computer – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Fri, 09 May 2025 22:01:03 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il ritorno del paradosso di Solow? https://www.carmillaonline.com/2023/05/04/il-ritorno-del-paradosso-di-solow/ Thu, 04 May 2023 20:00:35 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76898 di Alberto Airoldi

Nel 1987, mentre si stava affermando la cosiddetta rivoluzione informatica, il premio Nobel per l’economia Robert Solow enunciò un paradosso che divenne famoso: “Si possono vedere computer dappertutto, tranne che nelle statistiche sulla produttività”.

La produttività è un indicatore di crescita economica, controverso come tutti gli altri. Come spesso accade in economia, anche in questo caso ci troviamo di fronte a una variabile che può essere misurata in modi diversi; la sua modalità di calcolo a livello internazionale non è sempre la stessa e cioè rende i confronti talvolta [...]]]> di Alberto Airoldi

Nel 1987, mentre si stava affermando la cosiddetta rivoluzione informatica, il premio Nobel per l’economia Robert Solow enunciò un paradosso che divenne famoso: “Si possono vedere computer dappertutto, tranne che nelle statistiche sulla produttività”.

La produttività è un indicatore di crescita economica, controverso come tutti gli altri. Come spesso accade in economia, anche in questo caso ci troviamo di fronte a una variabile che può essere misurata in modi diversi; la sua modalità di calcolo a livello internazionale non è sempre la stessa e cioè rende i confronti talvolta difficili e fuorvianti. Per il suo calcolo a livello aggregato, per esempio per un intero paese, una delle definizioni più diffuse di produttività è: valore aggiunto per ora lavorata.

E’ percezione diffusa il fatto di vivere in una società sempre più tecnologica, ma con problemi economici drammatici e crescenti. Le crisi ricorrenti, tipiche del capitalismo, ci continuano a presentare il conto in forma sempre più preoccupante. Nel nuovo millennio non c’è traccia dell’ottimismo ingenuo degli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso, ma nemmeno si è verificata l’unica distopia che turbava allora, cioè la completa automazione del lavoro di fabbrica.

Proprio in questi anni Venti si stanno riproponendo due dibattiti: quello legato al paradosso di Solow e quello legato all’automazione, questa volta intesa come sostituzione di molti lavori intellettuali da parte dell’intelligenza artificiale. Vediamo che cosa è successo negli oltre trent’anni che ci separano dall’enunciazione di Solow.

E’ opinione condivisa fra gli economisti liberisti che il paradosso di Solow sia stato risolto negli anni Novanta1: i computer avevano bisogno di tempo per diffondersi e determinare degli effetti sulla produttività, come del resto ne ebbe bisogno anche l’elettrificazione. Visto che col trascorrere degli anni si riscontravano forti aumenti di produttività proprio nell’ambito della produzione di computer, si decise di tenere conto nelle statistiche della caduta vertiginosa dei loro prezzi, che diminuiva il valore aggiunto per ora lavorata, ma non teneva conto del fatto che le nuove macchine erano enormemente più progredite delle precedenti. Venne così esteso, in particolare negli USA, anche ai computer il metodo degli hedonic prices2 già utilizzato per altri beni. Si trattava, in estrema sintesi, di elaborare dei coefficienti che correggessero al rialzo i dati relativi al prezzo del computer, tendendo conto del lato qualitativo: non solo venivano prodotti più computer al prezzo decrescente, ma i nuovi computer costituivano, almeno parzialmente, qualcosa di diverso, di molto più avanzato dei precedenti. L’incorporare anche il lato qualitativo nel calcolo della produttività, come si può intuire, non è un’operazione pacifica dal punto di vista teorico, ed è infatti contestata da diversi economisti. Il risultato fu gonfiare la crescita della produttività.

L’idea che negli anni Novanta il paradosso di Solow fosse stato risolto da una nuova crescita sostenuta della produttività venne messo in discussione da Robert Gordon che, nel suo libro The Rise and Fall of American Growth3, ricondusse la discussione in una prospettiva storico economica (pur con tutta la problematicità legata alla confrontabilità delle serie storiche).

Nel periodo 1920-1970 il prodotto per ora lavorata crebbe negli USA del 2,8% l’anno, ritmo quasi doppio rispetto all’1,5% del 1890-1920 e all’1,6% del 1970-2014. Il progresso tecnico, approssimato dal pur discutibile concetto di produttività totale dei fattori (TFP, cioè non limitata al contributo dato dal lavoro), arrivò all’1,9%, ben superiore allo 0,6% del 1970-1994, all’1% del 1994-2004 e allo 0,4% del 2004-2014. La tesi di Gordon, riportata nell’articolo Has the “New Economy” Rendered the Productivity Slowdown Obsolete? del 2000, è che l’informatizzazione abbia trasformato molte pratiche lavorative, ma che il recupero di produttività riscontrabile fra il 1994 e il 2004 sia fondamentalmente imputabile a tre fattori: 1) un miglioramento nelle rilevazioni statistiche (legato ai deflatori dei prezzi), 2) i consueti effetti prociclici sulla produttività dei periodi di crescita superiori alla media, come quello verificatosi tra il 1997 e il 1999, 3) l’effettivo e sostenuto aumento della produttività limitato alla produzione dei computer. Nel 99% dei settori economici al di fuori della produzione di computer non vi è crescita imputabile all’uso dei computer4.

Negli anni seguenti la crescita della produttività è tornata a ridursi, tanto che, come si accennava, è riemerso il dibattito sul paradosso di Solow. Il tasso di crescita delle economie capitaliste negli ultimi anni continua essere estremamente basso, e anche il tasso di profitto – dopo la ripresa iniziata nella metà degli anni Ottanta – è tornato a discendere. Senza entrare nel merito di come queste variabili possano essere correlate, possiamo tutti empiricamente riscontrare il contrasto fra la diffusione della tecnologia e i crescenti problemi economici.

Una delle idee fondamentali degli apologeti del capitalismo (almeno di quelli di matrice schumpeteriana) è che il progresso tecnologico sia il motore dell’economia. I casi sembrano essere due: o la “terza” rivoluzione tecnologica (computer, internet, smartphone, e-commerce, intelligenza artificiale, biotecnologie, ecc.) ha fisiologicamente un impatto molto più modesto delle due precedenti sul resto dell’economia, oppure è il suo uso capitalistico che, per vari motivi, entra in contrasto con la crescita economica. Una riflessione su questo tema, la cui comprensione sarebbe centrale nel dibattito sulla drammatica fase storica che stiamo vivendo, non può essere sviluppata in poche righe5.

Le conclusioni che ne potremmo trarre sono che il capitalismo non è quella eccezionale macchina per la crescita economica che, ahinoi, ha il brutto difetto di distruggere l’ambiente e creare disuguaglianze assurde. Il capitalismo non funziona così bene come i suoi apologeti sono riusciti a far credere a molti anche dei pretesi oppositori. Inoltre le stesse “macchine” che non sembrano produrre un grande sviluppo in ambito capitalistico, e che anzi generano sempre maggiori inquietudini (si veda l’intelligenza artificiale), possono risolvere molti problemi incontrati da chi ha cercato di pensare e realizzare una società diversa. La pianificazione economica è al giorno d’oggi molto più alla portata (tanto che al loro interno è sviluppata proprio dalle aziende transnazionali) e riflettere su come potrebbe essere sviluppata in senso democratico, in un contesto in cui fossero aboliti i rapporti capitalistici di proprietà, forse sarebbe un terreno molto più interessante di tanti altri che appassionano i pochi superstiti nemici del capitalismo6.


  1. Questo dibattito è passato in rassegna nell’articolo: James E. Triplett, The Solow productivity paradox: what do computers to productivity?, Canadian Journal of Economics, vol. 32, n.2. Aprile 1999.  

  2. Dave Wasshausen, Brent R. Moulton, The role of hedonic methods in measuring real gdp in the United States, 31st CEIES Seminar.  

  3. Robert J Gordon, The Rise and Fall of American Growth, Princeton University Press, 2016.  

  4. Robert J. Gordon, Has the “New Economy” Rendered the Productivity Slowdown Obsolete?, Journal of economic perspectives, 2000.  

  5. Per chi fosse interessato ad approfondire segnalo due testi che sviluppano tesi un po’ diverse: Michael Roberts, Guglielmo Carchedi, Capitalism in the 21st Century: Through the Prism of Value, Pluto Press, 2022 e Paolo Giussani, Capitalism is dead, Edizioni Colibrì, Milano, 2023.  

  6. Un’utile lettura per chi è interessato alla critica dell’uso capitalistico della tecnologia e alle potenzialità di un suo uso alternativo è: Bob Hughes, The bleeding edge, Newinternationalist, Oxford, 2016.  

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Computer umani https://www.carmillaonline.com/2017/08/26/40011/ Sat, 26 Aug 2017 04:40:12 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=40011 Computer umani e il problema della computazione. Note attorno My Mother Was a Computer di Katherine N. Hayles

di Domenico Gallo

“I discorsi nostri hanno a essere intorno al mondo sensibile, e non sopra un mondo di carta”.

Galileo Galilei

Il saggio When Computer Were Human di David Alan Grier è probabilmente la fonte più esaustiva sulla nascita e l’uso del termine “computer”. “Prima che i computer fossero delle macchine, essi erano delle persone. Erano uomini e donne, giovani e vecchi, istruiti e gente comune. Il contributo di questi lavoratori convinse gli scienziati dell’importanza che poteva avere la capacità [...]]]> Computer umani e il problema della computazione. Note attorno My Mother Was a Computer di Katherine N. Hayles

di Domenico Gallo

“I discorsi nostri hanno a essere intorno al mondo sensibile,
e non sopra un mondo di carta”.

Galileo Galilei

Il saggio When Computer Were Human di David Alan Grier è probabilmente la fonte più esaustiva sulla nascita e l’uso del termine “computer”. “Prima che i computer fossero delle macchine, essi erano delle persone. Erano uomini e donne, giovani e vecchi, istruiti e gente comune. Il contributo di questi lavoratori convinse gli scienziati dell’importanza che poteva avere la capacità di eseguire calcoli molto lunghi e complessi. Molto tempo prima che Presper Eckert e John Mauchly costruissero alla Moore School of Electronics il calcolatore ENIAC e Maurice Wilkes progettasse EDSAC alla Manchester University, i computer umani avevano già creato la disciplina della computazione. Si trattava di un sistema di metodologie numeriche che avevano testato su problemi pratici. I computer umani non erano degli eruditi o dei geni matematici, molti di loro conoscevano poco più che i fondamenti della matematica. Solo alcuni potevano essere avvicinati agli scienziati per cui lavoravano, e in diverse epoche e situazioni avrebbero potuto diventare essi stessi degli scienziati se la carriera scientifica non gli fosse stata preclusa per motivi di classe, educazione, genere o etnia” (Grier, 2001). Secondo gli studi di Grier, la necessità di elaborare calcoli di eccezionale complessità nasce con gli studi dell’astronomo Edmond Halley. All’inizio del Settecento, Halley comprese che alcuni avvistamenti cometari del passato in realtà descrivevano i transiti della stessa cometa e tentò di calcolarne l’orbita tenendo conto delle modifiche al moto che sarebbero state introdotte dall’influenza del Sole, di Giove e di Saturno. Si trattava di un calcolo di difficoltà estrema che Halley non riuscì a risolvere completamente.

Il lavoro di Halley, che morì nel 1742, venne ripreso dal francese Alexis-Claude Clairaut, che, per affrontare il suo modello di orbita, ebbe bisogno dell’aiuto di due persone per eseguire i calcoli, Joseph Jerome Lalande e Nicole Reine Lepaute, moglie di Jean-André Lepaute, orologiaio del re di Francia. Per cinque mesi i tre matematici si dedicarono alla computazione dell’orbita e nel 1758 pubblicarono la loro previsione per il raggiungimento del perielio da parte della cometa. Sbagliarono solamente di un mese, ma il loro eccezionale lavoro di calcolo dovette comunque sopportare pesanti attacchi. Molti matematici criticarono duramente  l’approccio basato sul calcolo a discapito della soluzione analitica dell’orbita, e, Jean le Rond d’Alembert ritenne il lavoro dei tre matematici “laborioso ma non profondo” (Grier, 2001), soprattutto a causa del mese di errore. Tuttavia, nonostante le critiche di D’Alambert, l’organizzazione di gruppi dedicati al calcolo iniziò rapidamente a diffondersi. Se per alcuni uomini il lavoro come computer era, in molti casi, temporaneo, per molte donne, invece, diventò una specializzazione capace di costituire una carriera professionale importante. Uno dei casi più interessanti di computer umani si sviluppò all’interno di un gruppo denominato ”Harem di Pickering” dell’Harvard College Observatory. Edward Charles Pickering, direttore dell’Osservatorio dal 1877 al 1919, iniziò ad assumere donne per lavori specializzati nel campo dell’astronomia. Sicuramente l’assunzione di sole donne tra le “Harvard computers” era stato influenzata dal basso costo della mano d’opera femminile rispetto a quella maschile, tuttavia deve essere sottolineato come molte di queste donne computer, oltre a svolgere un lavoro di computazione sempre più pesante e sofisticato, diedero un loro contributo originale alla storia dell’astronomia.

Williamina Fleming era stata la domestica di Edward Pickering che, insoddisfatto del lavoro dei suoi dipendenti maschi, pare abbia sbottato “persino la mia domestica è capace di fare questo lavoro meglio di voi”. Al di là della leggenda, Williamina Fleming, una donna abbandonata dal marito e con un figlio a carico, iniziò a lavorare all’osservatorio come impiegata amministrativa e, inseguito, come computer. Il suo contributo alla classificazione stellare è stato straordinario; durante la sua carriera scoprì 59 nebulose (tra cui la celeberrima Testa di cavallo), 10 nove e oltre 300 stelle variabili. Henrietta Levitt era una sua collega computer che lavorava sulle lastre di vetro su cui era stato fotografato il cielo notturno. Per 25 centesimi di dollaro l’ora, Henrietta Levitt e le donne dell’Harem di Pickering contavano le stelle e ne valutavano la luminosità e il colore. Non si trattava di un lavoro stupido, tanto è vero che Levitt ricavò una serie di relazioni numeriche che furono alla base della fotometria astronomica e che, ancora oggi, costituiscono la base per calcolare la distanza tra le galassie.

Questa breve nota storica può essere utile per comprendere, a partire dal titolo, la sorprendente potenzialità del saggio di Katherine N. Hayles e intuire come l’intreccio tra l’umano e le sue tecnologie sia stato in ogni epoca serrato e ambiguo, e destinato a sconvolgere le categorie del linguaggio che li rappresenta. Anzi, proprio la ricerca di Katherine N. Hayles, che dopo una laurea in chimica ha iniziato a ibridare le proprie conoscenze con ulteriori studi in letteratura, si pone alla fine del Novecento come crocevia della relazione tra letteratura, scienza e tecnologia.  How We Became Posthuman è del 1999, ma già nel 1991, introducendo Chaos and Order, una raccolta di saggi che aveva il progetto di approfondire la relazione tra ordine e caos attraverso i modelli della scienza e della letteratura, Katherine N. Hayles esordisce osservando che solo una visione estremamente tradizionale può semplicisticamente considerarli come concetti opposti. Gli eccezionali progressi delle scienze classiche, almeno fino agli albori del Novecento,  avevano dimostrato che i sistemi ordinati potevano essere studiati, analizzati e compresi, mentre il caos sembrava destinato a essere rappresentabile solo da discipline come la  statistica e la probabilità. Le ricerche matematiche e chimico-fisiche degli ultimi decenni (quelle di Edward Norton Lorenz, Ilya Prigogine e Benoit Mandelbrot, per fare un esempio), hanno invece dimostrato che il caos non è semplicisticamente lo stato in cui l’ordine è assente, ma uno stato che racchiude un’informazione estremamente più complessa e meno immediatamente decodificabile. Questa emergere della complessità come oggetto di studio fondamentale, dalle scienze matematiche, fisiche e biologiche si diffonde nella cultura umanistica e nell’arte. Una condivisione di paradigmi, sempre più fruttuosa di convergenze tra scienze e arti, che ci suggerisce come la stessa tradizionale contrapposizione tra cultura scientifica e cultura umanistica abbia perduto molto del suo potere di convinzione.

Katherine N. Hayles si muove oggi nell’avanguardia di una linea di pensiero che parte almeno da Galileo Galilei. La ricerca di Galilei, infatti, non può essere definita meramente fisica, ma contemporaneamente matematica, filosofica e letteraria. Sul contributo di Galilei come letterato è ancora molto interessante l’antologia di scritti curata da Alberto Asor Rosa nel 1974, che riesce a illustrare come, dal punto di vista umanistico, il contributo dello scienziato sia stato importante, mentre il saggio di Ludovico Geymonat del 1957 rimane una guida fondamentale per seguirne la battaglia politica e filosofica. Dunque Galileo non è tanto uno scienziato quanto un uomo di cultura immerso nella propria epoca, capace di esprimere un pensiero unitario che cerca complessivamente una chiave di interpretazione nel mondo. Ma è proprio a partire da Galileo che le discipline scientifiche intraprendono un percorso di autonomia e specializzazione che conducono a diffidenza e ostilità tra il mondo delle scienze naturali e il mondo delle scienze umane. Almeno dai tempi della conferenza di Charles P. Snow, “Le due culture e la rivoluzione scientifica”, è in corso un dibattito sui danni che questa divisione ha comportato. Senza ripercorrere le tesi di Snow, oggi forse un po’ naif, è utile invece riportare alcuni elementi dell’introduzione di Geymonat (anche lui, come Katherine N. Hayles, caratterizzato da una doppia formazione come filosofo e matematico). Geymonat infatti coglie nel testo di Snow potenzialità che lo scienziato-narratore inglese non sviluppa. Per Geymonat “se l’ottimismo con cui gli scienziati guardano al futuro può talvolta apparire eccessivo e persino ingenuo, certo è che l’esaltazione della cultura ‘tradizionale’ da parte dei letterati assume non di rado l’aspetto di sommaria esaltazione di tutto il passato” . Sono molti i temi che si intersecano in queste osservazioni, da un lato alcune categorie come il socialismo, il progresso e la democrazia, che, per alcuni, sopravvivono come miti, ma che sono storicamente legati alla capacità sociale di una visone culturale unitaria, dall’altro l’idea sempre presente di una scienza in mano al capitale, e quindi irrimediabilmente nemica,  la contrapposizione di “epoche di civiltà a epoche di cultura (…), del progresso quantitativo al progresso qualitativo, del meccanicismo all’organicismo, (…) tra ciò che è artificiale con ciò che è naturale, lo sviluppo lineare alla concezione ciclica della storia, (…) le masse alle élites”. Evidenziando queste polarità dello scontro tra modernità e antimodernità, Michela Nacci, in un suo saggio del 1982, intuisce che nel dibattito che caratterizzerà il periodo post-moderno del Novecento, quello tra naturale e artificiale svolgerà un ruolo fondamentale.

La fantascienza anglosassone aveva già pienamente sviluppato, con il suo fare eccentrico, alcune mappe per leggere come, indipendentemente dai progetti degli intellettuali, l’irruzione delle nuove tecnologie della comunicazione stessero rideterminando sia il rapporto tra naturale e artificiale, sia le stesse identità di enti troppo grossolanamente considerati a priori. Autonomi. Philip K. Dick è l’esempio più eclatante dello sconvolgimento tra le categorie di naturale e artificiale. Katherine N. Hayles, in How We Became Posthuman, a proposito del romanzo Ma gli androidi sognano pecore elettriche?, scrive che “il lavoro di Dick dimostra quanto l’androide sia un potente oggetto di appropriazione culturale ” (pag. 160) e come costituisca il segno più evidente dell’instabilità dei confini tra sé e mondo, e della conseguente paura inconscia che il soggetto prova a proposito della propria identità che caratterizza la fine del Novecento. Ma è Antonio Caronia con il suo saggio Il Cyborg a inseguire la ridefinizione del rapporto tra organico e inorganico lungo tutta la storia della fantascienza. Prima di arrivare a Dick, e a dialettica tra naturale e artificiale più esplicita, è l’apparentemente ingenua fantascienza dei pulp ad attrarre la sua attenzione e a comprendere che già negli anni Venti e Trenta del Novecento la diffusione delle nuove tecnologie produttive, l’ampliarsi capillare dei sistemi di comunicazione e personale, fino al perfezionarsi dell’organizzazione del lavoro come una branca dell’ingegneria, stavano violentemente ristrutturando l’immaginario di intere nazioni. Un immaginario che non si basa su un’idea di natura originale, ma su una natura come è stata trasformata dal capitalismo, e da questa natura vera, concreta e aliena da ogni nostalgia, la fantascienza prende spunto per le sue violente visioni. I primi cervelli che si staccano dal corpo appartengono ai pulp degli anni Trenta; sono cyborg in cui la mente umana si interfaccia a organi elettro-meccanici e che permettono ai nuovi corpi di affrontare le condizioni inumane dello spazio. Cartesianamente divisi tra corpo e mente, queste prime assurde creature veicolano l’idea di un corpo in grado di modellarsi con le macchine e di proiettare l’uomo in quell’universo di progresso infinito che, esaurita la conquista e la colonizzazione del pianeta Terra, si proietta negli spazi siderali. Ma la fantascienza è uno strumento ambiguo e, quando elabora una metafora questa non è mai completamente ubbidiente ai propri creatori; assieme al corpo ibridizzato e capace di esplorare il cosmo, queste nuove forme del connubio mente-corpo diventano rappresentazione di una forza-lavoro sempre più indisciplinata. La fantascienza sembra avvertirci che il mondo della produzione è destinato inevitabilmente a dover affrontare la rivolta delle sue componenti fondamentali, il loro continuo ammutinamento, il manifestarsi di scelte autonome e radicali. “Tutto concorre a raffigurare la fantascienza di quegli anni come la rappresentazione fedele, anche se straniata, delle condizioni per cui la macchina produttiva possa continuare a produrre e delle crisi che, dall’interno o dall’esterno del sistema, possono inceppare quella macchina”.

My Mother Was a computer ostenta molteplici origini. La prima è la fantascienza come letteratura privilegiata a descrivere l’evolversi del corpo. Questo itinerario parte dal genio di Samuel Delany, dalla fantascienza femminile di Ursula Le Guin, Joanna Russ e Doris Lessing; passa per i saggi di Donna Haraway e di Teresa De Lauretis, ma deve molto anche alla fantascienza classica per la sua storica capacità di manipolare i corpi produttivi. L’altra origine è ancora vicina alla fantascienza, ma è una fantascienza che ha progressivamente perduto la presunzione di spiegare autonomamente le contraddizioni di una realtà ad elevato contenuto tecnologico. Quando nel 1984 viene pubblicato Neuromante di William Gibson, la fantascienza inizia a diffondersi nell’arte, nella letteratura ufficiale e nei movimenti, cessa di essere un genere letterario per diventare un modo di vivere e aggredire la realtà. Il cyberpunk è la morte e, contemporaneamente, la vittoria della fantascienza. L’esplorazione del “possibile storicamente determinato”, per citare una terminologia usata da Antonio Caronia, questo intrico di sfrenato realismo e immaginazione distordente, diventa rapidamente uno dei modelli più efficaci per interpretare una società che vive, secondo la metafora di Marshall McLuhan, “con il cervello fuori dal cranio e i nervi fuori dalla pelle” (p. 68). La pervasività di una società tecnologica in cui “tutte le forme di ricchezza derivano dallo spostamento di informazioni” (p. 69) ha portato a individuare nell’informatica, nella cibernetica, nella robotica e nella bioingegneria le discipline che sviluppano le tecnologie che più di ogni altre si avviluppano all’umano contemporaneo per indurne continue mutazioni. In questo nostro mondo fatto di simultaneità la tecnologia contamina e modifica il nostro corpo e, contemporaneamente, la nostra realtà. Molte pagine di My Mother Was a Computer sono spedificatamente dedicate al tema della creazione della realtà e di come letteratura e scienza offrano al dibattito filosofico un nuovo terreno di indagine. A partire dall’analisi di Arnold Gehlen si viene a delineare un ruolo dell’uomo che “deve interpretare la sua natura” (pag. 35), e la fantascienza ci ha prioritariamente mostrato casi estremi in cui l’uomo affronta la natura come propria. In primo luogo, come è peculiare della specie umana, l’evoluzione è anche la storia di come l’interazione tra uomo e ambiente abbia avuto come risultato la progressiva costruzione della natura. Ma, come i meccanismi evolutivi biologici sono in grado di trasmettere, di generazione in generazione, gli elementi di maggiore competitività, per l’uomo è stato altrettanto determinante riuscire a comunicare “quell’accumulo globale di conoscenze e di innovazioni, derivante dalla somma di contributi individuali trasmessi attraverso le generazioni e diffusi al nostro corpo sociale” (pag. 1). Questa è per Luigi Luca Cavalli Sforza una possibile definizione di cultura capace di enfatizzare come meccanismi darwiniani siano in grado di spiegare il modo in cui la cultura si conserva e si modifica nel tempo. Katherine N. Hayles ha portato alle estreme conseguenze lo studio di come le tecnologie siano l’elemento assolutamente determinante per l’evoluzione dell’uomo e per l’evoluzione dell’ambiente, e di come una cultura intrinsecamente dedicata alla tecnologia sia in grado di presentare raffigurazioni del presente di eccezionale profondità. Non si tratta ovviamente di una novità, questo è sempre accaduto, solamente oggi la distanza tra l’uomo è le tecnologie è collassata e, come scrive Katherine N. Hayles, la “letteratura come ‘allucinazione’ è stata in parte rimpiazzata dai messaggi in tempo reale, dalle chat, dai videogame, dalle e-mail e dalla navigazio­ne sul Web, che giocano un ruolo così importante nell’esperienza delle giovani generazioni”. Il discorso iniziale che apre My Mother Was a Computer è un gioco attorno alla figura della madre come la figura capace di insegnare a trasformare, attraverso la voce, le lettere di un testo ne “l’allucinazione di un significato”. Il tema è di eccezionale portata e conduce al dibattito più avanzato delle neuroscienze.

Anticamente si usava leggere pronunciando le parole, ad alta voce, anche se si leggeva da soli. Agostino nelle Confessioni riporta con ammirazione che il vescovo di Milano, Ambrogio, usava la lettura endofasica, senza emettere suoni: “Ma mentre leggeva gli occhi percorrevano le pagine e il cuore era rivolto a comprendere, mentre la voce e la lingua riposavano. Spesso, entrando da lui (…) ci capitò di vederlo leggere così, in silenzio, e mai in modo diverso.” (Confessioni VI, 3,3). Nel mondo ipermediale, l’allucinazione di un significato è costruita anche in modalità cibernetica e la stessa madre (metafora di una natura “naturale”) è sostituita da una madre computer (metafora di un connubio contro-natura di umano e di macchina). Ma, si chiede Katherine N. Hayles, come si costruisce la realtà?

“La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l’universo), ma non si può intendere se prima non s’impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri, ne’ quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto.” La citazione tratta da Il Saggiatore di Galileo Galilei è nota, e da allora la scienza e la filosofia hanno conseguito molti progressi, soprattutto smantellando ipotesi creazioniste e religiose, e avviando una metodologia darwiniana che è perfetta anche nel comprendere come il sistema tecnologico altro non sia la massima espressione dell’umano e come abbia progressivamente contribuito a selezionare il tipo umano fino a oggi. In My Mother Was a Computer, Katherin N. Hayles prova a ipotizzare i prossimi nodi dell’evoluzione umana comprendendo come la stessa realtà sia stata, dalla preistoria, profondamente legata all’organicità dei soggetti che la ipotizzavano come elemento esterno e aprioristico. La nostra specie, 150.000 anni fa era costituita da pochi migliaia di individui che vivevano in Africa. Si trattava, secondo gli studi di Michail C. Corballis, di individui umani che sarebbero stati in grado di “capire la fisica delle particelle o i drammi di Shakespeare se solo avessero avuto la possibilità di farne esperienza” (p. 181). Individui homo sapiens, quindi, dotati di strutture cerebrali in grado di leggere, scrivere e contare perché erano normalmente dotati di reti neuronali in grado di elaborare queste funzioni. Diverse ricerche cercano di comprendere come mai il cervello di homo sapiens fosse dotato di neuroni in grado di comprendere il linguaggio scritto e la matematica molto prima della loro apparizione, qualche migliaio di anni fa, e l’ipotesi più accreditata è ampiamente argomentata negli studi di Stanislas Dehaene. Oggetti culturali come i numeri e le parole vengono “elaborati in forma parassitaria da circuiti neuronali innati che in precedenza erano rivolti  a comportamenti ben diversi dalla lettura e dal conteggio”.  Enrico Bellone, certamente storico della fisica italiano più profondo e rigoroso, commenta queste scoperte osservando che il linguaggio matematico in cui è scritto il libro della natura è probabilmente l’unico linguaggio che l’umano è in grado di leggere, e che sono i tentativi di linguaggio e di matematiche che, probabilmente, si sono dovuti selezionare fino a incontrarsi in quello peculiare alle caratteristiche neuronali di homo sapiens. Considerazioni di questo tipo ci riportano ancora a Katherine N. Hayles e alle domande che affronta in questo saggio sul perché umano e non umano, nel senso di Alan Touring, possono scambiarsi tra loro, e la macchina (che si basa su un “DNA logico binario”) possa essere scambiabile con un umano che possiede innate e univoche capacità logico-matematiche. E ancora ci riportano ad Antonio Caronia quando, studiando uno scrittore di fantascienza come Philip K. Dick, analizza la tragica paura dell’umano che riconosce in sé una dolorosa identità artificiale che non desidera, e ancora quando gli androidi, nella loro naturale, e inevitabile, evoluzione (che parte dalla medesima biologia e dalla medesima cultura del linguaggio) tendono a raggiungere l’umano e a fondersi con lui. Il mondo cyberpunk, grazie alla sua natura di movimento prima ancora che corrente letteraria, riesce a leggere questo contatto fisico tra naturale e artificiale che solo una visione evoluzionistica ci consente di comprendere dall’origine, cioè da quando, grazie a casuali mutazioni, tra i 200.000 e i 100.000 anni fa, in Africa homo sapiens inizia il suo viaggio.

Una conclusione a mo’ di dedica

Ho avuto la fortuna di avere due straordinari insegnati, Enrico Bellone e Antonio Caronia. Entrambi avevano una formazione scientifica, Enrico un fisico e Antonio un matematico, ma avevano fatto dell’approccio interdisciplinare una loro caratteristica, la cifra della loro battaglia culturale.

Antonio Caronia aveva scelto questo saggio di Katherine N. Hayles ed era riuscito a tradurne i primi tre capitoli, poi, dopo la sua scomparsa, Marialaura Pulimenti lo ha ripreso, facendo un ottimo lavoro. Questo mio testo è stato pubblicato nel 2014 dall’Editore Mimesis come postfazione alla traduzione italiana di My Mother Was a Computer di Katherine N. Hayles.

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Nemico (e) immaginario. L’Umano e l’Alieno https://www.carmillaonline.com/2016/08/16/nemico-immaginario-nemico-allo-schermo-lumano-lalieno/ Tue, 16 Aug 2016 21:30:47 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=29821 di Gioacchino Toni

crazies-romero-Passando in rassegna la cinematografia di fantascienza americana si può notare come la minaccia, anche quando proviene da mondi lontani o da strane creature, in molti casi è l’uomo ad averla, più o meno direttamente, ispirata o causata. A volte l’essere umano è indicato come motivo del male comparendo come figura di potere malvagia e megalomane, in altre occasioni è per causa umana che qualche strano essere, non di rado mutato geneticamente a causa di esperimenti bellici, semina morte e distruzione. Che si tratti di virus letali, di [...]]]> di Gioacchino Toni

crazies-romero-Passando in rassegna la cinematografia di fantascienza americana si può notare come la minaccia, anche quando proviene da mondi lontani o da strane creature, in molti casi è l’uomo ad averla, più o meno direttamente, ispirata o causata. A volte l’essere umano è indicato come motivo del male comparendo come figura di potere malvagia e megalomane, in altre occasioni è per causa umana che qualche strano essere, non di rado mutato geneticamente a causa di esperimenti bellici, semina morte e distruzione. Che si tratti di virus letali, di catastrofi ambientali, di mutazioni genetiche, a ben guardare, secondo tanta fantascienza, l’uomo pare rappresentare la vera minaccia per l’intero pianeta ed, in alcuni casi, anche per altri mondi. Per certi versi anche la figura dell’alieno finisce per parlare dell’essere umano, visto che su tale figura, frequentemente utilizzata per esorcizzare l’ignoto, vengono spesso proiettare le peggiori caratteristiche dell’umanità.

Nelle pellicole in cui è l’uomo ad essere indicato come responsabile dei disastri non di rado viene messa sotto accusa l’intera specie umana, quasi fosse affetta da una colpa da cui non può liberarsi. Altre volte i film mostrano come le colpe siano sì umane ma riconducibili alla sete di potere ed alla ricerca del profitto ad ogni costo di quanti, per raggiungere i propri scopi, non esitano a distruggere ed uccidere. In questo secondo caso l’accusato, più che l’intera specie umana, è specificatamente l’essere umano che fa dello sfruttamento nei confronti dei suoi simili e dell’intero universo la propria ragione di vita.

Ricorrendo al saggio di Maxime Coulombe, Piccola filosofia dello zombie. O come riflettere attraverso l’orrore (Minesis, 2014), abiamo analizzato [su Carmilla], attraverso la metafora dello zombie, le pulsioni autodistruttive dell’essere umano incapace di sognare un mondo migliore. In un secondo scritto [su Carmilla] abbiamo fatto riferimento al testo di Roberto Giacomelli, Nemici dell’America, nemici dell’umanità. Il “nemico” nel cinema fantascientifico americano (Sovera Edizioni, 2014) a proposito delle modalità con cui il cinema fantascientifico ha dato immagine ai nemici dell’America. Riprendiamo ora il discorso proprio a partire da questo ultimo volume che, nella sua seconda parte, focalizza l’attenzione sulle figure dell’Umano e dell’Alieno proposte della science fiction statunitense. Occorre ribadire quanto sottolineato nel precedente scritto a proposito dell’impossibilità di essere esaustivi nel passare in rassegna un genere che conta una produzione davvero sterminata. Detto ciò, in tale volume, le denunce delle responsabilità dell’essere umano espresse dalla fantascienza cinematografica vengono analizzate a partire da opere che affrontano le minacce atomiche. Questo filone, secondo l’autore, può dirsi iniziare nei primi anni ’50 con lungometraggi come Il risveglio del dinosauro (The Beast from 20,000 Fathoms, Eugène Lourié, 1953) ed Il continente scomparso (Lost Continent, Sam Newfield, 1951). In entrambi i casi il mostro è prodotto dagli esperimenti nucleari umani. Qualche anno dopo Il mostro del pianeta perduto (Day the World Ended, Roger Corman, 1955) mette in scena l’umanità sopravvissuta alla catastrofe atomica, costretta a fare i conti anche con i suoi effetti a lungo termine. È comunque nella seconda metà degli anni ’50 che proliferano film popolati da “mostri atomici”, come ad esempio il giapponese Godzilla (Gojira, Ishiro Honda, 1954) che apre la strada a numerose produzioni nipponiche ed americane ad esso ispirate.

Nel caso di Assalto alla Terra (Them!, Gordon Douglas, 1954) il terrore è seminato da formiche rese giganti dagli esperimenti statunitensi effettuati in attesa di “fare sul serio” ad Hiroshima e Nagasaki ed il film termina lasciando inquietanti interrogativi circa la nuova era aperta dallo scoppio dell’atomica. Tra i monster movie passati in rassegna dal saggio abbiamo: Tarantola (Tarantula, Jack Arnold, 1955), Il mostro dei mari (It Came from Beneath the Sea, Robert Gordon, 1955), La mantide omicida (The Deadly Mantis, Nathan Juran, 1957), L’assalto dei granchi giganti (Attack of the Crab Monsters, Roger Corman, 1957) ed alcune opere del prolifico Bert I. Gordon, come I giganti invadono la terra (The Amazing Colossal Man, Bert I. Gordon, 1957). In questo ultimo film è un colonnello contaminato da una bomba al plutonio a subire la mutazione che lo trasforma in un gigante, come a dire, suggerisce Giacomelli, che è l’uomo il vero mostro da temere. La massima concentrazione di monster movie si raggiunge nel 1957, poi sarà la volta delle invasioni aliene. «Si parte dunque da una paura generata dalle potenzialità espresse o virtualmente esprimibili dall’armamentario nucleare delle due superpotenze e si giunge al timore per le possibilità di un’invasione sovietica» (p. 66).

Alien-1Al mostro generato da un uso scriteriato della scienza si inizia a preferire una più generalizzata azione negativa dell’uomo sulla natura che, non di rado, pare ribellarsi contro colui che l’ha a lungo violentata. L’essere umano si trova improvvisamente in balia di una natura che, inspiegabilmente, lo attacca, come accade, ad esempio, in Frogs (id., George McCowan, 1972), Long Weekend (id., Colin Eggleston, 1978) e Fase IV – Distruzione Terra (Phase IV, Saul Bass, 1973). Tra i film che si concentrano sulle recenti ansie ecologiche, il volume si sofferma su E venne il giorno (The Happening, M. Night Shyamalan, 2008). In questo caso è direttamente l’uomo ad essere carnefice di se stesso: senza alcun motivo spiegabile le persone si bloccano, divengono apatiche e pongono fine alla propria esistenza. Sul versante della denuncia ecologista viene analizzato il film Isolation – La fattoria del terrore (Isolation, Bill O’Brien, 2005) ove vengono fatti riferimenti alla BSE che, nel mondo reale, ha colpito interi allevamenti di bovini. Anche in questo caso è l’uomo ad aver prodotto il disastro. Epidemie causate dall’essere umano si trovano anche in Dead Meat (id., Conor McMahon, 2005) e The Mad (id., John kalangis, 2007). Nel caso di Mimic (id., Guillermo Del toro, 1997), invece, evidenzia Giacomelli, è la stessa scienza al nobile servizio dell’uomo, nel suo tentativo di debellare malattie, che sfugge di mano e determina la catastrofe. Nel volume non mancano di essere analizzate opere in cui l’uomo risveglia creature preistoriche, come accade in Jurassik Park (id., Steven Spielberg, 1992) ed in diversi altri film.

Uno dei filoni più interessanti riguarda il timore del contagio. Virus ed armi batteriologiche sono presenti in diverse opere cinematografiche, a partire da quello che nel volume è considerato l’antesignano del genere: Satan Bug (The Satan Bug, John Sturges, 1964). In questo film sono ravvisabili alcuni elementi ricorrenti in tanta produzione focalizzata sul contagio: «la paura paranoica per un killer invisibile e […] la mancanza di fiducia verso il governo» (p. 82). Nel caso specifico il nemico «vuole distruggere al fine di evitare la distruzione, punire chi è intenzionato a muovere guerra in un atto di denuncia estrema» (p. 83).
Il contagio torna anche ne L’esercito delle 12 scimmie (12 Monkeys, Terry Gilliam, 1995) ed in Virus letale (Outbreak, William Petersen, 1995). In questo ultimo caso ad essere messi sotto accusa sono gli stessi governanti che, pur avendo a disposizione un antidoto per risolvere le cose, preferiscono nasconderne l’esistenza e conservare il virus e l’antidoto in vista di un loro impiego bellico. La città verrà distrutta all’alba (The Crazies, George A. Romero, 1973), può invece essere indicato come vertice del cinema virologico di denuncia. «Romero attacca la politica, il governo e l’esercito con l’anarchico entusiasmo che ha spesso contraddistinto il suo cinema ed esplicitando il suo disappunto e la sua sfiducia verso chi tiene le redini del Paese» (p. 85). In film come questo le colpe non vengono attribuite genericamente “all’essere umano” od alla malvagità di un qualche megalomane o folle, ma, piuttosto, vengono addebitate in maniera specifica all’establishment. L’opera di Romero ispira numerose pellicole, oltre ad un remake del 2010 ad opera di Brek Eisner.

Giacomelli dedica spazio anche al ruolo svolto dal romanzo I Am Legend (1954) di Richard Matheson nell’ispirare alcuni espliciti adattamenti cinematografici ed una lunga serie di opere. Nel romanzo, realizzato in clima da Guerra Fredda, viene narrato di come il contesto post-atomico abbia talmente trasformato il pianeta che è l’essere umano stesso, nel suo essere divenuto minoritario in mondo popolato da vampiri, ad essere “il diverso”. La prospettiva si è pertanto ribaltata: sono i vampiri a temere l’essere umano ed a comportarsi nei suoi confronti di conseguenza, cioè esattamente come si comporta solitamente l’uomo di fronte ai diversi da sé. Nel saggio vengono segnalati come adattamenti cinematografici del romanzo, con differenziati livelli di aderenza ad esso, i film L’ultimo uomo della terra (The Last Man on the Earth, Sidney Salkow, 1964), 1975: Occhi bianchi sul pianeta Terra (The Omega Man, Boris Segal, 1971) ed Io sono leggenda (I Am Legend, Francis Lawrence, 2007).

Negli ultimi decenni la tematica virologica è stata al centro di un rinnovato interesse e tra i tanti titoli ad essa ispirati il volume indica I figli degli uomini (Children of Men, Alfonso Cuaròn, 2006), Carriers – Contagio letale (Carriers, David e Alex Pastor, 2009) e Blindness – Cecità (Blindness, Fernando Meirelles, 2008). Ne I figli degli uomini, film di produzione anglo-americana, tratto da un romanzo di P.D. James, l’infertilità dilagante tra l’umanità sta condannando l’essere umano alla scomparsa. «Il mondo sembra distrutto dalle guerre e dall’intolleranza, azioni violente di morte e segregazione si abbattono sulle comunità di extracomunitari clandestini, deportati […] in zone flagellate dalle rivolte e immerse nelle macerie di una civiltà che ormai rimane un ricordo […] Il futuro dell’umanità è affidato a un’extracomunitaria ed è garantito da un uomo disilluso e un ex hippie» (p. 93). Da tale pellicola emerge una visione decisamente anti-sistemica che punta il dito verso un sistema politico e sociale non poi così dissimile dal nostro. Restando su pellicole recenti, il libro si sofferma su Contagion (id., Steven Soderbergh, 2011), film in cui l’epidemia ha origine in un allevamento suino; non a caso il film esce pochi anni dopo il dilagare, nel 2009, fuori dallo schermo, della cosiddetta “febbre suina”. In questo lungometraggio le ragioni che determinano il virus restano sconosciute mentre l’interesse della pellicola si concentra da una parte sui tentativi dei potenti di accaparrarsi i vaccini e, dall’altra, su chi, accusando il carattere classista dell’accesso ai farmaci, propone le sue dubbie cure omeopatiche come alternativa all’industria farmaceutica.

Altro filone particolarmente denso di opere è quello delle macchine ribelli all’uomo. Quando nei film di fantascienza si affrontano le macchine, non è difficile finire per parlare di robot e quando ciò accade è quasi d’obbligo riferirsi alle “Tre leggi della robotica” di Isaac Asimov. Nel film Io, Robot (I, Robot, Alex Proyas, 2004) la vicenda narrata prende inizio proprio dall’infrazione della Prima delle tre leggi, visto che un robot ha ucciso un essere umano. Il film focalizza la vicenda attorno al tema della tecnologia nemica dell’uomo aprendo a riflessioni circa la possibilità che la macchina possa trasgredire all’essere umano. Tale questione la si ritrova in numerosissime pellicole, come, ad esempio, Eagle Eye (id., D.J. Caruso, 2008), film in cui un computer progettato per garantire la sicurezza nazionale, eseguendo alla lettera il compito, finisce col prendere di mira i vertici stessi degli Stati Uniti perché su di loro cadono le responsabilità della messa in pericolo del Paese. Non a caso il film esce sul finire del secondo mandato presidenziale di George W. Bush. Celebre precedente di computer che smette di obbedire agli ordini umani lo abbiamo in 2001: Odissea nello spazio (2001: A Space Odyssey, Stanley Kubrick, 1968), film, derivato dal racconto La sentinella (1948) di Arthur C. Clarke, che ispirerà numerose produzioni cinematografiche

giacomelli_nemici_americaMacchine sfuggite all’uomo si trovano anche in Pianeta Rosso (Red Planet, Antony Hoffman, 2000) e Wargames – Giochi di guerra (Wargames, John Badham, 1983) ma è su Blade Runner (id., Ridley Scott, 1982), e relative appendici, ed Il mondo dei replicanti (The Surrogates, Jonathan Mostow, 2009) che il saggio concentra la sua attenzione: dal replicante oppresso che chiede conto al suo creatore/oppressore, all’uomo apatico che vive per procura attraverso suoi sostituti. «Blade Runner e Il mondo dei replicanti rappresentano l’alfa e l’omega di un ideale continuum temporale dedicato ai robot antropomorfi: macchine ostili nel primo caso, utili completamenti dell’uomo nel secondo, che però ne diventano possessori piuttosto che posseduti» (p. 105).
Altre pellicole analizzate dal saggio riguardano la lunga serie inaugurata da Terminator (The Terminator, James Cameron, 1984): «L’intelligenza artificiale che sta alla base di Terminator può essere considerata come la concretizzazione del sogno di tutte le macchine ribelli della fantascienza cinematografica, l’omega della storia dell’uomo sulla Terra che ha portato a compimento i piani diversamente elaborati dai cervelli elettronici di Wargames, Io, Robot e Eagle Eye. Ma a differenza di questi Skynet […] uccide perché vuole farlo, è l’incarnazione del male, la condanna dell’umanità in quanto tale e non per i suoi errori. O meglio, l’errore dell’uomo è programmare una macchina per scopi bellici, dotando così il suo futuro nemico di tutte le armi necessarie a distruggerlo» (pp. 108-109). Tra i film che mettono in scena mondi popolati da robot, non poteva che essere affrontata dallo studioso anche la serie, che conta ormai diverse pellicole, iniziata con RoboCop (id., Paul Verhoeven, 1987).

I robot possono anche essere costruiti per il divertimento degli esserei umani ed, a tal proposito, l’autore inizia inevitabilmente da Il mondo dei robot (Westworld, Michael Crichton, 1973), ove in un parco giochi popolato da robot a cui gli uomini si divertono a dare la caccia, per qualche oscuro guasto, viene a darsi un capovolgimento dei ruoli e l’uomo da cacciatore si trova ad essere preda. In La fabbrica delle mogli (The Stepford Wives, Bryan Forbes, 1975), tratto dal romanzo di Ira Levin del 1972, invece, i robot assoggettati all’essere umano rappresentano il riscatto del maschio nei confronti delle rivendicazioni femministe: a Stepford gli uomini sostituiscono le proprie mogli con robot servizievoli che ne riproducono le fattezze fisiche e non si può non notare come l’acconciatura di queste donne-robot richiami gli anni ’50, un’epoca in cui le donne ancora “sapevano stare al loro posto”. Al film si ispireranno alcune produzioni cinematografiche ed una serie televisiva. Anche i giocattoli sviluppati a partire da tecnologie militari possono sfuggire di mano; è il caso di Evolver (id., Mark Rosman, 1995) e Small Soldiers (id., Joe Dante, 1998).

Tante pellicole fantascientifiche denunciano l’asservimento dell’essere umano alla tecnologia che, creata per essere sfruttata, tende a trasformarsi in sfruttatrice del suo creatore. Nel caso di Matrix (The Matrix, Andy e Larry Wachowski, 2003) e Matrix Revolutions (id., 2003), secondo Giacomelli, si giunge alla summa «del tema delle macchine ribelli, un mondo immaginario in cui l’uomo non solo è schiavo delle macchine, ma rappresenta la loro fonte di nutrimento […] Ma la cosa più inquietante dell’universo creato dai Wachowski è l’illusione: tutti gli uomini, mentre alimentano le macchine con le loro energie, si trovano in uno stato di sospensione mentale e credono di vivere nella normalità quotidiana di un XX secolo ormai passato. La Matrice crea una gigantesca illusione collettiva, un mondo reale per la mente umana ma in verità del tutto artificiale che tiene a bada l’essere umano mentre funge da pasto per le macchine» (p. 116). E tale mondo in cui l’uomo è sfruttato ed è inconsapevole di esserlo, suggerisce lo studioso, è stato prodotto dall’essere umano. Come a dire: l’uomo si guardi da se stesso anziché andare a cercare nemici di comodo.

La figura dell’alieno, si diceva in apertura, è frequentemente utilizzata al fine di proiettare su di essa le caratteristiche meno nobili dell’umanità. Alieno è chi è diverso rispetto all’ambiente od al contesto sociale in cui si viene a trovare. Nella figura dell’alieno abbiamo, in definitiva, “lo straniero” che, anche quando riesce (più o meno volontariamente) ad “integrarsi”, difficilmente può scalare gerarchie sociali: «lo straniero per il sentire comune è principalmente l’alieno ostile, colui che arriva senza aver ricevuto il permesso e mette in atto un’opera di colonizzazione diretta all’annullamento della cultura originaria, alla schiavizzazione mentale e fisica degli autoctoni» (p. 118). Insomma, l’extra-terrestre e l’extra-comunitario, nella percezione comune, hanno diversi punti di contatto.

Nel cinema di fantascienza l’alieno ha frequentemente rappresentato il nemico del momento; spesso giunge sulla terra furtivamente per poi dare il via ad un vero e proprio processo di contaminazione e/o di sostituzione avendo come finalità la conquista. L’invasione degli ultracorpi (Invasion of the Body Snatchers, Don Siegel, 1956) rappresenta un modello ripreso da diversi film, tra questi Terrore dallo spazio profondo (Invasion of the Body Snatchers, Philip Kaufman, 1978) ed Ultracorpi – L’invasione continua (Body Snatchers, Abel Ferrara, 1993). Come i film citati, anche Il terrore della sesta luna (The Puppet Masters, Stuart Orme, 1994), derivato dall’omonimo romanzo del 1951 di Robert A. Heinlein, mostra un’umanità asservita alla minaccia aliena, tematica che torna anche in The Faculty (id., Robert Rodriguez, 1998) in cui è molto evidente la questione dello straniero emarginato che riesce a socializzare soltanto con altri tipi di figure aliene ed in questa situazione «il nemico è tale perché si sente inadatto al luogo che lo ospita» (p. 124). Occorre sottolineare come il film sviluppi anche una riflessone sui pericoli dell’omologazione.

Con La cosa (The Thing, John Carpenter, 1982), film derivato da un racconto di John W. Campbell Jr. del 1948, l’alieno si smaterializza grazie al suo essere in grado di assumere le sembianze degli esseri con cui entra in contatto. «La “cosa” è il simbolo assoluto della paranoia e del conflitto uomo-uomo; assumendo le sembianze degli uomini che popolano la stazione di ricerca, l’alieno diffonde un senso di inaffidabilità su ogni essere vivente che si trova nei paraggi […] L’alieno di Carpenter rappresenta la negazione dell’umanità intesa sia come forma corporea che incarnazione di sentimenti ed emotività. La “cosa” è il mostro che si annida in ogni persona […] è la disgregazione dei rapporti umani» (p 131). Già nei primi anni ’50 il racconto di Campbell è alla base della pellicola La cosa da un altro mondo (The Thing from Another World, Christian Nyby, 1951) mentre, dopo la versione di Carpenter del 1982, viene realizzato il prequel dal medesimo titolo: La cosa (The Thing, Matthijs van Heijningen, 2011). In quest’ultima pellicola l’alieno palesa la sua pericolosità in quanto straniero e, non a caso, con tale smania di evidenziare i propositi minacciosi insiti proprio nel suo essere straniero, il film non può che terminare con l’esaltazione della potenza americana.

Signs (id., M. Night Shyamalan, 2002) ed Altered – Terrore nello spazio profondo (Altered, Eduardo Sanchez, 2006), sono citati dal volume come esempi di invasioni aliene alla conquista della Terra in cui l’ignoto impaurisce e da meta da conquistare diviene minaccia da cui fuggire. «L’umano e l’alieno in Altered si compensano, due facce della stessa medaglia arrugginita in cui l’offesa è l’unica forma di comunicazione possibile tra le due razze» (p. 137). L’obiettivo dell’extraterrestre non è la distruzione dell’essere umano ma la sua resa in schiavitù.

Essi vivono (They Live, John Carpenter, 1988), liberamente ispirato ad un racconto di Ray Nelson, viene considerato da Giacomelli il manifesto della critica all’America degli anni ’80. «Carpenter è fortemente critico verso una società votata all’apparenza e plagiata dai mezzi di comunicazione. Lo stile di vita occidentale è indotto dalle alte sfere della società, dal mondo del consumo, che riesce a controllare i comportamenti delle masse installando gusti e mode […] Chi non può permettersi di seguire le mode è un emarginato, ma allo stesso tempo può conquistare la facoltà di scoprire la verità […] Alieni che fanno del business il personale raggio distruttore di coscienze e che sono minacciati da un semplice operaio […] che nel sacrificio finale riesce a rivelare al mondo intero la vera natura degli impostori, risvegliando le coscienze» (p. 138). La modificazione della realtà e la manipolazione dell’identità rappresentano il filo conduttore di Dark City (id., Alex Proyas, 1998) che mette in scena alieni che si mescolano alla popolazione riscrivendone le storie ed il futuro. Sia nel film di Carpenter che in quello di Proyas non manca chi decide di porre fine al proprio stato di schiavitù.

L’invasione dei mostri verdi (The Day of the Triffids, Steve Sekely, 1963) ed Evolution (id., Ivan Reitman, 2001), vengono presentati dal saggio come esempi di film – il secondo con tono decisamente grottesco – in cui l’eliminazione dell’umanità, presentata come parassita che distrugge la natura, può dare alla Terra una vita migliore. Qualche pagina del volume è inevitabilmente dedicata anche alla serie che si origina dal film Blob – Fluido mortale (The Blob, Irvin S. Yeaworth Jr., 1958), con inevitabile sequel, Beware the Blob! (id., Larry Hagman 1972), ed un remake, Il fluido che uccide (The Blob, Chuck Russell, 1988), in cui viene suggerita la possibilità di un uso bellico dell’organismo extraterrestre.

HRG_252Alien (id., Ridley Scott, 1979) è «uno dei film che ha rivoluzionato la concezione di alieno al cinema trasformando l’essere antropomorfo con intenzioni di conquista in un mostro ferino che uccide come un animale selvatico messo alle strette» (p. 143). Il film del 1979 origina diverse pellicole, tra queste si possono contare, ad oggi, almeno tre sequel ed un prequel del primo lungometraggio. Nella serie inaugurata da Predator (id., John McTierman, 1987), entra in scena una specie aliena che ama cacciare prede in tutto l’universo, uomo compreso. «Il predator presenta un vero e proprio codice comportamentale che lo allontana sostanzialmente dal prototipo dell’alien: non più animale feroce e distruttivo che uccide per istinto, ma un essere senziente che seguire regole ben precise, ha dei sentimenti e un codice guerriero. Da una parte la furia distruttiva e irrazionale, dall’altra la spinta motivazionale e l’intelligenza» (p. 145). Il cinema non ha resistito a mettere a confronto le due specie in Alien vs. Predator (id., Paul W. S. Anderson, 2004) ed inevitabile sequel.

Nel volume sono messe a confronto due pellicole di metà anni ’90 in cui gli extraterrestri vengono presentanti particolarmente spietati e distruttivi: Independence Day (id., Roland Emmerich, 1996), un’apologia della Nazione e dell’americano qualunque in cui gli alieni si mostrano brutali macchine da guerra, e Mars Attacks! (id., Tim Burton, 1996), ove gli invasori appaiono compiaciuti dei disastri che commettono. «Se il film di Burton condivide con quello di Emmerich una razza di alieni tra i più cattivi mai apparsi sul grande schermo, al contrario porta in scena un’umanità gretta e meschina che merita la fine a cui sta andando incontro» (p. 151).

Giacomelli individua tra il 2010 ed il 2013 un periodo assai fertile per la messa in scena sul grande schermo di bellicosi invasori alieni. Se film come Skyline (id., Strause Bros, 2010) e World Invasion (Battle: Los Angeles, Jonathan Liebesman, 2010) non mancano di richiamare i nemici mediorientali, vi sono anche produzioni in cui prevale l’autoironia e la parodia, come Battleship (id., Peter Berg, 2012), od opere ove si danno alleanze tra ex-nemici ora uniti contro il nemico comune, come avviene in Pacific Rim (id., Guillermo Del Toro, 2013), film che, mescolando generi ed immaginari dei due paesi, mostra USA e Giappone fronteggiare, uniti, giganteschi mostri, oppure L’ora nera (The Dark Hour, Chris Gorak, 2011), ove l’alleanza è tra americani e russi.

In alcune pellicole gli alieni si mostrano del tutto pacifici nei confronti dell’essere umano. A tal proposito il saggio cita Incontri ravvicinati del terzo tipo (Close Encounters of the Third Kind, Steven Spielberg, 1977), E.T. – L’extraterrestre (E.T.: The Extra-Terrestrail, Steven Spielberg, 1982) e Cocoon – L’energia dell’universo (Cocoon, Ron Howard, 1985), con relativo sequel. Alieni amici dell’uomo si trovano anche in opere meno recenti, come ad esempio Ultimatum alla Terra (The Day the Earth Stood Still, Robert Wise, 1951), film che denuncia l’assurdità della guerra proprio nel periodo in cui si è da poco concluso il Secondo conflitto mondiale e nell’aria si percepisce la possibilità di un conflitto tra le superpotenze.

Anche la questione dell’integrazione aliena è affrontata dal cinema fantascientifico. Riguardo a ciò Giacomelli indica, ad esempio, Men in Black (id., Barry Sonnenfeld, 1997), con relativi sequel, film che, attraverso un registro da commedia d’azione, mostra «l’alieno impegnato a integrarsi nella società che lo ospita […] Ci sono gli immigrati regolari, lavoratori retti e responsabili, integrati con gli uomini fin da tempo e magari con la possibilità di far carriera. Poi ci sono i criminali, clandestini dediti a traffici illegali, rapine e piani terroristici. Il mondo extraterrestre è costruito sul riflesso di quello terrestre» (pp. 166-167). In tale opera l’alieno ha sembianze umane perché il governo preferisce nascondere agli umani la presenza extraterrestre. In Alien Nation (id., Graham Baker, 1988), altra pellicola che si concentra sulle questioni della tolleranza e del razzismo, si assiste “all’invasione” di profughi alieni in fuga da un regime dittatoriale e, seppure in maggioranza si tratti di “alieni perbene”, non mancano “malintenzionati”. In District 9 (id., Neill Blomkamp, 2009) è di scena l’insofferenza tra umani ed alieni e, anche in questo caso, la narrazione si focalizza sull’intolleranza e la xenofobia. Il film simpatizza per gli alieni che, respinti dai terrestri, sono costretti a prendere atto della mancanza di volontà di integrazione da parte degli esserei umani ed a lasciare la Terra. In Starman (id., John Carpenter, 1984) l’alieno in fuga si sostituisce all’essere umano ma non perché mosso da velleità di conquista, anzi, si rivela la parte migliore di un’umanità gretta e meschina del tutto disinteressata ad approfittare dell’occasione di confrontarsi con “lo straniero”, l’alieno, appunto.

L’umanità messa in scena da molti film di genere fantascientifico si manifesta davvero come una brutta specie ma, al suo interno, megalomani, potenti e sfruttatori appaiono decisamente peggiori degli altri. Visto che alieni ed umani finiscono per essere gli uni la proiezione degli altri, sarebbe il caso di individuare attentamente i  nemici, dentro e fuori dallo schermo.

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