro intellettuale. Ora amplio la richiesta: vi prego di diffondere l’anticonformismo. Sono convinto che questo Paese abbia bisogno di una nuova epidemia di anticonformismo, simile a quella che gli intellettuali generarono decine di anni fa. In Uruguay, noi che ci riconosciamo nella sinistra siamo figli o nipoti dello storico settimanale «Marcha» del grande Carlos Quijano [2]. Quella generazione di intellettuali aveva imposto a sé stessa il compito di essere la coscienza critica della nazione. Se ne andavano in giro con gli spilli in mano per far esplodere palloni e sgonfiare miti, soprattutto quello dell’Uruguay multicampione: campione della cultura, dell’educazione, dello sviluppo sociale e della democrazia. Saremmo diventati, invece, campioni del nulla! In quel periodo – negli anni Cinquanta e Sessanta – siamo riusciti a conseguire un unico record, quello di essere il Paese latino-americano che è cresciuto meno nel corso di venti anni: peggio di noi ha fatto solo Haiti.

Quegli intellettuali aiutarono a demolire l’Uruguay della siesta conformista. Nonostante tutti i difetti, preferiamo quell’epoca in cui eravamo più umili e con i piedi per terra, consapevoli della reale statura che abbiamo nel mondo. Ora dobbiamo recuperare quell’anticonformismo e cercare di renderlo qualcosa di presente, sottopelle, in tutto l’Uruguay. Se prima vi dicevo che l’intelligenza che serve a un Paese è l’intelligenza distribuita, adesso dico che l’anticonformismo utile a un Paese è l’anticonformismo distribuito. Quello che ha invaso la vita di tutti i giorni e che ci spinge a chiederci se non si potrebbe fare meglio quello che stiamo facendo.

L’anticonformismo sta nella natura stessa del vostro lavoro. Occorre che diventi per noi tutti una seconda pelle, una seconda natura. La cultura dell’anticonformismo non ci farà fermare sino a che non avremo ottenuto più chili di grano per ettaro e più litri di latte per mucca. Oggi si può fare tutto, assolutamente tutto, un po’ meglio di ieri, dal rifare il letto di un hotel al creare la matrice di un circuito integrato, ma abbiamo bisogno di un’epidemia di anticonformismo. Anche questo è cultura, anche questo si irradia dal centro intellettuale della società fino alla sua periferia.

È l’anticonformismo ad aver guadagnato il rispetto a piccole società e al loro operato. Buon esempio sono gli svizzeri: quattro gatti matti come noi che si permettono il lusso di andare per il mondo a vendere la qualità e la precisione. Quel che vendono, in realtà, sono l’intelligenza e l’anticonformismo che hanno sparpagliato in tutta la società.

Il cammino è l’educazione

Amici, il ponte tra questo oggi e il domani che vogliamo ha un nome e si chiama “educazione”. Badate bene: è un ponte lungo e difficile da attraversare, perché un conto è la retorica dell’educazione, un altro è decidersi a fare sacrifici, impegnarsi in un grande sforzo educativo e sostenerlo nel tempo. I cambiamenti nell’educazione producono un rendimento lento, nessun governo può goderne i frutti; essi mobilitano resistenze e obbligano a posporre altre richieste. Però bisogna farlo: lo dobbiamo ai nostri figli e ai nostri nipoti. Va fatto adesso, quando è ancora fresco il miracolo tecnologico di internet e si aprono opportunità mai viste per accedere alla conoscenza.

Io sono cresciuto con la radio, ho visto nascere la televisione, poi la televisione a colori e poi ancora le trasmissioni satellitari. All’improvviso, sul mio televisore sono apparsi quaranta canali, compresi quelli che trasmettevano in diretta dagli Stati Uniti, dalla Spagna e dall’Italia. Poi i cellulari, e ancora i computer, che inizialmente servivano solo per fare calcoli. Davanti a ciascuna di queste cose sono rimasto a bocca aperta, ma adesso, con internet, abbiamo esaurito la capacità di sorprenderci. Mi sento come quegli esseri umani che videro la ruota per la prima volta, o come quelli che videro il fuoco. Avvertiamo che ci è toccato in sorte di vivere un evento storico importante.

Si stanno aprendo le porte di tutte le biblioteche e di tutti i musei; sarà a disposizione ogni rivista scientifica e ogni libro del mondo, probabilmente qualsiasi film e qualsiasi musica. È imbarazzante. Per questo abbiamo bisogno che tutti gli uruguayani, soprattutto i più giovani, sappiano muoversi in questo torrente. Bisogna risalire la corrente nuotando come pesci nell’acqua. Ci riusciremo solo se la matrice intellettuale di cui parlavamo prima sarà solida, se i nostri piccoli sapranno ragionare in modo ordinato e se sapranno porsi le domande che vale la pena porsi.

È come se vi fossero due vie: lassù l’oceano di informazioni, mentre quaggiù ci prepariamo per la navigazione transatlantica. Scuole a tempo pieno, facoltà all’interno del Paese, istruzione di terzo grado massificata. E, probabilmente, l’inglese fin dall’età prescolare nelle scuole pubbliche, perché l’inglese non è la lingua che parlano gli yankees, è quella con cui i cinesi comunicano con il resto del mondo.

Non possiamo rimanere fuori, non possiamo lasciar fuori i nostri piccoli. Sono questi gli strumenti che ci permettono di interagire con l’esplosione universale della conoscenza: il mondo nuovo non ci semplifica la vita, ce la complica; ci obbliga ad andare più lontano e più in profondità nell’educazione, e non abbiamo compito più grande davanti a noi.

L’idealismo al servizio dello Stato

Cari amici, siamo in campagna elettorale, questa maledetta e benedetta campagna elettorale. Maledetta, perché ci obbliga a litigare e a gareggiare tra di noi. Benedetta, perché ci permette di sperimentare la convivenza civile. E ancora benedetta, perché nonostante le sue imperfezioni ci rende padroni del nostro destino.

In Uruguay abbiamo imparato a preferire la peggiore democrazia alla migliore dittatura. In campagna elettorale ci organizziamo in gruppi, fazioni e partiti, ci circondiamo di tecnici e professionisti e sfiliamo davanti al popolo sovrano, partecipando alle elezioni. Ci sono adrenalina ed entusiasmo, c’è chi vince e c’è chi perde, ma questo non dovrebbe essere un dramma. Con gli uni come con gli altri, la democrazia uruguayana seguirà il suo cammino e andrà trovando le formule giuste per il benessere. Qualsiasi sia il posto che ci spetterà, lì cercheremo di dare una mano, e sono sicuro che anche voi vorrete farlo. La società, lo Stato e il governo hanno bisogno dei vostri diversi talenti e, ancor più, della vostra attitudine idealista. Noi ci avviciniamo alla politica per servire, non per servirci dello Stato. La buona fede è la nostra unica intransigenza, quasi tutto il resto è negoziabile.

 

* Incontro con gli intellettuali nel Salone De los pasos perdidos del palazzo del Governo dell’Uruguay, tenutosi il 29 aprile 2009, in vista delle elezioni presidenziali dell’ottobre dello stesso anno. La traduzione è a cura di Filippo Puzio, Silvia Guarnieri e Cristina Guarnieri. Le note sono a cura di Riccardo Ferrigato.

[1] La cosiddetta admirable alarma fu l’appello che diede inizio alla guerra di indipendenza contro gli spagnoli, nel 1811.

[2] Carlos Quijano (1900-1984) è stato un politico e un giornalista, fondatore del settimanale «Marcha», pubblicato dal 1934 al 1974. Di sinistra, indipendente, fu un periodico molto influente in Uruguay e nell’intero Sud America. Nel 1973 denunciò il colpo di Stato di Juan María Bordaberry: fu chiuso dalla dittatura uruguayana l’anno seguente, mentre il suo fondatore fu costretto all’esilio in Messico.

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