comunicazione – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 30 Apr 2025 21:35:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Estetiche del potere. La (tele)dittatura del divertimento https://www.carmillaonline.com/2023/10/12/estetiche-del-potere-la-teledittatura-del-divertimento/ Thu, 12 Oct 2023 20:00:05 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79306 di Gioacchino Toni

A metà degli anni Ottanta del secolo scorso negli Stati Uniti e in maniera analoga, seppure in leggera differita, in buona parte dell’Occidente, mentre sugli schermi televisivi imperversavano Dynasty, Dallas, The A-Team, Cheers e Hill Street Blues, i telepredicatori facevano il pieno di ascolti e alla sobrietà della tv dei decenni precedenti si sostituivano sguaiate risate registrate e fragorosi applausi a comando, quanti avevano letto Nineteen Eighty-Four (1949) di George Orwell potevano rallegrarsi del fatto che, giunti al fatidico 1984, la società in cui vivevano non aveva assunto le sembianze della distopia prospettata dal romanzo.

A trarre un [...]]]> di Gioacchino Toni

A metà degli anni Ottanta del secolo scorso negli Stati Uniti e in maniera analoga, seppure in leggera differita, in buona parte dell’Occidente, mentre sugli schermi televisivi imperversavano Dynasty, Dallas, The A-Team, Cheers e Hill Street Blues, i telepredicatori facevano il pieno di ascolti e alla sobrietà della tv dei decenni precedenti si sostituivano sguaiate risate registrate e fragorosi applausi a comando, quanti avevano letto Nineteen Eighty-Four (1949) di George Orwell potevano rallegrarsi del fatto che, giunti al fatidico 1984, la società in cui vivevano non aveva assunto le sembianze della distopia prospettata dal romanzo.

A trarre un sospiro di sollievo potrebbero però essere stati soltanto coloro che non avevano letto, o avevano nel frattempo rimosso, il meno celebre Brave New World (1932) di Aldous Huxley in cui la tirannia anziché essere esercitata per via coercitiva aveva saputo rendersi desiderabile.

Insomma, negli anni Ottanta, in Occidente, anziché avverarsi la distopia orwelliana, a compiersi, in sordina, era quella huxleyana, rivelatasi più in linea con le esigenze di una società votata alla mercificazione e al consumismo più sfrenati.

Sebbene nella stretta contemporaneità, segnata da un insistito ricorso a stati emergenziali, i due scenari distopici sembrino non di rado intrecciarsi, si tende a individuare il modello orwelliano, contraddistinto da un tipo di oppressione imposta dall’alto deprivante il popolo della propria memoria e autonomia, nei sistemi esplicitamente dittatoriali, mentre invece quello huxleyano, in cui il potere riesce a far amare al popolo il proprio oppressore e a sostenere le tecnologie tese ad annullare la capacità di pensiero, nei sistemi più democratici.

Convinto dell’importanza delle tecnologie e dei media nella costruzione della realtà, nella definizione delle percezioni, nell’organizzazione delle esperienze e delle relazioni emotive e nell’azione sociale degli individui, in Amusing Ourselves to Death (1985), analizzando gli effetti socioculturali del medium televisivo, il sociologo statunitense Neil Postman ha colto proprio in esso lo strumento principale di attuazione della pratica di dominio prospettata da Huxley nei primi anni Trenta, agli albori di quella che si sarebbe rivelata l’era televisiva.

In occasione dell’uscita di una nuova edizione italiana del volume di Neil Postman, Divertirsi da morire. Il discorso pubblico nell’era dello spettacolo, prefazione di Matteo Bittanti e traduzione di Leone Diena (Luiss University Press, 2023), vale la pena evidenziare come diverse riflessioni espresse dal sociologo statunitense, che sarebbero poi in parte da lui stesso riprese e sviluppate nel successivo Technopoly. La resa della cultura alla tecnologia (Bollati Bornighieri, 1993), nonostante facciano riferimento a un panorama mediatico ormai decisamente cambiato, restino assolutamente valide ai giorni nostri segnati dall’affiancamento di internet al mezzo televisivo.

Gli anni Ottanta sono passati alla storia come il decennio della superficialità, della frivolezza, del trash e dell’usa e getta, un periodo, come ha sostenuto Tommaso Ariemma (Dark Media. Cultura visuale e nuovi media, Meltemi 2022)1, caratterizzato non tanto dalla sensazione di “mancanza di futuro”, quanto piuttosto dal “futuro già presente” derivata in buona parte dall’estetica della simulazione diffusasi con le nuove tecnologie informatiche, grazie soprattutto al Mac, votata alla celebrazione della sola “superficie visuale”.

All’individualismo degli anni Ottanta si è affiancata, in parte anche in reazione ad esso, una spinta all’isolamento in un universo fittizio in cui si è cercato rifugio in seguito alla delusione indotta dal mondo reale rivelatosi incapace di soddisfare le aspirazioni dei più giovani. Un ripiegamento votato al primato della sensazione, dell’immediato, del mero “significato di superficie”, anticipando di fatto quella web culture che avrebbe finito per sostituire alle relazioni amicali il desiderio del sentire e, come efficacemente sostenuto da Mario Perniola (Del sentire, Einaudi 1991), all’ideologia, socializzazione dei pensieri, la “sensologia”, socializzazione dei sensi.

L’analisi del medium televisivo proposta da Postman in Divertirsi da morire, nel suo porsi, scrive Matteo Bittanti nella prefazione al volume, come sintesi nella dialettica che vede Gli strumenti del comunicare (1964) di Marshall McLuhan e La società dello spettacolo (1967) di Guy Debord occupare rispettivamente il ruolo di tesi e di antitesi, ha il grande merito di mostraci oggi come le premesse della web culture siano ravvisabili nel medium televisivo degli anni Ottanta, nella sua «forma di comunicazione basata unicamente sull’intrattenimento e sullo svago – entertainment, infotaiment, amusement – introducendo un’estetica squisitamente spettacolare».

Un mezzo di comunicazione votato dunque a promuovere contenuti visuali leggeri, trasmessi in rapida e frammentata successione, mercificati, dunque progettati per attrarre e intrattenere il pubblico divertendolo ben oltre i generi storicamente votati a tale compito. Come ha avuto modo di segnalare Carmine Castoro (Clinica della TV, 2015)2, l’inarrestabile flusso casuale di comunicati decontestualizzati supporta pratiche di seduzione consumistica e di istupidimento deprivanti l’essere umano di capacità critica, intrattenendolo attraverso un flusso soporifero di immagini.

Il divertimento/intrattenimento che plasma la televisione degli anni Ottanta, in tutti i suoi programmi, notiziari compresi, si pone per certi versi alla base di quei processi di ludicizzazione3 che si dispiegheranno nel web nei decenni successivi e, più in generale, di quella logica che ha saputo rendere costantemente produttivi gli utenti di internet facendo loro percepire il lavoro non pagato a cui si sottopongono come mera attività ludica.

Se è usuale individuare nella storia statunitense una città che, più di altre, può essere vista come incarnazione dello spirito americano del tempo, per gli anni Ottanta, sostiene Postman, questa è sicuramente Las Vegas e lo è perché in essa vive esclusivamente il divertimento, esattamente come nella televisione. Il problema, sottolinea il sociologo, non è certo dato dall’offerta di divertimento da parte della televisione, quanto piuttosto dal fatto che tutto in essa sia dia all’insegna del divertimento, che l’intrattenimento sia l’inderogabile “superideologia” di ogni discorso televisivo.

“Ed ecco a voi…” è probabilmente una delle frasi più ricorrenti in televisione, tanto da fungere quasi da punteggiatura volta a mettere un punto fermo dopo quanto visto fino a quel momento per aprire un discorso totalmente nuovo. «La frase è fatta apposta per mettere in luce il fatto che il mondo così com’è descritto dai frettolosi mezzi elettronici non ha nessun ordine e nessun senso e non deve essere preso troppo sul serio. Non c’è assassino così efferato, terremoto cosi disastroso, guaio politico così grave […] che non possa essere cancellato dalla nostra memoria con un: “Ed ecco a voi…”».

Con tali parole viene suggerito ai telespettatori che quanto visto fino a quel momento non merita ulteriore spazio, approfondimento o riflessione e che è giunto il momento di proiettarsi su un nuovo frammento di notizia o di pubblicità, che poi così diverse non sono. Certo, il modello “Ed ecco a voi…” non è stato inventato dalla televisione, che lo ha derivato dal connubio tra telegrafo e fotografia, ma sicuramente, sostiene Postman, è stata la tv a condurlo alla sua «attuale perversa maturità» ed è proprio nel telegiornale che tale modello «si mostra nella sua forma più sfrontata e imbarazzante» finalizzata unicamente all’intrattenimento.

Nel suo susseguirsi di frammenti non solo slegati uno dall’altro ma anche neganti importanza al precedente di turno, di cui si palesa la necessità di abbandono frettoloso, la televisione minimizza ogni notizia; per quanto grave possa sembrare, questa sarà presto seguita da una di minor gravità, o da una pubblicità, che provvederà a banalizzarla.

Si è «ormai talmente assuefatti all’universo di “Ed ecco a voi…” – un universo a frammenti, in cui i vari fatti se ne stanno da soli strappati da ogni connessione col passato, o col futuro, o con altri fatti – che sono vanificate tutte le presunzioni di coerenza. E quindi anche ogni contraddizione. Nel contesto di nessun contesto, per così dire, la contraddizione semplicemente svanisce».

Sebbene non sia possibile incolpare esclusivamente la televisione di tutto ciò, afferma Postman a metà degli anni Ottanta, di certo tale medium rappresenta «il paradigma della nostra concezione di informazione» e visto che la pubblicità televisiva si presenta come «la forma più vistosa di comunicazione pubblica nella nostra società», continua il sociologo, «era inevitabile che gli americani dovessero […] accettarla come forma normale e plausibile di discorso».

Occorre aggiungere che se, come sostiene Postman, negli anni Ottanta l’intrattenimento televisivo era indubbiamente fondato sul divertimento, nei decenni successivi l’intrattenimento si sarebbe avvalso anche della “tv del dolore” contraddistinta, come argomenta Carmine Castoro (Il sangue e lo schermo, Mimesis 2017)4, da un’iconografia della paura costruita su pandemie, calamità naturali e attentati spalmati sul nulla di ore e ore di dirette attraversate da narrazioni ripetitive, opinionisti improvvisati, inviati e video amatoriali trasmessi in un estenuante e ansiogeno ripetesi di immagini di soccorritori e di disperazione in un loop di etichette ripetute come un mantra: “crimine efferato”, “tragedia immane”, “apocalisse”, “disastro epocale” e via dicendo.

In chiusura di libro, riprendendo la distopia prospettata da Brave New World5,  Postman sottolinea come ciò che Huxley aveva cercato di dirci è che ciò che affliggeva gli abitanti del mondo nuovo tratteggiato dal suo romanzo «non era ridere anziché pensare, ma non sapere per che cosa ridessero e perché avessero cessato di pensare». Verrebbe da dire che se si pensava di seppellire lor signori con una risata, è finita che oggi si ride davanti agli schermi – televisivi o degli smartphone – senza sapere di cosa e perché e, soprattutto, avendo mandato (da tempo) in vacanza il cervello.

In una contemporaneità tecnocratico-liberista in cui, come denuncia Bittanti nella prefazione al volume, in ambito accademico l’analisi dei media si riduce al funzionalismo applicato, all’ottimizzazione dei motori di ricerca e alle strategie di gamification volte a generare profitto, «Divertirsi da morire rappresenta un’anomalia tanto anacronistica quanto preziosa». Quello di Postman è un libro che non ha bisogno di like, ma di essere letto e preso sul serio.


Estetiche del potere – serie completa


  1. Cfr. Gioacchino Toni, Dark Media, in “Carmilla online”, 26 giugno 2023. 

  2. Cfr. Gioacchino Toni, Estetiche del potere. Virtualizzazione, estetizzazione, neutralizzazione ed altre patologie virali del Tele-Capitalismo, in “Carmilla online”, 4 maggio 2016. 

  3. Cfr. Gioacchino Toni, Gamification e controllo comportamentale, in “Pulp Magazine”, 22 febbraio, 2023; Matteo Bittanti, A lezione di Pokémon Go. Da A(lfie Bown) a (Shoshana) Z(uboff), Università Iulm, 18 novembre 2022. 

  4. Cfr. Gioacchino Toni, Estetiche del potere. Il sangue e lo schermo. La mercificazione della paura nell’era dei media spacciatori di assenze, in “Carmilla online”, 29 dicembre 2017. 

  5. Cfr. Gian Paolo Serino, Aldous Huxley e la distopia, in “Carmilla online”, 8 settembre 2003. 

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Il trionfo della “società dello spettacolo” e le sue conseguenze https://www.carmillaonline.com/2023/07/24/il-trionfo-della-societa-dello-spettacolo-e-le-sue-conseguenze/ Mon, 24 Jul 2023 20:00:48 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78200 di Sandro Moiso

Mario Perniola, Berlusconi o il ’68 realizzato, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2022, pp. 105, 8 euro

Invece di approfittare dell’occasione offerta da un fatto naturale come la morte per trovare il tempo di indagare storicamente le ragioni del successo, tra una fetta significativa dell’elettorato italiano, di un uomo sicuramente discutibile e sopra le righe in ogni sua manifestazione, alcune starlette dell’intellighenzia di “sinistra” continuano a perpetuare il mito di Berlusconi babau con un atteggiamento che, se non affondasse le sue radici nell’ignavia e nell’insipienza di una sinistra perbenista, anonima e amorfa, [...]]]> di Sandro Moiso

Mario Perniola, Berlusconi o il ’68 realizzato, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2022, pp. 105, 8 euro

Invece di approfittare dell’occasione offerta da un fatto naturale come la morte per trovare il tempo di indagare storicamente le ragioni del successo, tra una fetta significativa dell’elettorato italiano, di un uomo sicuramente discutibile e sopra le righe in ogni sua manifestazione, alcune starlette dell’intellighenzia di “sinistra” continuano a perpetuare il mito di Berlusconi babau con un atteggiamento che, se non affondasse le sue radici nell’ignavia e nell’insipienza di una sinistra perbenista, anonima e amorfa, sembrerebbe sfiorare la psicosi. Prova ne sia un’affermazione come quella contenuta in un numero di luglio del «Venerdì» di Repubblica: “Il berlusconismo è stata la disgrazia più grande”, attribuita a Sabina Guzzanti.

Già, la disgrazia più grande. Così mentre il grande pubblico dello spettacolo mediatico, politico e “culturale”, non ha ancora finito di assorbire il fatto che la Shoa abbia costituito il “male più grande”, ecco che già gli viene propinato un altro villain definitivo, dopo Hitler, Mussolini o chi altro diavolo si voglia. E mentre l’audience viene tenuta in uno stato di costante allerta da una classifica di “disgrazie” che non sembra mai finire, dal Vajont al Covid o alla guerra in Ucraina, un nuovo (?) “urlo di dolore” e moto “di denuncia” inizia a diffondersi per l’aere mediatico. Un’eterna corsa al vaccino definitivo contro i mali causati dalla Destra a livello politico e sociale che, però, non intacca mai la sostanza di una società (quella italiana ma non solo) e di un modo di produzione di cui la stessa Sinistra “criticante” fa parte, condividendone spesso valori e principi, fin da prima della caduta definitiva del fascismo storico.

Hanno fatto dunque benissimo le Edizioni Mimesis a riproporre nella collana “Volti” un testo del filosofo e scrittore italiano Mario Perniola (1941-2018), già precedentemente edito nel 2011: Berlusconi o il ’68 realizzato. Come si afferma nella Nota redazionale che precede l’attuale riedizione:

Il grande filosofo italiano che è stato Mario Perniola ci ha regalato uno stile di pensiero in cui ridere e comprendere vanno a braccetto, in nome di un umano e lucido disincanto del presente. Quando uscì Berlusconi o il ’68 realizzato, imperversavano gli scandali delle “cene eleganti” e vacillava la credibilità internazionale del Paese Italia. […] Allora risultarono quanto mai puntuali queste valutazioni di Perniola sul significato storico delle trasformazioni personificate da Berlusconi nella politica, nella cultura, nei costumi e nella vita sociale del Paese. Ma anche oggi, soprattutto oggi, al termine della parabola biografica dell’uomo di Arcore, l’analisi della rivoluzione spettrale, qui proposta, risulta essere uno dei migliori discorsi di commiato che si possano fare1.

Discorso in cui occorre sottolineare, così come fa Perniola e non soltanto per gusto provocatorio, il ricongiungersi, in maniera sicuramente distorta, nel programma di Berlusconi della gran parte degli obiettivi che caratterizzarono la grande ondata del Sessantotto. Dalla fine del lavoro alla distruzione dell’università e al vitalismo giovanilistico fino al trionfo della comunicazione massmediatica. Una sorta di rinnovato “spirito del capitalismo” cui avrebbero fatto riferimento in seguito Luc Boltanski e Eve Chiapello, annotando: la sua vocazione alla mercificazione del desiderio, soprattutto quello di liberazione, e di conseguenza al suo recupero e inquadramento2.

In attesa dunque di valutazioni storiche e politiche degne di questo nome, che non si basino soltanto su frasi ad effetto e battute salaci che si accontentano soltanto di rovesciare lo stile berlusconiano, in realtà senza negarlo nei fatti ma bensì propagandolo3 ad oltranza, val la pena di riprendere la lettura delle pagine del breve testo di Perniola.

Qui chi scrive si limita a riproporre l’interpretazione di alcuni temi, tra i tanti possibili, che ricollegano la “mancata rivoluzione” del ’68 alle sue conseguenze nei decenni successivi durante i quali, come sempre accade in questi casi, la Rivoluzione fallita si è trasformata in arma della Controrivoluzione e uno dei suoi testi più conosciuti e importanti4 si è tramutato nel possibile manuale d’uso per una concezione spregiudicata, ma tutt’altro che rivoluzionaria, della politica e della comunicazione5. Comparso infatti nel 1967, il testo di Debord affermava che: «Lo spettacolo non è un insieme di immagini ma un rapporto sociale tra persone mediato da immagini». Anticipando di decenni il modo in cui Silvio Berlusconi con Mediaset e Mark Zuckerberg con Facebook e Instagram, per non parlare di tanti altri social media, avrebbero poi portato alle estreme conseguenze i meccanismi dell’alienazione individuale e sociale.

Sul lavoro e il suo rifiuto

Sebbene Berlusconi sia stato lungo tutta la sua vita un lavoratore instancabile, egli ha consentito alla maggior parte dei giovani di realizzare la famosa ingiunzione di Guy Debord (1931-1994) Ne travaillez jamais! (Non lavorate mai!). L’ironia sta nel fatto che ora i giovani vogliono lavorare, anche a condizioni indecenti e vergognose, incredibilmente più alienanti e squalificate di quelle che erano loro offerte negli anni Sessanta e Settanta: allora una vita piccolo-borghese era più o meno garantita a tutti, oggi essa è un sogno irraggiungibile per quanti non hanno alle spalle una famiglia che li aiuti. È come se Berlusconi avesse monopolizzato nella sua persona tutto il lavoro, e lasciato agli altri solo il gioco6.

Sulla cultura e gli intellettuali

Di tutto il culturame (attenzione, questa parola è detta in camera caritatis, cioè non pubblicamente) ce ne freghiamo: però dobbiamo dire che siamo a favore della cultura, della ricerca, dell’innovazione, dell’inglese, di internet, dell’impresa e di quanto ancora suoni alla moda, anche se di tutte queste cose non ce ne importa un fico, perché a farle sul serio, sono troppo care e complicate e lasciano uno spazio troppo ristretto per la corruzione. Le facciano gli americani, che legandole strettamente all’economia aziendale riescono a guadagnarci un sacco di soldi oppure i paesi del BRIC (Brasile, Russia, India e Cina) che essendo in ascesa e avendo tassi di sviluppo notevoli hanno bisogno di creare una borghesia relativamente istruita! […] Mi raccomando poi di non cadere nella trappola di sostenere sul serio i cosiddetti “intellettuali di destra”, perché questi sono molto più pretenziosi di quelli di sinistra, i quali un po’ per partito preso pauperistico, un po’ per demagogia si autodefiniscono “operai della conoscenza” e quindi non hanno più tante ambizioni: basta che fate far loro qualche comparsata gratuita in televisione e pensano subito di essere dei divi e di spezzare il cuore di qualche ragazza, come se le nostre ragazze di oggi avessero un cuore! Se poi sono veramente accro (segnatevi questa parola francese perché nessuno la capisce e quindi fa un certo effetto), voglio dire sono proprio accaniti, come quel tale Saviano o Saviani che dir si voglia, basta che lo inseriate in uno show ricreativo di puro intrattenimento per neutralizzarlo completamente. Lui vuol fare il tragico, ma se lo mettete insieme ai comici, chi si accorgerà della differenza? E poi in Italia la tragedia non ha mai avuto fortuna: sì certo, c’è stato qualche piemontese tragico come Alfieri e Pareyson, ma chi li legge? Servono per fare delle tesi di laurea. Quindi nessuna fatwā contro i Saviani, tanto meno attentati o cose che fanno casino: non dimenticate che spacciandoci per liberisti (mentre è ovvio che siamo monopolisti) dobbiamo anche mostrare di essere liberali e magnanimi. Mica siamo come i russi o i cinesi, che perseguitano i dissidenti! Tanto alla fine quello che dicono o scrivono non ha alcuna effettualità politica e il popolo bue lo si conquista nella campagna elettorale abbassando o eliminando qualche tassa od odioso balzello7.

Sulla dignità

Una parola che ricorre sempre più frequentemente nei discorsi etico-politici è dignità. Questa è diventata uno dei termini chiave della bioetica, nonché il motto in cui si sono riconosciute le rivolte politiche che hanno scosso molti stati arabi, provocando talora la caduta dei governi. In Italia coloro che si sono detti indignati dalla condotta di… sconi (questa volta mi viene in mente solo la parte finale del nome di questa persona), non si contano. Gli studenti che hanno occupato le piazze di alcune città spagnole si sono definiti los indignados. È nato così un Global Indignant Movement che si è manifestato in molti Paesi. La parola dignità ha eclissato altri termini più tecnici del linguaggio politico, come comunità e diritti dell’uomo. In effetti, la prima è caduta nel ridicolo da quando si è cominciato a parlare di una “comunità internazionale” […]. Quanto ai “diritti umani” che costituiscono uno dei cardini della civiltà occidentale, l’uso fazioso e opportunistico che se ne è fatto, li ha svuotati di credibilità […] Ora la domanda cruciale è: possiamo permetterci di essere indignati, se non abbiamo nessuna delle quattro virtù fondamentali (saggezza, temperanza, coraggio e giustizia)? Possiamo indignarci se noi stessi non abbiamo dignità? Se non siamo minimamente coerenti con noi stessi ma immersi nel mondo della comunicazione, nel quale tutto si capovolge in tutto? I caratteri fondamentali della comunicazione sono descritti benissimo dagli Stoici sotto il termine di stoltezza. Lo stolto non è uno sciocco, uno stupido, un ottuso ma l’essere umano che, in preda a un continuo turbamento, cambia opinione da un momento all’altro; incapace di stare fermo, corre a precipizio con impeto irrefrenabile verso il primo obiettivo che incontra e si pente con facilità di tutto ciò che ha fatto; incapace di ascolto, parla e agisce in modo inconcludente; inetto a elaborare valutazioni stabili e a compiere scelte irreversibili, salta ora qua ora là, pretendendo di avere e di prendere tutto. La stoltezza non nasce da una mancanza, ma da una deviazione, da una distorsione, da un pervertimento della facoltà razionale. Per essere indignati, bisogna almeno avere coraggio, cioè pazienza, perseveranza, magnanimità e magnificenza (Tommaso d’Aquino dixit). Noi italiani (e forse noi occidentali), siamo troppo deboli per permetterci di essere indignati8.


  1. Nota redazionale a M. Perniola. Berlusconi o il ’68 realizzato, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2022, pp. 7-8  

  2. L. Boltanski, E. Chiapello, Il nuovo spirito del capitalismo, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2014  

  3. Si veda quanto già scritto qui  

  4. Guy Debord, La società dello spettacolo, SugarCo Edizioni, Milano 1990.  

  5. Si veda: Gianfranco Marelli, L’amara vittoria del situazionismo. Storia critica dell’Internazionale Situazionista 1957-1972, Mimesis Edizioni, 2017.  

  6. Non lavorate mai! in M. Perniola, op. cit., p. 21  

  7. Gli intellettuali da nona categoria puzzolente a spina dorsale della nazione in M. Perniola, op. cit., pp. 64-67  

  8. Possiamo essere indignati? In M. Perniola, op. cit., pp. 95-99  

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Una nuova elettricità https://www.carmillaonline.com/2021/04/28/una-nuova-elettricita/ Wed, 28 Apr 2021 21:00:47 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=65907 Francesco D’Abbraccio, Andrea Facchetti (a cura di), AI & Conflicts Volume 1, Krisis Publishing, Brescia 2021, pp. 224, 20 euro

Ancora una volta la piccola, ma sempre interessante, Krisis Publishing di Brescia coglie nel segno con un testo sugli sviluppi attuali dell’utilizzo dell’Intelligenza Artificiale (AI) nei settori della comunicazione, dell’economia, della conoscenza e dell’arte. Lo fa non accontentandosi però dei soliti luoghi comuni a favore o contro lo sviluppo dei sistemi relazionali o di controllo resi possibili dalla stessa, ma sottolineando in maniera particolare il conflitto o i conflitti che derivano dal [...]]]> Francesco D’Abbraccio, Andrea Facchetti (a cura di), AI & Conflicts Volume 1, Krisis Publishing, Brescia 2021, pp. 224, 20 euro

Ancora una volta la piccola, ma sempre interessante, Krisis Publishing di Brescia coglie nel segno con un testo sugli sviluppi attuali dell’utilizzo dell’Intelligenza Artificiale (AI) nei settori della comunicazione, dell’economia, della conoscenza e dell’arte. Lo fa non accontentandosi però dei soliti luoghi comuni a favore o contro lo sviluppo dei sistemi relazionali o di controllo resi possibili dalla stessa, ma sottolineando in maniera particolare il conflitto o i conflitti che derivano dal suo uso.

Scrivono i due curatori nell’introduzione:

L’intelligenza artificiale (AI) occupa una posizione chiave nell’ecosistema culturale contemporaneo. È una risorsa fondamentale per interpretare il mondo e per interagire con le grandi architetture di dati che lo popolano.
Nel 2016, un’era geologica fa in questo ambito, Andrew NG, professore a Stanford ed ex direttore di Google Brain, ne celebrava l’imminente avvento: “Come l’elettricità ha trasformato quasi tutto cento anni fa, fatico ad immaginare un settore che non verrà trasformato dall’AI nei prossimi anni”. Ebbene, il cambio di paradigma previsto da NG sembra oggi essere già in atto. L’AI non riguarda più il nostro futuro, ed è impiegata negli ambiti più disparati dell’attività umana, dalla medicina all’industria, dalla finanza alla domotica, dal marketing alla guerra. Non solo: essa modella il modo in cui sperimentiamo il mondo. Reti neurali e algoritmi “intelligenti” sono ampiamente utilizzati per rilevare, classificare e mappare il nostro comportamento, riconoscere le nostre emozioni, e influenzare le nostre scelte. Lavorano come “curatori invisibili” 1, prescrivendo ciò che dovremmo vedere, ascoltare, leggere e comprare. Ci sorvegliano, plasmano la nostra comprensione della realtà sociale e politica, e contribuiscono in definitiva a costruire il nostro quadro cognitivo. Essi intervengono inoltre nella creazione, nella manipolazione e nella disseminazione dei media e dei dispositivi di interazione sociale.
Un simile cambiamento non è certo passato inosservato alle attenzioni della critica. Negli ultimi anni, un’intera generazione di artisti, ricercatori e professionisti ha indagato la natura dei sistemi AI e delle loro relazioni con i contesti in cui opera2.

Proprio per questo motivo, in questo primo volume, i due curatori si sono avvalsi dei testi prodotti da FINN BRUNTON che insegna Media, Culture and Communication alla NYU Steinhardt dove si occupa di storia e teoria dei media digitali; KATE CRAWFORD, ricercatrice presso il Microsoft Research Lab e co-fondatrice dell’AI Now Institute della New York University, il primo istituto universi­tario dedicato alla ricerca sulle implicazioni sociali dell’intelligenza artificiale; SOFIA CRESPO, un’importante artista nel campo dell’arte AI; VLADAN JOLER insegnante presso il dipartimento di New Media (Università di Novi Sad), è a capo di SHARE Lab, un laboratorio di ricerca che esplora gli aspetti tecnici e sociali dello sfruttamento del lavoro digitale, delle infrastrutture invisibili e delle black box; LEV MANOVICH, uno dei più importanti teorici dei media studies; FEILEACAN MCCORMICK, un artista e ricercatore norvegese; HELEN NISSENBAUM, insegnante presso il Dipartimento di Scienze dell’Informazione della Cornell University; TREVOR PAGLEN, artista e ricercatore statunitense il cui lavoro si muove tra i confini di scienza, arte, giornalismo e tecnologia; MATTEO PASQUINELLI docente di Filosofia dei media all’Università di Arte e Design di Karlsruhe; SALVATORE IACONESI e ORIANA PERSICO che sono autori di diverse performance, pubblicazioni e opere esposte in tutto il mondo e lavorano insieme dal 2006; EYAL WEIZMAN che insegna Spatial and Visual Cultures presso la Goldsmiths University of London.

Come suggerisce il titolo, è il conflitto a dominare il discorso, nelle varie forme che è destinato ad assumere con l’applicazione dell’AI nel contesto di un capitalismo globalizzato che, più che tardo come qualcuno si ostina a chiamarlo oppure neo-liberale, si rivela semplicemente ancora una volta capace di trasformare, sempre più in profondità, le relazioni tra individuo e società, società e ambiente, conoscenza e controllo sociale, in funzione di un’accumulazione che sembra non potersi mai fermare. Una ricerca esasperata di nuove forme di estrazione di plusvalore e plusvalenze che stravolge tutti gli assetti economico-sociali e cognitivi, dal rapporto sempre più distruttivo con l’ambiente alle forme di conoscenza che ne derivano.

L’immagine dell’AI come un’ingombrante scatola nera che si inserisce nel tessuto ambientale e sociale globale introduce il terzo termine che dà titolo a questo volume. All’interno dei dispositivi e delle infrastrutture AI si nascondono infatti innumerevoli conflitti che, come abbiamo detto, investono l’intero ecosistema contemporaneo. La dimensione politica dell’AI va intesa come un campo di forze attraversato da vettori umani e non umani che, spesso in contrasto tra loro, generano frizioni, tensioni e conflitti: “l’intera
Realtà (proprio come la Storia) è un campo di battaglia, in cui miriadi di agency sono perennemente in lotta per affermare nuovi sistemi di interdipendenza”.
[…] Il primo conflitto ad emergere dal tentativo sopra descritto riguarda le condizioni, materiali e non, che abilitano l’ecosistema dell’AI. La comunità scientifica ha ricondotto l’emergere prepotente dell’intelligenza artificiale negli ultimi 20 anni ad almeno due recenti eventi significativi: l’aumento esponenziale della capacità di calcolo, grazie soprattutto allo sviluppo di schede video di nuova generazione, e l’enorme disponibilità di informazioni verso cui la computazione viene rivolta. Entrambi questi accadimenti affondano le proprie radici nello sviluppo industriale del XIX secolo e si sono consolidati nel corso del XX in due forme diverse, ma affini, di estrattivismo.
L’industria dell’hardware, necessaria ad alimentare i processi di apprendimento, è il prodotto dell’estrattivismo materiale, analizzato soprattutto nel saggio di Crawford e Joler. Come dimostra il caso del palaquium gutta riportato nel loro Anatomia di un sistema AI, lo sfruttamento delle risorse materiali — con conseguente distruzione di interi ecosistemi e interruzione di processi geologici millenari — non è solo un prodotto dell’infrastruttura AI: è condizione imprescindibile per la sua stessa esistenza. Visualizzare l’anatomia di un assistente vocale domestico e le storie di sfruttamento che vi si annidano diventa dunque un atto insieme linguistico e politico, che coinvolge cioè la sua narrazione e la nostra possibilità di comprenderlo e metterlo in discussione. È un gesto, questo, che si pone in aperta opposizione con “la metafora eterea del ‘cloud’” e che cerca invece di far emergere “la realtà fisica delle estrazioni minerarie e dell’espropriazione di intere popolazioni che la rendono possibile” (p.61).
L’industria che gravita intorno alla produzione, alla raccolta e alla distribuzione dei dati si rifà invece ad un altra forma di estrattivismo. Un estrattivismo cognitivo si sovrappone a quello materiale. Anche se il primo data center venne costruito nel 1965, è con la nascita e l’esplosione di massa del World Wide Web che vengono creati i presupposti per la società dei big data. Da allora, in pochi decenni la produzione di dati è diventata un’attività parassita, che si annida in qualsiasi ambito dell’agire umano: dalla tessera fedeltà del supermercato all’abbonamento alla metropolitana, dall’account su un social network al navigatore GPS. Ciascuna di queste attività genera dei dati che “possono essere impacchettati, venduti, raccolti, organizzati e acquisiti in molti modi, e infine riutilizzati per ragioni di cui noi, i sorvegliati, non siamo a conoscenza e a cui non abbiamo dato approvazione” (p.117). Nel loro saggio, Brunton e Nissenbaum ci mettono in guardia di fronte alle condizioni di profondo disequilibrio che sempre accompagnano questo tipo di attività: una asimmetria sia epistemica (“non sappiamo cosa ne sarà delle informazioni prodotte attraverso questo processo, né dove andranno o quale sarà il loro utilizzo”) che di potere (“raramente possiamo decidere se essere monitorati o no, cosa succede alle informazioni che ci riguardano e cosa accade a causa di queste informazioni”, p.118).
Appare dunque chiaro come l’emergere delle tecnologie AI sia già inscritto all’interno di un campo di forze che si articola secondo il modello dell’estrattivismo. Secondo Sandro Mezzadra e Brett Nielson3 esso costituisce il paradigma dello sviluppo capitalista e neoliberista del XXI secolo, e ci costringe a estendere il concetto stesso di estrazione per considerare “non solo l’appropriazione delle risorse naturali, ma anche, e per certi versi soprattutto, i processi che sfruttano la cooperazione umana e l’attività sociale”4.


  1. “The invisible curation of content. Facebook’s news feed and our information diets”, World Wide Web Foundation (aprile 2018), https:// webfoundation.org/research/ the-invisible-curation-of-con­tent-facebooks-news-fe­ed-and-our-information-diets/  

  2. Francesco D’Abbraccio, Andrea Facchetti, Una nuova elettricità, introduzione a F. D’Abbraccio, A. Facchetti (a cura di), AI & Conflicts Volume 1, Krisis Publishing, Brescia 2021, p. 13  

  3. Sandro Mezzadra e Brett Nielson, On the multiple frontiers of extraction: excavating contemporary capitalism, Cultural Studies 31 (2017), pp.185-204  

  4. F. D’Abbraccio, A. Facchetti, op. cit., pp. 20-23  

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Il reale delle/nelle immagini. Residualità filmica e realtà quotidiana nella società dell’immagine https://www.carmillaonline.com/2021/02/02/il-reale-delle-nelle-immagini-residualita-filmica-e-realta-quotidiana-nella-societa-dellimmagine/ Tue, 02 Feb 2021 21:30:20 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=64712 di Gioacchino Toni

L’attualità del cinema di Michelangelo Antonioni

La visione di un film in una sala cinematografica sembra non limitarsi a lasciare nello spettatore qualche semplice ricordo; è la stessa realtà quotidiana vissuta a risultare influenzata da tale esperienza. Stefano Usardi La realtà attraverso lo sguardo di Michelangelo Antonioni. Residui filmici (Mimesis, 2018) – affronta la questione della residualità filmica intendendo verificare in quale misura la fruizione di un film funzioni “come agente condizionante sulla percezione del circostante”.

Usardi focalizza il suo studio relativo alla relazione tra lo spettatore e l’opera filmica sull’opera cinematografica di Michelangelo Antonioni concentrandosi sul [...]]]> di Gioacchino Toni

L’attualità del cinema di Michelangelo Antonioni

La visione di un film in una sala cinematografica sembra non limitarsi a lasciare nello spettatore qualche semplice ricordo; è la stessa realtà quotidiana vissuta a risultare influenzata da tale esperienza. Stefano Usardi La realtà attraverso lo sguardo di Michelangelo Antonioni. Residui filmici (Mimesis, 2018) – affronta la questione della residualità filmica intendendo verificare in quale misura la fruizione di un film funzioni “come agente condizionante sulla percezione del circostante”.

Usardi focalizza il suo studio relativo alla relazione tra lo spettatore e l’opera filmica sull’opera cinematografica di Michelangelo Antonioni concentrandosi sul suo particolare utilizzo della messa in scena. La scelta dello studioso di indagare tale relazione nell’opera del cineasta ferrarese – in particolare nei film L’avventura (1960), La notte (1961) e L’eclisse (1962) – deriva dall’insistita presenza in essa di interstizi che lo spettatore è chiamato a colmare e al ricorso ad una messa in scena richiedente un’interpretazione attiva. Antonioni ricorre frequentemente a una poetica basata sull’assenza, sullo spazio vuoto e sul personaggio mancante al fine di coinvolgere attivamente lo spettatore.

Dopo aver tratteggiato il concetto di “realtà” in ambito cinematografico e quanto la personale costruzione di essa possa essere condizionata anche dalla proiezione cinematografica, lo studioso indaga il concetto di “empatia” nel cinema e la sua funzionalità a “una residualità filmica, soprattutto nell’immedesimazione da parte del fruitore con il protagonista” valutando quanto ciò costituisca una condizione di partecipazione attiva all’interno del “circolo creativo”. Usuardi passa poi a verificare la capacità della produzione di Antonioni di coinvolgere l’esperienza personale dello spettatore mettendone in discussione le convinzioni.

Se il rapporto tra soggetto e immagini rappresenta l’essenza del cinema, vi sono però film che più di altri si presentano come una riflessione su tale rapporto. Tra questi vi è sicuramente Blow-up (1966); film in cui il rapporto soggetto/immagini ruota soprattutto attorno alla produzione fotografica e alla sua manipolabilità. Tale opera è al centro dell’analisi proposta dal volume di Davide Persico, Blow-up e le forme potenziali del mondo (Mimesis, 2020), in cui, attraverso una prospettiva ermeneutico-decostruzionista, lo studioso evidenzia come il film operi una riflessione su concetti di “illusione”, “falso”, “allucinazione” e “percezione”, allargando poi il discorso a un ragionamento più generale sullo “sguardo” nella “società dell’immagine”.

Persico non considera l’immagine filmica come un prodotto diretto o il disvelamento del “reale” ma, piuttosto, come un’immagine simulacro che, in quanto tale, “perde e rimuove la propria origine, producendo al contempo senso, e si attesta come una forma interpretativa del mondo, che rielabora e riconfigura il tempo, evoca i fantasmi e crea illusioni ed enigmi”. Si tratterebbe dunque di “un’immagine che si autointerpreta e auto-decostruisce all’interno delle proprie strutture apparentemente durature, ma in realtà potenzialmente fragili”, così come suggerisce Blow-up.

Il testo filmico è indagato a partire dai meccanismi significanti attivati, dalle dinamiche di senso emergenti, dallo spazio come configurazione allucinatoria e proiezione fantasmatica, per giungere a una riflessione sul problema dell’immaginario inteso come “luogo di sguardo sul visibile che supera e travalica i confini molteplici (fisici e simbolici) dell’immagine, riallacciandosi al problema del simulacro e a tutti i nodi problematici che esso solleva”.

L’opera del regista ferrarese insiste sulla “de-umanizzazione della città” e lo fa attraverso la disseminazione di una serie di elementi pop – mimi, modelle, musica rock, moda… – che hanno il compito di identificare geograficamente, storicamente e simbolicamente la città britannica. Quella messa in scena è una Londra de-umanizzata in cui i personaggi risultano spesso privi di parola e di interazione sociale, tanto da apparire spesso come mero fondale.

Blow-up è un film costruito sulla solitudine e sulla necessità di riconfigurare un orizzonte interattivo attraverso una comunicazione non verbale ma simbolica, semiotizzata, immaginaria. “Il modo così alterato e ambiguo con il quale Antonioni presenta Londra, è tutto legato alla configurazione di un conflitto tra modi di guardare e percepire il visibile e quindi il paesaggio nella suo farsi immagine. Ma non solo. La molteplicità percettiva produce di conseguenza più immagini, più visioni e più interpretazioni di mondi possibili, che implica il ripensamento del mondo stesso, inteso sia come luogo di percezione fluida che produce relazioni tra diversi punti dello sguardo, che come costruzione urbana diegeticamente reale, o perlomeno accettata. Il film così come è costruito riesce a proporre un sottotesto carico di idiosincrasie, di aspetti poco sviluppati, di caratteri certamente ambigui che sfociano in un’alterazione forte di quello che possiamo considerare un mondo immediato, e diventa allo stesso tempo allucinazione percettiva del reale e dell’immaginario”.

In Blow-up il soggetto si presenta come una sorta di flaneur che si muove “in un mondo da un lato dominato parzialmente dai segni linguistici e che contemporaneamente nega questi segni, cercando di rimuovere questa semiotizzazione forte, in funzione di un occultamente della cosa iscritta nello spazio. […] È una perenne trasformazione della forma e una formalizzazione assoluta dell’oggetto, che assume di volta in volta una nuova immagine, sempre diversa”.

Si palesa così “un conflitto di immagini del mondo frammentato”; si tratta di “un processo di forte costruzione del soggetto ermeneutico, soggetto che pone esplicitamente come proprio obiettivo esistenziale quello di conoscere, interpretare e decostruire l’universo ipertrofico in cui è collocato e gettato storicamente”. Così facendo il protagonista tenta invano di instaurare un rapporto con il mondo rinunciando alla propria soggettività. “Il soggetto sparisce e resta solo il mondo, o comunque un mondo potenziale senza niente al proprio interno. Esso può essere riempito solo con materiale di natura psichica e allucinatoria. Ed il soggetto, Thomas per l’appunto, ricambia continuamente il suo ruolo diegetico e simbolico, anche alla fine del film, riaffermando il proprio discorso sullo sguardo, sulla sua istanza produttrice e sulla propria funzione di sguardo. […] Ciò che rimane è l’assenza, che è la condizione fondamentale del mondo e dell’immagine, oltre che del cinema”.

Visto che in Blow-up il soggetto sembrerebbe aver perso la propria immagine a vantaggio dell’accettazione di un’altra realtà possibile, di un altro visibile tutto da ricostruire, quel che resta, in fin dei conti, parrebbe essere soltanto l’immagine del mondo. Diventa pertanto interessante intrecciare i lavori di Stefano Usardi e di Davide Persico al fine di riflettere circa la residualità filmica lasciata sullo spettatore da un film come Blow-up. Che tipo di condizionamento sulla percezione del circostante opera la visione in sala di tale opera in un’epoca in cui l’elaborazione simbolica della realtà pare essersi sempre più impoverita favorendo immaginari antisociali?


Il reale delle/nelle immagini – serie completa

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Illusioni partecipative. Il populismo della/nella rete nell’era della post-verità https://www.carmillaonline.com/2017/09/24/illusioni-partecipative-populismo-dellanella-rete-nellera-della-post-verita/ Sat, 23 Sep 2017 22:02:38 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=40564 di Gioacchino Toni

«Ritengo che la fortuna dei movimenti d’opinione che chiamiamo populismi sia in gran parte dovuta alla diffusione della comunicazione digitale e quindi al prevalere dei soggetti digitali sugli esseri umani reali. Proprio per il fatto di essere attivo soprattutto nella dimensione virtuale questo tipo di attore ha caratteristiche uniformi, modulari, che integrano quelle eterogenee degli esseri sociali reali. Così, indipendentemente dalla professione, dalla posizione sociale, dall’educazione e così via, i soggetti digitali tenderanno a provare le stesse paure, a manifestare le stesse ossessioni, a essere sensibili agli stessi messaggi politici. [...]]]> di Gioacchino Toni

«Ritengo che la fortuna dei movimenti d’opinione che chiamiamo populismi sia in gran parte dovuta alla diffusione della comunicazione digitale e quindi al prevalere dei soggetti digitali sugli esseri umani reali. Proprio per il fatto di essere attivo soprattutto nella dimensione virtuale questo tipo di attore ha caratteristiche uniformi, modulari, che integrano quelle eterogenee degli esseri sociali reali. Così, indipendentemente dalla professione, dalla posizione sociale, dall’educazione e così via, i soggetti digitali tenderanno a provare le stesse paure, a manifestare le stesse ossessioni, a essere sensibili agli stessi messaggi politici. Le differenze degli attori sociali reali sono integrate nell’uniformità delle loro versioni o estensioni digitali» (A. Dal Lago, Populismo digitale, pp. 73-74)

«La ‘post-truth politics’ appare come un processo di deterioramento degli spazi di discussione della sfera pubblica in cui, soprattutto quelli online, sembrano luogo valido solo per il rafforzamento delle proprie credenze pregresse. [Si tratta di una] degenerazione che va tutto a vantaggio delle forze populiste [che] hanno saputo trasformare il web in un luogo utile per il consolidamento del loro macroframe, che ha bisogno di massicce dosi di sfiducia e di una dinamica fortemente conflittuale per poter crescere e affermarsi» (G. A. Veltri, G. Di Caterino, Fuori dalla bolla, p. 11)

Dalla grave crisi economica e sociale contemporanea sono scaturite paure collettive e incertezze di cui hanno approfittato leader politici populisti e ciò avviene in un contesto caratterizzato dall’importanza assunta dalla comunicazione digitale nell’informazione e nella narrazione politica che, non di rado, non lesina di ricorrere a false notizie. Tali questioni sono al centro delle analisi di due saggi usciti recentemente: Alessandro Dal Lago, Populismo digitale. La crisi, la rete e la nuova destra (Raffaello Cortina Editore, 2017) e Giuseppe A. Veltri – Giuseppe Di Caterino, Fuori dalla bolla. Politica e vita quotidiana nell’era della post-verità, (Mimesis, 2017).

Pur restando in Italia la televisione il principale strumento di informazione e intrattenimento, conviene riportare qualche dato per farsi un’idea della diffusione della comunicazione digitale in rete, tenendo presente che tra i più giovani quest’ultimo strumento è comunque già prioritario. «Secondo l’ultimo rapporto Censis-Ucsi [2016] sulla comunicazione, il 73,7% degli italiani sono sul web, con punte del 95,9% per quel che riguarda gli under 30 […] Facebook viene utilizzato dal 56,2% degli italiani, raggiungendo un’utenza dell’89,4% tra gli under 30. Nel mondo sono iscritti a Facebook 1 miliardo e 650 milioni di persone. A connettersi ogni giorno più di un miliardo, con 45 miliardi di messaggi scambiati nelle 24 ore. Youtube ha circa un miliardo di utenti, Instagram ne ha 500 milioni e Twitter 300 milioni» (G. A. Veltri, G. Di Caterino, Fuori dalla bolla, p. 9). Tali dati suggeriscono le potenzialità dalla rete nei processi di orientamento dell’opinione pubblica contemporanea, soprattutto della sua componente più giovane. Le posizioni politiche populiste non solo hanno saputo sfruttare gli ambienti digitali, soprattutto i social media, ma, come vedremo, i populismi sembrano essere, almeno in parte, il risultato della logica prevalente prodotta da tali ambienti.

 

Il populismo della/nella rete…

Il volume di Dal Lago si concentra su quello che egli definisce “populismo digitale”: populismo in quanto i leader pretendono di agire in base al mandato diretto del popolo e digitale perché la relazione leader-popolo viene a darsi soprattutto nella rete. L’analisi prende il via dalla constatazione di come, da qualche tempo, il ricambio di leader politici sia rapidissimo e l’ipotesi avanzata dall’autore è che «l’imprevedibilità elettorale dipenda dal prevalere della politica digitale su quella reale» (p. 11). Visto che buona parte delle scelte della vita pubblica sembra essere ormai elaborata proprio nella rete, il prevalere della politica virtuale su quella reale avrebbe trasformato l’opinione pubblica in opinione digitale.

Esiste evidentemente un legame tra il declino dell’informazione tradizionale e l’ascesa della rete ma, sottolinea il sociologo, Internet non dovrebbe essere pensato come sostituto dei media nati precedentemente ma, piuttosto, come sistema d’integrazione di vari media, dunque di vari tipi di messaggio. Prima dell’era della rete erano soprattutto i giornali e la televisione generalista, con la loro capacità di definizione della situazione politica, ad influenzare l’opinione e pilotare il consenso. Tali media tradizionali avevano un ruolo importante nel determinare le crisi politiche e nell’orientare i cittadini-spettatori che, di tanto in tanto, venivano chiamati a partecipare esercitando la loro azione sul terreno politico attraverso il voto.

Non sono certo mancate stagioni in cui i cittadini hanno saputo forzare la scena politica prendendo direttamente la parola e imponendo l’agenda e l’indirizzo della politica al di fuori della delega elettorale; si pensi alla conflittualità che ha caratterizzato l’Italia deli anni ’60-’70, periodo in cui la classe operaia ha dato prova di autonomia decisionale e politica dotandosi anche di propri strumenti comunicativi. Tuttavia, è indubbio il ruolo di primo piano svolto dai mezzi di comunicazione di massa generalisti nell’orientare l’opinione pubblica.

Con l’affermazione di internet, sostiene Dal Lago, i media tradizionali hanno diminuito la loro capacità d’indirizzare i cittadini che, rendendosi relativamente più indipendenti da essi, hanno intravisto la possibilità di agire direttamente sul sistema politico proprio attraverso Internet. Gli apologeti delle potenzialità partecipative offerte dalla rete insistono solitamente nell’indicare come essa offra una pluralità di fonti informative senza precedenti, come gli utenti possano intervenire direttamente sulle questioni di pubblico interesse e sulla possibilità dei leader politici di comunicare direttamente con i cittadini-utenti bypassando la mediazione dei mezzi d’informazione tradizionali. Tali entusiasmi, però, evitano di fare i conti con il fatto che la rete non manca di svolgere un’attività di condizionamento; si pensi, ad esempio, alla non neutralità degli algoritmi utilizzati dai motori di ricerca o a come, attraverso la profilatura degli utenti, questi non solo sono indirizzati al consumo, ma finiscono per diventare merce essi stessi. Insomma, nonostante la libertà che si gode sulla rete sia assai minore di quella che molti credono, il web produce una notevole illusione di indipendenza.

Il nuovo tipo di rapporto strutturato dalla rete tra leader e pubblico digitale viene definto da Dal Lago «double bind politico-comunicativo». Con double bind si intende, nell’ambito comunicativo, «il sovrapporsi di due ingiunzioni contraddittorie rivolte a un soggetto in condizione subordinata (one-down) da parte di un’istanza superordinata (one-up)» (p. 19). Un caso di double bind politico è, ad esempio, “Ti ordino di essere libero”. Il double bind risulta efficace anche nel controllo delle procedure politiche che formalmente si presentano come democratiche. «Finora il tentativo più interessante e in parte riuscito di trasformare il double bind comunicativo (o illusione di essere liberi in rete) in double bind politico (ovvero l’illusione di decidere in rete) si deve senz’altro all’italiano Gianroberto Casaleggio (1954-2016) e alla sua pseudo-utopia di una democrazia esclusivamente digitale» (pp. 18-19).

Se è bene ribadire che una delle cause principali dell’ascesa dei populismi, e della più generale deriva di destra, è da ricercarsi nell’incapacità delle sinistre di fare i conti con i processi di globalizzazione, è altrettanto vero che internet sembra offrire ai leader populisti la possibilità di attuare una relazione, almeno apparentemente, diretta con i propri seguaci, dunque di costruire una sorta di carisma digitale.

I leader carismatici contemporanei tendono a prescindere dal supporto dei partiti strutturati, o almeno tentano di celarlo il più possibile, sfruttando quell’immagine anti-establishment resa necessaria dall’impresentabilità e dall’indifferenziabilità dei partiti tradizionali. «Inevitabilmente, questi leader neo-carismatici tenderanno a rafforzare i rapporti con il loro pubblico e quindi a perseguire politiche neo-nazionalistiche, protezionistiche in economia e ostili agli stranieri. Visto in questa prospettiva il populismo digitale è dilagante [e] capace di assorbire le istanze sociali che sono state deluse dai processi di globalizzazione e di dislocazione della forza lavoro verso la periferia del mondo. Qui si manifesta un paradosso evidente. La digitalizzazione della cultura è uno degli aspetti decisivi della globalizzazione, ma ora sembra che stia provocando un vero e proprio rigetto anti-globalizzazione» (p. 22).

Dopo essersi dedicato, nel primo capitolo, all’analisi delle categorie di popolo e populismo, nel secondo Dal Lago indaga l’affermarsi dell’illusione partecipativa grazie alla rete. La sensazione trasmessa agli utenti dal web è quella di abitare quello stesso mondo che si presenta loro sui monitor dei dispositivi digitali. L’autore si sofferma su come la velocità di trasmissione dell’informazione digitale possa incidere sulla realtà esterna al web, tanto che il capitolo è emblematicamente intitolato “La realtà come costruzione virale”. Secondo lo studioso si può parlare oggi di realtà virale «ogni qual volta la dimensione spazio-temporale della rete irrompe nella vita sociale» (p. 63).

La percezione di autenticità e democraticità trasmessa dal web, tende a trasformare qualsiasi notizia in notizia vera almeno finché non viene provato il contrario, ammesso che quando ciò avviene interessi ancora. «Nello spazio-tempo di Internet, una notizia, per il solo fatto di circolare, corrisponde a un fatto reale […] Una notizia può essere attivata da qualsiasi fonte, naturale, scritta, visiva o digitale: nel momento in cui entra nei meccanismi della diffusione della rete, può diventare virale e quindi vera, anche se non ha alcun fondamento reale» (p. 64). Si pensi, ad esempio, a come lo staff di Donald Trump ha lavorato sulla falsa notizia che voleva Barack Obama nato in Kenia, dunque non candidabile alla Casa Bianca. A Trump è bastato dichiarare via Twitter nel 2012 di avere ricevuto notizia della falsità del certificato di nascita di Obama da una non meglio precisata “fonte estremamente credibile”, per potersi permettere di ignorare le smentite documentate praticamente fino alla propria elezione, quando ormai la verità circa la candidabilità del rivale risultava del tutto ininfluente in termini elettorali.

Dal Lago sostiene che la versione Internet dei movimenti tradizionalmente sociali della vita pubblica si presenta non come comunità di individui in carne ed ossa ma come utenti della rete e ciò li rende paradossalmente simili e omogenei a prescindere dalle differenze ideologiche, geografiche e di genere. All’esperienza diretta si sostituirebbe «lo scambio di informazioni mediato, sullo schermo del computer, dalla scrittura, dalle immagini e da entrambi» (p. 69). In tale dimensione, continua lo studioso, non si appare come individui dotati di faccia ma come icone di se stessi.

Nell’invadere la sfera pubblica, la digitalizzazione la trasforma assorbendola nella rete e nel delegare le esperienze sociali alla rete si determina un’espansione della sfera privata a spese di quella pubblica. L’individuo in carne e ossa tende a delegare all’informatica la soddisfazione di bisogni reali perdendo la relazione sociale a favore di quella virtuale. Sarebbe dunque così che, secondo l’autore, la sfera politica viene assorbita all’interno di quella digitale e «i soggetti digitali tenderanno a provare le stesse paure, a manifestare le stesse ossessioni, a essere sensibili agli stessi messaggi politici. Le differenze degli attori sociali reali sono integrate nell’uniformità delle loro versioni o estensioni digitali» (pp. 73-74).

Una caratteristica riscontrabile nei dibattiti digitali, sostiene Dal Lago, è la tangenzialità: raramente gli interlocutori entrano nel merito di ciò che commentano, solitamente si limitano a sfruttare l’occasione per ribadire punti di vista e credenze già posseduti e sostanzialmente indipendenti da ciò che si dovrebbe commentare. Nelle discussioni l’utente digitale pare essere alla ricerca di un pretesto per sfogarsi, per ribadire le proprie credenze in maniera, appunto, tangenziale rispetto alla questione iniziale. Dunque si tratterebbe di un tipo di dibattito in cui si interviene senza argomentare. Molte discussioni, inoltre, non sono affrontate da una comunità duratura, per quanto virtuale, ma risultano del tutto occasionali. «È vero che su Facebook ci si può iscrivere a gruppi di discussione più o meno stabili e che spesso i commentatori degli articoli online sono sempre gli stessi, ma si tratta, appunto, della partecipazione a ritornelli o a cori, non della creazione di relazioni stabili» (pp. 80-81).

L’interattività offerta dalla rete finisce frequentemente col rafforzare la conflittualità all’interno di essa; «i ritornelli identitari e oppositivi lasciano spazio, dopo alcune decine di commenti e scambi, a iperboli negative e insulti» (p. 81). Da tali conflittualità in rete deriva una «cultura linguistica del tutto coerente con le iperboli del populismo digitale (evidente in personaggi come Trump e Grillo), la diffusione di pseudo-notizie e così via» (p. 84). I populisti contemporanei trovano dunque in Internet un valido alleato visto che «corrispondono perfettamente allo stile delle discussioni in rete. Ed ecco, perciò, come le inclinazioni degli utenti attivi di Internet incontrano quelle dei leader» (p. 91).

Nel terzo capitolo del saggio viene affrontata la diffusione del populismo digitale e il paradosso che vede proprio i politici digitali, i più attivi nel processo di virtualizzazione della politica, farsi paladini del localismo e dell’identitarismo. Dal Lago individua nei populismi contemporanei diverse analogie con il fenomeno peronista. In generale, i leader del populismo digitale tendono a far coincidere la propria persona con l’essenza della democrazia, a mostrare il proprio movimento come capace di superare la vecchia distinzione tra destra e sinistra, dunque, di fatto, a pescare delusi da entrambi gli schieramenti e a prospettare una società priva di conflitti, apolitica.

La rete si presenterebbe, dunque, come ambiente che unifica le politiche para-fasciste contemporanee rendendole comunicabili e comunicanti. Se i diversi leader attuassero ciò che propagandano potrebbero in diversi casi portare i rispettivi paesi in rotta di collisione l’uno con l’altro ma, sostiene Dal Lago, «tra tutti questi leader si sta affermando uno stile comune, circolano le stesse parole d’ordine, si sviluppa una sorta di simpatia politica globale. E qui c’è un paradosso. I para-fascisti odiano la globalizzazione, spingono tutto verso il nazionalismo più esasperato (“padroni a casa nostra!” è il loro slogan prediletto), ma si muovono tutti nello stesso ambiente virtuale» (pp. 116-117).

L’autore si mostra ben consapevole di come il fascismo digitale, pur sviluppandosi in ambiente virtuale, si nutra della crisi politica, economica, sociale e culturale ma, sostiene, «il punto è che virtuale e reale tendono a fondersi – o, meglio, il virtuale assorbe il reale e lo modella a suo piacimento. Poiché, in rete, le bufale più colossali sembrano verità per il solo fatto di essere pubblicate, non c’è da stupirsi che l’ondata para-fascista in questione se ne alimenti e le riproduca» (p. 117).

Il populismo digitale non è però riconducibile soltanto agli outsider che si presentano come sbucati dal nulla; lo si ritrova anche all’interno di partiti e movimenti tradizionali formalmente democratici. «Si tratta per il momento di correnti più o meno sotterranee, di un’evoluzione apparentemente pacifica e indolore della democrazia post-bellica, della creazione di formazioni politiche “unitarie”, consociative, non conflittuali» (p. 119). Qui l’autore fa riferimento al Partito della nazione di Matteo Renzi che, rimarcando l’abbandono della vecchia distinzione destra-sinistra, pretenderebbe di ottenere una maggioranza superiore al 51%, oppure, all’esperimento francese di Macron, presentato agli elettori come superamento delle vecchie divisioni ideologiche. In entrambi i casi citati si tratta di progetti politici che pretendono di combattere i populismi emergenti con le medesime armi. Insomma, tutti questi politici populisti, tali più o meno a loro insaputa, un po’ come Peron, sostiene Dal Lago, sognano una nazione pacificata, apolitica, sotto il comando di un uomo solo carismatico. All’ascesa del MoVimento 5 Stelle viene dedicato il quarto, ed ultimo, capitolo, dal titolo “Il fascismo travestito da democrazia diretta”.

 

… nell’era della post-verità

In Fuori dalla bolla Giuseppe A. Veltri e Giuseppe Di Caterino indagano le dinamiche che sono alla base del formarsi delle opinioni e delle decisioni degli individui in un contesto contemporaneo caratterizzato da un’epocale trasformazione tecnologico-comunicativa. Nel volume ci si rifà alla definizione di populismo data da Jan-Werner Müller che lo definisce come «una particolare visione moralistica della politica, un modo di percepire il mondo politico che oppone un popolo moralmente puro e completamente unificato – ma, direi, fondamento immaginario – a delle élite corrotte o in qualche altro modo moralmente inferiori. Essere critici nei confronti di tali caste è una condizione necessaria ma non sufficiente per essere considerato populista […]. La rivendicazione di fondo del populismo è dunque una forma moralizzata di antipluralismo. Gli attori politici non dediti a questa causa semplicemente non sono populisti. Il populismo prevede un’argomentazione pars pro toto e la rivendicazione di una rappresentanza esclusiva, entrambe intese in senso morale, anziché empirico. In altre parole non ci può essere populismo senza qualcuno che parli a nome del popolo nel suo insieme […] è questa la rivendicazione di fondo del populismo solo una parte del popolo è davvero il popolo […] ciò che distingue i democratici dai populisti è che i primi formulano le pretese di rappresentanza quasi come ipotesi che possono essere empiricamente confutate sulla base dei risultati effettivi di procedure e istituzioni regolari quali le elezioni […] i populisti al contrario, persistono con la loro pretesa di rappresentanza a qualunque costo perché essa è di natura morale o simbolica, non empirica, dunque non può essere confutata» (Jan-Werner Müller, Cos’è il populismo, Egea, 2017).

Alla vecchia idea che in economia, ma non solo, le decisioni prese dagli individui derivino da procedimenti sostanzialmente razionali, negli ultimi decenni si è affiancato il convincimento che vuole una parte delle decisioni derivare da forme prevedibili di irrazionalità. Secondo diversi studiosi gli individui prenderebbero decisioni soprattutto sulla base «di quello che gli psicologi chiamano “Sistema 1” o del pensiero veloce, che utilizza scorciatoie mentali ed è condizionabile dalle emozioni, anziché fare ricorso al “Sistema 2” o del pensiero lento» (p. 19). Gli individui si trovano in sostanza ad alternare decisioni ponderate, proprie del “pensiero lento”, in cui, ricorrendo a regole logiche, prendono in esame tutte le informazioni disponibili, a decisioni prese in modalità rapida, selezionando soltanto alcune di queste informazioni. È indagando tali modalità decisionali dell’individuo che Daniel Kahneman e Amos Tversky, approfondendo il comportamento economico individuale, ottengono il Nobel per l’economia del 2002 ma, più in generale, sostengono Veltri e Di Caterino, sono gli stessi governi a ricorrere sempre più spesso alla teoria dei due Sistemi per rendere le politiche pubbliche più efficaci.

Ad essere preso in esame dai due autori è anche il legame esistente tra le credenze di un individuo e la sua identità, una componente non irrilevante della quale è definita dall’ambiente sociale e, soprattutto, dai gruppi sociali a cui è legato, la cosiddetta identità sociale. I membri di ogni gruppo sociale hanno una base di credenze comuni che pare vengano elaborate in una parte del cervello diversa da quella utilizzata per il ragionamento razionale. «La conseguenza è che tali credenze sono molto resistenti alla logica o alle evidenze empiriche perché metterle in discussione vuol dire danneggiare la nostra appartenenza al gruppo sociale a cui apparteniamo, mettendo a rischio i benefici sociali che ne riceviamo» (p. 26). L’individuo tenderebbe dunque a prendere posizione in modo da assecondare la sua partecipazione alla rete sociale a cui appartiene e, nell’età contemporanea, occorre fare i conti, soprattutto per i più giovani, anche con la partecipazione ai social network.

I media tradizionali, per il loro essere gerarchici e unidirezionali, necessitano della fiducia dei fruitori e di una realtà sociale il più possibile omogenea. Aumentando la frammentazione sociale e venendo meno un nucleo omogeneo rilevante, diventa difficile per tale tipo di media rispondere a interessi e necessità a loro volta frammentate e differenziate. «Nella network society, il fabbisogno comunicativo viene soddisfatto dalla partecipazione di quelli che erano una volta gli utenti attraverso Internet, prima nella sua incarnazione 1.0 e successivamente in modo ancora maggiore attraverso le piattaforme del social web o Web 2.0» (p. 34). L’informazione via social media sembrerebbe risultare più attraente rispetto a quella dei media tradizionali perché i social media risultano meglio in grado di catturare la complessità ed appaiono più credibili rispetto ai media istituzionali in quanto composti da parigrado. Inoltre, nel suo complesso la rete viene percepita in grado di rappresentare equamente la pluralità dei punti di vista. Si tratta, evidentemente di una visione della rete idillica che non trova riscontro nella realtà dei fatti. «L’autenticità della comunicazione online è spesso basata sull’illusione di una similitudine con le forme di interazione offline: il fatto di poter interagire con individui specifici dà l’impressione di conoscere con chi si parla. Tuttavia, il problema principale delle aspettative sulla comunicazione in Rete dipende da una errata nozione di senso comune di rappresentatività delle opinioni. Visto che le varie voci presenti sui social network sono considerate come rappresentazioni genuine delle comunità da cui provengono, in contrasto con il contenuto prodotto dai media tradizionali, le si considera come rappresentative delle opinioni di una intera comunità, o quantomeno della loro somma. Questo vuol dire che una bassa fiducia in qualche singolo individuo non intacca la fiducia nel collettivo, perché ogni membro della comunità online viene considerato come indipendente e quindi non condizionato dai singoli non credibili» (p. 35).

Occorre, inoltre, tener presente che la percentuale di utenti attivi in rete nel produrre contenuto è molto bassa rispetto agli utenti fruitori e ciò significa che questi utenti attivi non sono assolutamente rappresentativi della comunità di cui fanno parte e che la comunicazione in Internet tende ad avvenire tra membri di una comunità tendenzialmente omogenea e propensa ad autoconfermare le credenze che già la caratterizzano.

Diversi studi hanno dimostrato come gli individui, nel condividere contenuti nei social network, diano scarso valore alla loro veridicità ed accuratezza: «contenuti affidabili e inaffidabili hanno la stessa probabilità di essere condivisi su Facebook […] Allo stesso modo, la vita media di una storia scientifica e di una teoria complottista online sono estremamente simili […] e concentrate in un arco temporale molto breve, a indicare anche come in Rete vi sia una limitata capacità di attenzione. Questa limitata attenzione incide sul fatto che nessuno abbia il tempo di verificare l’accuratezza delle informazioni condivise mentre si fa affidamento su una valutazione basata su scorciatoie mentali» (pp. 39-41).

Se in generale la valutazione della veridicità dell’informazione dipende dalla credibilità della fonte di provenienza, nelle reti sociali si finisce per condividere informazioni senza alcuna verifica semplicemente perché si ritiene che lo abbia fatto qualcuno degli altri appartenenti alla rete sociale di cui si è parte. Più la fonte di informazione è ritenuta “vicina”, maggiore è la credibilità che si è disposti a concederle. «Per questa ragione, tutti i principali attori tecnologici che operano nella Rete hanno investito per creare filtri in grado di articolare un flusso di informazioni rilevante per ciascuno. L’esempio principale è Google che nel 2009 ha introdotto la sua ‘personalised search’ […] In sostanza, l’uso del motore di ricerca di Google venne modificato per mostrare i risultati di una ricerca in base alla storia di navigazione web di ogni utente […] Negli anni recenti, Google ha ridimensionato questo effetto di filtro ma la tendenza generale non è cambiata: in tante piattaforme online, la personalizzazione delle informazioni è comunque presente […] ognuno si ritrova in una bolla in cui riceve solo informazioni che confermano ciò [in cui crede] Questa forma di algorithmic gatekeeping modifica il libero flusso di informazioni. Visto che un numero sempre maggiore di persone utilizza i social network per informarsi […], il timore riguardo gli effetti sociali di questi filtri appare giustificato. Per questa ragione si parla oggi di echo chambers, una metafora che sta a indicare il fatto che membri di una comunità online si possano trovare nella situazione in cui le proprie opinioni vengono rimbalzate, con conseguente effetto-rafforzamento» (pp. 42-43). Dunque, i contenuti che raggiungono l’individuo sulla rete sono in parte pre-selezionati ed il trovarsi all’interno di una bolla tendenzialmente rafforza il ricorso dell’individuo a quelle scorciatoie mentali a cui abbiamo fatto riferimento presentemente.

Una parte dell’analisi di Veltri e Di Caterino è dedicata al fenomeno della viralità di diffusione in rete di alcuni contenuti rispetto ad altri. Innanzitutto hanno maggiore possibilità di condivisione «contenuti di natura emotiva, umoristica e che ‘risuonano’ con interessi e aspetti salienti della vita di molte persone» (p. 47). In secondo luogo i processi virali sembrano dipendere «anche dal ruolo dei ‘network gatekeeper’, individui che sono in grado di diffondere informazioni a molti altri raggiungendo rapidamente una massa critica di condivisioni che innesca altre» (p. 47). Veltri e Di Caterino sottolineano come le possibilità di rendere virale un contenuto siano diseguali per i diversi appartenenti alle comunità di rete: su Twitter, ad esempio, si hanno pochi soggetti con milioni di followers e questi hanno sicuramente maggiori possibilità di rendere virali i loro contenuti rispetto ai milioni di utenti con un basso numero di followers. Tutto ciò non significa che non si possano dare eventi virali online generati dal basso, semplicemente mostra come non tutti abbiano le medesime possibilità di diffusione di materiali.

Sarebbe un errore pensare che l’influenza del web si eserciti soltanto sui suoi “destinatari diretti”; dalla rete attingono ampiamente anche gli operatori dell’informazione tradizionale. Innanzitutto il web è ormai individuato come luogo, al pari di altri, in cui accadono eventi che possono diventare notizie sui media tradizionali. Inoltre i giornalisti attingono dal web informazioni aggiuntive rispetto a quelle di cui sono in possesso (ad es. setacciando nei social network i profili degli individui di cui intendono parlare). Gli operatori dell’informazione tradizionale, poi, utilizzano la rete anche per captare gli umori dell’opinione pubblica senza dover affrontare inchieste sul campo. «In questo modo il clima respirato sul web si sedimenta nella mente degli operatori dell’informazione e degli opinion makers. Con la conseguenza che la websfera si trasforma in simulacro dell’opinione pubblica: quello che accade sulla Rete è equazione diretta di quello che pensano tutte le persone, è un segnale inequivocabile dei sentimenti che attraversano il Paese, delle sue domande, delle sue necessità. Un’equazione alimentata, e per questo rafforzata, anche dai politici per ragioni di propaganda politica o, perlomeno, nella speranza della profezia destinata ad autoavverarsi» (pp. 64-65).

Il web, sognato come strumento che, grazie alla sua supposta orizzontalità, poteva contribuire a migliorare la partecipazione democratica, sembra essersi tramutato in un luogo ove proliferano iniziative propagandistiche e di manipolazione dell’informazione. Ormai «la targettizzazione consentita attraverso i big data è di una tale precisione per cui si possono somministrare notizie diverse da individuo a individuo, con l’obiettivo di orientarne le decisioni elettorali. Inoltre perché nessuna autorità indipendente potrà mai controllare la dieta informativa che viene offerta a ogni singolo utente, e quindi la presenza o meno di fake-news» (p. 67).

Secondo Veltri e Di Caterino, in Italia, i primi a comprendere le possibilità della rete per orientare il consenso sono stati Grillo e Casaleggio. I due sono stati capaci di costruire, sull’onda dell’indignazione diffusa, «un’architettura di siti, in grado di presidiare differenti hub della rete, attraverso un meccanismo ben descritto da una recente indagine della testata BuzzFeed news [qua], che ha spiegato anche il peso delle false notizie in questa loro strategia […] Anche il leader leghista Salvini negli ultimi anni ha concentrato i suoi sforzi comunicativi sulla Rete, con una strategia diversa ma non dissimile da quella del M5S. Il ricorso alla fake-news appare limitato a quei temi che sono il cavallo di battaglia del posizionamento leghista, a cominciare da quello degli immigrati ospitati in strutture di lusso con tutti i comfort (e gli italiani, invece, lasciati soli ad affrontare le durezze della crisi economica)» (pp. 69-71). Nonostante la strategia del leader leghista appaia meno organizzata rispetto a quella del M5S, pare comunque essere di una certa efficacia. In generale Salvini tende ad utilizzate la propria pagina personale sul web per «veicolare l’immagine di persona semplice, simile nei comportamenti e nei gusti a tantissimi italiani, e quindi distante da un certo stereotipo del politico di sinistra inconcludente ed elitario» (p. 71).

La modalità con cui i politici populisti dei diversi paesi presenziano in rete è tutto sommato abbastanza simile. «Una modalità di straordinaria efficacia, che fa leva sulle emozioni, che rispetta tutti i principi dello storytelling e delle sue figure prototipiche, l’eroe e l’antieroe, i rispettivi aiutanti, l’oggetto di valore. Ma soprattutto una narrazione che attinge e alimenta bufale funzionali a conferire a tutto questo credibilità e verosimiglianza» (p. 71). In effetti le bufale si rivelano estremamente utili alle politiche populiste che fanno costantemente leva su una narrazione dell’antipolitica costruita sulla sfiducia nei confronti dei partiti e dei media tradizionali: «da un parte ci sono le élite, inconcludenti e disoneste che vivono in condizioni di privilegio; dall’altra ci sono le persone normali che non arrivano alla fine del mese; delle élite fa parte anche il sistema d’informazione che non vuole che i cittadini sappiano come stanno le cose; per questo ci fanno anche la morale, ma noi non dobbiamo più crederci, perché tutto quello che dicono è funzionale solo ai loro interessi, adesso è il momento di ribellarsi» (p. 72).

Soprattutto nella sua parte finale del saggio, Veltri e Di Caterino ragionano circa la possibilità di una cultura politica del web alternativa a quella populista a partire dalla convinzione che così «come l’avvento della Tv pubblica ha fornito un impulso decisivo alla costruzione del racconto sulla società di massa, come le Tv commerciali hanno permesso la legittimazione di nuove soggettività sociali che ben presto si sono tramutate anche in un’offerta politica, anche le nuove tecnologie sociali stanno svolgendo una funzione omologa; attorno alle grande trasformazioni mediatiche si possono leggere in controluce le fasi della vita repubblicana, le trasformazioni nel rapporto tra società e partiti, la nascita di nuove soggettività politiche, la trasformazione di vecchie. Le tecnologie sociali si sono inserite nella crisi dei soggetti e delle forme della rappresentanza tradizionale accelerandone la dinamica» (p. 12).

La rete ha reso obsolete le forme di intermediazione esistenti nella politica tradizionale mettendo a contatto diretto, o almeno dandone l’illusione, politici e cittadini. I partiti di sinistra, sostengono gli autori, sembrano restare ancorati all’idea di matrice francofortese che percepisce l’opinione pubblica totalmente acritica e passiva in balia della manipolazione esercitata dai media, soprattutto la televisione. Tale convincimento, continuano Veltri e Di Caterino, ha comportato un atteggiamento della sinistra nei confronti della televisione di tipo contenitivoregolatore e tale idea pare essere stata mantenuta anche nei confronti dei social network. Il rischio di tale approccio normativo, sostengono i due studiosi, è quello di non prendere in considerazione il fatto che «i media non sono (solo) strumenti, ma luoghi in cui vive la contemporaneità e maggiormente aleggia lo spirito del tempo» (p. 13).

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Il reale delle/nelle immagini. Regime percettivo ridefinito dai media e costruzione di immaginario https://www.carmillaonline.com/2016/11/15/32883/ Tue, 15 Nov 2016 22:30:06 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=32883 di Gioacchino Toni

pokeA partire dallo svilupparsi, nel corso dell’Ottocento, della fotografia e del cinematografo, si è innescata una vera e propria espropriazione dell’esperienza umana del visivo in quanto la visione umana, sottoposta alle innovazioni cine-fotografiche, è stata via via sempre più sostituita dalla visione tecnologica.

Se già Walter Benjamin, a proposito della fotografia, parla di un allargamento del potere della vista, di una sorta di protesi tecnologica determinante la creazione di un “inconscio ottico”, in epoca contemporanea si palesa come alla “visione diretta”, “organica”, del reale si stia sostituendo una “visione filtrata” da protesi tecnologicamente sempre più avanzate e pervasive. [...]]]> di Gioacchino Toni

pokeA partire dallo svilupparsi, nel corso dell’Ottocento, della fotografia e del cinematografo, si è innescata una vera e propria espropriazione dell’esperienza umana del visivo in quanto la visione umana, sottoposta alle innovazioni cine-fotografiche, è stata via via sempre più sostituita dalla visione tecnologica.

Se già Walter Benjamin, a proposito della fotografia, parla di un allargamento del potere della vista, di una sorta di protesi tecnologica determinante la creazione di un “inconscio ottico”, in epoca contemporanea si palesa come alla “visione diretta”, “organica”, del reale si stia sostituendo una “visione filtrata” da protesi tecnologicamente sempre più avanzate e pervasive.

Simonetta Fadda, nel suo “Egemonia del cinematico” – all’interno del volume curato da Amos Bianchi e Giovanni Leghissa, Mondi altri (Mimesis 2016), testo di cui ci siamo recentemente occupati [su Carmilla] -, introduce il termine “cinematico” proprio per designare quelle immagini che danno accesso agli spazi mediali in un contesto in cui la visione tecnologica «diventa l’unico orizzonte visivo del mondo. La visione diventa “evento visivo”, il risultato di un’interazione multipla che vede agire contemporaneamente segnale visivo, tecnologia che supporta quel segnale e osservatore» (p. 242).

Oggi, nell’era digitale, sembrano ormai palesarsi i mutamenti penetrati nella nostra comprensione del mondo determinati da quel regime visivo cinematico operante in tutti quegli schermi (dal computer al bancomat, dallo smartphone al televisore) con cui interagiamo quotidianamente. Tale regime visivo ci «presenta procedure d’azione già pronte, cui sembra naturale adeguarci, e produce forme di visualizzazione anche per processi astratti, un tempo “privi di figura”, permettendoci così di assorbirli senza averne coscienza» (p. 241). Si tratta di un regime visivo composto da immagini eterogenee, cine-fotografiche, grafiche o icone, che possono narrare storie complesse o semplicemente guidare le nostre azioni. Al fine di interagire con macchine e cose, con forme ibride d’intelligenza più o meno complesse (dai distributori automatici di caffè alle console dei videogame), l’essere umano è portato ad uniformarsi ad una comunicazione di tipo cinematico, più o meno complessa.

brianoblivion_videodromeSecondo Simonetta Fadda sono proprio queste forme ibride d’intelligenza con cui abbiamo a che fare quotidianamente, forme capaci di costruire ambienti e compiere azioni indipendentemente da noi, a farci introiettare la logica cinematica che ci permette di attivare il rapporto col medium. «Per poter entrare in relazione col medium, infatti, dobbiamo dimostrare di saper rispondere nel modo prestabilito alle immagini (o icone) che esso produce quando è attivo e dobbiamo saper seguire le direttive che queste immagini ci impongono per passare da una funzione all’altra, in pratica dobbiamo saper usare le immagini come convenzioni» (p. 241). Tutto ciò, prosegue la studiosa, siamo in grado di farlo «perché in virtù del cinematico abbiamo imparato a reagire più velocemente agli stimoli visivi, anzi spesso lo facciamo in modo automatico, allenati dal funzionamento cinematico della comunicazione contemporanea» (p. 241).

La comunicazione contemporanea sembra ormai aver sostituito al verbale la forma audiovisiva (simboli grafici, icone, immagini cine-fotografiche…) mentre il digitale sta gradualmente diffondendo la logica dei processi informatici anche all’ambito umanistici. Assistiamo, inoltre, ad una sempre più evidente convergenza «tra media per la rappresentazione (di tipo estetico) e media di visualizzazione dei dati (di tipo scientifico), come accade nell’ambito delle tecnologie visive usate in medicina e nell’ingegneria biomedica, o nelle tecnologie satellitari di osservazione dei fenomeni terrestri per la meteorologia e per finalità comunicative e militari» (p. 242).

La visualizzazione generata dai codici informatici ha prodotto nuovi oggetti visivi derivandoli da uno spazio visivo extra-umano ed il fatto che si tratti di una visibilità convenzionale tende ad essere offuscato dai bagliori dello spettacolo di vedere ben oltre le proprie possibilità organiche. Lo sguardo tecnologico si presenta come sguardo sovrumano ed «il nostro ruolo rispetto alle macchine con cui interagiamo si è complessificato, perché oggi siamo contemporaneamente utenti dei nostri numerosissimi gadget (cioè i soggetti dell’interazione col medium) e funzioni del sistema di processamento di dati attraverso cui operano questi stessi gadget (cioè siamo gli oggetti dell’azione del medium). Questo nostro doppio ruolo contribuisce a creare una dipendenza emotiva nei confronti degli schemi visivi del regime cinematico, poiché essi sono sentiti come qualcosa d’intimamente radicato nella nostra soggettività» (p. 243).

postumani-bianchi-mondi-altri-12-41-49La pervasività dei media digitali ha riplasmato le modalità di conoscenza. Se da una parte la conoscenza si è trasferita «su un piano visivo e tattile (rendendola così più prossima, più materiale)» (p. 243), dall’altra, continua la studiosa, essa è divenuta qualcosa di codificato in partenza. «Nel rapporto con il computer, la macchina universale che ha assorbito tutti gli altri media, i nessi di tipo causale tra i dati che maneggiamo sono obliterati in favore di un approccio di tipo spaziale (e quindi visivo) che procede per associazioni, ed è la logica cinematica che abbiamo assimilato grazie a cinema e televisione, a guidarci in questi percorsi. La logica cinematica, infatti, ha introdotto la discontinuità come principio fondamentale dell’organizzazione visiva e, di conseguenza, dell’esperienza. È una logica operazionale fondata sulla convertibilità assoluta, sulla possibilità di scambiare tutto con tutto, dove l’immagine è qualcosa che fluttua liberamente instaurando una propria fantasmagoria autonoma, senza un legame certo e definito con gli oggetti riprodotti. La nostra esperienza di vita quotidiana, di conseguenza, è un’esperienza di montaggio» (p. 243).

Queste nuove modalità visive agiscono sull’immaginario e sulla logica operazionale del nostro agire. La visione tecnologica tende a guidare i percorsi di soggettivazione, determinando le modalità con cui l’essere umano si rapporta nei confronti degli oggetti e degli altri individui. Abbiamo visto [su Carmilla] come da qualche tempo sembri sempre più difficile per l’essere umano affrontare la realtà senza ricorrere a protesi tecnologiche. Se tutto ciò si palesa nel comportamento, ad esempio, dei turisti o degli spettatori di eventi spettacolari che sembrano preferire la visione filtrata dagli smartphone e/o delle riprese proiettatate sui grandi schermi al rapporto visivo diretto con la realtà, è però altrettanto evidente nella proliferazione di un tipo di rapporto interindividuale filtrato dagli schemi iconici (e dalle rispettive logiche) dei social network che sembrano in molti casi sopperire alla solitudine “fuori schermo”. Abbiamo visto anche come tutto ciò sembri incanalarsi all’interno di quel processo che Marc Augé (La guerra dei sogni) indica come “messa in finzione della realtà” [su Carmilla].

Dunque, cose e persone sembrano essere fruite «come immagini cinematizzate, cioè come se fossero riprese da un obiettivo foto-cine-televisivo, o scansionate da un processore elettronico. Solo la visuale inorganica dell’occhio tecnologico riesce a farci cogliere, nelle cose, le tracce delle relazioni sociali, psicologiche, erotiche che ci legano alle persone e agli oggetti. Dopo generazioni di spettatorialità cine-televisiva, ora ci sentiamo legati in modo empatico alla visuale tecnologica e alle emozioni che essa provoca in noi, e non desideriamo che continuare a reiterare le nostre esperienze mediali. Quando assumiamo la visuale cinematica – decidendo per esempio di scattarci un selfie, o semplicemente utilizzando uno qualsiasi dei nostri gadget tecnologici – organizziamo il mondo intorno a noi secondo modelli sia di matrice cinematografica (inquadrature, piani, movimenti dello sguardo), sia di natura informatica (processamento in parallelo di più oggetti visivi, continuo aggiornamento della veduta, apertura di nuovi collegamenti fra zone visive periferiche)» (p. 244).

notturnaRicorrendo ai media «ci sentiamo contemporaneamente davanti e dentro qualcosa a metà tra un film e un videogame: non soltanto guardiamo questo qualcosa come suoi spettatori, ma ci muoviamo al suo interno come personaggi (assumiamo uno o più ruoli) e ne decidiamo il corso come registi (possiamo interromperlo). La nostra esperienza, allora, acquista una qualità particolare, rassicurante» (p. 244). Ecco il motivo per cui desideriamo ricreare questa condizione: «perché ha il potere di “centrarci” su noi stessi, lasciandoci intravvedere un senso, anche se assolutamente transitorio. In questa situazione, ciò che vediamo è filtrato dagli schemi cinematici che orchestrano il nostro sguardo, quelli che ci sembrano connaturati alla nostra psiche proprio perché riescono a dare figura ai nostri stessi processi mentali, facendoceli letteralmente vedere» (p. 244).

Secondo Simonetta Fadda le tecniche dispiegate dall’egemonia cinematica «si propongono come forma visibile del procedere in astratto dei nostri percorsi mentali di recupero e ricostruzione di ricordi e conoscenze, e noi siamo portati ad assimilarne inconsciamente la logica perché queste tecniche ci appaiono come evidenza del pensiero in sé. Contemporaneamente, però, il filtro cinematico funziona in modo da “spersonalizzare” il nostro stesso sguardo, che viviamo come se fosse svincolato dal suo legame con noi, come soggetti. È il tipo di esperienza visiva cui ci ha assuefatto la navigazione in Internet e siamo portati a metterla in azione anche quando siamo non nel cyberspazio, ma nello spazio reale» (p. 245).

«Ci abbandoniamo all’emozionante flusso visivo che sembra nascere automaticamente dentro di noi, ma in questo la nostra gratificazione più grande proviene dalla sensazione di essere sotto osservazione, come se gli oggetti del nostro sguardo potessero attivarsi, guardandoci a loro volta. Una reciprocità che ricerchiamo anche nel mondo reale poiché essa, anziché disturbarci, ci offre una potente conferma ontologica» (p. 246). Nella realtà quotidiana, sostiene la studiosa, è come se ci lasciassimo “accompagnare” da ciò che incrociano i nostri occhi mentre, contemporaneamente, il nostro sguardo elabora tale paesaggio in una sorta di “videogame interiore”. «A sprazzi, siamo proiettati dentro un immaginario spettacolo multidimensionale che viviamo sulla nostra pelle, mentre lo stiamo guardando. Sono momenti liminari, tra la realtà e la fantasia, e ci piace attraversare la soglia che ci introduce in questo videogame che si svolge solo per noi. Si aziona una sorta di mimetismo affettivo tra noi e le cose intorno, come quello messo in mobilità dalle immagini in movimento quando le guardiamo su uno schermo. Diventiamo parte della scena e ci sentiamo a nostro agio perché riusciamo a vederci come un oggetto esterno. Qualsiasi processo mentale ha sempre una consistenza allucinatoria e la proiezione è la sua forma» (p. 246).

navigatore-satellitare99Attraverso i dispositivi mobili della telecomunicazione, sostiene Fadda, il manifestarsi dello spazio virtuale riconfigura il nostro rapporto con lo spazio reale proiettandoci all’interno del videogame interiore. «Il cinematico dà forma a una specie di spazio parallelo – l’immaginario! – che non esclude lo spazio materiale, piuttosto è in stretto rapporto con la possibilità inebriante di sottrarci a noi stessi, la dimensione fondamentale che è alla base del nostro piacere nell’interazione con i media. » (p. 246).

Il regime cinematico contemporaneo «direziona il nostro agire desiderante poiché modula le nostre emozioni. La sua azione, però, non riguarda solo la nostra interazione con i media in senso stretto, ma si trasmette anche ai momenti in cui apparentemente non stiamo utilizzando alcun medium, perché il cinematico ha colonizzato dall’interno la nostra psiche. La distrazione, come divertimento (diversione da sé), è perciò una forma di resistenza passiva, una strategia adattativa che permette di rispondere con una sorta di “preferirei di no” agli imperativi cinematici che alimentano sia il nostro lavoro inconsapevole di spettatori, sia la coazione al consumo. Essere messi in azione come immagine significa, perciò, riuscire a vederci secondo la visuale tecnologica. Significa proiettare l’esperienza vissuta in una visione cinestetica esterna (come quella che ci rimandano le vetrine dei negozi), in cui essa diventa uno spettacolo multidimensionale. La nostra esperienza ci appare attraverso una specie di schermo e la viviamo come qualcosa di teleguidato, osservabile da fuori pur standoci dentro, qualcosa in cui cose e persone, compresi noi stessi, diventano estraniate ed estranianti. Estraniate, perché non le vediamo per come sono realmente, ma solo come funzioni della nostra proiezione. Estranianti perché ci seducono, trasportandoci in un altrove che ci strappa dal peso materiale delle nostre faccende. È una vertigine» (p. 247).

mobile_loversIn tal modo, automaticamente, tendiamo a riprodurre «le forme dello spettacolo della convertibilità assoluta di persone e cose che incontriamo su ogni schermo, basata sulla dimensione feticistica azionata dalla visuale tecnologica, capace di personificare le cose e di cosificare le persone, compresi noi stessi. Il bagliore del feticismo delle merci che avvolge il mondo cinematizzato ci abbaglia, e non desideriamo vedere oltre» (p. 248). Il cinematico sta progressivamente colonizzando il nostro sguardo e, secondo la studiosa, la «possibilità di liberare lo sguardo dal nostro controllo narcisistico anche solo per un momento, per sperimentare lo straniamento della rivelazione del funzionamento feticistico del regime cinematico, si realizza nel momento in cui riusciamo a cogliere il feticismo nel suo esser messo in moto nelle immagini in movimento, riuscendo contemporaneamente a non farci trasportare via nei territori dell’immaginario dall’e-mozione visiva» (p. 248).

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Fassbinder. Una vita spesa per “creare disagio nelle strutture della borghesia” https://www.carmillaonline.com/2015/10/02/fassbinder-una-vita-spesa-per-creare-disagio-nelle-strutture-della-borghesia/ Fri, 02 Oct 2015 21:30:28 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=24581 di Gioacchino Toni

Un-giorno-un-anno-una-vitaJürgen Trimborn, Un giorno è un anno è una vita. Rainer Werner Fassbinder. La biografia, Il Saggiatore, Milano 2014, XXVIII-427 pagine, € 35,00

Quella scritta da Jürgen Trimborn è la puntuale biografia di una delle personalità più importanti della cultura tedesca tra gli anni ’60 e gli anni ’80 del Novecento: Rainer Werner Fassbinder. Nell’imponente testo edito, per l’Italia, da Il Saggiatore, si intrecciano la personalità complessa del celebre regista, il moto di rinnovamento del cinema tedesco e le vicende culturali e politiche che attraversano la Germania in un [...]]]> di Gioacchino Toni

Un-giorno-un-anno-una-vitaJürgen Trimborn, Un giorno è un anno è una vita. Rainer Werner Fassbinder. La biografia, Il Saggiatore, Milano 2014, XXVIII-427 pagine, € 35,00

Quella scritta da Jürgen Trimborn è la puntuale biografia di una delle personalità più importanti della cultura tedesca tra gli anni ’60 e gli anni ’80 del Novecento: Rainer Werner Fassbinder. Nell’imponente testo edito, per l’Italia, da Il Saggiatore, si intrecciano la personalità complessa del celebre regista, il moto di rinnovamento del cinema tedesco e le vicende culturali e politiche che attraversano la Germania in un trentennio cruciale della sua storia, periodo in cui il paese si trova a fare i conti con tante contraddizioni interne, tra queste il suo doversi confrontare tanto con quel passato nazista difficile da metabolizzare, quanto con una nuova Germania che, restia a cambiare davvero nel profondo, viene attraversata da una cruenta stagione di conflittualità. L’intrecciarsi di tutti questi fattori rendono questa biografia di Fassbinder una storia che, pur nella sua parzialità, racconta un trentennio cruciale della vita della Repubblica federale tedesca prima che questa si indirizzi, nel decennio successivo, verso la riunificazione.

Il rapporto tra Fassbinder ed il cinema ha un inizio tormentato, visto che gli viene rifiutato l’accesso ai corsi cinematografici sia per le carenze tecniche dimostrate nell’uso della macchina da presa che, secondo l’autore della biografia, per la scarsa politicizzazione delle prove presentate, “premessa indispensabile per tutti i candidati e all’epoca, in un’istituzione come quella, l’orientamento doveva essere dichiaratamente di sinistra e ostile all’establishment della Repubblica Federale Tedesca”. La politica in senso stretto e diretto non è tra gli interessi del giovane regista, tanto che, a differenza di diversi coetanei, quando finisce nei guai con la giustizia non è a causa della militanza. Il testo riporta un aneddoto emblematico di come il cineasta tedesco e le vicende politiche di piazza si intreccino: nel 1968, in pieno Maggio francese, proprio a Parigi, il regista viene arrestato e rinchiuso in carcere per cinque settimane. In Germania il fatto desta scalpore e tende ad essere ricondotto ad una sua supposta presenza sulle barricate mentre, in realtà, l’arresto è dovuto ad una retata in una sauna gay irregolare. L’omosessualità di Fassbinder, come quella di tanti altri, è costretta a fare i conti con un clima culturale ed una legislazione che in Germania, come in altri paesi europei, appare estremamente retrograda. Soltanto nel 1969, in Germania, si danno alcune modifiche di legge che cancellano l’onta dell’illegalità per gli omosessuali consentendo così, in tutto il paese, la proliferazione di locali aperti alla comunità gay.
L’impressione di un artista egocentrico e disinteressato ad interagire con le vicende che gli stanno attorno, si sviluppa anche a causa di un atteggiamento che il regista, all’inizio della carriera, manifesta negli incontri con la stampa, quando ama mostrarsi del tutto indifferente all’opinione pubblica. Per certi versi il suo presentarsi come giovane ribelle anticonformista diviene una sorta di maschera indossata al fine di celare una certa timidezza. Soltanto negli anni in cui il successo gli conferisce maggior sicurezza, il regista inizia a mostrarsi più disponibile nei confronti dei media, evitando di mettere in scena sempre e comunque il ruolo del ribelle indifferente.

fassbinder 01Trimborn ricostruisce egregiamente come l’idea di Fassbinder di dar vita ad una sorta di comune creativa, un luogo in cui vivere e lavorare con persone di idee affini, si scontri con una personalità che appare sì smaniosa di vivere in maniera comunitaria ma, come sul lavoro, si dimostra poco propensa ad interagire realmente con gli altri. Per certi versi emerge il ritratto di un uomo che, sfruttando la sua forte personalità ed il fascino esercitato sugli altri, sembra più ambire a circondarsi di una corte adorante da plasmare a piacimento che non a confrontarsi realmente con gli altri. A tal proposito, nella biografia si trovano diversi aneddoti che narrano, ad esempio, del piacere provato dal regista nel dimostrare ad amici e collaboratori il potere incondizionato esercitato nei confronti di alcuni di essi, atteggiamenti che mal si confanno proprio a colui che ama sottolineare come il tema centrale dei suoi film abbia a che fare con lo “sfruttamento dei sentimenti all’interno del sistema in cui viviamo”. Nel corso della lettura del libro, appare evidente come non ci si trovi di fronte ad una biografia di santificazione dell’uomo Fassbinder; occorre rendere merito all’autore di aver ricostruito un personaggio a tutto tondo, decisamente contraddittorio, in cui convivono spinte estremamente libertarie ed anticonvenzionali e condotte a tratti ciniche, egocentriche ed autoritarie. Nel testo viene testimoniato anche uno spiccato interesse per il denaro ed il lusso ostentato del quale, dopo i primi successi cinematografici, pare non riuscire a fare a meno. Per certi versi si può dire che il “nemico numero uno” della mentalità borghese si rivela così spietato nell’attaccare il nemico perché, tutto sommato, lo conosce bene, proviene dalle sue fila e, di certi suoi aspetti, probabilmente, non è risuscito, non ha potuto, o non ha voluto, liberarsi del tutto.

Gli insuccessi nei corsi di cinema spingono Fassbinder verso il teatro anche se l’approccio con cui lo affronta è decisamente cinematografico; è lì che vuole arrivare ed il teatro rappresenta una sorta di prova generale. Il rapporto tra l’iniziale produzione teatrale e quella, successiva, cinematografica risulta fecondo, tanto che lo stesso regista, dopo aver operato in entrambi gli ambiti, ha modo di affermare di aver messo in scena il teatro come se si trattasse di cinema e di aver girato film come se si fosse trattato di teatro. Nel testo viene passata in rassegna, nel dettaglio, l’intera produzione teatrale di Fassbinder a partire dal 1967, anno in cui avviene l’importante incontro con il gruppo dell’Action-Theater di Monaco, collettivo fortemente influenzato dall’esperienza del Living Theatre americano. Ad interessare Fassbinder è più la modalità innovativa di fare teatro che non l’intervento politico esplicito dell’Action-Theater. Le tematiche affrontate dal regista, una volta ottenuta la direzione, si concentrano sulle questioni della diversità, sulla difficoltà di comunicare, di intrecciare rapporti sinceri e sulla mentalità retrograda piccolo borghese. Anche quando decide di attuare un teatro più politico, il regista opta per farlo attraverso la messa in discussione della cultura dominante.
Katzelmacher (tr. appros. Terrone), la sua prima opera teatrale, è la storia dell’ostilità di un gruppo di giovani di un villaggio bavarese nei confronti di un lavoratore straniero greco da poco arrivato. L’opera è contraddistinta da una narrazione asciutta, uno stile minimalista e dialoghi brevi e concisi.
Le vicende di Fassbinder narrate dalla biografia, si intrecciano con gli eventi che scuotono il paese alla fine degli anni ’60, quando si susseguono azioni di protesta da parte degli attivisti contro il gruppo editoriale Springer, i cui giornali sono visti come i principali responsabili del clima repressivo. Anche l’Action-Theater, con i suoi spettacoli, partecipa alla campagna contro la stampa di Springer. Fassbinder, però, tende a prestare poco credito alle possibilità del teatro di influire sulla vita politica del paese. In ogni modo, l’obiettivo da perseguire, secondo Fassbinder, diviene quello di “creare disagio nelle strutture della borghesia”. Questo è il modo con cui il regista intende far politica.
Le discrepanze con alcuni dei fondatori dell’Action-Theater, portano la compagnia a trasformarsi adottando il nome di “antiteater”, scritto con lettere minuscole e senza la “h”. Gli scandali iniziano ad accompagnare ad ogni passo l’attività del gruppo teatrale. Ad esempio, quando viene messa in scena, nel 1968, la pièce Orgia Ubu, in cui si narra di una festa in un ambiente piccolo borghese che termina con un’orgia di gruppo, nel momento in cui gli attori iniziano a denudarsi sul coro dei prigionieri del Nabucco di Verdi, il direttore del locale interrompe lo spettacolo.
Nel 1971, è la volta della messa in scena di Blut am Hals der Katze (Sangue sul collo del gatto), ove un personaggio proveniente da qualche lontano pianeta, viene inviato sulla terra per indagare le modalità con cui gli esseri umani comunicano tra loro. Così Fassbinder presenta lo spettacolo: “La pièce ci mostra che in questo sistema, per come la vedo io, tutto porta all’oppressione. Questo meccanismo s’innesca subito, non appena le persone cercano di comunicare tra loro”. Durante il breve periodo, nei primi anni ’70, in cui ha la direzione del Theater am Turm di Francoforte, Fassbinder scrive una pièce intitolata Der Müll, die Stadt und der Tod (I rifiuti, la città e la morte) in cui vengono messi in scena degli antisemiti ed un imprenditore edile ebreo provvisto di tutti i classici cliché. Tale opera suscita una marea di proteste e la pesante accusa di antisemitismo.

Intrecciandosi con le vicende di Fassbinder, nel testo viene anche ricostruito il rinnovamento del cinema tedesco a partire dai primi anni ’60, quando la produzione tradizionale viene messa sotto accusa da diversi giovani registi. Nel 1962, ventisei registi, capitanati da Alexander Kluge, firmano il Manifesto di Oberhausen: l’obiettivo è contrastare tanto il cinema tedesco del dopoguerra, giudicato superato e reazionario, quanto lo strapotere dell’industria cinematografica hollywoodiana che, dal 1945, opprime le cinematografie nazionali dei paesi europei. I riferimenti propositivi guardano al Free Cinema inglese ed alla Nouvelle Vague francese. Il nuovo cinema tedesco intendere nascere libero dai condizionamenti culturali del mercato e dai finanziamenti dei tradizionali studios tedeschi. L’ambizione è quella di evitare il film d’evasione in favore, piuttosto, di opere in grado di confrontarsi con la realtà e con il tragico passato nazionalsocialista. Nel testo è sottolineato come, con la fine della guerra, in Germania, così come in altri ambiti della vita del paese, anche a livello cinematografico, non si ha una vera e propria rottura con il periodo nazionalsocialista: persone, strutture e contenuti restano i medesimi e buona parte del mondo del cinema ha lavorato nella macchina propagandistica di Goebbels. Nemmeno dal punto di vista formale c’è una vera e propria rottura, “l’estetica di Goebbels”, ancora negli anni ’50, resta alla base del cinema tedesco occidentale, così come contenuti, personaggi, divi e filoni restano saldamente permeati dal retaggio nazionalsocialista. Nata nel 1965, la Commissione del giovane cinema tedesco, grazie al sostegno economico statale, finanzia diversi film di giovani autori della seconda generazione del movimento. Nonostante i riconoscimenti ottenuti nei festival internazionali, questi film non riescono a conseguire successo nelle sale tedesche, restano un fenomeno di nicchia, per una cerchia ristretta di intellettuali. Nel corso degli anni ’60 le sale cinematografiche tedesche sono in grave crisi anche a causa della televisione e, ben presto, le collaborazioni del cinema con le emittenti televisive, in grado di garantire finanziamenti, diventano indispensabili. La terza generazione del Nuovo cinema tedesco comprende autori come Fassbinder, Werner Herzog e Wim Wenders. La capacità di realizzare film low budget, mostrata da Fassbinder col suo primo lungometraggio, diviene una delle strade percorribili al fine di produrre film senza sottostare all’industria cinematografica ed alle imposizioni statali.

germania in autunnoNuovamente la politica torna ad intrecciarsi, prepotentemente, con la vita di Fassbinder. Nel 1977 il clima che si respira in Germania diviene sempre più pesante; mentre è in corso il processo alla prima generazione della Raf nel carcere di Stuttgart-Stammheim, il gruppo armato dispiega una serie di azioni volte alla liberazione dei propri compagni prigionieri che culmina con l’uccisione del direttore della Dresdner Bank ed il sequestro del presidente degli industriali. A tali episodi eclatanti segue il dirottamento di un aereo diretto a Francoforte, da parte di un commando palestinese, che si risolve con l’irruzione di un’unità antiterrorismo della polizia federale tedesca che libera gli ostaggi ed uccide i dirottatori. Lo stesso giorno Andreas Baader, Gudrun Ensslin e Jan-Carl Raspe, rinchiusi nel carcere di Stammheim, vengono trovati morti. Poco dopo viene fatto rinvenire il cadavere di Hanns Martin Schleyer, ufficiale delle SS durante la guerra, membro dell’Unione Cristiano Democratica e presidente della confindustria tedesca. In seguito a questi fatti, alcuni registi del Nuovo cinema tedesco decidono di realizzare, autofinanziandolo, il film collettivo Deutschland im Herbst (Germania in autunno) al fine di riflettere sul clima che si vive nel paese lacerato dall’interminabile scia di sangue. Dopo le immagini d’apertura sui funerali di Schleyer, il film inizia con l’episodio di Fassbinder che lo vede confrontarsi direttamente sulle questioni di attualità politica in un colloquio con la madre ove si discute dello stato di diritto, del passato nazista e della svolta autoritaria. Il regista, con ragionamenti alquanto contraddittori, nel deplorare l’uso della violenza della Raf, auspica un non meglio precisato intervento energico da parte dello stato ed, al tempo stesso, si dice comprendere le ragioni profonde che hanno portato il gruppo armato ad attaccare il “fascismo latente” presente nella Germania occidentale.
L’anno successivo Fassbinder torna ad occuparsi direttamente della Raf con il film Die dritte Generation (La terza generazione). Relativamente alla terza generazione di militanti della formazione armata, il regista attacca il loro agire perché lo vede privo della benché minima prospettiva. L’intento profondo dell’opera è forse quello di contestualizzare l’uso sconsiderato della violenza da parte dei militanti evidenziando come, secondo il regista, ciò sia determinato dalla società tedesca dell’epoca. Il film viene accolto negativamente tanto dalle istituzioni statali quanto dai militanti di sinistra che, in diverse occasioni, contestano la proiezione dell’opera.

Nel libro viene, ovviamente, passata in rassegna puntualmente anche l’intera produzione audiovisiva del regista individuando nello “sfruttamento dei sentimenti” il filo conduttore di buona parte delle opere. Nella prima parte della produzione cinematografica i personaggi, pur avendo la possibilità di reagire alle situazioni umilianti in cui si trovano a vivere, tendono a non farlo, a restare inerti. Dal punto di vista della scelta poetica, Fassbinder dichiara la propria contrarietà ai film che imitano eccessivamente, soprattutto nei dialoghi, la realtà ed, a tal proposito, nel corso di un’intravista, afferma: “Trovo orribile ogni volta che in un film qualcuno parla come nella vita reale. Questo toglie forza al pensiero, elimina l’inquietudine diffusa (…) l’artificiosità, secondo me, è l’unico modo per consentire a un pubblico allargato di entrare nel cosmo tutto particolare costituito da un’opera letteraria”.
L’itinerario che porta Fassbinder a realizzare audiovisivi inizia, come per molti della sua generazione, dall’interesse per le opere della Nouvelle Vague francese e per le riviste cinematografiche più innovative come “Cahiers du Cinéma” e “Sight and Sound”. Ne 1966 il giovane regista passa finalmente all’azione e gira, a Monaco, il suo primo cortometraggio in Super 8 raccogliendo in maniera avventurosa i fondi necessari a coprire le spese. Preclusa la strada dell’imparare il mestiere facendo assistenza ad un regista esperto, visto che in Germania,  all’epoca, non vi sono grandi personalità, e scartata, per ragioni economiche, l’ipotesi di trasferirsi in Francia, paese di maggiori prospettive per un giovane cineasta, a Fassbinder non resta che visionare film a ripetizione. Nel 1966 il regista gira il cortometraggio, Der Stadtstreicher, (t.l. Il vagabondo) opera di una decina di minuti concepita come omaggio a Le signe du lion (Il segno del leone, 1959) di Éric Rohmer. Il secondo cortometraggio arriva poco dopo, nel 1967 gira Das Kleine Chaos (t.l. Il piccolo caos), opera in 35 mm, in cui rende omaggio a Vivre sa vie (Questa è la mia vita, 1962) di Godard. In questo caso inizia a palesarsi la passione per i gangster movies hollywoodiani di cui ama soprattutto White Heat (La furia umana, 1949) di Raoul Walsh. Proprio tale cinematografia americana è alla base della storia poliziesca su cui Fassbinder costruisce il suo primo lungometraggio del 1969, Liebe ist kälter als der Tod (t.l. L’amore è più freddo della morte). L’intenzione è quella di mettere in scena un poliziesco non convenzionale, in grado di mostrare il ruolo delle strutture sociali nella trasformazione delle persone in criminali. Sin da questo primo lungometraggio è presente il tema dell’attrazione omoerotica tra due personaggi. Dal punto di vista narrativo, la mancanza di mezzi tecnici e finanziari, costringe a lunghi piani sequenza, spesso privi di dialogo. Diverse scene, ad inquadratura fissa, si svolgono in ambienti minimali in modo da concentrare l’attenzione sulla mimica e la gestualità degli attori. Le inquadrature sovraesposte, quasi senza ombre, contribuiscono a creare un’atmosfera irreale e claustrofobica. Per la recitazione Fassbinder evita di dare istruzioni precise agli attori, non ama provare a lungo prima di girare e si mostra poco incline alla rielaborazione collegiale delle parti. Molto viene lasciato alla capacità istintiva dell’attore. Tale metodo ha il vantaggio di risultare economico e ben si accorda con le ristrettezze finanziare degli esordi. Le reazioni sia di pubblico che critica sono generalmente negative.

Il secondo film, Katzelmacher, (tr. appros. Terrone) del 1969, riprende l’omonima opera teatrale scritta per l’Action-Theater l’anno precedente. Se il testo teatrale si concentra sulla figura dell’immigrato greco, il film, invece, si sofferma sulle condizioni di vita dei bavaresi che gli sono ostili. La questione delle costrizioni sociali ed i principi morali insisti nella società, la noia e l’immobilità piccolo borghese, il perbenismo, insieme alla questione dell’incomunicabilità contemporanea, sono al centro dell’interesse del regista. Anche in questo caso i dialoghi risultano molto scarni e volutamente artefatti. L’opera ottiene un’ottima accoglienza da parte della critica e, da parte dalla prestigiosa rivista anglosassone “Sight and Sound”, viene celebrato il ricorso ad un linguaggio nuovo. Anche nel film Götter der Pest (t.l. Dei della peste) del 1969, ricompare un rapporto tra i due protagonisti improntato all’omoerotismo. Se i due primi film hanno un’evidente derivazione teatrale, qua l’impianto è, finalmente, cinematografico.
Warnung vor einer heiligen Nutte (Attenzione alla puttana santa), è un film del 1970 che affronta i problemi di una troupe cinematografica che deve iniziare le riprese di un film. I diversi personaggi sono ritratti in modo davvero poco lusinghiero, “Fassbinder lascia chiaramente intendere di considerare il cinema una forma di prostituzione nella quale sono tutti coinvolti, attori e registi, come pure tecnici del suono e truccatori: tutti in balia della ‘puttana santa’. Al tempo stesso il film è una riflessione sulle ragioni per cui nel loro caso la condivisione di vita e lavoro in una comunità non può funzionare”.
Der Händler der vier Jahreszeiten (t.l. Il mercante delle quattro stagioni) del 1971 è il primo film in cui decide di sperimentare le modalità narrative sirkiane che impongono che la storia sia raccontata in maniera semplice e sobria ma con empatia per le vicende umane messe in scena. Il film ottiene un buon successo di pubblico e critica.

fassbinder lacrime_amare_petra_von_kantNel 1972 Fassbinder riprende una sua precedente realizzazione teatrale, Die bitteren Tränen der Petra von Kant (Le lacrime amare di Petra von Kant), per trasformarla nell’omonimo film. La storia mostra la difficoltà di una donna, che pur si pensa emancipata, nel liberarsi dalle strutture culturali tradizionali. Il film viene accusato dagli ambienti femministi di essere una critica rivolta alle donne emancipate. Altre interpretazioni vedono nell’opera un tentativo di dimostrare come, anche nei rapporti omosessuali, la protagonista ha infatti una relazione con un’altra donna, tutto si riduca ad una questione di possesso e dipendenza. Nella lettura proposta dal Trimborn, Fassbinder, ancora una volta, intende affrontare piuttosto l’isolamento dell’individuo nella società contemporanea e la sua incapacità di apprendere a comunicare.
Dopo essere riuscito a ritagliarsi un ruolo di primo piano come regista d’avanguardia con i primi film influenzati dai gangster movies americani e dalla Nouvelle Vague francese, Fassbinder decide che è giunto il momento di provare a conquistare anche “il grande pubblico”. Il riferimento diviene a questo punto il cinema del maestro del melodramma: Douglas Sirk. Del grande autore hollywoodiano, di origini tedesche, ammira la perfezione artigianale con cui realizza i film e l’impianto narrativo. Nelle sue opere vede un’incredibile capacità di scandagliare la sfera privata e gli stati d’animo senza trascurare il ruolo del contesto sociale. “Tutti questi film mostrano come la gente si inganni da sola, e perché sia costretta a farlo”, afferma Fassbinder, riferendosi alle opere del vecchio maestro del melodramma.

Una parte della biografica è dedicata alla produzione televisiva del regista. Nella televisione Fassbinder vede le possibilità di realizzare produzioni veloci ed a basso costo, su questioni legate all’attualità, pensate appositamente per le specificità del mezzo e non derivate dal teatro, come invece è consuetudine nel cosiddetto “teledramma” tedesco degli anni ’50 e ’60. Le prime produzioni ottengono scarso entusiasmo e non mancano di suscitare scandalo a causa delle tematiche affrontate.

Con la serie Acht Stunden sind kein Tag (t.l. Otto ore non sono un giorno), del 1972, la classe operaia fa la sua comparsa sul piccolo schermo attraverso un melodramma socio-romantico. I tradizionali sceneggiati televisivi tedeschi a sfondo familiare, sempre di tono leggero, risultano ambientati in contesti borghesi o piccolo borghesi ma sull’onda del clima post ’68, anche la televisione inizia a dare spazio alle questioni sociali che attraversano la società. Per rendere la serie più realistica, l’equipe di Fassbinder realizza, per quasi un anno, ricerche tra i lavoratori delle fabbriche e le sceneggiature vengono fatte leggere ad operai della Ford di Colonia. La realizzazione fassbinderiana, oltre a rappresentare la realtà sociale di una famiglia operaia in maniera autentica, dando spazio, ad esempio, a questioni come l’emergenza abitativa e la mancanza di posti negli asili, intende suggerire chiaramente allo spettatore che ribellandosi le cose si possono cambiare. Nonostante il buon successo di pubblico, ma non di critica, la serie non prosegue a lungo anche a causa di una feroce polemica scatenata dal regista nei confronti dei sindacati accusati, nella serie televisiva, di non avere più nulla da dire alle persone e  di dover piuttosto tornare ad ascoltare la base operaia. A tale produzione televisiva segue, nel 1973, Welt am Draht (Il mondo sul filo), un visionario film di fantascienza diviso in due parti basato su Simulacron 3, un romanzo utopico dell’americano Daniel F. Galouye. L’opera, oltre a riflettere sul ruolo del progresso tecnologico, approfondisce soprattutto le possibilità di autodeterminazione dell’uomo in un contesto in cui viene costantemente controllato e manipolato dal potere.

fassbinder berlin alexanderplatzNel 1979 è la volta della serie per la tv Berlin Alexanderplatz, la produzione probabilmente più impegnativa realizzata dal regista. Si tratta di una trasposizione televisiva del romanzo omonimo di Alfred Döblin, seppure riletto in maniera del tutto personale da Fassbinder che, anche in questo caso, si sofferma nuovamente sul tema dell’amore impossibile tra due uomini a causa delle convenzioni sociali. Il progetto Berlin Alexanderplatz, all’epoca la produzione televisiva tedesca più costosa mai realizzata, prevede tredici episodi ed un epilogo trasmessi con cadenza settimanale in prima serata. Nonostante il successo di critica ottenuto alla proiezione in prima mondiale alla Mostra del cinema di Venezia del 1980, in Germania le polemiche non tardano ad arrivare soprattutto a causa del, solito, gruppo editoriale Springer che parla, a proposito dell’opera, di “orgia di violenza, perversione e blasfemia”, “atmosfera da orinatoio”, “sesso sporcaccione”, “sottofondo sadomaso” ecc. Trasmessa, dopo tante pressioni, ad orario più tardo, la serie risulta essere troppo complessa per il pubblico televisivo .

Tornando alla produzione cinematografica, l’opera Angst essen seele auf (La paura mangia l’anima), ottiene un grande successo internazionale ed una vera e propria acclamazione al Festival di Cannes del 1974. La tematica, come in Katzelmacher, riguarda i rancori della società nei confronti dei lavoratori stranieri. Nel film, ispirato ad All That Heaven Allows (Secondo amore) di Douglas Sirk, ad essere trattato da Fassbinder è il tema dei pregiudizi a cui si espone una donna di modeste condizioni sociali nel legarsi ad un uomo, per di più straniero, molto più giovane di lei. In tale opera la crisi tra i due inizia a manifestarsi proprio quando a livello sociale cresce la tolleranza nei confronti della loro unione; in quel momento iniziano a palesarsi i veri conflitti tra i due. Ancora una volta un’opera che manifesta l’impossibilità di una relazione amorosa felice.
Nel testo viene evidenziato come, nei opere di Fassbinder, le donne siano spesso innamorate senza speranza, figure che che crollano al cospetto del loro amore non corrisposto. Nel film Martha si insiste sul fatto che le donne sono condizionate tanto quanto gli uomini dalla società patriarcale in cui si trovano a vivere. Anche in Effi Briest, tratto dal romanzo di Fontane, si affrontano i rapporti di dipendenza all’interno di una coppia: contro la sua volontà una ragazza viene data in moglie ad un barone di vent’anni più vecchio di lei in passato innamorato di sua madre. L’infelicità matrimoniale porta la giovane a legarsi clandestinamente con un giovane amico del marito. Scoperto casualmente il tradimento della moglie, quando ormai da parecchi anni i due si sono trasferiti in un’altra città, il barone decide di seguire le convenzioni sociali e, sfidandolo a duello, uccide il giovane rivale e ripudia la moglie che, respinta anche dai genitori, muore di tubercolosi. Girato in bianco e nero, il film nelle intenzioni del regista deve presentare la realtà della vita alla fine del diciannovesimo secolo così come la ritrae il romanzo di Fontane.
Faustrecht der Freiheit (Il diritto del più forte) del 1974, è invece il primo film ambientato esclusivamente nel mondo omosessuale ove si racconta di un giovane che vive mestamente lavorando in un parco divertimenti e prostituendosi, grazie ad una vincita alla lotteria, il ragazzo diviene improvvisamente ricco e, finalmente, accolto da quell’ambiente omosessuale piccolo borghese che fino a questo momento lo ha sostanzialmente escluso per la sua provenienza proletaria. Nasce così una relazione tra il giovane ed il figlio di un imprenditore che poi finisce per derubarlo di tutta la sua vincita. La disillusione porta il ragazzo a suicidarsi, solo come un cane, in una stazione della metropolitana non soccorso dai vecchi amici che preferiscono far finta di nulla e, persino, derubato, ormai cadavere, da due ragazzini che gli svuotano tasche. Nuovamente Fassbinder sceglie una storia utile a ribadire l’impossibilità di un amore corrisposto e di un rapporto paritario tra due individui. Diverse associazioni omosessuali contestano il film che, nelle intenzioni dell’autore, denuncia come anche in ambito omosessuale, esattamente come avviene nella società eterosessuale, i sentimenti sono oggetto di sfruttamento.
Mutter Küsters’ Fahrt zum Himmel, (t.l. Il viaggio in cielo di mamma Küsters) del 1975, è un atto di accusa nei confronti della sinistra tedesca sia istituzionale che radicale. La storia narra di un operaio che, temendo di essere licenziato, dopo aver sparato al capo del personale, si toglie la vita. La vedova viene emarginata dai famigliari, dai conoscenti ed anche dai comunisti del Dkp che preferiscono non avere a che fare con la vicenda del marito. La donna, che intende riabilitare la figura del marito, finisce col dare credito ad un giovane estremista che la coinvolge in un’azione armata sconsiderata dal tragico epilogo. In occasione della proiezione del film alla Berlinale scoppiano disordini.
Nell’opera del 1975 Angst vor der Angst (t.l. Paura della paura), si narra di come, in una donna, nel corso della gravidanza, si generi un’inspiegabile inquietudine che le provoca un’inguaribile stato di depressione. Pian piano emarginata dal marito e dai conoscenti, la donna finisce sempre più isolata senza che il film suggerisca alcuna ipotesi come causa dell’improvvisa deriva emotiva della donna.

Le accuse di antisemitismo ricevute in occasione della sua attività teatrale francofortese, si ripetono anche nei confronti della sceneggiatura tratta dal romanzo Die Erde ist unbewohnbar wie der Mond di Gerhard Zwerenz scritta per un nuovo film. Il sostegno economico promesso dalla Filmförderungsanstalt salta in quanto la commissione giudicatrice inizia a temere che il film possa confermare i “pregiudizi antisemiti o addirittura di suscitarne altri della stessa natura”, tanto da esprimersi in questo modo nella lettera di rifiuto: “Il protagonista del film, l’ebreo Abraham, corrisponde esattamente in tutte le sue caratteristiche a quel cliché del nemico che Hitler ha descritto nell’undicesimo capitolo del Mein Kampf”. A tali accuse il regista reagisce scompostamente, tanto che, seppure da ubriaco, arriva, in alcune circostanze, a vaneggiare di congiura ebraica, ad intonare canzoni naziste od a dichiarare, provocatoriamente, di essere la reincarnazione di Hitler.
Successivamente, nel 1976, Fassbinder gira Satansbraten (Nessuna festa per la morte del cane di Satana), opera incentrata nuovamente sulla denuncia di come tutti i rapporti umani siano segnati dallo sfruttamento reciproco. Nel film è presente anche una riflessione sull’industria culturale ed una satira sulla sensibilità culturale dei tedeschi. Dopo il grande successo di pubblico di Effi Briest, i film successivi segnano, da questo punto di vista, una crisi profonda tanto di botteghino che di critica. La stampa inizia a vedere nei suoi nuovi film, sempre più autobiografici, un eccesso di autocommiserazione. Nel film del 1976 Ich will doch nur, dass ihr micht liebt (In fondo voglio soltanto che mi amiate), Fassbinder riflette, seppure indirettamente, sulla propria infanzia infelice priva di affetto.

A metà anni ’70, di pari passo alle critiche piovute in patria sulle ultime opere ed a un consumo di alcol, medicinali e droghe sempre più smodato, Fassbinder inizia ad essere celebrato in America come la figura più importante del nuovo cinema tedesco e come il maggior talento europeo dopo il mostro sacro Godard. Nel 1977 il regista gira per il mercato internazionale, direttamente in lingua inglese, il film Despair – Eine Reise ins Licht (Despair), presentato a Cannes si rivela un insuccesso mentre in patria ottiene miglior accoglienza.
fassbinder marriage-of-maria-braunDie Ehe der Maria Braun (Il matrimonio di Maria Braun), uscito nel 1978, realizzato col fine di ottenere un “film tedesco in stile hollywoodiano”, ottiene un successo internazionale sia di critica che di pubblico. Il film è ambientato negli anni immediatamente successivi al crollo del regime nazionalsocialista, “quando tra le macerie delle città prendeva forma l’edificio dei valori morali e sociali su cui si basava la Repubblica Federale nata nel 1949”. La storia racconta delle vicissitudini di Maria Braun, interpretata da Hanna Schygulla, donna che, dopo un periodo di miseria nera, credendo il marito morto in guerra, se lo vede ricomparire quando ormai ha tentato di ricostruirsi una vita insieme ad un militare americano di colore. Ucciso il nuovo amante per dimostrare il perdurare dell’amore nei confronti del marito, la donna si trova nuovamente sola quando, quest’ultimo, autoaccusandosi dell’accaduto, viene incarcerato. Si viene successivamente a creare un complesso triangolo di rapporti tra la donna, il suo nuovo e facoltoso amante ed il marito. La vicenda, in cui si intrecciano patti segreti tra i vari protagonisti, ha un epilogo tragico che, stavolta definitivamente, impedisce ai due sposi di vivere assieme. Attraverso la figura della protagonista, Fassbinder mette in scena la forza e la caparbietà di tante donne tedesche che, nel corso della guerra e negli anni immediatamente successivi, sono riuscite ad abbandonare quel ruolo passivo imposto loro dalla tradizione e sopravvivere con autodeterminazione. Il film termina con l’eco della vittoria tedesca dei mondiali di calcio del 1954, quando nella società tedesca non solo si conclude la prima fase del dopoguerra, ma, sottolinea Trimborn, si tornano a relegare le donne alla storica sudditanza nei confronti dei mariti. Il ruolo attivo femminile, sviluppatosi tra le macerie, vine soffocato dalla ricostruzione che sembra, per certi versi, voler riportare tutto entro i ruoli tradizionali.

Concepito non certo per essere un film di cassetta, nel film del 1978, In einem jahr mit 13 monden (Un anno con 13 lune), di cui Fassbinder firma soggetto, sceneggiatura, produzione, scenografia, montaggio, fotografia e regia, si raccontano gli ultimi giorni di vita della transessuale Elvira, suicida a causa della solitudine e dell’indifferenza da cui è attorniata.
Lili Marleen è un film, ad alto budget, realizzato nel 1980, sulla vita dell’attrice e cantante tedesca Lale Andersen, diva del Terzo Reich. Fassbinder trasforma la vita della cantante tedesca, interpretata, ancora una volta, da Hanna Schygulla, nella storia di un amore contrastato negli anni della guerra. Una volta uscito il film ottiene giudizi contrastanti, perlopiù negativi. L’opera viene accusata di essere superficiale, piena di cliché, e troppo comprensiva nei confronti di chi ha fatto carriera negli anni nazionalsocialisti. Fassbinder viene accusato di aver reso omaggio all’estetica nazista mentre egli afferma di voler “far capire il Terzo Reich attraverso i dettagli affascinanti del suo modo di rappresentarsi”.
Lola, del 1981, racconta la storia di come un funzionario all’edilizia, giunto a fine anni ’50 in una cittadina del nord della Baviera, finisca per tradire i suoi propositi di contrastare il malaffare e la corruzione a causa di Lola, una cantante e prostituta che lavora nel bordello di uno squallido personaggio che controlla buona parte della cittadina. L’amore per questa ragazza finisce col renderlo parte di quel sistema corruttivo che inizialmente intende combattere. “Anche in questo film Fassbinder rappresenta l’amore come il più efficace strumento di repressione sociale”, scrive Trimborn. Lola, nelle intenzioni di Fassbinder, sottolinea anche come nella Germania del miracolo economico, lo sfruttamento della donna non sia affatto cambiato rispetto al passato.

veronika vossLa protagonista di Die Sehnsucht der Veronika Voss (Veronika Voss), film in bianco e nero girato nel 1981, cerca di cavarsela nella Germania del miracolo economico ma è destinata al fallimento. La protagonista, un’attrice divenuta morfinomane per continuare a sognare l’epoca del Terzo Reich in cui è stata una stella, è totalmente succube di una dottoressa che approfitta del suo stato di dipendenza. Temendo che le indagini di un giornalista, che nel frattempo ha conosciuto l’attrice, possano crearle problemi, la dottoressa decide di eliminarla. Presentato alla Berlinale del 1982 il film è un successo, viene visto come una sorta di risposta tedesca a Sunset Boulevard (Viale del tramonto), capolavoro di Billy Wilder.
Nell’ultimo film di Fassbinder, uscito nel 1982, Querelle, tratto dal romanzo Querelle de Brest di Jean Genet, tornano le tematiche a lui più care: amore, tradimento, dipendenza, violenza, solitudine, ricerca di una propria identità e di condivisione con un altro essere umano. Il film viene realizzato da un autore ormai fortemente condizionato dall’uso di droghe che, per non smentire il gusto della provocazione, per quanto concerne le foto di scena, contatta addirittura Leni Riefenstahl, che, ammalata, non è in grado di accettare l’offerta. Lo stato di alterazione con cui gira il film è pari soltanto al ritmo forsennato che decide di dare alle riprese, quasi una gara con la morte che sembra avvicinarsi sempre più velocemente.

Nel giugno del 1982, dopo aver assunto una dose eccessiva di cocaina pura, insieme a medicinali vari in grande quantità, nel corso della notte, il cuore di Fassbinder cessa di battere. Con lui se ne va un uomo contrastato, inquieto, contraddittorio ma capace, con il suo lavoro, di sferzare le coscienze di quel mondo piccolo borghese tedesco che forse non è riuscito, o non ha voluto, debellare fino in fondo quelle strutture sociali e culturali non sparite per incanto con la fine della guerra. In Germania e nel resto dei paesi in cui sono stati proiettati i suoi film, certamente Fassbinder è riuscito nel suo scopo: “creare disagio nelle strutture della borghesia” e le sue riflessioni sull’incomunicabilità e sull’esercizio del potere sui, ed attraverso i, sentimenti restano del tutto attuali.

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