conflitti sociali – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 30 Apr 2025 21:35:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Nazioni in cerca di Stato https://www.carmillaonline.com/2024/08/05/nazioni-in-cerca-di-stato/ Mon, 05 Aug 2024 20:00:51 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83839 di Francesco Festa

Paolo Perri, Nazioni in cerca di Stato. Indipendentismi, autonomismi e conflitti sociali in Europa occidentale, prefazione di Michel Huysseune, Donzelli, Roma, 2023, pp. 258, € 28.00

Il 30 maggio scorso la camera bassa del parlamento spagnolo ha approvato una legge di amnistia per gli indipendentisti catalani, una misura controversa fortemente voluta dal governo di Pedro Sánchez per mettere fine a una stagione di conflitti sociali in una regione trainante d’Europa. In realtà a cinque anni di distanza dalle giornate autunnali del dormiente eppur mai sopito indipendentismo catalano, molte cose sono cambiate. Tutti i protagonisti di quegli eventi – [...]]]> di Francesco Festa

Paolo Perri, Nazioni in cerca di Stato. Indipendentismi, autonomismi e conflitti sociali in Europa occidentale, prefazione di Michel Huysseune, Donzelli, Roma, 2023, pp. 258, € 28.00

Il 30 maggio scorso la camera bassa del parlamento spagnolo ha approvato una legge di amnistia per gli indipendentisti catalani, una misura controversa fortemente voluta dal governo di Pedro Sánchez per mettere fine a una stagione di conflitti sociali in una regione trainante d’Europa.
In realtà a cinque anni di distanza dalle giornate autunnali del dormiente eppur mai sopito indipendentismo catalano, molte cose sono cambiate. Tutti i protagonisti di quegli eventi – e dalla parte spagnola e dalla parte indipendentista – non ricoprono più incarichi di rilievo, e a quell’atteggiamento oltranzista si sono sostituiti tentativi di negoziato, benché incompiuti e per ora piuttosto timidi. Anche se la parola fine per l’indipendentismo se non per il nazionalismo è un eufemismo. Sotto traccia questi fenomeni persistono, covano, e all’occorrenza riesplodono. E lo sanno bene i due partiti indipendentisti catalani, Junts ed Esquerra, ché dopo l’approvazione hanno avvertito: “no acaba nada”. L’amnistia non segna la fine della lotta per la Catalogna libera, il prossimo obiettivo è il referendum per l’indipendenza.

Riportiamo la memoria all’autunno del 2017, e non in una regione periferica, bensì in una fra le regioni economicamente più avanzate dell’Europa, locomotiva della produzione estrattiva, chimica e farmaceutica, dove i catalani hanno toccato con mano la possibilità di costituirsi in Stato indipendente. Difatti, da una parte hanno concretamente minato l’integrità territoriale della Spagna, dall’altra hanno dato seguito politico al desiderio sui generis, stratificato nella storia, proclamandosi per poche ore Stato autonomo e indipendente, a seguito dell’esito positivo del referendum. Le cose non sono andate proprio così, in maniera lineare o pacifica, anzi, la legge e la repressione hanno posto fine manu militare a tale processo. D’altronde ogni qualvolta la sovranità territoriale è minata, e quel principio politico a fondamento dello Stato, secondo il quale l’unità politica e quella nazionale debbano coincidere – come segnalato da Ernest Gellner – viene messo in discussione, allora, il Leviatano mette in campo tutta la propria forza militare.

Di contro, le “comunità in cerca di Stato” rispondono, non retrocedono, ma continuano sotterraneamente a scavare, si organizzano e, al momento opportuno, si sollevano, cercando di far coincidere i processi di costruzione politica della propria identità statale (state-building) con quelli d’identità nazionale (nation-building). E si badi: l’identità nazionale è sempre in fase più avanzata rispetto al potere costituito, poiché essa rinvia alla scrittura e alla riscrittura dei processi storici. In altre parole, l’identità nazionale quale fondamento della legittimità politica dello Stato è immanente alla storia e alla cultura di una comunità rispetto allo Stato che invece è esterno, trascendente, estraneo.

In realtà il nazionalismo riemerso in Catalogna, a richiamo di quello scozzese di qualche anno prima – con la vittoria del “No” (55,30%) alla separazione dal Regno Unito – è un fenomeno consustanziale alla forma politica degli stati moderni, dalla fine del Settecento, con una diffusione nell’Ottocento, e l’esplosione ideologica e organizzativa durante il Novecento. Ma le cui radici allignano nella storia di una regione o di una comunità, nelle stratificazioni di racconti e di miti costruiti e ricostruiti dai processi discorsivi e mitopoietici, ossia dalla creazione collettiva di miti, racconti o storie strettamente vincolate a quella comunità. Emile Durkheim diceva infatti che i miti hanno il compito di dare coesione alle collettività umane attraverso la creazione di un linguaggio comune per nominare le cose e i comportamenti. Furio Jesi individuava nel mito la facoltà di consacrare le forme di un presente che vuol essere coincidenza con un “eterno presente”. Insomma, il nazionalismo si nutre di un eterno presente per animare i cittadini, da cui attingere a seconda degli usi politici. Ernesto Laclau lo avrebbe chiamato “significante vuoto”, un concetto discorsivo aduso per tutte le formazioni politiche, camaleontico nel trasformarsi in base alle esigenze e agli interessi politici ed economico-sociali.

Di per sé è un “fenomeno politicamente magmatico”, con dei rimandi epici al mito di Proteo, vecchio dio del mare dell’Odissea, quella divinità omerica in grado di cambiare forma e aspetto a seconda delle circostanze, e che ci offre una suggestiva esemplificazione dell’oggetto di questo libro. Un esempio letterario con cui Paolo Perri, in Nazioni in cerca di Stato. Indipendentismi, autonomismi e conflitti sociali in Europa occidentale introduce il campo di studio e cerca di mettere in guardia il lettore da facili semplificazioni o da analisi politiche in cui si potrebbe incappare cercando di tradurre quel fenomeno in rivendicazioni localistiche o provincialistiche tipicamente nostrane. Il nazionalismo è una “categoria ribelle alla conoscenza scientifica” – avverte Perri – negli studi storici, sociologici e politologici, questo fenomeno è assai sfuggente all’inquadramento in apparati ideologici o a modelli universali, poiché i movimenti nazionalisti abbracciano orientamenti ideologici differenti, contraddicendo proprio quelle teorie che hanno presentato questi fenomeni come non ideologici, post-ideologici o di orientamento prevalentemente conservatore.

Perri cerca di inquadrare la categoria, riconoscendone la complessità come fattore costitutivo dei movimenti stessi, evitando così metodi e schemi troppo rigidi, pena la difficoltà di leggerne le differenze da movimento a movimento, da regione a regione. Egli adopera, infatti, un approccio multidimensionale e multidisciplinare, e da storico rafforza la ricerca consultando una mole di documenti di prima mano in archivi di mezza Europa, per indagare con metodo comparativo “origini, caratteri, trasformazioni e persistenze dei nazionalismi sub-statali all’interno di quattro diversi stati dell’Europa occidentale: Francia, Belgio, Gran Bretagna e Spagna”. Nello specifico, riguardano le seguenti regioni: Bretagna, Corsica, Fiandre, Vallonia, Galles, Irlanda, Scozia, Catalogna, Galizia, Paesi Baschi.

La versatilità del concetto si riflette proprio nella “babele terminologica” generata dal nazionalismo, in cui l’autore cerca di districarsi ricorrendo, invece, a categorie come “nazioni senza stato”, “nazionalismi periferici”, “nazionalismo sub-statale”. Altro dato che ne dimostra la camaleonticità è “la capacità dei movimenti nazionalisti di abbracciare orientamenti ideologici differenti, contraddicendo quelle teorie che hanno presentato questi fenomeni come non ideologici, post-ideologici o di orientamento prevalentemente conservatore” (p. 233). Le differenti posizioni, talvolta, riflettono le fratture e le contraddizioni (cleveages) presenti nei rapporti sociali se non nella composizione di classe, vale a dire, centro/periferia, stato/chiesa, città/campagna, capitale/lavoro, sennonché in contesti di composizione operaia o post-operaia questi fenomeni assumono connotati di classe se non di sinistra; in altri casi, dov’è maggiore la concentrazione finanziaria i partiti o le organizzazioni indipendentiste si spostano al centro o a destra. Un caso esemplare è la Galizia, dove vi sono partiti “nazionalisti” situati lungo tutto l’arco politico parlamentare.

Interessante è soffermarsi ancora sulla costruzione dell’identità e, di contro, i processi di centralizzazione od omogeneizzazione politico culturale messe in atto dagli stati-nazione. La domanda che Perri pone è come fanno “i movimenti nazionalisti a capitalizzare politicamente gli elementi identitari?” Considerando che “l’identità nazionale non [possa] essere creata del tutto ex nihilo dagli intellettuali nazionalisti, ma deve necessariamente poggiare su sentimenti, valori e identità pre-esistenti […] come memorie condivise, la lingua la religione, i costumi, il folklore, le antiche istituzioni locali e le leggi tradizionali.” (p. 21). Egli adopera uno schema composto di tre fasi di sviluppo: la prima di carattere intellettuale, in cui una ristretta cerchia di studiosi si concentrano sulla storia, la lingua, la letteratura, i miti e le tradizioni di una comunità, al fine di porre delle basi comuni; la seconda vede l’emergere di élites politiche che “reclamano la formazione di un nuovo stato per diventarne classe dirigente; mentre nella terza, il nazionalismo “acquisisce finalmente una dimensione di massa, realizzando i propri obiettivi o innescando dei veri e propri conflitti con lo stato centrale.” (p. 22)

In generale, durante il processo di formazione degli stati moderni, il ricorrere alla leva indipendentistica riflette le fratture economico-sociali che genera il capitalismo, a seconda delle sue fasi di accumulazione. Nell’Ottocento, le rivendicazioni erano figlie dei processi di industrializzazione e di accumulazione originaria, di talune regioni rispetto ad altre. Fra le due guerre del secolo scorso, i nazionalismi ebbero la vera svolta come ideologizzazione, a seconda delle posizioni – quelle nazifasciste, ma anche quelle di matrice socialista e comunista, si pensi al libro Sul diritto di autodecisione delle nazioni, in cui Lenin descriveva il processo di differenziazione e valorizzazione dei molti gruppi etnici presenti nell’Unione delle Repubbliche Sovietiche, ove tramite repubbliche e sub-repubbliche venivano garantite le etnie non russe, nelle forme di autonomia e protezione dalla dominazione centralizzante; mutatis mutandis, Josip Tito in Jugoslavia prese ispirazione da tale modello.

Nel corso del Novecento, le lotte di liberazione e il decolonialismo, diede nuova linfa ai partiti e alle organizzazioni indipendentistiche, talvolta organizzando i conflitti sociali in forme di lotta armata e clandestina; e talvolta sfruttando gli equilibri della guerra fredda. Venuta meno questa, la stessa lotta è andata tramutandosi in organizzazione del conflitto nelle forme istituzionali ed elettorali, senza trascurare la possibilità di tornare a battere le strade della lotta e della guerriglia urbana, come spesso accade in forme circoscritte eppur persistenti a Belfast, nei Paesi Baschi e in Corsica. Con gli anni Duemila le scienze sociali iniziano a interrogarsi sulla capacità delle identità storico-culturali territorialmente radicate alle comunità, di sopravvivere alle sfide della globalizzazione neoliberista, alle relazioni liquide e precarie, ai rapporti produttivi e logistici a-territoriali, inseriti in un “villaggio globale”.

Dinanzi a questi presagi le “nazioni senza stato” hanno resistito, soprattutto quando le crisi finanziarie del 2007-08 hanno minato le solide basi del neoliberismo e lo spazio europeo, non solamente quello istituzionale, ha offerto visibilità politica alle rivendicazioni dei nazionalismi periferici.
Il fenomeno studiato con estrema profondità in Nazioni in cerca di Stato fa della complessità una caratteristica sia nelle forme organizzative, se non talvolta ideologiche, sia nell’importanza di rappresentare una variabile intra-nazionale con cui i movimenti e la classe politica devono fare i conti, poiché è quella leva che, trascurata, rischia di sorprendere dopo la sua emersione. Così avverte, l’autore:

all’incertezza, alla precarizzazione lavorativa ed esistenziale e all’allargarsi della forbice sociale prodotti dalla crisi il nazionalismo ha risposto con un progetto partecipativo, inclusivo e progressista di radicalizzazione democratica, mentre, in altri, con delle forme di chiusura neo-comunitarista e xenofoba, in cui la comunità nazionale, spesso definita attraverso caratteri ascrittivi e biologico-razziali, viene invece mobilitata per difendere le proprie risorse contro un presunto pericolo esterno (migranti, burocrazia europea, stato centrale, ecc.). La persistenza della frattura centro-periferia, la forza o debolezza degli elementi culturali, linguistici e religiosi, i vari contesti economici, le differenti opportunità politiche e l’atteggiamento dei governi centrali sono tutti elementi che hanno contribuito, e contribuiscono, all’evoluzione ideologica dei movimenti nazionalisti e della loro base sociale (pp. 237-38).

È un’ideologia dal nucleo sottile, non una complessità, quella del nazionalismo senza ideologia, altrimenti non si spiegherebbe perché in base al contesto in cui si trova ad agire possa adottare idee molto diverse, nella sua plasticità:

il suo orientamento ideologico può evolversi o venire addirittura stravolto per adattarsi alle diverse situazioni e ai mutati contesti socio-economici […] per questo esistono varie tipologie di nazionalismo politico – liberale, democratico, socialista, fascista, conservatore, comunista – e se non ne tenessimo conto, se ne minimizzassimo la dimensione prettamente ideologica, non riusciremmo a comprenderne la capacità di mobilitazione e, soprattutto, a spiegare efficacemente il sostegno di cui godono ancora oggi questi movimenti, a dispetto di ogni previsione passatista (p. 238).

]]>
Terre di confine https://www.carmillaonline.com/2021/03/24/terre-di-confine/ Wed, 24 Mar 2021 22:00:59 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=65234 di Sandro Moiso

Luca Trevisan, Il respiro del bosco. Le montagne della città di Vicenza sull’Altopiano dei Sette Comuni, Cierre edizioni, Verona 2020, pp. 200, 14,00 euro

Nel corso degli ultimi decenni la storia locale, emancipatasi gradualmente dalla retorica del localismo e della tradizione identitaria, ha contribuito a proporre ricerche che, pur rimanendo all’interno di tale ambito, hanno saputo cogliere momenti e casi capaci di illuminare la storia con la “s” maiuscola, ponendo e affrontando concretamente problemi che la seconda aveva relegato spesso ai propri confini o a studi specialistici di carattere [...]]]> di Sandro Moiso

Luca Trevisan, Il respiro del bosco. Le montagne della città di Vicenza sull’Altopiano dei Sette Comuni, Cierre edizioni, Verona 2020, pp. 200, 14,00 euro

Nel corso degli ultimi decenni la storia locale, emancipatasi gradualmente dalla retorica del localismo e della tradizione identitaria, ha contribuito a proporre ricerche che, pur rimanendo all’interno di tale ambito, hanno saputo cogliere momenti e casi capaci di illuminare la storia con la “s” maiuscola, ponendo e affrontando concretamente problemi che la seconda aveva relegato spesso ai propri confini o a studi specialistici di carattere quasi esclusivamente istituzionale.

Prova ne sia il testo di Luca Trevisan, dottore di ricerca presso il Dipartimento Culture e civiltà dell’Università di Verona e docente nella scuola superiore, pubblicato da Cierre edizioni nella collana Nordest (nuova serie) di cui costituisce il volume n° 188.
La ricerca di Trevisan, nel ricostruire le vicende dello scontro tra il Comune di Vicenza e le comunità dell’Altipiano dei Sette Comuni per la delimitazione spaziale e lo sfruttamento dei boschi e dei pascoli, soprattutto a partire dal XVI secolo, finisce anche con l’affrontare indirettamente la questione dei confini o del “confine”, anche se quest’ultima non è posta al centro dell’opera o nel titolo.

Dopo un plurisecolare contrasto con la città, infatti, i comuni dell’Altopiano riuscirono ad acquisire e quasi immediatamente a spartire tra diversi possidenti i territori montani, in particolare i boschi, posti a quote elevate, vicini al crinale e alle pendici della Valsugana, che il Comune di Vicenza aveva acquisito nel 1261, dopo la fine del dominio di Ezzelino III da Romano. Motivo per cui, come afferma Gian Maria Varanini (Università di Verona) nella sua prefazione al testo:

il problema del “delimitare”, del definire lo “spazio frontaliero” – quale che sia la frontiera -, è presente in ogni pagina di questa approfondita sintesi.
[…] Il punto di partenza di molte riflessioni è stato costituito da alcune celebri pagine di Febvre (Frontière: le mot e la notion), che posero il problema sin dagli anni Venti. Il problema del confine “politico”, del confine degli Stati, circolò poi variamente nella storiografia europea, nei decenni successivi, incrociandosi con il dibattito sul concetto di frontiera “naturale” messo in discussione dagli antropologi […] Inutile dire che le Alpi e le montagne in genere sono il terreno d’elezione per queste riflessioni. […] In generale questi studi hanno spinto molto avanti nel tempo, sino al Settecento inoltrato la trasformazione sostanziale del confine. Solo allora c’è un cambio di paradigma, e si può parlare di un “processo di frontierizzazione”, di un definitivo orientamento verso la trasformazione del confine in una “linea di separazione” fra due sovranità consapevoli ed esclusive. Per molto tempo invece, nei secoli dell’età moderna che da questo punto di vista diviene un lungo medioevo, il confine era rimasto un “campo di tensione”, un luogo di confronto e di sfruttamento condiviso e contrastato. E non solo: è stata importante in questi studi, la progressiva messa a fuoco, che avviene appunto nel Settecento, fra un confine “politico” (verso l’esterno) e un confine “amministrativo” (ad intus)1.

Una questione, quella dei confini nazionali e politici, che nelle Alpi centro-orientali troverà una sua definitiva sistemazione soltanto con l’avvento del primo conflitto mondiale, destinato a dividere comunità che fino a poco tempo prima si erano più sentite unite dall’appartenenza alle “montagne” più che divise da ben specifiche appartenenze nazionali. Come, per esempio, anche solo una semplice passeggiata nella zona del Passo dello Stelvio, nei luoghi della guerra sui tre confini, potrebbe facilmente far comprendere anche all’escursionista più distratto.

Riprendendo però il tema centrale della ricerca, occorre sottolineare che il duello vero e proprio tra le due entità (Comune di Vicenza e Comuni dell’Altopiano), nella ricostruzione di Trevisan, ha inizio nella seconda metà del Cinquecento nell’epoca in cui, occorre forse qui ricordare, inizia a diventare decisiva la questione dei confini statali e istituzionali2. Un’epoca in cui non solo gli storici iniziano a situare il golden nail dell’inizio dell’antropocene o, per meglio dire, capitalocene3, ma in cui una stagione di raffreddamento del clima (la cosiddetta Piccola glaciazione) si era accompagnata ad una situazione piuttosto grave di crisi economiche e sociali. Tra le cui conseguenze va annoverata anche l’ultima grande epidemia di peste nel ‘600.

E’ in questo quadro di regressione economica e di autentica caccia alle risorse che si apre e si svolgono principalmente gli eventi narrati da Trevisan, ruotanti, guarda caso, intorno alla gestione e all’uso commerciale del patrimonio boschivo dell’Altopiano di Asiago.
Dopo aver infatti analizzato le caratteristiche del popolamento dello stesso e il lento consolidamento istituzionale delle comunità montane in età tardo medievale, la ricerca si focalizza da un lato sulle prerogative proprietarie del Comune di Vicenza che affitta i pascoli e permette l’uso dei boschi per i soli fini domestici e dall’altro sulle comunità rurali dell’Altopiano. Il motivo del contendere era dato (anche se la questione si trascinò fino al 1783) dallo sfruttamento commerciale del legname, cui si opponeva il primo.

Nei confronti di tale risorsa, e dei boschi nel loro insieme, il Comune vicentino vantava i diritti ottenuti dopo la spartizione delle proprietà di uno degli ultimi difensori della causa ghibellina, dopo la sua sconfitta e morte4, mentre gli abitanti delle comunità dell’Altopiano erano pronti a tutto pur di vincere la partita principale. Quella, appunto, della “mercanzia del legname”, condotta per mezzo di malizie, trucchi ed illegalità varie cui si aggiungeva, da parte dei montanari, una antica conoscenza dell’ambiente, delle sue caratteristiche e risorse.

Si trattava cioè di valorizzare una materia prima sempre più necessaria e ricercata, soprattutto in un periodo di piccola glaciazione. Commercio che in quello stesso periodo era diventato particolarmente significativo nell’area delle Alpi centro-orientali. Così le comunità «insediate tra i 700 e i 1200 m di quota erodono, usurpano, attaccano in età moderna il possesso cittadino», ricorrendo anche alla falsificazione di documenti precedenti5.

Le diatribe emerse, non solo con il Comune di Vicenza ma anche tra le stesse comunità, si trascineranno ben oltre l’epoca, fino a Novecento inoltrato. Confermando così che, come già analizzato sia in opere di ricerca storica locale che letterarie6, il lento e progressivo disfacimento delle comunità alpine, trasformatesi da comunità che in età antica e medievale erano organizzate intorno alla condivisione e alla gestione comune delle risorse e del lavoro a comunità istituzionalizzate e dedite all’appropriazione individuale e privata o perlomeno parzializzata dei beni, della ricchezza e delle risorse, abbia costituito la strada principale attraverso cui il capitalismo, prima mercantile e poi industriale, si è affermato anche nelle zone inizialmente più ostili alla creazione di confini statali, governativi e, non dimentichiamolo, proprietari nell’accezione più moderna del termine.
Come afferma ancora il Varanini nella sua prefazione:

Chi esce con le ossa rotte da questo studio è naturalmente la retorica, la retorica della concordia e del decantato spirito comunitario che si scioglie come neve al sole: e ciò emerge con tanta maggior evidenza dalla parte finale dello studio di Trevisan, dedicata al disfacimento ottocentesco del patrimonio boschivo. Alla fine, nel 1783, Vicenza aveva infatti allivellato ai Sette Comuni le sue Montagne, ma questo patrimonio alcuni decenni più tardi viene avviato allo smembramento, in mezzo a liti feroci fra le comunità, che durano sino al Novecento inoltrato7.

Osservazioni sicuramente e ampiamente condivisibili, se non si tiene però conto del fatto che il disfacimento delle comunità era già iniziato, sia sui monti che nelle pianure, diversi secoli prima e che il periodo da cui ha inizio la ricerca di Trevisan segnava già un primo momento di superamento o, in altre parole, di sconfitta sociale, economica e politica dell’organizzazione comunalistica, ancor più che comunale. Solo così si può autenticamente parlare di una retorica comunitaria che si vorrebbe, più per motivi politici e identitari attuali che per autentico amore per la Storia, mantenere in vita ancora oggi. In un’epoca in cui l’appropriazione privata delle risorse e la valorizzazione del capitale ha trionfato ovunque, tanto in quota quanto in basso.

La ricerca di Trevisan si rivelerà perciò utile per chiunque sia interessato alla ricostruzione delle vicende e dei conflitti, dalle forme spesso differenti e inaspettate, che hanno portato all’affermazione dei confini, più ancora che territoriali e istituzionali, proprietari e, perché no, di classe della società attuale.


  1. Gian Maria Varanini, Prefazione a Luca Trevisan, Il respiro del bosco, Cierre edizioni, Verona 2020, pp. 10-11  

  2. Si veda, nella letteratura storica recente, Charles S. Maier, Dentro i confini. Territorio e potere dal 1500 ad oggi, Giulio Einaudi editore, Torino 2019  

  3. Si veda ancora su questo tema: Simon L. Lewis, Mark A. Maslin, Il pianeta umano. Come abbiamo creato l’Antropocene, Giulio Einaudi editore, Torino 2019  

  4. Sulla figura di Ezzelino da Romano e le contraddizioni di un uomo troppo spesso, sbrigativamente e opportunisticamente, liquidato come uno dei “cattivi” della Storia (forse proprio per la sua ostinata e implacabile opposizione al potere e al dominio del Papato), si veda l’opera di Giorgio Cracco, Il Grande Assalto. Storia di Ezzelino, Marsilo Editori, Venezia 2016  

  5. G. M. Varanini, op.cit., p. 11  

  6. Si vedano, solo per citare due esempi, Franco Ghigini (a cura di), Gli Antichi Originari. Cimmo e Tavernole. La storia, la comunità, l’arte, il paesaggio, 2 voll., Comunità Montana di Valle Trompia 2018 e Umberto Matino, La valle dell’Orco, Edizioni Biblioteca dell’Immagine, Pordenone 2016  

  7. G. M. Varanini, op.cit., p.13  

]]>
Rapporto su una guerra già da lungo tempo in atto 1/2 https://www.carmillaonline.com/2018/10/11/rapporto-su-una-guerra-gia-da-lungo-tempo-in-atto-1-2/ Thu, 11 Oct 2018 19:30:07 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=49156 di Sandro Moiso

Tra il 5 e il 7 ottobre si è svolto nel Salento un workshop internazionale dal titolo “Policing extractivism: security, accumulation, pacification”, già precedentemente annunciato su Carmilla (qui). Nata dalla collaborazione tra il Movimento No Tap, il Transnational Institute, l’Associazione Bianca Guidetti Serra – Puglia e l’Università del Salento-Cedeuam, l’iniziativa, chiusasi con un’assemblea popolare a Melendugno nel pomeriggio di domenica 7 ottobre, ha visto la partecipazione di accademici, rappresentanti di vari movimenti in difesa dei territori sconvolti dallo sfruttamento intensivo delle risorse minerarie o agricole oppure da grandi opere inutili e dannose e di organizzazioni internazionali [...]]]> di Sandro Moiso

Tra il 5 e il 7 ottobre si è svolto nel Salento un workshop internazionale dal titolo “Policing extractivism: security, accumulation, pacification”, già precedentemente annunciato su Carmilla (qui). Nata dalla collaborazione tra il Movimento No Tap, il Transnational Institute, l’Associazione Bianca Guidetti Serra – Puglia e l’Università del Salento-Cedeuam, l’iniziativa, chiusasi con un’assemblea popolare a Melendugno nel pomeriggio di domenica 7 ottobre, ha visto la partecipazione di accademici, rappresentanti di vari movimenti in difesa dei territori sconvolti dallo sfruttamento intensivo delle risorse minerarie o agricole oppure da grandi opere inutili e dannose e di organizzazioni internazionali che si battono in difesa della Terra e dei diritti dei popoli che la abitano, che hanno dato vita e corpo ad un programma e a un dibattito intenso e mai scontato.

L’attività del workshop, che è stata preceduta il 4 ottobre da una visita al cantiere di San Basilio da parte di una folta delegazione internazionale, ha visto rappresentato al proprio interno gran parte del mondo occidentale, considerato che sia gli accademici che i militanti dei movimenti e delle differenti organizzazioni (tutte rigorosamente apartitiche) provenivano dall’Italia, dalla Francia, dal Regno Unito, dall’Olanda, dal Canada, dagli Stati Uniti, dal Perù e dall’Argentina e, pur con le dovute differenze e specificità locali e nazionali, ha potuto dare vita ad un confronto sui temi dell’estrattivismo inteso come sfruttamento sia agricolo che speculativo dei suoli sia, ancora, come estrazione vera e propria di ricchezza dall’uso dei sottosuoli tramite l’estrazione di materie prime (gas e petrolio in primis), mettendo costantemente in luce come tale accaparramento privato delle ricchezze così prodotte non solo vada a colpire economicamente le comunità interessate, ma anche, e forse in maniera ancora più dannosa, l’ambiente e il futuro delle stesse, locali o nazionali che esse siano.

Il quadro che ne è uscito, mettendo in relazione tra di loro lo sfruttamento dell’ambiente e la repressione di coloro che si oppongono a tali perniciosissime politiche economiche, è quello di un mondo già sostanzialmente in guerra. Una guerra, come affermava il titolo del manifesto di convocazione, invisibile ma non per questo meno pericolosa, devastante e spietata di quelle apertamente combattute già, e forse ancor di più in futuro, in varie aree del pianeta.

Una sorta di autentica guerra civile preventiva combattuta dai governi in nome della sicurezza e del benessere, se non addirittura dei diritti, dei propri cittadini che, troppo spesso finiscono col costituire invece proprio l’autentico nemico interno se soltanto osano opporsi a tali nefande decisioni e speculazioni. Sia economiche che politiche.

Proprio per questi motivi, lo sforzo collettivo è stato quello di chiarire e chiarirsi meglio il significato reale di termini quali ‘estrattivismo’ e ‘pacificazione’ sia sul piano politico che giuridico, economico, storico e sociale. Verificando come, pur prendendo corpo attraverso gradi e modi diversi di attuazione, tali temi costituiscano elementi fondamentali per comprendere i gravi conflitti sociali ed economici che contraddistinguono le società odierne. Sia che esse si trovino in una fase di sviluppo capitalistico, quali quelle asiatiche, sia che esse siano in una fase di crisi quali quelle occidentali, tanto nel Nord quanto nel Sud del mondo.

Pur senza entrare per ora nello specifico dei singoli interventi, che saranno presentati sia on line che in una prossima pubblicazione cartacea, si può comunque affermare che si sono potute cogliere similitudini e differenze che rinviano comunque ad un ordine mondiale autoritario, antidemocratico e decisamente rivolto ad uno sfruttamento sempre più intensivo delle risorse del pianeta, siano esse agricole o di carattere minerale, e della forza lavoro necessaria a trasformarle in ricchezze accumulabili.

Poiché riassumere insieme tutti i singoli e più che numerosi interventi potrebbe richiedere uno spazio ben maggiore di quello possibile sulle pagine di Carmilla, occorre concentrare qui l’attenzione sui due termini dominanti il convegno cercando di riassumere ed estrapolarne al meglio le valenze e i significati attribuitigli dai redattori e dai differenti partecipanti al dibattito.

Iniziamo dunque dal termine ‘estrattivismo’ che più che distinguere una nuova fase del capitalismo riesce in realtà a riassumere al meglio quelle che sembrano essere le caratteristiche dello stesso sia nel passato che nel presente e nell’immediato futuro.
Infatti se ci limitiamo a considerare l’estrattivismo come lo strumento attraverso il quale il capitale nutre la propria accumulazione di valore attraverso lo sfruttamento delle risorse minerarie e dell’agricoltura occorre, allora, considerare che questo ha già di per sé una data piuttosto antica di inizio: il 1492. Anno in cui l’America meridionale, poi detta Latina, iniziò a veder sfruttate le popolazioni indigene, spesso poi sterminate e sostituite con schiavi introdotti da altre parti del mondo, insieme ai suoi territori ricchissimi sia sul piano minerario che su quello della produttività dei terreni messi a coltura. Proprio come hanno sostenuto, di fatto, tutti i relatori che hanno parlato di quel continente o che da esso provenivano.

La novità potrebbe essere invece costituita dal fatto che l’estrattivismo, al di là della tradizione di estrazione di ferro e carbone dalle aree del centro e nord Europa, è oggi tornato a giocare un ruolo importantissimo per la valorizzazione del capitale proprio nel continente da cui la conquista del Nuovo Mondo era iniziata. Un estrattivismo che sembra costituire una nuova strategia per la messa a valore di aree precedentemente ritenute marginali rispetto alle aree industriali delle maggiori nazioni e metropoli dell’impero d’Occidente e che oggi, nonostante la loro fragilità ambientale e, spesso, geologica vengono utilizzate per estrarre dal territorio e dal suo sfruttamento quel valore che, a causa della deindustrializzazione e la delocalizzazione delle fabbriche in altre aree del globo, non è più possibile estrarre dalle aree, coincidenti spesso con le maggiori metropoli, un tempo fortemente caratterizzate dalla presenza dell’industria.

Estrattivismo che, oltre allo sfruttamento degli scisti bituminosi tramite fracking che sembra ormai destinato a devastare vaste aree, un tempo agricole, del Regno Unito e degli Stati Uniti, può anche consistere nella sostituzione delle colture tradizionali con forme di agricoltura intensiva e devastante come quella proposta proprio nel Salento in sostituzione di quella collegata agli olivi secolari e attaccata ‘scientificamente’ ed economicamente con la scusa della diffusione della xylella. Oppure nello sviluppo delle cosiddette grandi opere (alta velocità in Val di Susa, condutture di gas ad alta pressione che dovrebbero attraversare intere nazioni e continenti come il TAP, enormi depositi di scorie nucleari come quello di Bure in Francia solo per fare alcuni esempi) inutili, dannose, devastanti per l’ambiente e le specie che lo abitano. Compresa quella umana.

Ma ‘estrattivismo’ rinvia in fin dei conti alla motivazione primaria di ogni capitalismo storico, nazionale o multinazionale ovvero a quella estrazione di valore (e plusvalore) che può avvenire tramite ogni attività economica: sia essa produttiva o speculativa, legata alla rendita fondiaria o finanziaria oppure alla semplice speculazione, anche nelle sue forme criminali o mafiose. Definizione quest’ultima che, va qui chiarito subito, se male interpretata, potrebbe far credere che esistano due capitalismi: uno buono e legale e un altro cattivo e illegale. Mentre in realtà da sempre, e in maniera ancora più accelerata oggi, l’estrazione di valore e plusvalore costituisce sempre il risultato di un’azione arbitraria di appropriazione da parte dei singoli o degli stati nei confronti di quelli che dovrebbero essere considerati “beni comuni” e della ricchezza socialmente prodotta dal lavoro umano.

Estrattivismo che troppo spesso si è accompagnato all’ideologia lavorista e progressista che il movimento operaio ha condiviso, più o meno inconsciamente, con il suo avversario storico e i suoi portavoce, e che proprio nel dramma dell’ILVA di Taranto, ancora una volta in Puglia, ha visto una profonda e perniciosa divisione attraversare il mondo del lavoro e gli abitanti della città in nome del lavoro e dello sviluppo da un lato e della difesa della vita, della saluta e dell’ambiente dall’altro. Dimostrando come l’incapacità di una fetta cospicua di classe operaia e di tutti i suoi partiti di andare realmente oltre il modello di sviluppo capitalistico e del suo immaginario (politico, giuridico, economico e scientifico) possa ancora costituire un atto di forza violentissimo in favore del modo di produzione vigente. Tanto nelle nazioni di vecchia industrializzazione ed accumulazione, quanto in quelle in cui opera un mai abbastanza criticato e compreso socialismo del XXI secolo, nazionalista ed estrattivista, come ha sottolineato con dovizia di dati Juan Kornblihtt dell’Università di Buenos Aires nella sua relazione su «Rendita fondiaria e lotta di classe sotto i governi ‘alternativi al neoliberalismo’ in America Latina».

Estrattivismo contro il quale nemmeno le costituzioni, in cui troppo spesso i militanti e cittadini continuano a credere fideisticamente, possono costituire un baluardo e che, anzi, finiscono con l’esserne, più che vittime, complici. Come ha sostenuto, in un intervento profondo e meditato sul tema «Il Diritto costituzionale del nemico», il prof. Michele Carducci dell’Università del Salento.
Intervento durante il quale Carducci ha richiamato l’attenzione sulla necessità di uscire dall’immaginario giuridico che fonda le leggi attuali e gli stessi diritti umani per giungere ad una differente concezione del Diritto e dei doveri, basata sostanzialmente su altri parametri, in cui il rispetto di quella che ha chiamato Madre Terra (così come molti altri relatori) vada di pari passo con lo sviluppo di un differente ordine sociale e di condivisione dei beni e delle ricchezze.

Soprattutto in un paese come l’Italia, dove il vero proprio assalto in corso ai territori e all’ambiente, dalla Basilicata a tutto il mare Adriatico, dal Salento alla Pianura Padana è ancora sostanzialmente regolamentato da un Regio Decreto del 1927 (caso mai qualcuno avesse ancora qualche dubbio tra la sostanziale continuità tra Repubblica e Fascismo), come ha dimostrato il prof. Enzo Di Salvatore, dell’Università di Teramo, nel suo intervento su «Estrazione del petroli e diritti: il caso italiano».

Occorre a questo punto sospendere, per ragioni di spazio e di tempo del lettore, il discorso fin qui condotto per affrontare l’altro termine su cui si è concentrato il workshop: ‘pacificazione’ che, per l’appunto è quasi indivisibile dal primo. Ovunque infatti l’estrattivismo come forma primaria o anche solo importante dell’estrazione di valore dal territorio e di chi viene lì sfruttato, sia lavorativamente che dal punto di vista delle proprietà piccole o comuni espropriate, la pacificazione sembra diventare l’indispensabile corollario politico, militare, poliziesco ed economico del primo.

Mark Neoucleous, della Brunei University di Londra, nella sua relazione dedicata al tema «Cos’è la pacificazione?», ha richiamato alla memoria di tutti i partecipanti che il termine fece la sua prima comparsa durante la guerra del Vietnam, che gli americani intendevano ‘pacificare’.
Il termine, infatti, racchiude in sé la definizione di differenti e variegati sistemi di riduzione alla ragione (propria del capitalismo e dell’imperialismo) di tutti i possibili avversari.

Dall’Azerbaijan al Nord Europa, tanto per seguire il percorso del gasdotto Trans-Adriatico (in inglese Trans-Adriatic Pipeline da cui l’acronimo TAP) le forme della pacificazione possono variare enormemente per modalità, intensità e violenza. Dalle librerie e dalle case distrutte dalle ruspe quando in esse siano anche solo stati presentati da parte dell’opposizione libri o autori invisi al regime di Ilham Aliyev, autentico presidente padrone dello Stato, al regime dittatoriale di Erdogan in Turchia e alle manganellate democraticamente distribuite nel Salento contro i manifestanti, su su fino all’arrivo del gas previsto in Germania la repressione poliziesca e militare può assumere, nonostante tutto, un diverso grado di intensità, comunque sempre insopportabile.

Ma d’altra parte anche nella patria della democrazia borghese, il Regno Unito, mica si scherza, come hanno dimostrato con filmati e descrizioni più che dettagliate Kevin Blowe del Network for Police Monitoring, con la sua relazione su «Lezioni dalla criminalizzazione dell’opposizione al fracking nel Regno Unito», e William Jackson, della John Moore University di Liverpool, parlando su tema «Rendere sicura l’estrazione: l’uso dell’ordine pubblico per il fracking nel Regno Unito».
Che in qualche modo si ricollegavano a quanto già detto da Mark Neocleous quando non ha mancato di ricordare come nella stessa Gran Bretagna negli ultimi anni ci siano stati 1600 decessi tra coloro che si trovavano in una condizione di detenzione preventiva.

Se l’avvocato Elena Papadia e Xenia Chiaramonte dell’Università di Bologna hanno dettagliatamente descritto le proporzioni e le forme delle repressione nei confronti dei difensori della terra sia nel Salento che in Val di Susa, rimane sempre l’America Latina l’area occidentale in cui si sviluppa maggiormente la violenza repressiva nei confronti dei movimenti di resistenza, soprattutto indigeni. Infatti sia Kornblihtt che il peruviano David Velazco, avvocato e membro dell’Osservatorio dei conflitti minerari per l’America Latina, hanno sottolineato come nella scala repressiva siano spesso i popoli indigeni a pagare il prezzo più alto della repressione statale. Così Maria del Carmen Verdù, del Coordinamento contro la repressione poliziesca e istituzionale in Argentina, sottolineando la continuità della tradizione repressiva nei confronti dei popoli indigeni (ad esempio dei Mapuche), ha riportato l’attenzione sul fatto che nell’Argentina ‘democratica’ e post-dittatoriale dagli anni Ottanta ad oggi ci siano stai almeno duecento desaparecidos e migliaia di morti ammazzati durante le operazioni di repressione messe in atto dalla polizia e dalle forze paramilitari nei confronti delle varie resistenze sviluppatesi nel paese sia sul piano economico che su quello ambientale e territoriale.

Ci sono poi territori in cui l’estrattivismo, inteso come messa a resa di un territorio e il suo sfruttamento non soltanto minerario o agricolo, e pacificazione si fondono in un tutt’uno come nel caso della Palestina e della striscia di Gaza in particolare. Un territorio in cui il vero e proprio furto dell’acqua messo in atto da parte israeliana nei confronti dei Palestinesi, come ha dimostrato Mia Tamarin, dell’Università del Kent, con la sua relazione su «La mercificazione dell’acqua come processo di pacificazione del conflitto. Il caso israelo-palestinese», si accompagna ad uno sfruttamento del territorio e dei suoi abitanti come autentico laboratorio di prova per armi e nuove tecnologie di controllo sviluppate non soltanto in Israele, ma negli Stati Uniti e nel resto del mondo occidentale, come ha sostenuto Rhys Machold, della Università di Glasgow, nel suo intervento sul tema «La globalizzazione della conoscenza delle forze di polizia». Contribuendo così a chiarire una volta per tutte le ragioni del silenzio degli stati ‘democratici’ nei confronti della sanguinosa repressione messa in atto dalle forze militari e poliziesche israeliane delle marce del rientro messe in atto quest’anno dai Palestinesi. Una sorta di autentico showroom a cielo aperto destinato a pubblicizzare le più moderne tecniche repressive.

Si può poi trarre valore dalla pacificazione in sé? A quanto pare sì, se è vero, e lo è certamente, ciò che ha affermato Ben Hayes, del Transanational Institute di Londra, con la sua presentazione del progetto dello stesso istituto londinese sui temi della guerra e della pacificazione, che ha sostenuto come le attuali politiche di sicurezza costituiscano non solo uno stato di guerra permanente che spinge verso forme sempre più autoritarie e totalitarie di governo, ma anche una vera e propria nuova corsa agli armamenti in cui le aziende sono stimolate a proporre nuove armi, nuovi sistemi di intelligence e raccolta dati e nuove tecniche di controllo dell’ordine pubblico e del territorio.

Ma non solo poiché anche Mark Neoucleous e Tia Dafnos, dell’Università di New Brusnwick in Canada, hanno ulteriormente sottolineato come la frammistione tra forze dell’ordine istituzionali e agenzie di sicurezza private porti sempre più in direzione di un autentico business della repressione. In una sorta di circolo infernale in cui la necessità di estrarre valore dai territori richiede una politica della sicurezza che a sua volta è principalmente organizzata per produrre valore proprio in quanto tale. Cosa che ci narra molto più di quanto di solito pensi sull’attuale crisi del modello capitalistico di sviluppo in Occidente e del suo processo di accumulazione. Una sorta di estrazione di plusvalore dagli agenti della repressione che ricorda molto da vicino il popolare detto del “cavar sangue dalle rape”.

Operazione che, soprattutto negli Stati Uniti, come ha rilevato Brendan McQuade della Cortland State University di New York (SUNY) con la sua esposizione sul tema «La nuova COINTELPRO1 e i moderni Pinkertons. L’azione politica della polizia negli Stati Uniti», ha portato a forme sempre più invasive di controllo sociale e del territorio. Tanto da dar vita, in alcuni casi a comunità che si armano per difendersi dall’eccesso di attenzioni dello Stato e delle agenzie, anche private, di sicurezza e intelligence. Utilizzando probabilmente in questo senso il secondo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti2 che, a giudizio di chi scrive, troppo spesso e soprattutto da una sinistra scarnificata di tutti i suoi contenuti antagonistici, è visto soltanto come espressione della violenza privata e degli interessi dell’industria americana delle armi. Dimenticando che esso, approvato nel 1791, si ricollegava direttamente a quella parte della Dichiarazione di Indipendenza del 1776 che recita così: «Noi riteniamo che sono per se stesse evidenti queste verità: che tutti gli uomini sono creati eguali; che essi sono dal Creatore dotati di certi inalienabili diritti, che tra questi diritti sono la Vita, la Libertà, e il perseguimento della Felicità; che per garantire questi diritti sono istituiti tra gli uomini governi che derivano i loro giusti poteri dal consenso dei governati; che ogni qualvolta una qualsiasi forma di governo tende a negare questi fini, il popolo ha diritto di mutarla o abolirla e di istituire un nuovo governo fondato su tali principi e di organizzarne i poteri nella forma che sembri al popolo meglio atta a procurare la sua Sicurezza e la sua Felicità».

Ma è ancora una volta proprio in America Latina che il collegamento tra forze di polizia statali e agenzie private ha portato a situazioni in cui le stesse forze di polizia istituzionali firmano contratti privati con le imprese di cui dovranno poi proteggere gli interessi, gli investimenti e le proprietà, mentre sempre più spesso le agenzie private di sicurezza legate alle imprese che si occupano di idrocarburi e di estrazione mineraria partecipano direttamente alle operazioni di polizia nei territori interessati dalle proteste, dalle rivendicazioni e dalle lotte dei lavoratori e delle popolazioni indigene. In particolare in Perù, come ha sostenuto David Velazco con la sua relazione su «Criminalizzazione e repressione delle proteste in Perù»; che ha anche ricordato che l’uso del termine pacificazione fu usato per la prima volta nel suo paese per definire a suo tempo l’azione di governo nei confronti di “Sendero Luminoso”.

(Fine della prima parte – continua giovedì prossimo 18 ottobre)


  1. COINTELPRO sta per Counter Intelligence Program, programma che dal 1956 fino al 1971 il Federal Bureau of Investigation (FBI) ha portato avanti nel settore dell’infiltrazione e del controspionaggio  

  2. «Essendo necessaria, alla sicurezza di uno Stato libero, una milizia ben regolamentata, il diritto dei cittadini di detenere e portare armi non potrà essere infranto»  

]]>
Fuori dal tunnel: cattivi e primitivi https://www.carmillaonline.com/2016/11/09/dal-tunnel-cattivi-primitivi/ Wed, 09 Nov 2016 22:00:39 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=34410 di Sandro Moiso

venaus-aggressivi Marco Aime, Fuori dal tunnel. Viaggio antropologico nella val di Susa, Meltemi editore 2016, pp.300, € 22,00

Alessandro Senaldi, Cattivi e primitivi. Il movimento No Tav tra discorso pubblico, controllo e pratiche di sottrazione, Ombre Corte 2016, pp.214, € 18,00

Come scriveva Jean Baudrillard nel 2002, (Jean Baudrillard, La violenza del globale in Power Inferno, Raffaello Cortina Editore 2003, pag. 63) a dare scacco al sistema nel mondo attuale potranno essere soltanto specifiche particolarità che non costituiscono obbligatoriamente un’alternativa, ma che appartengono sicuramente ad un altro ordine. Si trattava, [...]]]> di Sandro Moiso

venaus-aggressivi Marco Aime, Fuori dal tunnel. Viaggio antropologico nella val di Susa, Meltemi editore 2016, pp.300, € 22,00

Alessandro Senaldi, Cattivi e primitivi. Il movimento No Tav tra discorso pubblico, controllo e pratiche di sottrazione, Ombre Corte 2016, pp.214, € 18,00

Come scriveva Jean Baudrillard nel 2002, (Jean Baudrillard, La violenza del globale in Power Inferno, Raffaello Cortina Editore 2003, pag. 63) a dare scacco al sistema nel mondo attuale potranno essere soltanto specifiche particolarità che non costituiscono obbligatoriamente un’alternativa, ma che appartengono sicuramente ad un altro ordine. Si trattava, per il filosofo, sociologo e semiologo francese “di uno scontro quasi antropologico tra una cultura universale indifferenziata e tutto ciò che, in qualsiasi campo, conserva qualche tratto di un’alterità irriducibile”.

Anche se queste parole erano state scritte a seguito di una riflessione sull’allarme suscitato dall’attacco alle Twin Towers nel settembre del 2001, col passare del tempo è diventato sempre più evidente che le interpretazioni dei conflitti sociali e di classe date nel corso del ‘900 non sono più in grado di per sé di spiegare le dinamiche sottostanti ai movimenti reali che si oppongono all’attuale modo di produzione e di dominio e, ancor meno, di determinarne tattiche e strategie.

E’ un intero sistema di categorie e di ideologie che è in qualche modo fallito.
Le promesse implicite nel modello di sviluppo proposto dal capitalismo, in tutte le sue varianti occidentali e asiatiche oppure liberali o stataliste, hanno dimostrato la labilità e la fallacia dei loro presupposti, finendo però col riversare il proprio fallimento anche su tutte quelle ideologie che pur facendo del capitalismo l’obiettivo delle proprie critiche hanno comunque finito con il non abbandonarne i presupposti paradigmatici e continuato a condividerne nell’immaginario lo stesso territorio politico. Inclusa gran parte del marxismo, sia eretico che ortodosso.

Lo sviluppo, l’ampliamento della produzione industriale, il benessere legato al consumo di massa, sia di servizi che di beni materiali o immateriali, non solo non sono stati alla reale portata di tutti, ma anche là dove, pur in forme diverse, più ci si è avvicinati a tale obiettivo (Europa, USA, Giappone), tali valori paradigmatici e condivisi hanno mostrato la loro fragilità temporale, la loro vacuità e la loro sostanziale dannosità, ideologica e ambientale, trasformando un sorriso di rassegnata soddisfazione nel sogghigno squarciato del Joker.

In altre parole: i presupposti dell’espansione capitalistica e delle sue meraviglie sono venuti a mancare o, per lo meno, hanno mostrato non solo come queste fossero destinate ad una cerchia sempre più ristretta di investitori/sfruttatori, ma anche come tale gioco al rialzo (più investimenti, più produzione, più ricchezza per tutti, più investimenti, etc.) non fosse altro che un mantra ipnotico e devastante per la maggioranza della specie umana, sia in termini di realizzazione individuale che sociale.

Insomma se la visione socialista del mondo, sia nella sua variante socialdemocratica e riformista che in quella rivoluzionaria, è in qualche modo superata, lo è non perché è fallito il socialismo reale o perché una miriade di partiti e formazioni di sinistra ed ultra-sinistra è stata progressivamente sconfitta e/o riassorbita dall’avversario, ma piuttosto per il fatto che il loro presupposto storico-politico non si discostava troppo da quell’idea di progresso, di organizzazione politica partitica e di sviluppo che condivideva con il nemico a partire fin dall’Illuminsimo e dalle due grandi rivoluzioni del XVIII: quella francese e quella industriale. Progresso e sviluppo senza fine e al di là di ogni confine.

Che con la globalizzazione economico-finanziaria sembravano aver raggiunto il loro apice, ma che, con le attuali vittorie, per non dire trionfi, dei cosiddetti populismi dalla Brexit a Trump,1 vedono invece detonare tutte le loro contraddizioni in maniera asimmetrica e nel cuore del sistema. Movimenti sismici che sembrano trasmettere onde telluriche sempre più vicine e apparentemente imprevedibili, destinate a frantumare le certezze sia dei sostenitori dell’espansione basata sulla speculazione finanziaria e bancaria (da Renzi alla Clinton2) che di un antagonismo sociale talvolta ancora radicato in un immaginario politico che, come nel caso di “Born In The USA” di Springsteen per la corsa alla presidenza degli Stati Uniti appena conclusasi, giova ormai di più alla causa della conservazione che a quella del superamento dell’attuale modo di produzione.

Per tutti questi motivi l’alterità irriducibile di un movimento come quello No Tav sviluppatosi nella e a partire dalla val di Susa, ormai da più di 25 anni, non può essere facilmente irreggimentata nelle interpretazioni classiche della sociologia e delle ideologie politiche. Infatti, anche se la componente anti-capitalista e ambientalista è sicuramente forte, è altrettanto vero che molti altri aspetti (locali, individuali, storici, geografici e culturali solo per ricordarne alcuni) concorrono a determinarne le caratteristiche e la combattività.

Non a caso due delle più recenti ed interessanti opere uscite nel corso degli ultimi mesi sono state pubblicate una, quella di Meltemi, nella collana Biblioteca/Antropologia e l’altra, quella di Ombre Corte, nella nuova collana Etnografie. Scelte non tanto determinate dagli editori quanto dalle metodologie utilizzate e rivendicate dai due autori per analizzare la forza e la capacità di resistenza, sviluppo ed offensiva dimostrate dal tale movimento nel corso degli anni.

Entrambi i testi si pongono, infatti, in una dimensione altra rispetto alla semplice rievocazione dei fatti e delle lotte oppure della ricostruzione delle vicende politico-economiche che hanno portato alla scelta e all’autentica truffa della realizzazione di una linea ferroviaria ad alta velocità per il trasporto delle merci che proprio nella val di Susa doveva transitare.
Non siamo di fronte ad una semplice, per quanto ricca, oral history3 né, tanto meno, ad una appassionante ricostruzione della dialettica conflittuale venuta a realizzarsi tra lotte del Movimento e decisioni mafiose, imprenditoriali e governative.4

Una delle principali caratteristiche di tale movimento è infatti quella che vede, al di là delle simpatie e delle celebrazioni nei suoi confronti manifestatesi sia dentro che fuori i confini nazionali, il forte radicamento sociale e territoriale dei suoi militanti e delle loro ragioni porsi ben al di là dei normali limiti politici, sindacali, generazionali e di classe che hanno spesso determinato le caratteristiche dei movimenti del ’900.

Un movimento che non solo, come tutti i grandi rivolgimenti sociali della storia, ha prodotto una nuova cultura, nuovi valori, una nuova visione dei rapporti umani e politici, una nuova concezione di quelle che dovrebbero essere le scelte ambientali ed economiche, ma anche, e soprattutto, una irriducibile volontà di resistere per costruire una differente comunità umana.
Una comunità che oltre a riprendersi lo spazio intende, come afferma Wu Ming 1 in una delle più felici intuizioni del suo ultimo libro, riprendersi il tempo. Non poi, non dopo la fine della lotta e la vittoria, ma subito. Qui, ora e adesso. Dove spazio e tempo coincidono, come la fisica contemporanea ci ha da tempo avvisati.

fuori-dal-tunnel Come questo sia diventato possibile, nel corso dei venticinque anni di lotta in cui tale movimento si è dispiegato, non può essere soltanto una vecchia lettura politica a spiegarcelo; così l’antropologo Marco Aime, docente di Antropologia culturale presso l’Università di Genova, si sforza di penetrare il segreto di tale efficace resistenza creativa attraverso interviste e testimonianze raccolte sul campo che, più che elencare ancora una volta eventi e ragioni che hanno accompagnato e accompagnano tutt’ora la lotta, sono destinate a rivelarne l’intrinseca esperienza umana e comunitaria. Con i propri riti, le proprie narrazioni e le proprie riflessioni, individuali e collettive.

Scrive Aime: “A differenza dei movimenti di protesta del recente passato, quelli attuali non si costituiscono nella classica forma di partito, né cercano alleanze con i partiti esistenti, ma soprattutto, nella maggior parte dei casi, vengono avversati dai partiti istituzionali, tanto di destra quanto di sinistra. E’ il caso del No-Tav, ma anche di altre realtà antagoniste simili.
Se in passato un movimento di protesta veniva in qualche modo accolto da una parte politica e le sue rivendicazioni trovavano una sponda istituzionale, oggi non è così o almeno non lo è nella stessa misura […] Destra e sinistra, conservatorismo e progressismo, sono divenuti leggere sfumature di un modello pressoché consolidato, fondato sul profitto, che richiede un consenso generale di chi governa e in cui etica, ideali e valori non trovano più spazio. Come non trova più spazio riconosciuto la communitas […] La communitas in quanto anti-struttura ha il fondamentale compito di fungere da contrappeso al modello dominante. Quando tale contrappeso viene a mancare, il rischio è un senso di soffocamento, di oppressione tipico di una realtà mono-dimensionale, che progressivamente si chiude su se stessa […]Il caso della valle di Susa diventa allora paradigmatico di una comunità che propone un’alternativa e che la difende per oltre venticinque anni contro un fronte istituzionale quasi unanime formato da forze politiche tradizionalmente rivali tra di loro, ma accomunate da una identica visione che privilegia lo “sviluppo” e l’economia letti in un’ottica macro rispetto alle esigenze locali. Visto in una cornice più ampia il movimento no-tav esprime un disagio piuttosto diffuso nei confronti di un modello economico sempre più dominato da interessi ristretti, da una sempre minore redistribuzione e da un sempre maggiore attacco all’ambiente. Un disagio che il movimento è riuscito a organizzare in protesta e in proposta.
” (pp. 285-290)

Ecco allora che il titolo del testo, Fuori dal tunnel, ci dice molto, perché qui non si tratta più di analizzare ciò che accade nello scavo e per la realizzazione della “Grande opera di importanza strategica” ma, piuttosto, la proposta di uscita dal tunnel senza sbocco in cui l’attuale modo di produzione si è infilato, abbagliato soltanto dalle logiche del profitto e del dominio incontrastato.
Fuori dal tunnel , però, anche per l’attenzione che la vita comunitaria del Movimento merita, così come la meritano le riflessioni dei suoi militanti.

Io sono passato dal considerare il nemico e il combattere noi contro di loro a combattere me stesso, sono o il nemico, perché con le mie scelte e abitudini ho contribuito a creare il tessuto sociale per questo mostro che è nato e vive di vita propria nella totale indifferenza delle popolazioni, a causa di milioni di persone che hanno comportamenti che favoreggiano questa cosa5

Più volte, nelle conversazioni con attivisti No-Tav delle manifestazioni, mi sono sentito dire rasi del tipo: «In fondo ci si diverte anche». E questa è un’altra cifra caratteristica di questo movimento ed è un ulteriore dato che conferma la dimensione di communitas, perché l’ironia è una delle forme di comunicazione tipiche delle antistrutture. Gli scherzi, le battute, il sarcasmo hanno l’effetto di sovvertire la struttura dominante delle idee. «Il riso e gli scherzi, attaccando la classificazione e la gerarchia, sono ovviamente simboli atti a esprimere la comunità nel senso di rapporti sociali non gerarchizzati e indifferenziati» scrive Mary Douglas.6 Insomma, il burlone alleggerisce per tutti l’oppressività della realtà sociale, facendo piazza pulita del formalismo in generale.” ( pag. 157)

Come anche la lotta condotta da alcuni militanti contro i provvedimenti disciplinari presi nei loro confronti dalla Procura di Torino, e la vicenda di Nicoletta Dosio in particolare, ben testimoniano.
Rimane comunque il problema del tentativo in atto da parte delle istituzioni statali, forse unico nella storia delle lotte degli ultimi decenni in Italia, di criminalizzare un’intera comunità: quella della bassa val di Susa.

Osserva ancora Aime: ”Ogni conflitto nasce da una relazione ed è qui che nasce il pensiero relativista; dalla possibilità di conoscere ed eventualmente riconoscere la differenza. Laddove questo conflitto viene impedito o negato ci troviamo di fronte all’imposizione di un’unica verità dogmatica, che non prevede alternative, né spazi di traducibilità.
La mancanza di alternative possibili o ipotizzabili è a un tempo causa ed effetto di un’operazione di chiusura. Se ciò che pensiamo è il vero e l’assoluto, allora non esiste possibilità di declinarlo in altri modi, non sono possibili altri mondi, altre realtà. Pensando in questo modo, ci isoliamo da, impedendo l’accesso a chiunque sia portatore di cambiamento. Se poi quel qualcuno è tra noi, va espulso o messo a tacere.
” (pag.287)

cattivi-e-primitivi Proprio di questo aspetto repressivo di espulsione, reclusione e silenziamento del Movimento No Tav e dei suoi militanti si occupa invece il testo di Alessandro Senaldi edito da Ombre Corte. Ricercatore indipendente nel campo della sociologia della devianza e del mutamento sociale, impegnato nello studio criminologico dei movimenti sociali, l’autore, nell’affermare l’importanza scientifica del Movimento No Tav, dichiara che: “Il movimento in questione trova la sua particolarità nella sua storia e nei risultati raggiunti. Nato come movimento territoriale all’inizio degli anni novanta del secolo scorso, ha saputo cambiare pelle con il mutare del tempo, adattandosi alle diverse fasi che la storia gli imponeva e bloccando, di fatto, la realizzazione dell’opera. Dopo venticinque anni dalla sua «fondazione» il dato che ci viene consegnato è quello di un movimento ancora in salute, che non ha pari nel nostro paese per costanza e quotidianità di iniziativa. Proprio la sua intergenerazionalità lo rende particolarmente interessante, in quanto, col tempo, ha assunto un ruolo totalizzante nel contesto valsusino, implementando una propria pedagogia, dei propri miti, una propria storia, fino ad arrivare a vere e proprie pratiche mortuarie. Un movimento che orienta e accudisce le giovani generazioni, le fa crescere ed infine le conduce fino alla propria uscita dalla scena. Un movimento che si inscrive e sovrappone all’esperienza esistenziale dei singoli, arricchendola e fornendogli una nuova dimensione ontologica.” (pp. 7-8)

Per questi motivi si rivela particolarmente utile l’uso del metodo etnografico, proprio per analizzare sia le strategie e i discorsi messi in atto dalla compagine istituzionale per realizzare l’opera e fronteggiare il movimento che vi si oppone sia quelle messe in atto dalla controparte.
L’etnografia per Senaldi è una necessità: “La scelta del metodo etnografico è stata una scelta «dovuta». Quest’ultimo ha infatti peculiarità proprie, che ben si prestano allo studio dei diversi temi affrontati nella ricerca. Inoltre consente di muoversi con una certa libertà all’interno delle maglie strette del paradigma scientifico, in quanto respinge la formulazione rigida e preconcetta di teorie e fa procedere queste ultime di pari passo con la ricerca; favorisce peraltro l’impiego di un approccio trans-disciplinare che abbatte i confini tra aree di conoscenza.” (pp. 8-9)

Scelta che deriva oltre che dal percorso biografico e dalla militanza pluriennale all’interno del movimento No Tav del ricercatore, anche dal fatto che, come già affermava Danilo Montaldi,7 nel metodo etnografico “è possibile ritrovare espliciti fini «etico-politici». Questo perché «gli angoli visuali incidono in modo detrminante sulla rappresentazione, sulla narrazione e sulla creazione stessa della realtà».8 Questa considerazione è ben riferibile al caso della vicenda Tav, in cui vi sono almeno due divisioni diverse della «realtà dei fatti»: quella narrata dai diversi livelli di potere e quella del movimento che si oppone alla realizzazione dell’opera. La scelta metodologica è quindi determinata dalla necessità di fare emergere il punto di vista del movimento No Tav, le sue pratiche, le sue rappresentazioni e narrazioni; oltre che dall’occasione di «documentare l’esperienza di soggetti sociali trascurati dalla storiografia e dalla ricerca sociale».9 In sostanza «dar voce a chi voce non ha»”. (pag. 9)

Anche nel caso del testo edito da Ombre Corte, il titolo è rivelatore: Cattivi e primitivi. Due termini che riassumono inequivocabilmente l’immagine che i fautori delle Grandi Opere vogliono dare di coloro che a tali opere si oppongono.
Cattivi perché dannosi per gli interessi della Nazione e primitivi perché inadeguati e impreparati per le meraviglie della modernità. Tutto sommato un giudizio che accomuna i valsusini, ma anche tutta la storia dei movimenti di classe e anti-sistemici più radicali, a tutti quei popoli espulsi dalla Storia con la violenza della modernità.

La Storia, lo si sa, la scrivono i “buoni” e i “progressisti”; gli altri resteranno sempre tra i popoli senza storia o tra i vinti perché cattivi o inutili. Ma ciò che ha funzionato per secoli non è detto che debba funzionare obbligatoriamente ancora in futuro. Il mantra del cambiamento istituzionale, dal “Sì” al Referenduma alla TAV, ormai traballa insieme a tutto il sistema che li ha ideati e non ancora prodotti, mentre la partita è ancora tutta da giocare. Però su un campo di gioco e con regole totalmente differenti, come potrebbero dire i killer di Pulp Fiction ideati da Quentin Tarantino.

La ricerca di Senaldi si riferisce, principalmente, ad un periodo di osservazione e partecipazione ad iniziative, eventi, vita quotidiana, lavori e pratiche giornaliere riconducibile all’estate del 2013.
La parte centrale del mio lavoro è rappresentato da interviste non strutturate. Più precisamente ho raccolto delle «interviste in profondità» che cercavano di indagare la ricostruzione che gli attivisti danno dei dispositivi di controllo implementati, le dimensioni motivazionali e i mutamenti biografici e relazionali delle persone che partecipano alla lotta.” (pp. 9-10)

Grazie a tale metodo, ne deriva un coro di voci anonime, ma autentiche che delineano collettivamente le scelte, i discorsi e le strategie del movimento nel suo insieme. Fungendo così da perfetto contraltare al discorso e alle pratiche repressive istituzionali.
Non ci sono categorie di No Tav che non siano soggetti a tali pratiche poliziesche, e non si tratta di un provvedimento riguardante solo gli attivisti più duri. Durante la mia permanenza ho avuto modo di dialogare con alcuni attivisti appartenenti al gruppo «Cattolici della Valle», che, ridendo, mi hanno fatto notare come, essendo quelli che visitano più spesso il cantiere, andando a pregare lì ogni mattina, sono conseguentemente quelli più schedati e fermati dalle FF.OO. Qui […] pur essendo mantenute – soprattutto dal punto di vista pubblico – le pratiche discorsive di discernimento tra «buoni» e «cattivi», si assiste tuttavia a un evidente cortocircuito nel rapporto tra queste ultime e le pratiche del controllo poliziesco. Sarebbe a dirsi che nell’attacco a tutto campo delle tattiche antagoniste in questione, ritroviamo nuovamente la volontà di applicare una reductio ad unum del controllo ed estendere così lo status di non cittadini.” (pag.127)

Si dimostra in tal modo perché, così come gli antropologi che compiono ricerche sul campo in ambienti lontani dalle pratiche del mondo civilizzato oppure da quest’ultimo relegati al di fuori della legalità e del suo riconoscimento giuridico devono fare, oggi chi si occupa di lotte realmente antagoniste è altrettanto costretto a studiare il suo soggetto come “altro” dalla società che lo ha prodotto e che pur combatte, riportando il discorso su quella irriducibile, e andrebbe aggiunto inevitabile, alterità di cui si è parlato all’inizio di questa lunga recensione.

Alterità che, nonostante gli sforzi dello Stato e dei suoi galoppini mediatici ed ideologici, non può e non vuole essere relegata in una sorta di “riserva indiana”, come forse anche qualche benpensante democratico vorrebbe intendere la lotta No Tav nel suo contesto. Anche perché, nonostante gli sforzi imponenti, “Anche sul versante giuridico, come su tutti gli altri livelli, il dispositivo sembra però in affanno. La sensazione è che la compagine istituzionale stia, rispetto ai soli confini geografici della Valle, tentando l’applicazione casuale dei dispositivi di controllo disponibili, attraverso un procedimento che potremmo definire di «trial and error». Un procedimento per il quale – anche a seconda delle fasi evolutive della lotta – gli attori preposti al governo della popolazione e al suo controllo affiancano ai dispositivi volti al disciplinamento (accumulando saper sulla società) quelli miranti alla neutralizzazione e all’espulsione dei non cittadini, insieme a tattiche di polizia e giudiziarie che puntano invece alla deterrenza. Questo affanno, questo tentativo di usare tutti i mezzi possibili dimostra la difficoltà che la compagine istituzionale avverte nel controllare e leggere la conflittualità sociale.” (pag. 160) Che, aggiungerei, non vuole e non sa più leggere finendo col credere soltanto più nel proprio discorso: farsesco e fuorviante allo stesso tempo.

contrees Due ottimi libri, interessanti e documentatissimi, per comprendere e andare oltre le letture ormai “istituzionalizzate” di uno dei movimenti più vivaci ed innovativi della realtà europea contemporanea. Mi permetto però, e soltanto a questo punto, di suggerire che, per capire a fondo le trasformazioni in atto nelle lotte più significative, sarebbe necessario anche la traduzione in lingua italiana dell’inchiesta parallela condotta attraverso cinquanta interviste a militanti NO Tav italiani e ad altri cinquanta militanti francesi della Zad di Notre-Dame-des-Landes, prodotta ed edita dalle compagne e dai compagni del Colletivo Mauvaise Troupe: Contrées. Histoire croisées dela zad et de la lutte No TAV dans la Val Susa, Éditions de l’éclat 2016, pp.412


  1. Si veda in proposito il mio https://www.carmillaonline.com/2016/06/24/outsiders-vs-establishment/  

  2. Sulla scarsa credibilità elettorale e sull’inevitabile sconfitta della candidata democratica si veda ancora il mio https://www.carmillaonline.com/2016/05/02/donne-sui-tre-lati-della-barricata/  

  3. Come quella già efficacemente prodotta a cura del Centro sociale Askatasuna: A sarà düra! Storie di vita e di militanza no tav, DeriveApprodi 2013  

  4. Come nel caso dell’ultimo testo di Wu Ming 1, Un viaggio che non promettiamo breve, Einaudi Stile Libero 2016  

  5. cit . in Aime, pp. 205-206  

  6. M. Douglas, Antropologia e simbolismo, il Mulino, Bologna 1985, pp. 76, 88  

  7. D. Montaldi, Militanti politici di base, Einaudi 1971  

  8. Gianfranco Carofiglio, L’arte del dubbio, Sellerio Editore 2007, pag. 15  

  9. Alessandro Dal Lago e Rocco De Biasi, Un certo sguardo. Introduzione all’etnografia sociale, Laterza 2002, pag.XXXII  

]]>