comunitarismo – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 30 Apr 2025 21:35:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 L’antropologia alle prese con la globalizzazione https://www.carmillaonline.com/2019/08/17/lantropologia-alle-prese-con-la-globalizzazione/ Sat, 17 Aug 2019 21:30:48 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=54066 di Gioacchino Toni

Marc Augé – Jean-Paul Colleyn, L’antropologia del mondo contemporaneo, Milano, Eléuthera, 2019, pp. 118, € 14,00

L’antropologia contemporanea si trova a dover evitare da un lato di prestarsi a un riduzionismo culturale volto a conformare l’intero globo al modello occidentale e dall’altro di contribuire alla costruzione di una distinzione artificiosa tra tale sistema ed il “resto del mondo” che “non ha saputo evolversi” in tale maniera. Che si tratti di assimilazionismo o di primitivismo, l’Occidente continua a mostrare tutte le sue difficoltà nel confrontarsi con l’alterità.

All’antropologia culturale del XXI [...]]]> di Gioacchino Toni

Marc Augé – Jean-Paul Colleyn, L’antropologia del mondo contemporaneo, Milano, Eléuthera, 2019, pp. 118, € 14,00

L’antropologia contemporanea si trova a dover evitare da un lato di prestarsi a un riduzionismo culturale volto a conformare l’intero globo al modello occidentale e dall’altro di contribuire alla costruzione di una distinzione artificiosa tra tale sistema ed il “resto del mondo” che “non ha saputo evolversi” in tale maniera. Che si tratti di assimilazionismo o di primitivismo, l’Occidente continua a mostrare tutte le sue difficoltà nel confrontarsi con l’alterità.

All’antropologia culturale del XXI secolo Marc Augé e Jean-Paul Colleyn hanno dedicato nel 2004 un libro tradotto e pubblicato una prima volta in italiano un paio di anni dopo da Eléuthera ed ora riproposto, dal medesimo editore, in una nuova edizione: L’antropologia del mondo contemporaneo (Eléuthera, 2019).

A lungo, sostengono i due studiosi, gli antropologi hanno pensato di compiere viaggi nel tempo mentre in realtà si muovevano nello spazio. Al convincimento, oggi scarsamente sostenibile, che lo spostamento in terre lontane consenta di rintracciare “civiltà antiche”, si è sostituita la consapevolezza che, indipendentemente dal modo di vita degli esseri umani delle più diverse società, esistano riferimenti in comune e che l’antropologia, nel suo spiegare la variabilità dei fatti umani, debba saper comprendere anche le somiglianze e gli universali.

Se dal punto di vista valoriale la distinzione Occidente / resto del mondo e l’idea di uniformare in un’unica grande categoria l’umanità “non industriale” sono del tutto inaccettabili, dal punto di vista scientifico, sostengono Augé e Colleyn, non di meno la sfasatura tra “moderni” e “altri” necessita di essere indagata.

L’antropologia occidentale si è sviluppata all’interno di un percorso culturale che ha avuto le sue tappe principali nel pensiero greco-romano, nell’illuminismo e nella rivoluzione industriale. Condannato l’evoluzionismo che pretenderebbe di imporre una tendenza orientata da parte di tutte le forme sociali verso tale modello, occorre però, ribadiscono i due studiosi, prendere atto di come il modello occidentale abbia finito col farsi globale, sebbene, a ben guardare, risulti meno razionale di quel che pretende. L’economia della società postindustriale più avanzata resta infatti fortemente toccata dal simbolico, dall’ideologia e dalle credenze.
Nonostante tale sistema abbia condotto ad una professionalizzazione della ricerca tecnico-scientifica, l’Occidente non può pretendere di detenere il monopolio della riflessione critica:

non tutte le culture aderiscono a un modello scientifico basato sul confronto di argomenti razionali con l’unica preoccupazione di ricavarne leggi, regolarità, strutture. Ciò che oggi è in discussione è il fatto di capire se l’autonomizzazione della scienza e della ricerca introduca, rispetto a tutte le altre forme del sapere, una cesura epistemologica, o se la categoria isolata sotto il nome di “scienza” altro non sia che una forma relativa di sapere tra le tante (p. 119)

Lo schema base dell’agire dell’antropologo prevede: la costruzione di un oggetto di studio, la scelta di un tema legato a forme di vita collettiva, il portarsi sul campo al fine di svolgere l’indagine etnografica, affrontare la letteratura esistente sull’oggetto di ricerca, infine l’intraprendere la scrittura dei risultati ottenuti.

Circa l’oggetto, se un tempo era confinato a piccole società esotiche che si volevano indagare prima che venissero assorbite dall’espansione della civiltà europea, oggi, con l’avanzare del processo di globalizzazione, il contesto da indagare si estende all’intero globo. Ovunque le genti risultano “locali” solo in funzione di una precisa configurazione storica e, in un sistema mondiale come l’attuale, si mostrano sempre più interdipendenti. Dunque, l’antropologia è passata dallo studio dei popoli a quello dei temi, con le inevitabili specializzazioni. Nonostante si siano così strutturate, ad esempio, un’antropologia del diritto, della religione, della malattia, della città e così via, resta indispensabile, a parere di Augé e Colleyn, il mantenimento di un minimo di visione generale dell’umanità nel suo insieme.

Quando si parla di campo in ambito antropologico, si intende contemporaneamente un luogo ed un oggetto di ricerca ed a proposito di esso i due studiosi ribadiscono come il metodo su cui si basa l’antropologia resti quello dell’etnografia: il lavoro sul campo durante il quale il ricercatore prende parte alla vita quotidiana di una diversa cultura, osserva, registra, tenta di accedere al punto di vista indigeno e ne scrive.

L’immersione in una cultura consente un apprendimento spontaneo (per familiarizzazione o impregnazione) che dovrebbe impedire al ricercatore di proiettare sulla realtà sociale indagata ciò che vuole vedervi; l’antropologo deve riuscire ad evitare di inserire ciò che osserva all’interno di categorie appartenenti alla sua tradizione culturale e di trasformare ciò che si trova di fronte in differenza ed estraneità a tutti i costi rispetto alla sua cultura di provenienza.

L’attuale analisi transculturale si è formata sulla base dei tentativi degli anni Settanta di analizzare la realtà sociale dal suo interno, ed altrettanto importanti per la ricerca contemporanea sono state le ricerche antropologiche che hanno avuto come oggetto di analisi l’esperienza antropologica stessa in quanto forma della conoscenza prodotta dal contattato tra due diverse culture. Grazie ai postcolonial studies è stata invece messa in evidenza la dimensione politica del ruolo dell’antropologo nel suo derivare dal colonialismo.

Nell’attuale realtà globalizzata, segnata dalla mobilità delle culture e dagli spostamenti delle popolazioni, il lavoro sul campo si trova ad assumere una forma “reticolare”, richiedendo un’indagine delle “comunità sparse” tanto nel paese d’origine quanto in quello di approdo. L’inchiesta, però, sottolineano i due studiosi, non può ridursi a descrizione di quanto osservato sul campo: «essa non può fare a meno di prospettare fenomeni che la determinano dall’esterno, spesso studiati da altri specialisti: geografi, demografi, storici, linguisti, psicologi…» (p. 98)

A proposito della fase di lettura, Augé e Collyn ricordano come l’antropologo si trovi a tentare di comprendere l’universo sociale di una cultura che non consce e di come, a tal fine, debba confrontare quanto osservato sul campo con con il sapere accumulato dalla letteratura circa altre forme sociali presenti nel tempo e nello spazio evitando così di piegare l’esperienza diretta a quanto già conosce e allo stesso tempo di trarre stimolo dalle sue conoscenze. Ciò differenzia il campo dal reportage.

Attraverso la letteratura il ricercatore può dialogare con autori di epoche e culture diverse in modo da evitare di essere del tutto determinato dalle condizioni storiche in cui vive. I classici dell’antropologia, pur con tutti i limiti storico-culturali, mantengono elementi di utilità e di attualità. Tali ricerche necessitano di essere lette alla luce dei contesti culturali in cui sono state prodotte cercando in esse quanto resta di utilizzabile alla luce delle attuali conoscenze.

Circa la fase di scrittura è ovviamente necessario che l’antropologo si interroghi a proposito del linguaggio che intende utilizzare e, salvo rare eccezioni, è soltanto dall’inizio degli anni Ottanta che le modalità espositive sono state realmente problematizzate. «Ogni stile postula una teoria (una concezione generale di ciò che si discute), una tradizione intellettuale (la “letteratura”) e un impegno etico (non giudicare, ma capire)». (p. 104)

Da qualche tempo si tende a concedere maggior spazio a “voci altre” rispetto a quella del ricercatore: voci d’archivio, di interlocutori sul campo, di altre discipline, di narratori e così via. Il ricorso da parte di alcuni antropologi agli audiovisivi impone una particolare attenzione al fine disciogliere la mediazione di tali strumenti nella restituzione; che si abbia a che fare con la scrittura o con gli audiovisivi si tratta sempre di “discorsi costruiti”.

Se l’antropologia classica (1920-1975) aveva il suo genere preferito nella monografia, che si propone come ricerca esaustiva di una società localizzata, successivamente è stato preferito il saggio che, nel suo proporre un punto di vista argomentato, tenta di confrontare il locale con una realtà più allargata nello spazio e nel tempo. L’antropologia contemporanea ha dovuto anche prendere atto che i soggetti indagati sono spesso a loro volta lettori dei risultati ottenuti dal ricercatore e non mancano di discuterei e criticarli.

L’antropologia e la sociologia contemporanee operano nella convinzione che l’attualità si è fatta caotica e con l’implosione delle grandi narrazioni tutto tende ad essere visto sotto la lente del dubbio.

Dire che ogni testo è una costruzione è un’ovvietà, affermare che un testo di scienze umane è una finzione, in quanto non può pretendere di arrivare a una verifica definitiva, è un abuso di linguaggio o un espediente retorico. É bene infatti distinguere con cura tra finzione, errore, menzogna, falso, argomento ideologico, modello, ipotesi… (pp. 110-111)

L’idea soggiacente all’antropologia coloniale votata alla classificazione etnica, secondo i due studiosi, ha preannunciato il comunitarismo contemporaneo.

In entrambi i casi si trattati sottrarre una “società” dal suo ambiente storico, di preservarla dall’insieme che la contiene, lo Stato […] In Europa, se oggi si sviluppa uno spirito comunitario, ciò è dovuto a un indebolimento del potere di integrazione dello Stato e alla malintesa volgarizzazione di un’antropologia dilettantesca venata di moralismo. In questa ideologia, è la celebrazione delle differenze culturali che funge da a priori, non la comprensione dei meccanismi che stanno alla base della struttura identitaria e quindi delle alterità. I movimenti identitari non chiedono all’antropologo un giudizio morale. Esistono, e bisogna cercare di spiegarli, quindi di capirli (pp. 115-116).

Non sorprende, affermano Augé e Colleyn, che

le persone si raggruppino, adattino la propria cultura alle sfide del momento, sfruttino creativamente il proprio passato per cercare di trovare il proprio posto e di trarne qualche vantaggio. L’antropologo può deostruire queste ideologie, mettendo in luce come tutte le forme dell’esclusivismo – razziali, etniche, classiste, religiose, sessuali – siano falsamente presentate come qualità essenziali, ma deve anche fare opera di storico per studiare le condizioni che le hanno fatte emergere (p. 116).

Negli anni Ottanta si è iniziato a parlare di “antropologia indigena” a proposito delle ricerche svolte da appartenenti a “gruppi minoritari”: chi è stato a lungo oggetto di studio inizia a produrre a sua volta ricerche. Se deve essere accolto positivamente il fatto che l’Occidente divenga oggetto di studio da parte di chi “non ne fa parte”, non si deve però perdere di vista l’asimmetria tra le possibilità offerte a tale tipo di ricerca rispetto a quelle di cui dispone la ricerca occidentale.

Nel libro viene sottolineato come le località in cui sia individuabile un’autentica autoctonia siano restate davvero poche e di come sia ormai convinzione diffusa tra gli studiosi che l’etnicità sia

una una relazione più che una proprietà di un gruppo, che l’economia di mercato e le istituzioni statali consono incompatibili con strutture di lignaggio, che un movimento di guerriglia può ricorrere alla trance di possessione, che gli scambi “globali”, sotto forma di traffici di ogni genere, di migrazioni, di trasferimenti di beni su lunghe distanze e di lunga durata, non sono cominciati con l’invenzione della macchina a vapore (p. 125)

L’antropologa contemporanea non ha come obiettivi la ricerca di “paradisi perduti” o l’individuazione di modalità di “resistenza all’occidentalizzazione”. Non si tratta di scoprire gruppi sino ad ora sconosciuti o di completare la mappatura culturale del globo; l’antropologia, sostengono Augé e Colleyn, dovrebbe piuttosto preoccuparsi di «proporre un’analisi critica delle modalità di espressione culturale nel contesto storico che dà loro un senso» (p. 125).

L’antropologia, così come la sociologia, dovrebbe anche riflettere sulla deriva individualista della società contemporanea tenendo conto dell’enorme impatto dei mezzi di comunicazione e dell’indebolimento delle istituzioni tradizionali che storicamente assicuravano i legami sociali.

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Terre di mezzo https://www.carmillaonline.com/2018/02/08/terre-di-mezzo/ Wed, 07 Feb 2018 23:01:52 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=43275 di Sandro Moiso

Collettivo “Mauvaise Troupe”, CONTRADE. Storie di ZAD e NOTAV, Edizioni Tabor, Dicembre 2017, pp. 416, € 12,00

Prendendo in mano il testo appena pubblicato dalle Edizioni Tabor e tradotto dal francese con l’aiuto sia di compagni italiani che degli stessi autori del collettivo Mauvaise Troupe, ho ripensato all’incontro svoltosi a Venaus il 12 giugno 2016 tra i rappresentanti del Movimento NoTav valsusino, i compagni francesi di Notre Dame des Landes e i delegati di diverse fabbriche autogestite in Argentina, Francia e Italia. In quei giorni in Val di Susa, [...]]]> di Sandro Moiso

Collettivo “Mauvaise Troupe”, CONTRADE. Storie di ZAD e NOTAV, Edizioni Tabor, Dicembre 2017, pp. 416, € 12,00

Prendendo in mano il testo appena pubblicato dalle Edizioni Tabor e tradotto dal francese con l’aiuto sia di compagni italiani che degli stessi autori del collettivo Mauvaise Troupe, ho ripensato all’incontro svoltosi a Venaus il 12 giugno 2016 tra i rappresentanti del Movimento NoTav valsusino, i compagni francesi di Notre Dame des Landes e i delegati di diverse fabbriche autogestite in Argentina, Francia e Italia. In quei giorni in Val di Susa, nel corso delle tre giornate della “Montagna di libri nella valle che resiste”, i rappresentanti di vari movimenti antagonisti nei confronti dello stato di cose presenti avevano cercato di fare un primo punto tra le loro diverse e spesso lontane esperienze.

Proprio in quell’occasione fu presentato, nella sua edizione francese, il testo di cui qui di seguito si parlerà e che affonda le sue radici nelle comuni e allo stesso tempo differenti esperienze che la storia delle battaglie del movimento NoTav e dei compagni della ZAD (attualmente vincitori nei confronti dello Stato francese dopo la dichiarazione di rinuncia al progetto di costruzione del secondo aeroporto di Nantes rilasciata a metà gennaio dal presidente Macron) hanno portato avanti negli anni. L’edizione attuale rende disponibile per il pubblico di lingua italiana la storia incrociata di due esperienze che possono un po’ fungere da simbolo e da modello (si pensi anche solo a come si va estendendo e organizzando la battaglia del movimento NoTap su scala nazionale) per le lotte a venire e la presa di distanza dal modello novecentesco che fu al centro di uno dei dibattiti svoltisi in quegli stessi giorni, in cui si era parlato della morte del ‘900 e delle sue ideologie.

Non ho timore ad affermarlo: si tratta sicuramente del lavoro migliore sin qui realizzato sull’esperienza NoTav e sulla parallela esperienza della ZAD. Sono infatti alcuni militanti della ZAD, riuniti nel collettivo Mauvaise Troupe, a raccogliere le voci degli altri militanti e a dare voce anche a quelli della battaglia NoTav. Un contatto diretto tra realtà di lotta parallele e molto simili nelle finalità e nelle modalità di conduzione della lotta. Non è necessaria una mediazione di qualsiasi tipo (culturale, sociologica, antropologica o altro). Le due realtà si parlano e si narrano con naturalezza. Si confrontano. Definiscono obiettivi. Mantengono e difendono le proprie specificità.
Questo è il tipo di dialogo e di ricerca che può servire alle lotte di oggi e di domani. Non sono le ideologie a parlarsi e a confrontarsi: sono le persone, i fatti e le scelte che ne derivano. Una sorta di assemblea popolare a distanza in cui il lettore è immerso, mentre al contempo può ripercorrere le vicende pluridecennali che stanno ormai alla base, più che alle spalle, delle due lotte.

Lotte che prima di tutto si definiscono sul territorio dove si svolgono e che dal territorio sono determinate: il bocage1 per i francesi oppure la montagna per i valsusini. Territori che portano in sé i segni del rapporto con l’Uomo, ma che a loro volta hanno fortemente segnato il tipo di comunità che li abita. In cui, non bisogna ignorarlo, sia in un caso che nell’altro il senso di comunanza e di appartenenza deriva anche da una forte capacità di azione autonoma, individuale e collettiva, alla base della quale stanno (soprattutto nel caso francese) le forme dei rapporti di proprietà e di lavoro e i conflitti che ne derivano.

Territori segnati non soltanto dalla storia recente, ma anche da quella passata. In cui l’autonomia delle comunità (soprattutto quelle alpine ed occitane) ha caratterizzato le vicende locali anche nei rapporti con i regni, gli stati e gli invasori che di volta in volta hanno cercato di sottometterle alle loro leggi ed ai loro interessi. Territori e comunità in cui la storia di lunga durata incrocia quella degli eventi più vicini a noi. Tutto sommato ancora oggi, ma senza la retorica, la pompa magna e le narrazioni farlocche che invece spesso caratterizzano i nazionalismi statali, finalizzati esclusivamente a giustificare lo sviluppo economico. A qualsiasi costo e come tale definito “progresso”e coincidente di volta in volta con la cementificazione e la distruzione del territorio e dell’ambiente, con la costruzione di un nuovo aeroporto o di una linea ferroviaria ad alta velocità, magari là dove i lavoratori pendolari sono costretti ad ammassarsi e a morire su treni e lungo linee inadeguate e sempre meno soggette ad una efficace manutenzione.

Per chi non lo sapesse, come chiariscono, gli autori e i curatori:

“«ZAD» è una «Zone d’Aménagement Différé» (Zona di sistemazione differita), un dispositivo amministrativo che fornisce a enti locali o a imprese pubbliche il diritto di prelazione sui terreni in vendita in una determinata zona. L’acronimo è stato detournato da parte degli oppositori dell’aeroporto di Notre-Dame-des-Landes in «Zone a défendre» (Zona da difendere). La sigla è ormai entrata nell’uso comune e viene utilizzata anche d aaltre lotte in difesa di territori minacciati.”

Una resistenza che affonda le sue radici fin nei tardi sessanta e nell’esperienza del movimento Paysans Travailleurs, che raccolse l’esperienza della convergenza tra operai e lavoratori della Loira Atlantica nel periodo attorno al Maggio del 1968 e portò un turbamento rivoluzionario nel conservatorismo locale.

“Da questa esperienza nascerà poi la Confédération paysanne. In un mondo di contadini senza terra e di mezzadri, l’accesso alla terra e la priorità da dare all’uso rispetto alla proprietà privata sono motivi di duro contrasto. I mezzi dell’azione sono all’altezza delle ambizioni: occupazione di campi e cascine, blocchi di strade e ferrovie… Questi conflitti, con le loro impennate, segnano profondamente la città di Notre-Dame-des-Landes e alimentano questa fase di resistenza all’aeroporto, come dimostra il fatto che le terre della ZAD continuano ad essere coltivate.” (pag. 37)

L’ADECA (Associazione di difesa dei coltivatori interessati dall’aeroporto) nasce nel 1972, a partire da una frattura tra i locali sindacati contadini e la Camera dell’agricoltura, impegnatasi a promuovere l’aeroporto a braccetto con la prefettura. Cui sono seguiti 46 anni di lotte che nel gennaio di quest’anno, come si è detto più sopra, sono giunte ad una, forse, definitiva vittoria.
Ma qui più ancora della storia e della ricostruzione di quelle vicende, che un autentico coro di voci narra fin nei dettagli nel libro, ciò che forse è ancora più importante riconoscere in quell’esperienza, così come in quella del Movimento NoTav della Val di Susa, sono le forme di aggregazione e di organizzazione immediata e dal basso che gli hanno dato le gambe su cui marciare. Un’autentica democrazia diretta che ha finito col costituire anche una nuova forma di organizzazione socio-politica e un modello di vita più umano e in maggior sintonia con l’ambiente circostante.

E’ a questo punto che non posso fare a meno di ricordare una frase spesso ripetuta da un mio caro amico che, da anni, va affermando che “gli hippy erano avanti di 500 anni rispetto ai bordighisti”. Si badi bene, tale affermazione non va intesa in spregio di Amadeo Bordiga, ma delle sette e delle conventicole para-comuniste che da quella esperienza sono, troppo spesso, disgraziatamente sorte. Non per amore di altre sette, -ismi o partitini e partitucoli, ma proprio come rifiuto di tutta la pomposità, la seriosità, il leaderismo e gli errori, a volte comici e troppe altre tragici, che hanno accompagnato nel tempo il tentativo di rinnovare l’esperienza bolscevica scimmiottandone atteggiamenti, metodi organizzativi e parole d’ordine e ottenendo, come unico risultato, quello di dividere i movimenti reali in base a presunte ed inutili carte di identità politica.

Tali pretese identitarie, che si ponevano subito al di fuori dei movimenti con la pretesa di porsi però come forze dirigenti degli stessi, hanno fatto poi sì che quelle lotte (economiche, sociali, ambientali, di genere e tutte le altre ancora sorte a partire dal secondo dopoguerra e dalla fine degli anni sessanta in particolare) fossero spesso risospinte ancora una volta all’interno di quei recinti da cui erano appena fuggite. Lo Stato nazionale continuava ad essere il riferimento reale di ogni trattativa oppure di ogni processo insurrezionale. Si cercava “il cuore” di una macchina spietata e priva di cuore alcuno. Occorreva colpire la macchina per poi riappropriarsene e ricostruirla o, molto più spesso, si cercava di modificarla con riforme proposte dal basso (quanto in basso? mi viene oggi da chiedermi).

Oppure la si difendeva, tout-cour, dalle trame fasciste, golpiste, eversive di destra per salvane, almeno, lo statuto democratico, facendo così di una Costituzione ampiamente compromissoria un modello ineguagliabile di diritto e di democrazia. L’autonomia dell’azione di classe finiva con lo stemperarsi in un oceano di ricette, enunciati e affermazioni troppo spesso apodittiche e auto-referenziali. Trasformando spesso le assemblee in parlamentini da cui l’unica voce assente era proprio, come nei parlamenti reali, quella di chi dava alle lotte le gambe sulle quali camminare.

Il Partito di classe che nella prima parte del ‘900 aveva costituito un punto d’arrivo per unificare una classe operaia concentrata in grandi agglomerati industriali e in vasti stabilimenti dall’organizzazione tayloristica che si era espansa da Detroit a Pietroburgo passando poi agli stabilimenti torinesi di Mirafiori, era anche il prodotto di un immaginario politico di cui l’organizzazione di fabbrica, con la separazione delle mansioni e tra progettazione e produzione, aveva svolto un ruolo fondamentale. E’ difficile credere che il Partito immaginato da Marx corrispondesse esattamente a quello teorizzato da Lenin o, ancor peggio, dal successivo marxismo-leninismo.

In una sorta di interpretazione lamarckiana dell’evolversi dei conflitti di classe e della loro organizzazione, il partito programma della Prima Internazionale si era trasformato nel Partito macchina, apparentemente buono per ogni uso come un tornio o una fresa o la linea di montaggio, con cui raggiungere una determinata capacità produttiva “rivoluzionaria” . Lotte, esperienze reali, auto-organizzazione dovevano essere revisionate alla luce dello scopo produttivo e rimodellate come materie prime alle quali i “lavoratori” attraverso il loro strumento avrebbero dato la “giusta forma”.

Guardiamolo bene quel Partito: gli addetti alla progettazione sviluppavano e delineavano il progetto, gli operai lo mettevano in esecuzione usando gli strumenti consigliati e messi a disposizione dalla Direzione per poi ottenere il risultato voluto. Che poi il risultato sia stato spesso, e soprattutto a partire dagli anni successivi alla Rivoluzione bolscevica, deludente, ridimensionato o addirittura rovesciato rispetto alle aspettative sembrava non importare. L’importante era lo sforzo collettivo, il sacrificio individuale, lo stakanovismo politico del volantinaggio o dell’azione ad ogni costo. In cui a trionfare è sempre l’aurea mediocritas, madre di ogni burocratizzazione istituzionale e sociale: la regola dell’adattamento alla norma e all’esistente anche quando si finge di volerlo cambiare. Dai burocrati dei partiti nati dalla bolscevizzazione staliniana ad Adolf Eichmann, tanto per essere chiari e come ebbe a ricordare forse la più grande interprete della politica del ‘900: Hannah Arendt.

Per troppo tempo l’immaginario e il politico sono stati considerati come campi separati del sapere e dell’operare umano, mentre in realtà il “politico” è soltanto uno dei territori dell’immaginario. Con questa affermazione non intendo affatto ritornare all’idealismo o all’affermazione del primato della mente e dell’idea sulle condizioni materiali. Piuttosto vorrei ribadire con più forza che l’immaginario non può esistere senza affondare profondamente le proprie radici nella concreta realtà materiale di cui è una delle espressioni. Non ci è possibile immaginare nulla che già non esista o senza partire dall’interpretazione dei segnali che il mondo circostante già ci invia.

Proprio per questo ogni atto politico e ogni sua teorizzazione è frutto di una interpretazione dei segnali che la società umana ci trasmette e degli scopi possibili che la specie, e le classi in cui è ancora divisa, prova a perseguire. Sappiamo bene che l’immaginario culturale, politico, economico e morale è, generalmente, dominato dalla visione che le classi dominanti intendono trasmettere alle classi spossessate della facoltà di decidere ed organizzare la struttura socio-economica, ma proprio per questo diventa importante slegare la coscienza e la conoscenza delle classi sfruttate da quella prodotta da quelle al potere.

E’ un vecchio problema del movimento operaio e dell’antagonismo di classe quello di combattere la falsa coscienza, disvelandone contenuti, metodi e finalità. Ma troppo spesso tale riflessione e azione critica si è fermata alla superficie della rappresentazione del mondo, non andando ad incidere sulla produzione reale del mondo e dei rapporti sociali che lo fondano. Occorre abbandonare l’idea di una battaglia teorica destinata a scardinare il pensiero borghese in attesa di una successiva (post-mortem?) trasformazione della società a seguito di un suo miglioramento riformistico o rivoluzionario. E non basta nemmeno detournarne i simboli e le immagini come suggerirono a loro tempo i situazionisti: oggi la pubblicità lo fa quotidianamente, facendo perdere al détournement gran parte del vantaggio precedentemente acquisito.

Tale linea di condotta ha contribuito, involontariamente (forse), al mantenimento e al rafforzamento degli attuali rapporti di produzione, poiché dandoli per scontati e inevitabili, fino ad un radioso futuro, è servita a mantenere e rafforzare le basi materiali delle ideologie dominanti. L’accettazione dei rapporti attuali implica l’accettazione, per quanto critica, sia della legge del valore che dell’estorsione del plusvalore dal corpo vivente della manodopera. Da qui, anche, le teorie del socialismo in un paese solo e della possibilità, discussa negli anni venti, di un’accumulazione socialista. In attesa del radioso avvenire, secondo questa interpretazione, ciò che occorre è cambiare la direzione della macchina, non la macchina stessa. Il prima citato Bordiga fu forse l’unico a intuire la contraddizione interna, non soltanto teorica, a tale formulazione dello sviluppo sociale in divenire ma anche lui continuò a crogiolarsi nell’idea del Partito salva tutto.

Gli hippy, ma insieme a loro parecchi comunitaristi che già li avevano preceduti nel corso del ‘900 e dell’Ottocento, forzarono la mano in questo senso: la società andava cambiata qui, ora e subito. Le comuni, il rifiuto del lavoro salariato e dello sfruttamento, uno stile di vita alternativo basato più sulla lentezza e l’ozio che non sulla produttività e l’assillante ricerca del guadagno andavano a rompere la rappresentazione che la società faceva di se stessa e delle sue leggi “necessarie”. La domanda posta era molto semplice: fino a quando?2

L’immaginario diventa allora il luogo privilegiato in cui i segnali, variamente interpretati dalla mente individuale o collettiva, vengono tradotti in simboli, destinati a costituire la base di ogni discorso (politico, filosofico, scientifico, letterario, culturale, religioso o altro ancora che sia). Cambiarlo, cambiarne i segni e i simboli significa rovesciare non solo l’ordine del discorso, ma le sue leggi, i suoi presupposti, il significato generale della narrazione costruita intorno ad esso. Infine, rovesciare o modificare radicalmente i termini del discorso è l’unico strumento che permette di giungere alla formulazione di un nuovo paradigma, necessario per definire nuovi campi della conoscenza e dell’azione umana.3

Condividerne i significati simbolici diventa allora un modo per condividere la necessità del cambiamento e del rovesciamento che già si presenta nell’agire della comunità umana, agitandone i sogni e i desideri, contribuendo a definirne nuove finalità ed obiettivi; mentre la condivisione dei simboli legati all’ordine socio-economico e culturale dato finisce col contribuire a mantenere in vita ciò che, potenzialmente, è già morto.

Sì, perché fino a quando si è convinti di vivere in un regime di necessità non si riesce ad interpretare i segnali, prodotti dalla storia reale e dalla società materiale, che ci indicano che questo stato di “necessità” è soltanto uno dei possibili scenari. La commedia funziona fino a quando non solo il regista e gli sceneggiatori ne tengono in mano il copione, ma anche e soprattutto perché tutti gli attori e tutte le comparse si impegnano a recitarla bene. A renderla convincente. Se a stonare o a recitare le battute sbagliate è solo uno o sono poche comparse è chiaro che sarà comodo per chi si occupa di casting sostituirli.

E poi si sa, gli attori si affezionano ai loro personaggi, si identificano e credono in loro. Basti citare il povero Bela Lugosi che, dopo aver recitato decine di film in cui interpretava Dracula o altri vampiri, finì col vivere gli ultimi anni credendosi un figlio della notte e dormendo in una bara.

Tornando al libro, posso dire che non è qui possibile, e tanto meno utile, ripercorrere per filo e per segno le vicende parallele delle due lotte, anche per non togliere il piacere e la sorpresa al lettore di ritrovarle nella narrazione viva e trascinante delle voci dei militanti, francesi ed italiani, interpellati e che nessuna ulteriore penna o mestierantismo della scrittura può narrare o sintetizzare meglio.

Rispetto all’edizione francese del 2016 il lavoro della “Cattiva compagnia” tradotto in italiano non presenta la cronologia delle due lotte, l’elenco dei personaggi citati e l’indice analitico finale, probabilmente per non appesantire un testo gia di per sé piuttosto corposo, ma costituisce un testo che potrebbe diventare di riferimento non solo per chi volesse conoscere di più sulle due lotte ma anche per coloro che vogliono liberarsi dai canoni novecenteschi di un agire politico che è più politicantismo che non azione/riflessione di classe per affrontare più efficacemente, e a partire dall’immediato, i compiti futuri legati al superamento del modo di produzione attuale e di una società divisa in classi.

Sorge a questo punto il sospetto che l’accanimento repressivo contro le due comunità messo in atto dagli Stati e dai loro apparati polizieschi4 non siano tanto dovuto al fatto di essersi opposte alla realizzazione di due delle grandi opere inutili cui il capitalismo attuale ci ha abituati in ogni periodo di crisi degli investimenti, ma proprio per la capacità che entrambe le lotte hanno saputo dimostrare in termini di critica e riorganizzazione dell’esistente e, soprattutto, per aver saputo ridisegnare l’immaginario delle classi e degli strati sociali in lotta. Rifuggendo da qualsiasi richiamo al modello di sviluppo dato così per scontato dai media, dai governi e, troppo spesso, anche dalle classi subalterne.

Ecco che allora anche il termine popoli, che compare all’interno dei ragionamenti del libro e dei due movimenti, assume un valore e un significato totalmente diverso da quel “popolo” che oggi, scusate il gioco di parole, spopola tanto a destra che a sinistra. Nel secondo caso il concetto si basa sempre su una base sostanzialmente etnica, linguistica e nazionale (quindi statale) oltre che interclassista ed esclusivista, mentre nel primo caso il concetto serve ad definire coloro che lottano insieme per un obiettivo che travalica i limiti della territorialità per porsi come strumento di liberazione individuale e collettivo allo stesso tempo. Termine che diventa inclusivo così come lo sono diventate le due comunità nei confronti di tutti coloro che le hanno affiancate nella lotta, ne hanno chiesto l’aiuto oppure le hanno raggiunte nella comune convivenza.

Un modello di inclusione attraverso la condivisione di obiettivi e il coinvolgimento in battaglie comuni che non può non rimandare anche all’esperimento comunalistico del Rojava che, a sua volta, ha spesso ricevuto l’appoggio delle due realtà di cui si è fin qui parlato.
Al lettore ora il compito di leggere, sfogliare, trarre ispirazione dalle pagine del libro e dal corredo di fotografie e mappe che lo accompagnano.

Non ho mai amato molto Tolkien e Il signore degli anelli, ma il concetto di terra di mezzo mi sembra adattissimo a definire l’esperienza di un mondo che non è più e, allo stesso tempo, ancora non è. Forse gli hippy e i compagni delle lotte passate più radicali hanno vissuto negli stessi territori dell’immaginario e del reale. Ora, insieme ai compagni della ZAD e del NoTav, tocca noi: A sarà düra, ma vinceremo!


  1. Termine intraducibile in italiano che serve a definire una particolare conformazione territoriale costituita da piccoli campi ed appezzamenti divisi da siepi di confine che nella zona di Notre-Dame-des-Landes è sopravvissuta al dilagare della monocultura  

  2. Per comprendere a fondo lo spirito che animò le iniziative comunitarie degli anni sessanta e settanta, al posto dei soliti film o documentari e testi “alternativi”, consiglio la visione del documentario Valley Uprising di Peter Mortimer e Nick Rosen (2014), oggi disponibile in edizione italiana, con lo stesso titolo, in dvd nella collana Il grande alpinismo come quarta uscita della serie. Si tratta di una ricostruzione attenta delle innovazioni portate nell’alpinismo tradizionale dalle tecniche di arrampicata sviluppatesi in California, nella Yosemite Valley, a partire dagli anni ’50, in cui la costante ricerca della fuga dalla legge di caduta dei gravi, perseguita dai climber americani del celebre Camp 4, costituisce una magnifica metafora della liberazione della specie umana dalle catene del lavoro, della famiglia e dello Stato.  

  3. Valga per tutti la rivoluzione apportata nel pensiero e nella ricerca umana dalla formulazione galileiana, contenuta nel Saggiatore, in cui afferma “La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi agli occhi (io dico l’ universo), ma non si può intendere se prima non s’impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri ne’ quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri sono triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto“. Ponendo di fatto le basi, nel 1623, del moderno paradigma scientifico.  

  4. Basti pensare al fatto che il presidente Macron, nello stesso momento in cui ha dovuto prendere atto della sconfitta del progetto di nuovo aeroporto,ha ventilato la minaccia di voler comunque espellere gli occupanti dalle terre della ZAD.  

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La Colonia Cecilia: una comune di anarchici italiani in Brasile https://www.carmillaonline.com/2015/06/13/la-colonia-cecilia-una-comune-di-anarchici-italiani-in-brasile/ Fri, 12 Jun 2015 22:01:48 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=23367 di Simone Scaffidi L.

la-cecilia-jean-louis-comolliAfonso Schmidt, Colonia Cecilia. Una comune di giovani anarchici italiani nel Brasile di fine Ottocento, Edizioni dell’Asino, 2015, pp. 162, € 12.00

Le storie si sa, passano di bocca in bocca: alcune si perdono, altre vanno a costituire la cosiddetta Storia Ufficiale e altre ancora restano in un magnifico limbo tra leggenda e realtà, terreno fertile per evasioni letterarie di ogni sorta. È quest’ultimo il caso dell’avventura narrata da Afonso Schmidt, che ha per protagonisti un gruppo di anarchici e anarchiche italiane, i quali e le quali, spronati [...]]]> di Simone Scaffidi L.

la-cecilia-jean-louis-comolliAfonso Schmidt, Colonia Cecilia. Una comune di giovani anarchici italiani nel Brasile di fine Ottocento, Edizioni dell’Asino, 2015, pp. 162, € 12.00

Le storie si sa, passano di bocca in bocca: alcune si perdono, altre vanno a costituire la cosiddetta Storia Ufficiale e altre ancora restano in un magnifico limbo tra leggenda e realtà, terreno fertile per evasioni letterarie di ogni sorta. È quest’ultimo il caso dell’avventura narrata da Afonso Schmidt, che ha per protagonisti un gruppo di anarchici e anarchiche italiane, i quali e le quali, spronati dall’agronomo pisano Giovanni Rossi, decidono di emigrare nelle regioni del Paraná, in Brasile, per creare, tra il 1890 e il 1894, una comune libertaria fondata sulla parità di genere, l’abolizione della proprietà privata e il libero amore. Comunità che arrivò ad accogliere fino a duecentocinquanta persone.

Lo scopo di Schmidt, giornalista e militante anarchico, è mantenere viva la memoria di quest’esperienza migrante e rivoluzionaria attraverso un racconto che, a causa della difficoltà di reperimento della documentazione, prende la forma dichiarata del romanzo – Colonia Cecilia è dunque un’opera d’invenzione ispirata al reale e un tentativo sincero di raccontare l’utopia che diventa pratica quotidiana. L’obiettivo è raggiunto, ma se è vero che il ricordo della Cecilia rimarrà vivo nel tempo grazie al lavoro di Schmidt, è altresì vero che l’opera si spingerà, negli anni a venire, oltre le stesse intenzioni dell’autore, contribuendo di fatto a consolidare la confusione tra realtà e leggenda che vige tutt’oggi intorno a questo esperimento libertario.

CADERNO-G-making-of-colonia-ceciliaTra le informazioni storiograficamente mai accertate che Schmidt recuperò sulla Colonia Cecilia e che segnano dal principio alla fine questo romanzo, una è eclatante e letteralmente fondativa. L’autore brasiliano inizia infatti il suo racconto narrando l’incontro tra Giovanni Rossi detto Cardias e l’Imperatore del Brasile Don Pedro II, la cui figura viene descritta con entusiasmo e ammirazione. Secondo Schmidt l’anarchico toscano e il monarca, incrociatisi a Milano, avrebbero discusso la volontà di Cardias di fondare una comune socialista in Brasile. L’Imperatore mecenate Don Pedro II non solo avrebbe concesso il suo beneplacito a Cardias, ma gli avrebbe offerto anche a titolo gratuito le terre su cui fondare la Colonia.

È da queste premesse che si sviluppa la storia: i pionieri s’imbarcano nel porto di Genova il 20 febbraio 1890 – data accertata dagli archivi e riportata correttamente da Schmidt –, approdano alle coste brasiliane e raggiungono le campagne di Palmeira, paese non lontano da Curitiba, a capitale della regione. Intorno a Palmeira – ci informa l’autore – esistono già esperimenti di colonie improntate all’autogestione delle terre e al comunitarismo, tra cui spicca «l’istituzione rurale denominata “mir”», introdotta in Brasile da migranti russo tedeschi. I confronti tra la Colonia Cecilia e il “mir” ritornano frequenti nel testo, tanto che il Delegato di Pubblica Sicurezza della città di Palmeira a colloquio con Cardias lo ammonirà con queste parole: «Perché non cercate di fare come i russo-tedeschi, quelli del “mir”? Quella gente nei confronti del governo è sempre a posto».

La parte più interessante del romanzo affonda però le sue radici in uno dei temi più cari e dibattuti dall’anarchico Giovanni Rossi: l’Amore. Rielaborando il testo scritto da Rossi intorno al 1893 e intitolato Un episodio d’amore alla colonia Cecilia, Schmidt mette in scena un vero e proprio processo senza leggi all’interno della comunità, che ha per protagonisti Cardias (Giovanni Rossi) e la coppia formata da Elena e Annibale. I tre incarnano appieno le contraddizioni che attraversano la Colonia, tesa tra la volontà di creare una società nuova di liberi ed eguali e i retaggi di una cultura patriarcale fondata sulla proprietà privata, anche degli affetti. Quando Elena capirà di essere innamorata sia di Cardias che di Annibale i due uomini non potranno fare altro che prendere atto della sua volontà ma di fatto non riusciranno a condividere e metabolizzare come vorrebbero quest’esperienza. La comunità capisce così di non poter fare tabula rasa da un giorno all’altro della propria millenaria cultura e prende consapevolezza che la lotta deve essere quotidiana: contro il sistema di dominio capitalista, contro la colonizzazione del proprio immaginario e soprattutto sul terreno delle proprie contraddizioni individuali.

cecilia-cover-fronte-754x1024Il libro di Schmidt uscì in Brasile nel 1942 ed è apparso in italiano per la prima volta nel 1958. Alle Edizioni dell’Asino si dà oggi il merito della riproposizione di quest’opera, che – al di là del suo valore storiografico – contribuisce a stimolare la memoria di un affascinante esperimento migrante e rivoluzionario come la Colonia Cecilia. Una nota storica al testo avrebbe probabilmente dato un valore aggiunto alla pubblicazione; ma forse questa interessante ciurma di Asini è voluta restare di buon grado nel campo della letteratura, consapevole dell’importanza delle storie con la s minuscola, micce incandescenti capaci di innescare curiosità e approfondimenti personali.

[Per approfondimenti sull’esperienza della Colonia Cecilia e il tramandarsi della sua storia si consiglia anche la lettura dei lavori di ricerca di Isabelle Felici. Qui un assaggio].

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