Confederalismo democratico – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 14 Sep 2025 22:01:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Ancora sulla banalità del male https://www.carmillaonline.com/2020/12/02/ancora-sulla-banalita-del-male/ Wed, 02 Dec 2020 22:00:25 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=63698 di Sandro Moiso

Sara Montinaro, Daeş. Viaggio nella banalità del male, Meltemi editore, Milano 2020, pp. 160, 14,00 euro

Sara Montinaro, laureata in Giurisprudenza e specializzata in violazione dei diritti umani, è stata procuratrice a Parigi presso il Tribunale Permanente dei Popoli sulla Turchia e il popolo curdo, ha collaborato alla realizzazione di diversi progetti nel Rojava (Siria del Nord-Est) e partecipato a numerose missioni umanitarie nei Balcani, in Grecia, in Tunisia, in Cisgiordania-Palestina, in Turchia, nel Kurdistan iracheno e nello stesso Rojava.

E’ stata, probabilmente, questa vasta esperienza pregressa ad averle permesso, nel testo appena pubblicato da Meltemi, di [...]]]> di Sandro Moiso

Sara Montinaro, Daeş. Viaggio nella banalità del male, Meltemi editore, Milano 2020, pp. 160, 14,00 euro

Sara Montinaro, laureata in Giurisprudenza e specializzata in violazione dei diritti umani, è stata procuratrice a Parigi presso il Tribunale Permanente dei Popoli sulla Turchia e il popolo curdo, ha collaborato alla realizzazione di diversi progetti nel Rojava (Siria del Nord-Est) e partecipato a numerose missioni umanitarie nei Balcani, in Grecia, in Tunisia, in Cisgiordania-Palestina, in Turchia, nel Kurdistan iracheno e nello stesso Rojava.

E’ stata, probabilmente, questa vasta esperienza pregressa ad averle permesso, nel testo appena pubblicato da Meltemi, di ripercorrere le tracce di Hannah Arendt nel perseguire, illustrare e portare alla luce quello che l’autrice di origini ebraiche aveva definito, in una delle sue opere più celebri, “la banalità del male”. E Sara ha potuto farlo nei confronti di Daeş e dello Stato Islamico non soltanto grazie alla ricca bibliografia e alla sitografia consultate e citate nell’opera, ma anche, e soprattutto, al rapporto diretto stabilito sul campo, nel corso della primavera e dell’estate 2020, attraverso le sue interviste, tanto con rappresentanti dell’intelligence e combattenti delle forze YPG (Unità di protezione popolare) – YPJ (Unità di difesa delle donne) curde quanto con imam, foreign fighters e donne un tempo, e in alcuni casi ancora attualmente, riconducibili all’ideologia e alle pratiche dell’Isis.

E’ importante poi, dal punto di vista di chi scrive queste brevi note, che a farlo sia stata una donna (in realtà ci sarebbe da dire “ancora una volta una donna”) poiché una parte cospicua del libro è dedicato proprio alle condizioni delle donne dell’Isis, sia che si tratti di volontarie, convertite straniere oppure rapite nel corso delle operazioni di occupazione territoriale. E non sempre questa condizione rinvia ad un modello unico di comportamento, di sottomissione o adattamento alle condizioni imposte dalla pretesa legge islamica imposta dall’organizzazione religiosa, politica e militare riconducibile a Daeş.

L’analisi di Daeş o Isis, qual dir si voglia, richiede però, secondo l’autrice, nuovi schemi interpretativi, capaci di decifrarne la novità e la complessità. Dichiararne la scomparsa, a seguito soltanto della sconfitta militare subita sul campo di battaglia nel 2018, non serve a nulla, anzi rischia di nascondere il fatto concreto della sua riorganizzazione e del suo rafforzamento. Occorre cogliere la sua capacità di penetrazione culturale e ideologica che avviene su più piani e, soprattutto, grazie all’ignoranza dei fattori che lo hanno causato e giustificato agli occhi di tanti diseredati. Nelle metropoli occidentali come nel Medio Oriente e in altre parti del mondo.

L’aspetto religioso, il piano giuridico-politico, la storia e i conflitti interni, le differenze tra le diverse etnie, tribù e minoranze, l’aspetto sociale proprio di questi luoghi e della società tutta (d’altronde 40.000 foreign fighters sono più che sufficienti per dimostrare che si tratta di un fenomeno globale), assieme ai traffici illeciti, alle relazioni con le mafie nostrane e internazionali, intrecciati con le forme di sciovinismo e nazionalismo implementate e alimentate nell’ultimo secolo, sono tutti pezzi di un puzzle e parte integrante di questo grande mosaico. I riferimenti agli intrecci con il regime Baathista di Saddam Hussein, la prigione di Camp Bucca, i collegamenti con i servizi di intelligence di altri paesi sono dati di fatto. Bisogna essere consapevoli, inoltre, che la politica nostrana (dagli armamenti alla politica energetica di idrocarburi, dagli investimenti delle banche italiane alla gestione migratoria, dalla libertà di culto alla costruzione di moschee, e questi sono solo alcuni esempi) ha degli effetti che si riverberano in altri luoghi e su altre popolazioni1.

Perciò, è da queste considerazioni che occorre procedere a ritroso per cogliere tutti gli aspetti di quella che è ancora corretto definire come la banalità del male. Perché Daeş non è un cane nero sbucato dall’Inferno e i suoi militanti ed esponenti e le loro azioni, per quanto efferate, non sono solo il rigurgito di una o più menti malate. Costituiscono invece l’immagine capovolta di una società e di un modo di produzione che della violenza sulle minoranze, i generi, le etnie e i diseredati e della loro completa sopraffazione e sottomissione ha fatto il suo pane quotidiano.

Una modernità che nei peggiori sostenitori di un ritorno a un mitico passato (Erdogan, Turchia e Arabia Saudita) trova i suoi migliori alleati. Ognuno con le sue strategie geo-politiche, economiche e militari. Ognuno coinvolto in una guerra spietata rivolta sia all’interno che all’esterno dei propri confini. Ognuno attento a costruire o rafforzare un proprio domino o Califfato sulle aree di interesse strategico. Sempre più lontane dai confini nazionali, come succede in Libia, Africa sub-sahariana o alcune aree asiatiche.

Una partita in cui la risorsa energetica simbolo dello sviluppo di marca occidentale, il petrolio, riveste comunque una posizione centrale tra gli interessi che la animano, così come ben dimostrano l’interesse dell’Isis e dei suoi alleati tutt’altro che nascosti e i loro traffici milionari attraverso le frontiere. Ma in cui anche i migranti, più che un pericolo come quello sbandierato dai difensori dei confini occidentali, diventano autentica carne da vendere e macellare, in vista di un maggior profitto, nel mercato mondiale della miseria, dell’emarginazione e dello sfruttamento (sia lavorativo che sessuale o militare).

Ma è proprio questa sua nascita dalla modernità, al di là dello sventolamento utopico di un mitico Califfato ispirato ad un passato sempre travisato, a rendere attualmente l’ideologia dell’Isis e la sua pratica così irriducibili alla mera sconfitta militare.
Nell’Isis e nelle sue pratiche organizzative, nella sua violenza sistematica e nelle sue politiche di dominio si rispecchia la “nostra” società egoista, solitaria, sessista, razzista, classista ed escludente. Il mostro, se così vogliamo chiamarlo anche se con un tal genere di definizione si rischia sempre di cadere nella retorica e nelle semplificazioni, l’abbiamo partorito noi. Certo non, o non soltanto, la millenaria, e troppo spesso travisata, tradizione dell’Islam.

Le complesse burocrazie che governano ogni atto e ogni amministrazione territoriale dello Stato islamico, compreso un complesso sistema di welfare, così ben descritte da Sara Montinaro nella prima parte del suo testo, ricordano le burocrazie complesse non soltanto delle dittature ma anche degli stati sedicenti democratici come quello in cui viviamo. L’uso indiscriminato e abile delle risorse della Rete per arruolare, coinvolgere, convincere i futuri adepti di ogni nazionalità e quello dei social di ogni tipo per permettere loro sia di ritrovarsi in una comunità o umma virtuale che di contattarne le strutture clandestine attraverso Face Book, Instagram, Twitter e, oggi, anche TikTok, non rinvia ad altro che all’uso che oggi viene fatto quotidianamente, e con gli stessi obiettivi formali, non solo dai disseminatori di fake news, ma anche da opinionisti, influencer e capi di Stato.

Sono le abitudini a governare il male, non una forma specifica di devianza culturale e soggettiva. E sono spesso i soggetti deboli a cercare un appagamento nell’esercizio di un potere e di una violenza che per un attimo, forse i famosi quindici minuti di cui parlava Andy Warhol, li rende super-uomini oppure super-donne. Pienamente giustificati e motivati nel loro agire meccanico dal potere della norma abitudinaria. Proprio come sostenne Hannah Arendt a proposito dell’imputato e delle sue azioni scellerate durante il processo Eichmann tenutosi a Gerusalemme nel 19612.

Se così non fosse, come spiegare la condizione e le convinzioni delle “spose di Daeş” che l’autrice ha potuto indagare da vicino, all’interno dei campi profughi e di detenzione di Al-Hol e Roj. Condizioni che se da un alto vedono lo sfruttamento sessuale delle donne yazide, letteralmente tratte in schiavitù dall’Isis con l’unico fine di trarre vantaggio dalla vendita e dall’uso dei loro corpi, dall’altra vedono la convinta partecipazione al ruolo di spose dei combattenti e madri dei loro figli di migliaia di donne, spesso straniere. Donne che spesso, come i e le kapò di ogni campo di concentramento che si rispetti, diventano le peggiori aguzzine delle loro simili e, talvolta, anche degli uomini rinchiusi insieme a loro.

Al-Hol è un campo profughi che si trova lungo il confine siriano iracheno tra le montagne calde e steppose del deserto; […] Diviso in otto sezioni, al momento ospita circa 69.000 persone: il 65% sono bambini, il 30% donne e il 5% uomini. Delle otto sezioni, tre sono dedicate a famiglie irachene, quattro ospitano famiglie siriane e euna è un mix tra le due nazionalità. Accanto a queste sezioni vi è l’Annex, che ospita le famiglie [dei combattenti dell’Isis] provenienti da tutto il mondo. Al momento della mia visita nell’Annex si potevano contare cinquantaquattro diverse nazionalità provenienti, per la maggior parte da Europa, Africa (paesi maghrebini), India, Turchia e Russia (in particolar modo dal Kazakistan)3.

E’ considerato uno dei luoghi più pericolosi al mondo come spiega una comandante YPJ che ne supervisiona il servizio di sicurezza.

«Dopo la campagna militare avviata dalla Turchia a Serê Kaniyê, la situazione è peggiorata; come se si fossero risvegliati. Gli omicidi avvengono per lo più nella zona irachena, mentre all’interno dell’Annex bruciano le tende di chi pensano voglia collaborare con noi. […] Nella parte irachena è ancora più complicato. Lì ci sono pochi uomini e hanno paura delle donne. Fanno quello ch edicono loro».
All’interno del campo c’è un problema di sicurezza reale. Queste donne non hanno paura di niente e sono in attesa del ritorno del Califfato. Ne sono convinte e te lo dicono senza alcuna remora […] Le donne straniere, in particolare, sono le più pericolose: con un’istruzione superiore, sono consapevoli del proprio status e dei diritti di cui godono: “Sono una rifugiata di guerra come tutte le altre, quindi devo aver accesso ai miei diritti”, mi diceva Abd Almanya, una donna tedesca tedesca che si trova all’interno del campo. I suoi occhi azzurri e la carnagione chiara non lasciavano spazio a fraintendimenti sulla sua nazionalità: “Ho studiato alla Business School in Germania poi sono venuta qui con mio marito. La Germania che dice di esere un paese democratico, che cosa fa? Non voglio rientrare lì, non potrei seguire il mio credo religioso. Ma sono una rifugiata come tutte le altre e rivendico i miei diritti”.
«Loro arrivano da Hajin e da Baghouz,» mi spiega Amina, la comandante, «mentre chi aveva perso fiducia in Daeş aveva iniziato già ad arrendersi dopo la battaglia di Raqqa, queste sono persone che hanno continuato a combattere fino all’ultimo! Queste sono le più pericolose perché ci credono davvero. Si sono riorganizzate all’interno del campo, proprio come se fossero nel Califfato. C’è la hisbah, la loro polizia religiosa […] I bambini a nove anni sanno come costruire un rudimentale esplosivo utilizzando il materiale che c’è nel campo […] Sono disposte a tutto. Adesso le donne, quelle più carismatiche, passano tenda per tenda, fanno lezione di Corano ai bambini e insegnano loro l’ideologia di Daeş.»4

La questione dell’istruzione rivela poi ancora un altro aspetto, non secondario, degli aderenti e dei combattenti dello Stato islamico, poiché un buon numero di questi ha un livello di formazione scolastica superiore o universitario. Alcuni sono ingegneri, altri medici (cosa che ha permesso il funzionamento degli apparati amministrativi del Califfato) e questo deve suggerire la necessità di una battaglia che non può essere condotta soltanto sul piano militare, ma anche culturale.

Nel corso degli ultimi anni i confini della “Fortezza Europa” ci sono stati raccontati come qualcosa da difendere a tutti i costi, ma ciò che la storia ci narra è che i confini sono limiti dei popoli e l’unica cosa da difendere è l’umanità tutta. E non per una semplice questione di solidarietà, ma per un amore comunitario basato sul principio di coesione, dignità e libertà. L’essere umano è l’animale più debole sulla Terra. E’ l’unico animale che, sin dalla sua nascita, ha bisogno della cura di qualcuno per poter sopravvivere […] Questo ci insegna che siamo in grado di sopravvivere solo in una forma di cooperazione e solidarietà reciproca. In un mondo in cui avanza una politica dell’odio e una politica della barbarie, è arrivato il momento di rimettere al centro l’essere umano in quanto tale e costruire relazioni in cui l’amore diventi uno strumento per resistere a chi ci vuole indifferenti, individualisti e soli 5.

Un bel sogno? Un’utopia? Un mondo in cui le donne possano sfuggire alle logiche del patriarcato e fondare un nuovo modo di intendere i rapporti sociali sta forse già nascendo con il confederalismo democratico del Rojava, utopia concreta che potrebbe contribuire alla sconfitta dell’Isis e del mondo che lo ha reso possibile. Esattamente come ci suggerisce l’autrice di questo agile, coinvolgente e ben documentato saggio.


  1. S. Montinaro, Daeş. Viaggio nella banalità del male, Meltemi editore, Milano 2020, pp. 155-156  

  2. H. Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli Editore, Milano 2001 (prima edizione italiana 1964)  

  3. S. Montinaro, op. cit. p.121  

  4. ibidem, pp.121-123  

  5. ivi, pp. 157-158  

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Un eroe del nostro tempo https://www.carmillaonline.com/2019/10/30/un-eroe-del-nostro-tempo/ Wed, 30 Oct 2019 22:01:29 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=55768 Abdullah Öcalan, Pace e guerra in Kurdistan, pp. 40; Confederalismo democratico, pp. 40; Liberare la vita – La rivoluzione delle donne, pp. 56; La nazione democratica, pp. 64. Ristampa, riveduta e corretta, a cura delle Edizioni Tabor e di UIKI Onlus. Ogni pamphlet è in vendita al prezzo di 2 euro e si può richiedere presso le Edizioni TABOR – www.edizionitabor.it – tabor@autistici.org oppure presso l’Ufficio Informazioni Kurdistan Italia – info.uikionlus@gmail.com

[Domani 1° novembre si terrà a Roma una manifestazione nazionale in difesa e appoggio della lotta e dell’esperimento politico di confederalismo democratico che le donne e gli uomini [...]]]> Abdullah Öcalan, Pace e guerra in Kurdistan, pp. 40; Confederalismo democratico, pp. 40; Liberare la vita – La rivoluzione delle donne, pp. 56; La nazione democratica, pp. 64. Ristampa, riveduta e corretta, a cura delle Edizioni Tabor e di UIKI Onlus. Ogni pamphlet è in vendita al prezzo di 2 euro e si può richiedere presso le Edizioni TABOR – www.edizionitabor.it – tabor@autistici.org oppure presso l’Ufficio Informazioni Kurdistan Italia – info.uikionlus@gmail.com

[Domani 1° novembre si terrà a Roma una manifestazione nazionale in difesa e appoggio della lotta e dell’esperimento politico di confederalismo democratico che le donne e gli uomini del Rojava stanno portando avanti da anni e, in particolare, in questi giorni nel tentativo di contrastare l’azione militare e diplomatica turca e internazionale tesa ad annientare tale importantissima esperienza di auto-organizzazione, pratica militante e di parità di genere.
In tale contesto, però, occorrerebbe evitare il rischio, a livello di informazione di massa, di far passare in secondo piano la figura del leader politico che è stato alla base della revisione di un pensiero e di una pratica politica, quella del PKK (Partîya Karkerén Kurdîstan – Partito dei Lavoratori del Kurdistan) che, nato originariamente sulle basi teoriche del marxismo-leninismo, si è andato progressivamente liberando dai cascami nazionalistici e del centralismo partitico di ispirazione stalinista che lo avevano precedentemente caratterizzato.
Abdullah Öcalan, ormai da più di vent’anni detenuto nella prigione di Imrali, aveva già iniziato fin dagli anni Novanta del secolo scorso un percorso di riflessione teorica che lo aveva portato a prevedere il declino storico del sistema degli Stati-nazione imposto al Medio Oriente dall’eredità coloniale. Nella sua analisi il crollo di tale sistema avrebbe prodotto uno scenario di guerre e di crisi: un caos gravido di potenzialità di liberazione se le forze democratiche e rivoluzionarie fossero state in grado di scendere in campo per costruire un’alternativa. Esattamente quello che sta accadendo oggi in Medio Oriente. La ricchezza del pensiero di Öcalan, oltre che nella lucidità delle previsioni, sta proprio nel fatto che il suo pensiero non è mai stato disgiunto dagli sforzi politici e militari per metterlo in pratica, tanto che il movimento da lui fondato ha costituito e costituisce il retroterra (teorico, organizzativo, militare) su cui ha potuto edificarsi il percorso rivoluzionario oggi in atto in Rojava.
I quattro opuscoli appena ripubblicati, in occasione della Conferenza internazionale tenutasi a Roma il 4, 5 e 6 ottobre di quest’anno, permetteranno a tutti i lettori non solo di scoprire o riscoprire, ma anche di confrontarsi con un pensiero ed una proposta politica estremamente stimolante e destinata ad influire in maniera determinante anche sul pensiero e sull’azione di chi si trova oggi ad agire contro il modo di produzione capitalistico e l’imperialismo militare, estrattivista e finanziario in ogni altro angolo del mondo, Occidente compreso.
Ancor più quindi che per la pratica militante e la coraggiosa resistenza alla detenzione che Abdullah Öcalan ha opposto ad un sistema che intendeva e intende annientarlo e destinarlo, insieme alla lotta del popolo curdo, all’oblio, il militante e leader del PKK è diventato un eroe contemporaneo proprio per la volontà, la capacità e il coraggio di rimettere in discussione quei presupposti teorici su cui ancora troppi movimenti sembrano voler riposare, condannandosi così, questi ultimi, all’impossibilità di interagire in maniera propositiva e vincente con le contraddizioni del presente.
Qui di seguito si pubblica un estratto da uno dei quattro pamphlet, proprio a testimonianza della novità propositiva delle riflessioni del militante curdo, non dimentichiamolo mai, catturato ed imprigionato grazie anche al tradimento nel 1999 del governo italiano, retto all’epoca da Massimo D’Alema. S.M.]

Il mio rapimento fu sicuramente un duro colpo per il PKK, tuttavia non fu la causa del suo cambiamento ideologico e politico. Il PKK era stato concepito come un partito con una struttura gerarchica di tipo statale, simile a quella di altri partiti. Una struttura che era, pero, in contraddizione dialettica con i principi di democrazia, libertà e uguaglianza, una contraddizione di principio per ogni partito, quale che sia la sua filosofia. Sebbene il PKK avesse una visione orientata verso la liberta, non eravamo stati capaci di liberare il nostro pensiero dalle strutture gerarchiche.
Un’altra delle contraddizioni principali stava nella ricerca, da parte del PKK, del potere politico istituzionale, sul quale il partito si era formato e allineato. Una struttura volta al potere istituzionale era pero in conflitto con quella democratizzazione della società alla quale il PKK dichiarava apertamente di aspirare. Gli attivisti di un qualsiasi partito di questo genere tendono a farsi dirigere dai loro superiori piuttosto che dalla società, oppure a scalare la gerarchia per salire di posizione.
Tutte e tre le grandi correnti ideologiche fondate su una concezione emancipatrice della società si trovarono di fronte a questa contraddizione. Quando il socialismo reale e la democrazia sociale, come pure i movimenti di liberazione nazionale, cercarono di formulare concetti di società che andassero oltre il capitalismo, non riuscirono a liberarsi dai legami ideologici del sistema capitalista. Presto divennero loro stessi pilastri del sistema capitalista, per il semplice fatto che cercarono il potere politico istituzionale, piuttosto che focalizzare la loro attenzione sulla democratizzazione della società.
Un’altra grande contraddizione fu il valore dato alla guerra nel pensiero ideologico e politico del PKK. Guerra intesa come continuazione della politica, pur con mezzi diversi, e come strumento strategico.
Ciò era apertamente in contraddizione con la percezione di noi stessi come movimento che combatte per la liberazione della società, in base alla quale l’uso della forza armata e giustificabile solo ai fini dell’autodifesa. Tutto quanto va oltre e in aperto contrasto con l’approccio sociale di tipo emancipatore professato dal PKK, dato che tutti i regimi oppressivi della storia erano stati fondati sulla guerra o avevano strutturato le loro istituzioni secondo una logica bellica.
Il PKK credeva che la lotta armata fosse sufficiente per conquistare quei diritti che erano stati negati ai curdi. Una tale concezione deterministica della guerra non e ne socialista, ne democratica, anche se il PKK si considerava un partito democratico. Un partito veramente socialista non si ispira a strutture o gerarchie di tipo statale, ne aspira al potere politico istituzionale, il quale si fonda sulla protezione dei propri interessi e del proprio potere tramite il ricorso alla guerra.
La presunta sconfitta del PKK, che le autorità turche credevano di aver ottenuto con la mia deportazione in Turchia, divenne piuttosto l’occasione per riesaminare in modo critico e aperto le ragioni che avevano impedito al nostro movimento di liberazione di fare ulteriori progressi. La frattura ideologica e politica vissuta dal PKK trasformò la presunta sconfitta in un punto di passaggio verso nuovi orizzonti.1


  1. A. Öcalan, Pace e guerra in Kurdistan, pp. 25-27  

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Qualcosa di nuovo sul fronte orientale https://www.carmillaonline.com/2017/12/23/qualcosa-sul-fronte-orientale/ Fri, 22 Dec 2017 23:01:51 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=42294 di Franco Foschi

D. Grasso, Hevalen. Perché sono andato a combattere l’Isis in Siria, Alegre Edizioni, 2017, pp. 347,  € 16,00

Scimmiottare un famoso titolo di guerra come “Niente di nuovo sul fronte occidentale” per parlare della guerra rivoluzionaria in Kurdistan non è forse del tutto corretto, perché in quel romanzo lo scopo dichiarato era quello di suscitare l’orrore per la guerra, mentre in questo memoir di Davide Grasso lo scopo è ben diverso: qui si tenta di narrare (ma, come vedremo, questo termine è [...]]]> di Franco Foschi

D. Grasso, Hevalen. Perché sono andato a combattere l’Isis in Siria, Alegre Edizioni, 2017, pp. 347,  16,00

Scimmiottare un famoso titolo di guerra come “Niente di nuovo sul fronte occidentale” per parlare della guerra rivoluzionaria in Kurdistan non è forse del tutto corretto, perché in quel romanzo lo scopo dichiarato era quello di suscitare l’orrore per la guerra, mentre in questo memoir di Davide Grasso lo scopo è ben diverso: qui si tenta di narrare (ma, come vedremo, questo termine è riduttivo) una guerra indispensabile, di documentare ciò che si è scelto sulla propria pelle, cioè la rivoluzione. Che, partita come lotta di liberazione di un popolo, si è trasformata nella lotta di pochi per tutti, nel simbolo della liberazione da tutti gli oppressori, ovunque e comunque, come promuove ogni liberazione di popolo aliena da interessi di Stato.

Davide Grasso un giorno, in una pausa delle attività tra i centri sociali, le attività No Tav e gli aperitivi musicali con gli amici, scopre su di sé il dolore profondo che le varie azioni dei nazisti dell’Isis inducono, il Bataclan su tutte, e decide, anzi viene deciso da una motivazione superiore alla personalità, che deve andare là dove i delinquenti assassini di Daesh nascono, per combatterli. Per ucciderli. È inutile cincischiare, è inutile fare i rivoluzionari da salotto: bisogna andare. E va.

Già il viaggio per la Siria è lungo e pieno di imprevisti, e incerto, e dall’esito per nulla scontato. L’infinito avvicinamento ricorda la lunga, tragica attesa, nutrita di speranze minuscole ed enormi fatiche, de “La tregua” di Primo Levi. Israele, poi la Palestina, poi i primi confini attraversati abusivamente… Tutto sembrerebbe urlare un ‘ma chi te lo fa fare, ma torna a casa’, la logica più ovvia di un percorso così accidentato. Ma Grasso conosce più che bene le sue motivazioni e se i dubbi sono sempre presenti, essendo umano, l’obiettivo è altrettanto solido e chiaro: «Sapevo che ero entrato nelle Ypg perché non avrei potuto vivere oltre, divorato dal crollo della mia autostima se avessi usato tutta la vita parole senza conseguenze». Parole senza conseguenze, che dichiarazione.

«Avevo messo in conto di morire»: quanti, senza essere Che Guevara, sarebbero disposti a sottoscrivere scelte estreme con questa lucidità? Quindi, il lungo viaggio, del quale Grasso non nasconde neppure le insofferenze e i compromessi, come il dover fare un tratto assieme alla croata Natascia, una squilibrata in cerca solo di forti emozioni non di rivoluzione, o il doversi fingere solidali con un paio di odiati Peshmerga pur di ottenere un visto di passaggio.

Nel lungo addio all’occidente Grasso non esita a riflettere sulle sue proprie contraddizioni. Ad esempio l’amore per gli USA di Animal House o di Sunset Boulevard, quando sai che appena arrivato al tuo destino ti trasformerai immediatamente in un nemico dichiarato degli “ameriki”. Oppure allo struggimento per la propria famiglia, che ogni rivoluzionario dovrebbe superare…

Ma infine, dopo mille peripezie, si arriva. Però sei un internazionale, quindi non vali un cazzo, sei un debole, non sai niente, sei molle, sei europeo! Entri così all’Accademia, il luogo dove devi, assolutamente devi, diventare un rivoluzionario, altrimenti di andare a combattere non se ne parla. Anche qui l’attesa è lunga ed estenuante. Preparazione fisica durissima, studio approfondito delle armi – del kalashnikov soprattutto, l’arma che esprime la logica del socialismo – ma principalmente indottrinamento ideologico. E devi, assolutamente devi, imparare il curdo.

Ciò che Grasso capisce e condivide, quel che per un europeo è retorica (“In Kurdistan combattiamo per tutti, per la rivoluzione mondiale”) lì è morale applicata; la pietà è un lusso e ti blocca, la rivoluzione deve andare avanti; non bisogna avere amici personali con legami troppo forti, l’amicizia (hevalen) è con tutti i rivoluzionari, indistintamente; una volta battuti il califfo, la Turchia e il regime siriano, l’odio reciproco tra etnie o religioni o altro si potrà battere solo con l’astensione dall’aggressione militare e dal furto.

È a questo punto che Grasso comincia a ravvisare le affinità tra la resistenza partigiana in Italia e la resistenza curda in Iraq e Siria: ricordando anche come i cosiddetti intellettuali inorridiscano a questi paragoni. Ciò che invece Grasso fatica a capire e non sempre condivide: cerca di far comprendere agli heval che esistono sfumature. Per esempio discute con un compagno il fatto che lui, in Italia, ha manifestato in favore del Rojava… e il compagno inorridisce, nauseato: la rivoluzione si difende con le armi, non con le manifestazioni e tanto meno con le chiacchiere.

Grasso al contrario inorridisce di fronte alla passione per la morte di tutti quei combattenti, che quando sono stanchi e stremati non fanno altro che desiderare il martirio, perché la cosa più importante è avere l’onore di chi rimane… Grasso mantiene dal primo istante all’ultimo della sua esperienza una lucidità estrema, per esempio ammettendo, contro ogni apologia acritica della rivoluzione, che tanti combattenti non sono altro che mitomani o pazzi, ben lontani dall’ideologia, verità che osserva soprattutto negli internazionali. Gustoso e tragico il racconto dell’incontro con un paio di combattenti anarchici e hippies del nord Europa, stanchi di aspettare il loro turno, che protestano in questi, agghiaccianti, termini: «Ma sono tutti diciottenni, perché loro non devono sopravvivere e noi sì?».

Poi viene finalmente accettato dai suoi compagni, indossa la divisa del Ypg e parte per combattere. E qui la narrazione, che è già un vissuto intensissimo, se possibile decolla ancora di più: sparare, lanciare bombe per uccidere, vedere i propri compagni morire di fianco a te. E la paura. E il dubbio. L’insicurezza del proprio corpo, e la malattia. Le persone che si ammirano, le persone che si detestano. E una compagna imbattibile: la paura. E la coscienza, fortissima, che a differenza di loro tu non vuoi morire, non vuoi morire, non vuoi morire!

L’intensità del racconto, in questo settore del libro, è spasmodica. L’ovvia trascrizione delle storie in prima persona, trattandosi di memoir, rende tutto così vero, così vivo, così doloroso, che l’indifferenza o la stanchezza, i due principali rischi del leggere, sono ben lontani. Anzi, in questo racconto assoluto ci sono talmente tante immagini indimenticabili e una trazione e una forza colossale per sopravvivere, e per non abbandonarsi mai alla visione negativa, così antirivoluzionaria, che indimenticabile diventa tutto il libro.

Poi, dopo avere resistito al cupio dissolvi dei giovani guerriglieri, alle bombe e alle mitraglie dell’Isis, alla diarrea, alla diffidenza degli autoctoni, dopo un anno di vita combattente, si torna a casa. Quasi con pudore. Si torna a casa facendo un lungo giro, interminabile, per tutta l’Europa, come se la paura di staccarsi da quello che hai vissuto a favore di un comodo occidente possa rivelarsi una colpa.

Qui il racconto si fa più disteso, e alcuni avvenimenti assurgono al valore di vera gag (combattendo, in mezzo al deserto, in costante pericolo di morte violenta, lontano da tutto e da tutti, immerso nella vera solitudine malinconica del soldato, a un certo punto da una radio parte una canzone di Albano e Romina, e tu piangi, vorresti piangere, ma non puoi, non puoi dimostrare debolezza con gli altri heval…).

E infine, il dubbio della comunicazione: come farò a raccontare tutto questo? Cosa dovrò enfatizzare e cosa tralasciare? Come non sentirsi inutile, in Europa? «Chi avrebbe compreso? Chi avrebbe davvero voluto ascoltare?…la selezione e la distanza della scrittura, della parola, avrebbero creato uno scarto che non avrebbe potuto restituire la presenza di quella guerra. Tacere? No. Sarebbe stato un crimine».

Per fortuna Grasso non ha fatto la scelta di tacere, e ha confezionato uno dei libri più intensi, dolorosi e preziosi di questo periodo. Concludo di nuovo con le sue stesse parole, la maniera migliore per comprendere a chi/cosa ci affidiamo, quando prendiamo in mano questo libro fenomenale e fondamentale: «Era bella, la rivoluzione? Desiderabile? Il Medio Oriente mi faceva paura. Il ricordo dell’indecente romanticismo dei radicali europei mi faceva vomitare. La rivoluzione non era bella. Non avevo visto nulla di meno bello nella mia vita. La rivoluzione era necessaria. Questo continuavo a credere, con tutto me stesso».

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Rojava, il fiore del deserto. Intervista a Davide Grasso, combattente YPG in Siria https://www.carmillaonline.com/2017/09/05/rojava-fiore-nel-deserto-intervista-davide-grasso-combattente-ypg-guerra-siria-rivoluzione/ Mon, 04 Sep 2017 22:00:47 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=40269 di Fabrizio Lorusso

Davide Grasso, militante e blogger trentasettenne, è un combattente italiano che nel 2016 s’è unito alle file delle Unità di Protezione del Popolo (YPG) nel nord della Siria per lottare contro lo Stato Islamico (ISIS) e difendere la rivoluzione del confederalismo democratico che i curdi stanno portando avanti nei tre cantoni (Kobane, Jazira e Afrin) che controllano al confine con la Turchia. Abdullah Öcalan, leader turco del Partito dei Lavoratori Curdi (PKK) in carcere dal 1999, formulò nel 2005 questo modello politico che si basa su autonomia, rispetto [...]]]> di Fabrizio Lorusso

Davide Grasso, militante e blogger trentasettenne, è un combattente italiano che nel 2016 s’è unito alle file delle Unità di Protezione del Popolo (YPG) nel nord della Siria per lottare contro lo Stato Islamico (ISIS) e difendere la rivoluzione del confederalismo democratico che i curdi stanno portando avanti nei tre cantoni (Kobane, Jazira e Afrin) che controllano al confine con la Turchia. Abdullah Öcalan, leader turco del Partito dei Lavoratori Curdi (PKK) in carcere dal 1999, formulò nel 2005 questo modello politico che si basa su autonomia, rispetto interculturale, laicismo e diritto all’autodifesa delle comunità e che, spiega nel suo libro “Confederalismo Democratico” (link), è “aperto verso altri gruppi e fazioni politiche” oltre che “flessibile, multiculturale, antimonopolistico e basato sul consenso”. “Durante la sua lunga incarcerazione sull’isola di İmralı, Öcalan ha approfondito lo studio del pensiero libertario, ecologista e municipalista, confrontandosi in particolare con le teorie dell’anarchico americano Murray Bookchin (1921 – 2006). Ne è derivata una “svolta” teorica del movimento, che oggi non aspira più a costruire uno stato-nazione curdo ma ad allargare zone di autonomia e autogoverno. Il nome dato a quest’impostazione è “confederalismo democratico”. I primi, importanti esperimenti in questo senso non stanno avendo luogo nel Kurdistan “turco” ma nel Kurdistan “siriano”, nel Rojava (che in curdo significa semplicemente Ovest)” (fonte: storify.com Wu Ming Foundation). Dopo la liberazione di Kobane dall’ISIS nel 2015, nel contesto della devastante guerra siriana, l’esperimento rivoluzionario curdo nel nord della Siria è un “fiore del deserto” che ha creato un immaginario potente e ha spinto tanti stranieri a sostenerlo anche con le armi. Di ritorno alla sua natale Torino Davide Grasso traccia un bilancio della sua esperienza personale e della situazione politico-sociale nello scacchiere siriano (Syria Live Map link) [F. L.].

F.L. – Qual è la tua storia? Cosa facevi prima di partire per la Siria?

D.G. – Non ho mai avuto un unico lavoro, sono stato prima studente e poi dottorando. Ho lavorato con cooperative di pubblicità e sociali, e anche con collaborazioni part-time con l’università. Prima di partire ero operatore sociale a Torino con i senzatetto e i disabili e da quando son tornato in questi ultimi mesi mi sono occupato fondamentalmente di fare informazione su quello che accade in Medioriente.

– E come militante?

– Sono sempre stato interessato alle questioni sociali e politiche. Per quanto riguarda l’Italia ho partecipato ai movimenti studenteschi come l’Onda Anomala, al movimento No-Tav e per il Medioriente mi son speso all’università spesso in attività per l’approfondimento della questione palestinese, seminari contro la guerra in Iraq e in Afghanistan, quindi ho sempre agito in questo senso.

– Com’è nata l’esperienza in Siria?

– In realtà è nata già nel 2014 quando ho saputo dei fatti di Sinjar [4 agosto 2014, ISIS fa strage o schiavizza migliaia di yezidi, comunità religiosa curdofona in Iraq, link p. 3-4] di cui oggi è l’esatto anniversario, il terzo. Mentre l’informazione ufficiale dava una certa versione, ho scoperto grazie a un sito di cui anch’io ero redattore, Infoaut, e poi anche a Wu Ming, che c’era una versione diversa dei fatti, cioè chi stava cercando di resistere a questi massacri che compiva l’ISIS nel 2014 in Iraq non era la fazione curda dei peshmerga [militari curdi-iracheni filo USA] sostenuta dal governo italiano. Era invece la fazione di sinistra che il governo considerava terrorista. Quindi da lì in poi ho cominciato a seguire molto più da vicino quel che accadeva in Iraq e Siria, ma in generale, come tutti da quando è emerso il fenomeno dell’ISIS, ho ripreso un interesse che anni prima avevo lasciato un po’ cadere sul Medioriente. Poi tutto è andato in crescendo. Ci son stati i massacri compiuti dal governo turco a Cizre [ai danni dei curdi], di cui ho saputo nel settembre del 2015, e quindi, siccome scadeva il mio contratto di lavoro proprio in quei giorni, ho usato la liquidazione per andare in Turchia e visitare Cizre. Lì ho conosciuto diversi ragazzi che combattevano, alcuni dei quali sono morti poco dopo. Quindi quando son rivenuto in Italia, già ero molto incline a tornare, però, visto che quando son tornato ci son stati gli attentati del Bataclan [13 novembre 2015], quelli sono stati decisivi. Mi son reso conto che a quel punto questa organizzazione [ISIS, DAESH o Stato Islamico] stava letteralmente venendo a cercare strada per strada quelli come me, come noi, cioè un certo tipo di giovani europei, con un certo stile di vita, e quindi ho pensato che fosse necessario tornare lì per fare informazione diversa e per combattere, se ne avessi trovato il coraggio, tra le altre cose.

– Come sei arrivato proprio dai curdi della Siria?

– Sono andato in Iraq. Ho organizzato un reportage per cui c’è stato un autofinanziamento con dei concerti in Italia nell’autunno 2015. Nel febbraio 2016 son partito, son stato prima in Palestina, poi in Iraq, passando per la Giordania. In tutti questi paesi ho raccontato quello che ho visto, ho fatto delle interviste e poi l’obiettivo finale era proprio andare nella Siria del nord. Lì però già i peshmerga iracheni non permettevano ai giornalisti, come accade tuttora, di entrare in Siria, ed è una cosa gravissima. Una lesione gravissima del diritto internazionale d’informazione. Quindi son dovuto entrare con un espediente e, una volta arrivato all’interno, ho preso contatto con la società civile, le istituzioni e i media center del Rojava. Così è nato il contatto, non ne avevo prima di arrivare lì.

– Quando sei entrato in Siria e quanto sei rimasto?

– In Siria sono rimasto sette mesi. Da inizio marzo a inizio ottobre 2016.

– Avevi intenzione di combattere sin dall’inizio?

– Ne avevo l’intenzione, ma non ero certo che avrei trovato il coraggio di farlo. Credevo fosse giusto che qualcuno che non si era trovato per caso al Bataclan o negli altri locali colpiti a Parigi, che sono luoghi e quartieri che comunque io conosco, come molti di noi, cioè qualcuno che non s’era trovato lì disarmato, per terra, a venire trucidato da questi individui, sarebbe dovuto andare lì in prima persona e prendere le armi contro questi individui. Soprattutto per non delegare ai nostri governi di farlo e specialmente a quello francese, in questo caso, perché chiunque abbia un po’ di consapevolezza del mondo di oggi sa che i nostri governi sono i primi responsabili di questa situazione e non possono che peggiorarla con le loro politiche e i loro interessi. Quindi avevo già l’intenzione, solo che fino all’ultimo momento sono stato in bilico perché entrare nella guerra civile siriana come combattente, senza un’esperienza militare, cioè essendo sempre stato un civile, è un atto da cui è facilissimo non tornare indietro per cui diciamo che la decisione definitiva è stata maturata quando ero già in Siria.

– Com’è stato quindi questo passo? Con che persone ti sei relazionato?

– Ho conosciuto persone di vario tipo. Abitanti del Rojava, sia curdi che arabi, che vivono le condizioni della guerra e della rivoluzione, ognuno a modo loro. Ho conosciuto dei militanti politici curdi e degli attivisti internazionali, soprattutto europei, che erano lì per conoscere queste rivoluzione o per sostenerla. Questi sono stati determinanti perché mi hanno sicuramente spronato perché vedere l’esempio altrui è sempre importante e poi ho anche conosciuto combattenti internazionali delle YPG (Unità di Protezione del Popolo curde) che erano giovanissimi e non erano assolutamente politicizzati, anzi conducevano una vita completamente apolitica nei loro paesi ed erano andati lì a rischiare la vita perché indignati da quel che accadeva in un Paese lontano dal loro. Quindi di fronte a tutto questo diventa difficile non prendere le armi a tua volta.

– Come ti sei unito alle Unità di Protezione del Popolo curde (YPG)?

– C’è stato un addestramento, una formazione di diverse settimane durante le quali ho ricevuto molte lezioni di lingua curda, di ideologia confederale, cioè della forma di socialismo portata avanti dalle YPG, e anche di storia del Medioriente e del Kurdistan. E poi la formazione tecnica per l’uso delle armi, degli abbozzi di tattica. Bisogna anche tenere conto che la guerra civile in Siria è un evento talmente tragico e caotico per cui comunque queste milizie non hanno la possibilità di sobbarcarsi un genere di formazione come quella degli eserciti regolari.

– Che armi avevate in dotazione?

– I dettagli non si possono dire per ragioni militari, però si può dire che il problema delle milizie curde e delle forze siriane democratiche è che hanno prevalentemente, al 99%, armi leggere e questo non è un mistero. DI fatto la stragrande maggioranza dei combattenti ha a disposizione un kalashnikov e per fortuna non m’è sembrato ci fosse grossa penuria di munizioni perché mi pare che almeno su quello la coalizione, gli Stati Uniti, han dato de contributi e anche la Russia ha dato qualcosa. Sono per le munizioni, ma per le armi si tratta di armi leggere, vecchi, sicuramente superate in un contesto generale. Poi in realtà in Siria non lo sono perché la maggior parte degli scontri a fuoco in una battaglia siriana, a meno che non sia coinvolto l’esercito regolare, è sempre con armi automatiche di quelle di fabbricazione sovietica, quindi mitragliatrici tipo Pkm e Pks, la Dushka o Dshk o il Kalashnikov. Sono queste le armi più usate.

– Hai parlato di “Rivoluzione”. Cosa sta succedendo nel Nord della Siria?

–  Nella Siria settentrionale e in generale in tutto il Paese dal 2011 è in atto una rivoluzione. La rivoluzione siriana s’è sviluppata in due grandi tendenze contrapposte. Una è andata molto male perché ha preso un’evoluzione islamista e una invece è andata molto bene perché ha preso un indirizzo socialista illuministico e femminista. Quest’ultima è la rivoluzione confederale che ha attecchito inizialmente nei territori curdi ma ormai in tutto il Nord della Siria in zone prevalentemente arabe o cristiane. Invece la parte islamista s’è poi spaccata in vari tronconi: l’ISIS lungo l’Eufrate e i gruppi islamisti diversi dall’ISIS ormai nella provincia di Idlib in questo momento. E quindi la rivoluzione siriana s’è evoluta in due diverse rivoluzioni che si combattono tra di loro ed entrambe combattono anche contro il regime di Bashar al-Assad.

– Che missioni e attività hai avuto?

– All’inizio ero sul fronte di Ain Issa che all’epoca era il fronte di Raqqa, mentre oggi questo fronte, per fortuna, è dentro la stessa Raqqa perché è sceso fin dentro la città, però un anno fa si trovava 63 km a nord di Raqqa. E lì c’era la città di Ain Issa dove stava la mia unità e il nostro compito era quello di proteggere il cantone di Kobane dall’ISIS, mentre nello stesso momento c’era l’offensiva a nord di Aleppo da parte delle forze siriane democratiche a ovest dell’Eufrate che stava guadagnando tutte le campagne attorno a una città strategica che si chiama Mambij: era andare a liberarle per tagliare le comunicazioni tra Raqqa e la Turchia. Quella città era l’ultima comunicazione tra Raqqa e la Turchia, quindi tra Raqqa e il mondo esterno. Non ho partecipato all’inizio a quest’offensiva, piuttosto m’occupavo di difendere il cantone mentre questa offensiva andava avanti. Poi a fine giugno la mia unità è stata mandata a Mambij e quindi a luglio anche noi abbiamo combattuto in questa operazione per la liberazione della città.

– C’erano altri stranieri e italiani?

– C’erano molti stranieri quando ero io lì, ma non italiani. Ero l’unico. Si sapeva che c’erano stati altri italiani comunque, in particolare io chiedevo sempre di Karim Franceschi perché avevo letto il suo libro. Però in quel momento non ce n’erano altri. C’erano molti stranieri che venivano soprattutto da Europa, Nord America, dall’Australia e Nuova Zelanda, dai Balcani. Ho conosciuto anche un ragazzo di origine cilena e so che ci son stati anche alcuni sudamericani nelle YPG.

– Ti identifichi col termine foreign fighter?

– Attualmente in pratica ci sono espressioni sulle quali non è possibile rispondere solo “sì” o “no”. Mi definirei foreign fighter, anche se l’uso mediatico ne ha di fatto modificato il senso, però esiste un senso originario che è diverso. Nel senso mediatico del termine, non mi identifico perché i mass media hanno gettato una cattiva luce, l’hanno associato unilateralmente a chi combatte per lo Stato Islamico. Ma per quello che è il senso originario, penso sia l’espressione più bella che si possa immaginare. Quindi di sicuro nel senso stretto di quello che significa, del resto è abbastanza tautologico che io lo sia stato. E penso che tra l’altro la contraddizione nell’uso mediatico la si vede anche nel fatto che io e gli altri internazionali che abbiamo combattuto a Mambij, tagliando quell’ultima via di comunicazione con la Turchia dell’ISIS, abbiamo azzerato definitivamente l’afflusso di foreign fighters dell’ISIS in Siria che prima era molto grosso. Da quando appunto un anno fa la città è stata liberata, è diventato pari a zero. Quindi foreign fighters sì, ma dipende da che parte stanno.

– Si parla magari di “internazionalisti”?

– Beh, per forza di cose. Anche se nelle YPG colloquialmente si dice anche che siamo “internazionalisti”, è vero pure che la teoria politica che ispira le YPG in realtà più che di “internazionalismo” parla di “universalismo”. Perché? Per un ragionamento forse sofisticato ma importante secondo cui l’epoca dell’internazionalismo, quella in cui si pensava che il riferimento fossero gli stati-nazione anche per i socialisti, è finita per cui internazionalismo era la solidarietà del secolo scorso e invece le YPG preferiscono “universalismo” perché oggi siamo in una realtà davvero globale in cui di fatto tutto il mondo è una metropoli perciò, se vogliamo, ancora più internazionalismo di prima.

– Per la tua esperienza contro l’ISIS cosa puoi dire del mito della loro invincibilità sul campo?

– Sul campo devo dire, senza voler fare propaganda, sinceramente ho visto l’imbattibilità delle YPG, mentre dell’ISIS ho visto il fatto che son stati battuti quando ero là l’estate scorsa. E’ stato faticoso, ma ti spiego perché. Me l’hanno confermato anche dei combattenti americani che avevano avuto un’esperienza lunga nel loro esercito, avevano combattuto anche in Iraq e dicevano che, paragonando la lotta contro l’ISIS ad altre fasi molto cruente della guerra irachena e di questi tipi di conflitti, l’ISIS è una forza militarmente molto competente e organizzata in cui si vede davvero che ci sono delle menti a livello strategico abbastanza avanzate sugli standard contemporanei. La loro strategia è causare il maggior numero di morti nelle file nemiche col minor numero di morti nelle proprie. Quindi fanno uso fondamentalmente delle mine, delle trappole esplosive, dei cecchini e hanno anche un’ideologia religiosa che fa sì che affluiscano nelle loro file centinaia di persone che sperano di morire il prima possibile perché sono convinte che pranzeranno con Dio e avranno non so quante vergini a disposizione. L’ISIS può fare un uso abbastanza continuo di persone che si fanno saltare, camion bomba e autobombe guidate a tutta velocità contro il nemico.

Questo è un vantaggio, però questo mito che han creato i media è totalmente sbagliato come molte cose che creano i media perché è un fenomeno del tutto analizzabile coi suoi limiti e potenzialità. Ci sono sicuramente tanti dell’ISIS che si suicidano, però bisogna anche dire che per esempio sul nostro fronte di Ain Issa ci son stati anche degli attacchi che erano suicidi dal punto di vista di chi li faceva ma anche da quello militare, nel senso che quando uno manda anche 30 miliziani a fare un attacco completamente sporadico senza nessun significato nell’economia della guerra, in cui tutti e trenta vengono uccisi e muore soltanto uno delle YPG, è chiaro che queste persone erano in lista per essere mandate al martirio perché avranno anche i loro problemi di “aspiranti al martirio” che vogliono andarci… Ma bisogna anche vedere che poi questo militarmente è follia. Infatti ci sono aspetti anche, come dire, contraddittori che tutti assieme fanno venir fuori l’immagine di una forza che, come tutte, ha i suoi difetti e i suoi pregi dal punto di vista della guerra.

– Molti si chiedono come sia possibile sconfiggere l’ISIS. C’è stata una mancanza di volontà politica o militare o è davvero complicato?

– E’ difficile ma non militarmente. E’ difficile politicamente. Militarmente va notato che in sostanza il territorio che aveva conquistato tra Siria ed Iraq è quasi esaurito, quindi in tre anni, che è comunque un tempo sempre molto minore di quella che è stata l’occupazione dell’Iraq o è tuttora la guerra civile siriana, questo fenomeno a livello militare è stato represso. Però quello che è difficile è l’aspetto politico. Primo perché ci sono aspetti politici che rallentano le operazioni militari perché comunque, vuoi o non vuoi, mi risulta che in molti conflitti, anche se sempre meno col passar del tempo, c’è un riferimento minimo a delle regole di guerra, a un diritto internazionale della guerra e a delle convenzioni.

Questo l’ISIS non lo riconosce in alcun modo poiché tutte queste leggi sono frutto di una sovranità popolare, democratica o liberale che per loro è peccato, nel senso che l’unica legge che esiste è quella di Dio. Di conseguenza loro non rispettano nessuna etica di guerra e usano i civili come scudi umani. Dico, si potrebbe accusare qualsiasi forza partigiana di nascondersi nella popolazione però un conto è nascondersi nella popolazione come forza partigiana e un conto è fare della popolazione carne da macello appositamente, anche perché prevale una logica del “tanto peggio, tanto meglio” su cui punta l’ISIS. Dunque questa è la prima difficoltà politica. L’ho vista coi miei occhi, quando cercavamo di avanzare dentro una città in cui l’ISIS impediva ai civili di lasciare le proprie case. Significa che bisogna praticamente rallentare le operazioni per riuscire chirurgicamente ad accerchiare gli edifici, a proteggerli, a far uscire i civili e a mandarli via e poi dopo procedere a snidare i miliziani ovunque si trovino. Anche dal punto di vista della guerra aerea questa è una complicazione enorme perché comunque si chiede sempre l’evacuazione di civili quando si sa che si inizia una guerra con operazioni aeree e, se una realtà come ISIS non lo fa, si possono immaginare le conseguenze ma anche il rallentamento delle operazioni.

L’altra difficoltà politica è che esiste un problema di fatto che non è solo dell’Iraq o della Siria ma del mondo intero: esistono degli squilibri di ricchezza, di potere, di egemonia culturale nel mondo e ci sono problemi di povertà in molti sensi, quindi ci sono centinaia di milioni di persone, soprattutto in Africa e Asia che hanno bisogno di una logica, di un’ideologia di riscatto e a volte anche di vendetta ed espressione della rabbia. Quindi lo Stato Islamico è in realtà, purtroppo, un’insurrezione globale che riempie il vuoto della fine dei comunismi, dei socialismi, e quindi, finché non s’eliminano le contraddizioni sociali o non si riesce a creare un’alternativa politica a questo genere di insurrezioni, un’alternativa in cui ci sia una forma di sollevazione razionale e non irrazionalistica, si può anche sconfiggere militarmente ma ritornerà in forme sempre peggiori.

– Recentemente sono aumentati gli sconfinamenti dell’esercito turco anche nei cantoni curdi. Qual è il ruolo della Turchia al confine con la Siria?

– Quando mi trovavo a Kobane, nel settembre 2016, in effetti è stato uno dei momenti peggiori perché la Turchia interveniva con la scusa di costruire un lunghissimo muro tra la Siria del nord rivoluzionaria e i suoi territori, che in gran parte realmente sono territori di comunità che avrebbero anche una loro autonomia, tra cui ci sono curdi. Con questa scusa provocava ampiamente alla periferia di Kobane, proprio sul confine, con i carri armati. Ha provocato nove giorni di rivolta della popolazione di Kobane al confine che sono costati anche due morti e moltissimi feriti. Questo era già stato un primo episodio. Ora ce n’è stato un altro che per fortuna è durato solo una notte in cui i mezzi turchi di nuovo hanno sconfinato nei pressi di Kobane occupando due villaggi e sono stati ricacciati indietro dalle YPG. Però Kobane, anche per il suo valore simbolico, è in realtà la città che ha subito di meno da parte della Turchia perché ci sono altre città come per esempio Tel Abyad, che viene mitragliata a distanza di 10 minuti tutti i giorni ormai da un anno e mezzo dalla Turchia e spesso ci sono anche lanci di colpi di mortaio, così come Tel Abyad (Gire Spi per i curdi), Qamisho, Amude, Serekani (Ras al-Ayn per gli arabi), su cui più volte sono stati lanciati dei razzi quando io ero lì.

E poi soprattutto il caso più grave è quello di Afrin, che è il cantone rivoluzionario isolato perché staccato da Kobane e confina con la Turchia o con territori della Siria controllati dagli islamisti. Ed è Afrin che sta subendo l’aggressione peggiore. Ormai sono tre mesi che la Turchia sta bombardando senza sosta Afrin, quindi ci sono già centinaia di morti civili, combattenti e delle forze di sicurezza nel silenzio internazionale più totale. Ed Erdogan minaccia anche d’invadere completamente questo cantone per cui vorrebbe entrare in Siria e affrontare la sinistra curda anche in Siria oltre che in Turchia.

Solo che è difficile. A parte che ci ha già provato in Iraq recentemente e questo non s’è saputo: meno di un mese fa la Turchia ha tentato un’invasione di larga scala nelle montagne dell’Iraq dove c’è il PKK (Partito dei Lavoratori Curdi) e ha dovuto ritirarsi dopo decine di morti nelle sue fila. Il problema per loro è che gli Stati Uniti proteggono il Rojava e, in forma molto più ambigua, lo fa in qualche misura anche la Russia, che tende a non autorizzare questi interventi della Turchia. E’ questo l’unico motivo per cui ancora non c’è stato un bagno di sangue perché comunque il governo turco è estremista dal punto di vista politico e il clima nella società turca è degenerato particolarmente quindi di certo la possibilità di un’invasione decisiva è sempre presente.

– Kobane è definita come un “fiore del deserto”, perché?

–  Nella contemporaneità tutto sembra volgere al peggio. Un paese come il Messico lo sa bene per certi aspetti, così come paesi come la Siria o la Turchia, ma anche in Europa sembra che il senso comune si sposti sempre più verso posizioni retrive e in tutto il mondo prevalgano le concezioni più reazionarie, identitarie, i nazionalismi e i fanatismi settari e religiosi. Comunque il potere grazie a tutto questo rimane sempre saldo nelle mani di una minoranza ricchissima a discapito della stragrande maggioranza. Quindi ha colpito tutti il fatto che emerga una rivoluzione nel senso che il potere viene assunto concretamente in un territorio da delle forze che portano avanti una logica completamente opposta, perché la loro è cosmopolita, di uguaglianza sociale, di rispetto reciproco e tolleranza religiosa, e soprattutto di centralità e riscatto della donna in una delle regioni dove le donne patiscono di più il patriarcato. Nessuno se lo aspettava ed è una messa in discussione del dogma secondo cui in questo secolo le rivoluzioni non sono più possibili e per questo credo che si sia usata quell’espressione.

– Confederalismo democratico, autonomia, interculturalità sono parole associate alla rivoluzione curda. Cercano l’indipendenza dalla Siria?

– Allora intanto va detto che i curdi sono divisi tra una destra curda e una sinistra. La destra nazionalista vuole effettivamente uno stato curdo, lo vuole sia in Iraq che in Siria, in Iran e Turchia. La sinistra curda, con forze come le YPG, le YPJ (Unità di Protezione delle Donne) o il PKK, non vogliono uno stato curdo perché son convinti che sia necessaria una rivoluzione che vada al di là del capitalismo e intendono che questo non sia possibile attraverso “lo Stato”, che lo Stato sia qualcosa di negativo in sé ed è contradditorio chiederne uno. Dunque loro tendono a sviluppare delle forme di autonomia che sono anche sociali, con la trasformazione dei rapporti sociali e di genere, all’interno degli stati in cui si trovano per poter anzi influenzare le popolazioni non curde e trascendere la “dimensione curda” della rivoluzione. Questo è quello che sta succedendo già in Siria.

Bisogna dire che rispetto alla destra curda nazionalista, che io avverso per molte ragioni, comunque un curdo o una curda al giorno d’oggi che volessero uno stato curdo, che, ripeto, non è la posizione per cui mi sono speso io, non possono essere condannati perché il Kurdistan geograficamente esiste. Per esempio uno stato come la Siria o l’Iraq son stati creati dalle potenze coloniali senza nessun rispetto per la geografia sociale dell’ex Impero Ottomano quindi in ogni caso dico questo per quelli che pensano di poter puntare l’indice contro i curdi o altre popolazioni, come per esempio gli amazigh [berberi] in Marocco o altre nel mondo che vogliono autonomia o indipendenza: non credo si possa negare in ogni caso.

– I curdi hanno anche adottato una Costituzione nel nord della Siria che è molto avanzata e democratica. Che ne pensi? Sta funzionando?

–  Si dice colloquialmente Costituzione. In realtà si chiama Carta del Contratto Sociale proprio perché “Costituzione” prefigurerebbe la creazione di uno Stato. Però sicuramente quel testo è molto avanzato sotto tutti gli aspetti. Bisogna tener conto del processo materiale di questa rivoluzione. L’obiettivo è una forma di comunismo e di estinzione dello Stato, che chiamano confederalismo democratico perché per loro la democrazia è comunista senza Stato o non è, ed è confederale perché è basata sull’autonomia di tutte le comunità che devono federarsi in maniera volontaria tra loro e non per l’imposizione dall’alto.

Quindi puntano a questo ma son consapevoli che non si può raggiungere dall’oggi al domani per cui hanno forgiato anche il concetto di autonomia democratica, che è il modo in cui il movimento del confederalismo democratico si concilia ogni volta con lo Stato esistente. Per esempio questi cantoni e i consigli cantonali che mantengono la separazione dei poteri, e in qualche modo assomigliano a uno Stato, sono l’autonomia democratica, cioè sono una proposta per la Siria per una sistemazione istituzionale che ponga fine alla guerra e, però, non cancelli la rivoluzione.

Questo è il senso delle istituzioni create che non sono “il confederalismo democratico” ma “l’autonomia democratica” perché il confederalismo nel Nord della Siria è quello rappresentato dalle comuni, dalle comuni agricole ed economiche, da quelle cittadine, dal contropotere esercitato anche a livello armato da queste istituzioni, dalle cooperative, dal nuovo rapporto che c’è tra le donne e la società. Questa è la rivoluzione. Non può trovare uno sbocco definitivo, perciò loro, non volendo ripercorrere il modello bolscevico perché infine ha fallito, non concepiscono la “presa del potere” nel senso di “creazione di uno Stato socialista” che poi s’estingue. Sono parte invece di un movimento che ogni volta crea delle istituzioni per conciliarsi con lo Stato in cui è emerso e per poi evidentemente rimetterlo sempre in discussione e continuare questo processo.

– Parlare di autonomia in Messico rimanda agli zapatisti e l’EZLN ha mostrato simpatia per la rivoluzione dei curdi siriani.

– So che in generale lo zapatismo e il Chiapas sono visti come un punto di riferimento in Rojava e in tutto il Kurdistan perché il movimento curdo ha iniziato la sua trasformazione teorica negli anni 2000 quando ormai già da diversi anni in Messico c’era stato un lavoro di discussione ed elaborazione di una prospettiva. Oltretutto in molti casi in Messico son stati raggiunti risultati concreti. Là ho visto che quello è un punto di riferimento. Ti racconto un po’ in termini di “pettegolezzo” che per vie assolutamente non ufficiali, in modo un po’ random e colloquiali, era arrivata la voce che in realtà ci fossero stati dei tentativi di comunicare e creare un rapporto più concreto ma erano caduti nel vuoto. Qualcuno mi ha provato a spiegare che magari è perché tra Rojava e Chiapas sono tutti e due dei popoli che prima di andare a leggere la mail chissà quanto tempo passa perché c’è un ritmo di vita diverso da quello a cui siamo abituati in Europa. Si diceva un po’ per scherzare… Se questi rapporti aumentassero, penso sarebbe positivo. Quando alcuni mesi fa s’è tenuta ad Amburgo la conferenza internazionale organizzata dal Rojava è stata ospitata una tavola rotonda anche sul Messico e sui cartelli della droga perché c’è proprio un’attenzione speciale da parte del Rojava sull’America Latina, sul Centroamerica, sul Messico.

– Che aneddoti particolari puoi raccontarci del periodo come combattente?

– Sono tanti. Per esempio una grossa delusione… Avevo conosciuto una ragazza curda che mi era molto simpatica e con cui ero rimasto in contatto per un periodo. Poi quando ero andato a trovarla dalla sua famiglia per una festività musulmana che si celebra in settembre, discutendo con loro, avevo scoperto che era una sostenitrice dei nazionalisti curdi, della destra curda, e quindi s’era, diciamo, abbandonata a dei commenti assolutamente inaccettabili sugli arabi, per esempio. E soprattutto sui compagni curdi e anche sullo stesso Oalan. E lì per dire è stato uno dei casi particolarmente brutto perché io non avevo capito, lei non era stata chiara forse su questa cosa, ma più che altro perché dà bene l’idea di com’è la situazione in Rojava. Ci sono tante persone che magari stanno un po’ nell’ombra o nel silenzio ma che lavorano contro la rivoluzione, che cercano di sabotarla o di indebolirne il morale proprio perché hanno idee islamiste o nazionaliste. Quindi in realtà la rivoluzione, come sempre nella storia, è portata avanti da persone determinate e appassionate che devono fare i conti con un contesto molto difficile.

– Un’esperienza più carica di speranza?

– Ce ne sono molte anche in questo caso. Posso contrapporre un’altra persona che ho conosciuto che è un ragazzo di Raqqa, arabo. Lui ha deciso volontariamente di lasciare Raqqa. Era un operaio d’officina, avrà avuto 15 anni, e, mentre stava lavorando, è stato avvicinato da uno di questi miliziani, che in molte città della Siria spadroneggiano, il quale gli aveva detto: “Fammi vedere come preghi”. E dopo che lui aveva pregato, l’altro gli aveva detto: “Tu sei un falso, un miscredente, e non preghi nel modo giusto”. Al che il ragazzo aveva risposto: “Io sono qua nella mia città, sto lavorando, e viene qua uno che non è nemmeno di Raqqa a disturbarmi e a dirmi che non so pregare”. Quindi aveva deciso di andarsene e di migrare verso nord. Alla fine è entrato nelle YPG perché aveva visto i curdi come gente che si comportava nel modo opposto a quello che aveva vissuto lui.

E’ stato uno dei primissimi arabi che sono entrati in una forza che era inizialmente curda al 100%. Io l’ho conosciuto, qualche anno dopo che questo era accaduto, e siamo stati nella stessa Unità. E’ una persona impressionante. A parte il fatto che mi ha spiegato il suo progetto, che era quello di partecipare alla liberazione del Rojava che poi deve diventare la liberazione di tutta la Siria. E voleva andare a combattere anche in Turchia, in Iran e Iraq. “Dopo finalmente potremo andare in Palestina a liberarla e così anche il Libano”, diceva. E se ci fosse stato bisogno anche in Italia, sarebbe venuto anche qui a combattere. E’ una persona quasi analfabeta, che non ha mai visto niente se non Raqqa, Kobane e poco altro, però ha una visione genuina e una volontà. Parlo al presente anche se purtroppo non posso esser certo che sia ancora vivo perché l’ho lasciato a settembre e in Siria la speranza di vita è abbastanza breve. Ho combattuto al suo fianco e come combattente è semplicemente impressionante, indescrivibile. Certe scene a un occidentale come me non potevano altro che far pensare che potevano solo esistere in un film, una persona che combatte in questo modo. Da proletario e da persona non istruita, condannata dalla sua vita a una limitatezza di fatto delle esperienze, è un rivoluzionario ai livelli più alti della storia che si possano immaginare. Così so che nel nord della Siria ce ne sono migliaia e questo ha un valore inestimabile.

– Come si chiama?

– Si può dire il suo nome di combattimento, Zagros Raqqa, perché nessuno in Rojava usa il suo vero nome.

– Qual era il tuo?

– Era Tiresh Gabar.

– Unità di Protezione delle Donne (YPJ), che rapporti hanno con le unità delle YPG?

– La mia unità era mista quindi c’erano sia YPJ che YPG. La maggior parte delle unità sono miste. Come tutto ciò che riguarda le donne nella rivoluzione, quindi anche le comuni e i congressi delle donne, hanno sempre una loro autonomia. Hanno catene di comando, di coordinamento e di decisione autonome, così come in qualunque comune o assemblea di quartiere si riunisce sempre a parte la comune delle donne. Così la nostra unità per esempio era unica ma le donne realizzavano i loro seminari e riunioni prima di venire nelle assemblee nostre, per cui esiste una forma di autonomia delle donne che non è una forma di separatismo ma un sistema intelligente ed equilibrato. Mi sembra che riesca bene a conciliare la questione della liberazione femminile con quella della liberazione di tutti. Naturalmente accordando una priorità alla liberazione femminile, che si vede già in questa autonomia e nella loro ideologia e consiste nel riconoscere alle donne il ruolo di avanguardia politica nella rivoluzione mondiale.

– Come sono i rapporti con la popolazione civile locale?

– E’ sempre diverso a seconda di chi è la popolazione locale. Ci sono persone che supportano e altre che avversano. C’è chi avversa in maniera, diciamo, “dialogante” e altri che vogliono avversare con le armi o sostengono forze esterne. Quindi il rapporto con la popolazione è quello di qualsiasi forza che governa un territorio, però nel mezzo di una guerra civile e di una rivoluzione. Ma tra l’altro ci sono tante forze che son ben riuscite a trasformarla in una guerra settaria, razziale e linguistica e sono questi crimini che producono rancore e non so quando potranno essere sopiti. Quindi per esempio se, come YPG, si cammina per strade di Kobane o Qamishli, la popolazione ti ama in maniera enorme. Per i combattenti internazionali c’è una forma di venerazione da parte dei civili. Mentre invece in una città come Tel Abyad io ero passato al mercato in uniforme, perché dovevamo accompagnare un compagno dal medico, e la sensazione lì’ è quella che può provare un poliziotto che passa in un quartiere di Palermo più o meno. Non è gradita la sua presenza perché a lì c’è una maggioranza araba e al suo interno c’è una maggioranza di sostenitori dell’ISIS e una minoranza di sostenitori della rivoluzione, quindi come città ha bisogno, come anche altre, di sviluppare soprattutto nei giovani o tra le donne una coscienza politica che è molto minore che in altre zone.

– Pensi di ritornare?

– Sì, certo, ci ho pensato. Non credo sia possibile per me non tornare mai più in Rojava.

– Che insegnamenti hai riportato con te in Italia?

– Gli insegnamenti più grandi sono due. Il primo è che esiste un divario, e già lo sapevo, tra l’Occidente e il Medioriente, o forse tra l’Occidente e il resto del mondo. E’ talmente terribile che non si può immaginare, descrivere, e purtroppo non è neanche sufficiente che uno vada a combattere lì per colmarlo, nel senso che è un divario tra chi ha tutto e chi non ha niente, tra chi sta bene e chi soffre. Questa è una consapevolezza della gravità di questa situazione che ha soprattutto chi va in quelle zone in certe situazioni di guerra.

Un altro è che la rivoluzione è giusta e necessaria, però quando si dice “rivoluzione” bisogna essere consapevoli del peso di questa parola in termini di sofferenze, tragedie e dolore che provoca perché una rivoluzione è comunque un rivolgimento della società che non avviene in maniera pacifica, anche se è necessaria, e quindi non bisogna usare questo termine con leggerezza. Non bisogna immaginare semplicemente che sia “una cosa bella”. Quelli che pensano così è meglio che abbandonino la politica e facciano altro, mentre sarebbe utile che ci fossero persone che si rendono conto di quanto è brutto dover fare una rivoluzione ma che continuano a pensare che è necessaria.

In chiusura vorrei denunciare che ci sono due ragazzi, una coppia, della Repubblica Ceca in una prigione turca: lei si chiama Marketa, lui Miroslav. Sono stati varie volte in Siria, Iraq e Turchia per motivi umanitari e sono stati appena condannati in Turchia a 6 anni e 3 mesi di carcere a testa perché accusati d’essere stati nelle YPG e YPJ. E’ una cosa scandalosa. Marketa è un’amica, la conosco, e non è mai stata nelle YPJ, sono accuse totalmente false. E’ l’ennesimo crimine della Turchia, non lasciamo sole queste due persone che affrontano adesso una prospettiva molto dura.

– Come avvicinarsi a quel che succede ai curdi in Siria?

– Ci si può informare su vari siti internet, e soprattutto si può donare alla Mezzaluna Rosa Curda che sta a Livorno. E si può andare in Rojava a portare solidarietà attiva anche senza combattere. Le cose più importanti sono gli aiuti sanitari ed educativi. Malgrado le difficoltà se più giovani dall’Europa andassero in Medioriente, anche questo divario di cui parlavo prima comincerebbe almeno ad attutirsi. Dico sempre che per prima cosa è meglio andare lì se si può e se non si può allora va bene donare e informarsi. Queste tre cose.

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Laboratorio Rojava https://www.carmillaonline.com/2016/11/16/laboratorio-rojava/ Wed, 16 Nov 2016 22:00:13 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=34508 di Sandro Moiso

donne-curde-4 Arzu Demir, LA RIVOLUZIONE DEL ROJAVA. In diretta dai cantoni di Jazira e Kobane: come e perché la resistenza curda in Medio Oriente sta cambiando lo stato di cose presente, Red Star Press 2016, pp. 192, € 16,00

Michael Knapp – Ercan Ayboga – Anja Flach, LABORATORIO ROJAVA. Confederalismo democratico, ecologia radicale e liberazione delle donne nella terra della rivoluzione, Traduzione a cura di Rete Kurdistan Italia, Red Star Press 2016, pp. 280, € 20,00

Per Amore. La rivoluzione del Rojava vista dalle donne, Testi e foto di Silvia [...]]]> di Sandro Moiso

donne-curde-4 Arzu Demir, LA RIVOLUZIONE DEL ROJAVA. In diretta dai cantoni di Jazira e Kobane: come e perché la resistenza curda in Medio Oriente sta cambiando lo stato di cose presente, Red Star Press 2016, pp. 192, € 16,00

Michael Knapp – Ercan Ayboga – Anja Flach, LABORATORIO ROJAVA. Confederalismo democratico, ecologia radicale e liberazione delle donne nella terra della rivoluzione, Traduzione a cura di Rete Kurdistan Italia, Red Star Press 2016, pp. 280, € 20,00

Per Amore. La rivoluzione del Rojava vista dalle donne, Testi e foto di Silvia Todeschini, pp.246, 2016 todessil@gmail.com € 10,00

Immagino lo storcimento di naso che alcuni avranno fatto di fronte alla notizia, comunicata nei primi giorni di novembre dalle Forze democratiche siriane (Sdf), l’alleanza arabo-curda che agisce sul territorio siriano, l’offensiva congiunta su Raqqa la “capitale” siriana dell’Isis. Soprattutto, considerato che tale coalizione ha ricevuto l’appoggio dall’aviazione statunitense.

Certo nella vicenda c’è dell’ambiguità. Da parte degli Stati Uniti che, mentre da un lato hanno tra gli alleati i maggiori finanziatori dell’Isis (Arabia Saudita, Stati del Golfo, Turchia) dall’altro, cercano di sfruttare la legittima aspirazione all’autonomia dei curdi in funzione del proprio progetto di disarticolazione dello stato siriano e del regime di Assad. Oltre che, al momento attuale e dopo le capovolte di Erdogan, per fare indispettire il dittatore turco. Senza magari domani rinunciare ad abbandonare alla sua vendetta i curdi del Rojava in nome di una recuperata “sicura” alleanza. Cosa già messa in atto, tra l’altro dalle forze russe, dopo il riavvicinamento tra Putin ed Erdogan.

D’altra parte, a partita già iniziata e non da ora, come dovrebbero muoversi i curdi del Rojava per continuare a difendere i territori già liberati e per scacciare definitivamente i mercenari dell’Isis dai propri territori?
Certo qualcuno avrebbe trovato da ridire anche in occasione del trasferimento su un treno militare tedesco, da Zurigo a San Pietroburgo, di Lenin nel 1917 o chissà in quante altre occasioni, compresa la guerra civile spagnola, in cui chi la Rivoluzione la stava facendo, o almeno stava provando a realizzarla, è stato colpito dall’ostracismo ideologico di fazioni avverse ”più radicali” o “ortodosse”.

i-dont-fight-3 Non andrebbe però dimenticato che proprio la guerra siriana ha causato malumori tra gli stessi militari americani impiegati che, utilizzando i social network, hanno manifestato la loro contrarietà a combattere una guerra a vantaggio di Al Qaeda e contro le popolazioni civili, pubblicando foto in cui si coprivano il volto con scritte del tipo “I will not fight for Al Qaeda in Syria” oppure “Obama, I will not fight for your Al Qaeda rebels in Syria. Wake Up People!”. Contribuendo così, anche indirettamente, al successivo trionfo elettorale di Donald “Duck” Trump e alla sua, probabile, rottura con la tradizionale politica filo-jihadista della Segreteria di Stato americana, impostata a suo tempo dalla Clinton e dalla lobby petrolifera.

Certo, la semplificazione con cui i media, soprattutto nostrani, dipingono l’alleanza in atto nel Rojava come un’alleanza tra curdi e arabi potrebbe far pensare ad un indesiderabile accordo tra le forze delle Unità di Protezione del Popolo (Ypg – Yekîneyên parastina gel) e le forze arabo-saudite. In realtà sul territorio del Rojava le unità militari curde operano con le formazioni militari locali create dalle comunità arabe e turcomanne che risiedono nello stesso territorio e che hanno accettato i presupposti di autogestione e confederalismo democratico e territoriale proposto dalle e dagli esponenti delle forze rivoluzionarie curde.

riv-rojava Proprio per comprendere meglio un esperimento complesso ed innovativo come quello in atto nel Rojava, la Red Star Press ha edito, nel giro di pochi mesi, due utili testi. Il primo, LA RIVOLUZIONE DEL ROJAVA, è stato scritto da una giornalista nata a Istambul nel 1974, che vive e lavora in Turchia ed è nota per suoi reportage dedicati alle più importanti questioni sociali del Medio Oriente.

Il secondo, LABORATORIO ROJAVA, è opera di uno storico che da sempre studia la questione curda e le pratiche alternative al capitalismo nell’età moderna (Michael Knapp), di un’etnologa che ha trascorso due anni nella resistenza femminile curda (Anja Flach) e di un ingegnere ambientale che vive nel Kurdistan del Nord ed è impegnato in particolare nelle lotte per la salvaguardia delle acque (Ercan Ayboga).

Già il lungo elenco di sigle di formazioni politiche e militari operanti sul territorio del Kurdistan, compreso nelle prime pagine del testo di Arzu Demir, dovrebbe da solo bastare a far comprendere la complessità di una situazione, sia politica che militare e territoriale, che non può essere liquidata semplicemente come “questione curda”. Da qui discende la necessità di rimarcare le differenze intercorrenti tra alcune delle principali organizzazioni: PDK (Partito Democrtaico del Kurdistan – iracheno), PKK (Partîya karkerén Kurdistan – Partito dei lavoratori del Kurdistan – turco) e PYD (Partiya yekîtiya demokrat – Partito dell’unione democratica – siriano).

lab-rojava Il primo è il partito che governa il Kurdistan meridionale (Bajûr, Nord Iraq), divenuto regione autonoma (KRG) dopo la cacciata di Saddam Hussein a seguito dell’invasione americana del 2003. E’ un partito nazionalista e decisamente schierato a fianco della politica americana nella regione e, di fatto, rappresenta gli interessi politico-petroliferi del clan Barzani. Il termine peshmerga, che storicamente definisce genericamente ogni “guerrigliero” o “soldato” curdo, ha finito col rappresentare i combattenti del PDK e del PUK (Yekêtiy nistîmaniy Kurdistan – Unità patriottica del Kurdistan – iracheno) di Talabani; mentre i partigiani del PKK e del PYD preferiscono definirsi col nome delle proprie organizzazioni oppure come gerîlla o partîzan. Ma è proprio sulla genericità e ambiguità del termine peshmerga che si è potuta costruire gran parte della confusione imperante nei media occidentali.

Il PKK opera da circa trent’anni nel Kurdistan settentrionale (Bakûr, sud-est della Turchia) per sostenere l’autodeterminazione e la sopravvivenza del popolo curdo contro l’aggressione e occupazione militare dello Stato turco. Inserito nella lista delle organizzazioni terroristiche stilata dai paesi occidentali (USA ed Europa), sta provando a superare l’originaria ideologia nazionalista e marxista-leninista attraverso una critica radicale degli stessi concetti di Stato, Nazione, Partito e l’abbandono dell’obiettivo di uno stato curdo indipendente, attraverso la proposta di un confederalismo democratico rivolto a tutte le differenti comunità presenti sul territorio in cui opera.

Il PYD, le cui formazioni militari sono YPG e YPJ (Yekîneyên parastina jinê – Unità di difesa delle donne), è il partito maggioritario del Kurdistan occidentale (Rojava, Siria del nord). Condivide con il PKK la prospettiva della costruzione di una federazione di comunità indipendenti e autogovernate al di là dei confini nazionali, etnici e religiosi, le cui basi sono costituite dalla partecipazione dal basso, la parità di genere e la difesa dell’ambiente. Prospettiva che, a detta dell’autrice di La rivoluzione del Rojava, sta cercando di realizzare a partire dall’insurrezione di Kobane nel luglio del 2012.

Il testo di Arzu Demir si basa, principalmente su un lavoro di intervista condotto sul campo a donne e uomini delle comunità coinvolte nella guerra siriana e contro l’avanzata dell’Isis. Ma è una guerra condotta anche in casa, dove i residui del passato patriarcale, ancora sin troppo presente, dovranno essere seppelliti non dopo la lotta contro i regimi autoritari e il capitalismo che li ha prodotti, ma durante e insieme a loro.

L’essenza delle politiche del regime siriano verso il Rojava è stata quella di abbandonare la regione alla povertà e alla miseria politica, sociale, culturale ed economica per renderla dipendente dallo stato centrale. In altre parole lasciarla senza identità e senza riconoscimento. Da questo punto di vista ci sono delle somiglianze con le politiche coloniali dello stato turco nel Kurdistan settentrionale. L’unica differenza è che i curdi in Siria, almeno fino alla rivolta di Qamishlo nel 2004, non si sono mai ribellati in maniera aperta e diretta contro il regime e per questo il numero di massacri è molto minore […] La Repubblica araba siriana ha mantenuto come politica di stato quella di assimilare il popolo curdo all’interno del nazionalismo arabo. I curdi sono stati forzati ad abbandonare le loro terre e a migliaia sono stati esclusi dal diritto di cittadinanza siriana.” (pag. 31)

Parte da queste considerazioni una lunga ricostruzione storica della nascita e dello sviluppo della resistenza curda e dell’attività forzatamente clandestina condotta dai partiti curdi in Siria almeno dal 1960 e dei motivi che hanno condotto il PYD a non schierarsi né con il governo di Assad né con i “ribelli siriani”, praticando una terza via che è consistita nel liberare e difendere il proprio territorio per amministrarlo, insieme agli altri partiti e realtà della società non solo curda, in una specie di “democrazia cantonale dal basso”.

donne-curde-1 In questa azione, che è stata politica e militare nel suo insieme, le donne hanno svolto un ruolo nuovo ed importante e la costituzione delle loro unità di difesa (YPJ) ha finito con l’essere uno dei punti di forza nella difesa del Rojava sia dai lealisti di Assad che dai “ribelli siriani” e dall’ISIS e jihadisti vari. Donne di ogni estrazione sociale, e spesso provenienti da altre nazioni, che ormai da anni versano il loro sangue e prestano le loro energie intellettuali e fisiche alla causa della rivoluzione. Come ben dimostrano le numerose interviste condotte dall’autrice a donne poi cadute in combattimento.

Una delle cose che la rivoluzione ha fatto per le donne del Rojava – in queste terre in cui il fatto che un uomo possa sposarsi con quante donne voglia o con una ragazzina è riconosciuto come un diritto culturale e legale – è stata quella di proibire il matrimonio in giovane età, la poligamia o i matrimoni combinati.[…] All’inizio del 2015 è stata emanata la cosiddetta «Legge delle donne», che tutela i diritti di queste ultime. Il primo articolo della legge in questione recita così: «la lotta alla mentalità patriarcale è responsabilità che poggia sulle spalle di tutti gli individui del Rojava autonomo e democratico». Con la Legge delle donne è stata riconosciuta parità di diritti in materia di eredità, divorzio e testimonianza in sede legale. La legge ha posto fine a pratiche, come lo herdel1 o la compravendita della sposa, che mercificavano la donna” (pp. 70-71)

Il testo però non dedica soltanto spazio alla situazione femminile nel Rojava e all’apporto che le donne hanno dato e danno all’esperimento sociale in corso, ma illustra anche con dovizia di fatti e di interviste un po’ tutti gli aspetti dello stesso: dalla gestione amministrativa comunalistica alle nuove forme di organizzazione economica e di autodifesa. Contribuendo così non soltanto all’informazione su ciò che sta succedendo nella Siria del nord, ma anche alla discussione su quali possano essere le forme organizzative, sociali, amministrative e culturali là dove sia già possibile una società in divenire.

Il taglio storico ed ambientalistico contraddistingue il secondo testo pubblicato dalla Red Star Press, che fin dalle prime pagine sembra aprirsi a scenari complessi.
I curdi sono il terzo gruppo etnico del Medio Oriente dopo arabi e turchi. Le stime sul numero dei curdi variano in modo notevole, ma le più realistiche si aggirano fra i 35 e i 40 milioni di persone.
L’area di insediamento curda, sebbene relativamente compatta, si trova oggi a cavallo tra gli Stati di Turchia, Iraq, Iran e Siria. La regione è d’importanza strategica anche per la facilità d’accesso all’acqua: i fiumi che bagnano la Siria e l’Iraq scorrono entrambi nella parte turca del Kurdstan (Bakûr). I linguisti collegano di comune accordo la lingua curda al ramo iraniano della famiglia indoeuropea, nonostante il curdo possa differire in modo significativo dal farsi. Non esiste una lingua comune curda, né un alfabeto standard o scritto, in parte a causa della divisione del Kurdistan e della proibizione della lingua curda in molti stati. I curdi parlano cinque dialetti principali o gruppi dialettali […] Questi dialetti sono talmente differenti che non sempre gli interlocutori riescono a intendersi
”. (pag. 23)

Primo problema: spesso a proposito del Medio Oriente, si parla di petrolio, ma troppo spesso ci si dimentica come per il futuro, e già oggi per il vicino Oriente, la questione della disponibilità d’acqua e del suo controllo sia vitale. Prova ne sia il conflitto aperto da Israele con la Siria per il controllo del Golan. Quindi un Kurdistan ricco di acque potrebbe essere in prospettiva più appetibile e più importante del Kurdistan ricco di petrolio.

Secondo problema: una lingua dispersa che potrebbe ritrovarsi a ragionare in maniera prossima all’iraniano potrebbe costituire un ulteriore motivo di contenzioso per l’attuale espansionismo iraniano che, come ho già spiegato in altra sede,2 è uno dei fattori degli attuali conflitti mediorientali.
Così un testo come Laboratorio Rojava può essere utile non solo per ciò che espone direttamente, ma anche per i problemi che può far sorgere indirettamente a seguito di una sua più attenta lettura.

donne-curde-2 Il testo si differenzia dal precedente soprattutto per il fatto che mentre Arzu Demir fa ancora uso di una lettura e, talvolta, di una retorica ispirate dal marxismo-leninismo,3 gli autori di Laboratorio Rojava si rifanno decisamente al nuovo corso ispirato dalle riflessioni del leader storico del PKK: Abdullah Öcalan.

Nel suo tratteggiare le tradizioni comunaliste della società primitiva, Öcalan si volge verso quella che lui stesso definisce società organica o naturale, esistita a suo parere alcune decine di migliaia di anni fa, organizzata in modo comunalista ed egualitario. Era una società matriarcale e si distingueva per l’uguaglianza di genere: «Nel Neolitico fu creato, attorno alla donna, un ordine sociale genuinamente comunalista, il cosiddetto ‘socialismo primitivo’, un ordine sociale che ‘non conosceva le pratiche coercitive dello Stato’» […] dal punto di vista del materialismo storico marxista, il «comunismo primitivo» doveva necessariamente essere superato per arrivare alla società statalista attraverso le varie fasi dello sviluppo economico, dalla società schiavista al feudalesimo, al capitalismo, al socialismo e infine al comunismo, in una successione di passaggi teleologica, deterministica.4 Nella visione di Öcalan, l’emergere della gerarchia, del dominio di classe e dello statalismo non era inevitabile: «La gerarchia e il conseguente sorgere dello Stato fu agevolato dall’ampio ricorso alla violenza e all’inganno. D’altra parte, le forze essenziali della società naturale hanno resistito senza tregua e devono essere continuamente respinte (dallo Stato stesso). Contro il principio marxista del passaggio necessario attraverso fasi di sviluppo, Öcalan ha elaborato la costruzione della democrazia radicale qui e ora” (pp.51-52)

Per questo motivo il modello organizzativo proposto per il Kurdistan è sostanzialmente quello della democrazia consiliare che ebbe inizio dalla Comune di Parigi. In questa formazione di una società civile senza Stato alcuni principi sono comuni a tutti gli aspetti della riorganizzazione sociale, sia per il movimento delle donne che per il sistema sanitario, la difesa, l’amministrazione della giustizia e altro ancora. “Le persone si organizzano in Comuni, formano commissioni e lavorano insieme alle organizzazioni democraticamente legittimate” (pag. 125)

Il testo dedica molto spazio alle forme organizzative e legislative che si sviluppano in questi ambiti e per questo vale veramente la pena di condurne una lettura attenta e meditata in quanto, ancora più che per il precedente, ogni pagina non è volta soltanto a ricostruire le vicende del Rojava rivoluzionario, ma anche a suggerire prospettive per il futuro. Compreso il nostro.

donne-curde-3 Il terzo testo, quello di Silvia Todeschini, che si può richiedere direttamente all’autrice tramite l’indirizzo e-mail sopra segnalato, si occupa specificamente dell’azione femminile nel Rojava e si basa ancora una volta sull’esperienza di soggiorno e sulle interviste raccolta dall’autrice tra le donne del Rojava. Come dice la stessa Todeschini in apertura: “Questo non è un libro sul Rojava; questo non è un libro sulle donne. Questo è un libro sulla rivoluzione, dal punto di vista delle donne” (pag.6)

Da questa impostazione sorgono ancora numerose riflessioni di cui varrebbe la pena di parlare, ma che richiederebbero una trattazione a sé stante e molto ampia (così come, tra l’altro, la richiederebbero anche molte parti del testo precedente), ma almeno due considerazioni vanno qui prese in esame. La prima riguarda il linguaggio che dovrebbe essere utilizzato nel trattare un genere ancora poco favorito dalla nostra lingua.

Afferma Silvia nella sua Piccola nota sul “maschile neutro” che non viene usato in questo libro: “In italiano, al contrario di molte altre lingue, non esiste il genere neutro. In italiano, per descrivere un gruppo di persone in cui sono presenti sia maschi che femmine, si usa il maschile. Se per esempio c’è un gruppo di 15 giardinieri, di cui 13 donne e 2 uomini che ha fatto n buon lavoro, secondo la grammatica italiana si dice «i giardinieri sono stati bravi». Equiparare il neutro al maschile è chiaramente sessista, perchè la presenza delle donne viene ignorata, vengono assimilate ai maschi. Che fare quindi? Secondo me è da modificare la lingua italiana, inserendo un plurale effettivamente neutro (come del resto esiste in curdo e in altre lingue). In attesa che si modifichi la lingua, come esprimersi in un modo che non sia sessista ma che resti comprensibile? […] altra possibilità è quella di coniugare il plurale neutro al femminile, «le giardiniere sono state brave»: questa possibilità è discriminante nei confronti dei maschi; però perlomeno è facile da leggere. E comunque potrebbe essere un buon mezzo per far comprendere quanto maschilista sia il maschile neutro. In attesa che la lingua venga modificata, e possa esistere un plurale non escludente, verrà quindi per questo libro assunto il femminile come plurale neutro: ciò significa che quando leggerete espressioni come per esempio «le compagne», è possibile che nel gruppo siano presenti anche compagni maschi” (pag.2)

La seconda, invece, tocca il tema della «bellezza», tema che troppo poco spesso o quasi mai i rivoluzionari hanno seriamente preso in considerazione.
Per lottare, infine, è necessaria la bellezza. E’ necessaria l’estetica. Non solo quella esteriore, ma anche o soprattutto quella dei comportamenti. Perché dire che stai dicendo cose giuste, ma il modo in cui le dice è sbagliato, equivale a dire che è sbagliato tutto, perché il modo in cui si fanno le cose è parte integrante di ciò che si fa. Perché il fine non giustifica i mezzi: i mezzi al contrario devono contenere in se stessi il fine, devono rispecchiarlo, i mezzi stessi sono parte del fine. Perché la strada deve essere innanzitutto essere bella, per poter essere percorsa..Perché non c’è una via verso la libertà che non ne contenga i semi al proprio interno; non è sufficiente avere un buon obiettivo, è necessario conseguirlo in maniera giusta, in maniera corretta. Un caro compagno un giorno mi ha detto che puoi riconoscere se una lotta è giusta in base a quanto bene stai nel farla. La bellezza della lotta non è secondaria, perché la lotta è bellezza. E la gioia che provoca, il sorriso sui nostri volti,è già di per se un coltello nel fianco del nemico. In Rojava si dice che l’estetica è come una rosa, a cui sono necessarie spine per difendersi; queste spine sono l’etica, i valori, ma sono anche la lotta, perché la bellezza senza lotta diventa vuota” (pag. 196)

E queste considerazioni finali mi portano a comprendere ancora di più la straordinaria vicinanza tra lotta dei curdi del Rojava e l’esperienza del Movimento No Tav in Val di Susa. Per cui mi permetto di segnalare, in chiusura, tre agili e sintetici, ma tutt’altro che superficiali, libretti prodotti da una casa editrice vicina al movimento No Tav sulla questione fin qui esplorata:

Dai monti del Kurdistan. Intervista a più voci in un villaggio del Kurdistan turco, Alpi libere, Cuneo maggio 2012, pp. 32, € 2,00

pepino-kurdistan Daniele Pepino, Nell’occhio del ciclone. La resistenza curda tra guerra e rivoluzione, TABOR edizioni, Valle di Susa, dicembre 2014, € 2,00

Janeth Bielh, Dallo Stato-nazione al comunalismo. Murray Bookchin, Abdullah Öcalan e le dialettiche della democrazia, TABOR “materiali”, Valle di Susa , giugno 2015, € 2,00


  1. Pratica matrimoniale che consiste nello scambio di spose tra famiglie. E’ spesso utilizzata per mettere fine a sanguinose faide inter-famigliari  

  2. https://www.carmillaonline.com/2015/04/06/la-bomba-iraniana/  

  3. Riferibili, o almeno così sembrerebbe dopo una prima lettura, in alcuni casi alle posizioni del Mlkp (Marksist-Leninist komünist partisi – Partito comunista marxista-leninista)  

  4. Questa ricostruzione, di per sé corretta, risente tuttavia delle forzature interpretative del pensiero di Marx fatte dagli stessi marxisti. Si veda in proposito il mio https://www.carmillaonline.com/2014/09/03/marx-contro-marxismo/  

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